ecopolisnewsletter, 22 novembre 2018. Dal Presidente onorario di Legambiente Padova l’ennesima testimonianzacritica su una sedicente ‘riforma’ che si occupa di riqualificazione urbana:nel Veneto. Con commento. (m.c.g.)
Lo scorso 8 ottobre la Giunta Regionale ha presentato un progetto di legge che, pur accennando nel titolo alla “riqualificazione urbana” ed alla “rinaturalizzazione del territorio veneto” – in linea con i principi della Legge Regionale 14/2017 per il contenimento del consumo di suolo – di fatto ripropone le logiche perverse dei tre “piani casa” approvati negli anni passati e finalizzati non certo al miglioramento della qualità urbana, bensì esclusivamente al rilancio del mercato edilizio.
Il progetto di legge della Giunta consente, per edifici con qualsiasi destinazione d’uso, ampliamenti sino al 50% del volume o della superficie esistente, a fronte di un miglioramento delle prestazioni energetiche – ma la classe A4 è richiesta solo per la parte ampliata – della messa in sicurezza sismica dell’intero edificio, dell’utilizzo di pannelli fotovoltaici, della previsione di coperture verdi o, in alternativa, mediante l’utilizzo di crediti edilizi derivati dalla demolizione di manufatti incongrui con rinaturalizzazione del suolo.
Un incremento di capacità edificatoria che può giungere al 60% nel caso di interventi di sostituzione edilizia. Un ulteriore incremento volumetrico sino al 40% è inoltre previsto per interventi finalizzati all’eliminazione delle barriere architettoniche. E’ importante evidenziare come – diversamente dal passato – le nuove norme, relative agli ampliamenti o alla demolizione di edifici esistenti in deroga alle previsioni dei regolamenti e dei piani urbanistici comunali, varranno a tempo indeterminato e saranno subordinate alla semplice presentazione di una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) da parte dei privati.
La legge regionale 14/2017, anche ai fini di una riduzione del consumo di suolo, intendeva favorire l’avvio da parte degli enti locali di “politiche attive” volte al recupero ed alla riqualificazione del patrimonio esistente, coerenti con le più generali strategie definite dagli strumenti urbanistici comunali. Ma il nuovo progetto di legge va decisamente nella direzione opposta: attribuendo indistintamente a tutti gli operatori privati premialità e sgravi fiscali indipendentemente da ogni organico disegno di trasformazione urbana, depotenzia e di fatto rende aleatori gli strumenti della pianificazione comunale, incrementa la frammentazione ed il disordine urbano, subordina l’attività edilizia alle sole regole della rendita e della speculazione immobiliare. Tutto il contrario della valorizzazione del ruolo delle amministrazioni locali a cui dovrebbe spettare l’eventuale utilizzo di incentivi e premialità.
Questa generalizzata deregulation urbanistica non risparmia neppure i centri storici. Vengono fatti salvi gli edifici tutelati, ma per quelli “che risultino privi di grado di protezione” si può impunemente derogare da prescrizioni e regolamenti di piano, ignorando il disastroso impatto che un intervento puramente speculativo può generare nei confronti di un vicino bene tutelato.
Siamo dunque ben lontani da quanto enunciato nelle stesse premesse del nuovo progetto di legge regionale, là dove si afferma di voler favorire la “qualità architettonica” promuovendo “… un percorso di valorizzazione culturale e identitaria dell’architettura e degli spazi urbani”. Svincolando l’intervento sui singoli edifici da ogni relazione con il contesto urbano, come si immagina di poter contribuire al “… miglioramento della qualità della vita all’interno della città e al riordino urbano” ed alla promozione di interventi “mirati alla coesione sociale, alla qualità architettonica, alla sostenibilità ed efficienza ambientale”?
La qualità urbana è in primo luogo determinata dalle relazioni tra i diversi edifici, tra gli spazi aperti e gli spazi edificati, pubblici e privati, dalla complessità e mixité delle destinazioni d’uso e attività, dalla capacità di saper interpretare ed attualizzare la storia e lo spirito dei luoghi in cui si interviene. Qualità che si può promuovere solo attraverso gli strumenti della pianificazione urbanistica e del governo del territorio nel suo insieme.
Abbiamo invitato i nostri collaboratori ad aiutarci a creare un fuoco di sbarramento contro la riproposta di una legge inutile, e anzi dannosa, sul consumo di suolo. Ecco il contributo di Vezio De Lucia, che per primo aiutò i lettori di eddyburg a comprendere e a controproporre
È stato recentemente presentato al Senato un impegnativo e ambizioso disegno di legge sulla riduzione del consumo di suolo a firma di quattro illustri esponenti di Liberi e uguali: Loredana De Petris, Vasco Errani, Pietro Grasso e Francesco Laforgia. In questa prima nota ci limitiamo (scrivo a nome di eddyburg) a segnalare i difetti fondamentali della proposta rinviando l’approfondimento a successivi interventi. Non posso non partire dal dispositivo istituzionale basato sull’implicito ricorso al 3° comma dell’art. 117 della costituzione relativo alla legislazione concorrente (alle regioni la potestà legislativa, allo Stato la determinazione legislativa dei principi fondamentali).
In buona sostanza quella proposta da Leu è una legge cornice che non si allontana dal disegno di legge governativo (in discussione dal 2012) approvato dalla Camera dei deputati nel maggio 2016 e rimasto fermo al Senato nella scorsa legislatura. Da subito eddyburg assunse una posizione contraria sostenendo che il meccanismo previsto finiva con l’affidare l’effettivo potere decisionale a regioni e comuni e che la riduzione del consumo del suolo non sarebbe mai stata realizzata proprio dove più necessaria e urgente.
Sapendo per esperienza che le sanzioni e i previsti debolissimi poteri sostitutivi sarebbero rimasti inefficaci. In alternativa formulammo una nostra proposta […] che fa capo al 2° comma dell’art. 117 (legislazione esclusiva dello Stato), e in particolare alla materia indicata alla lettera s): tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Una proposta fondata sul rapporto diretto Stato-comuni, scavalcando le regioni (sull’esperienza urbanistica delle quali sarebbe necessario e urgente un lavoro critico, inevitabilmente intriso di delusione, facendo salve, almeno finora, solo la Toscana e la Puglia). Un testo semplicissimo, quello di eddyburg, solo quattro brevi articoli che definiscono il territorio urbanizzato e non; consentono le trasformazioni insediative e infrastrutturali che comportano impegno di suolo solo nell’ambito delle espansioni recenti (parte del territorio urbanizzato); ammettono specifiche deroghe solo con provvedimenti eccezionali.
La nostra proposta è del 2013, da cinque anni non abbiamo perduto occasione per riproporla e sottoporla a discussione in tutte sedi per noi praticabili. Per ultimo, nella dura contestazione condotta per un anno insieme a molti benemeriti (associazioni ed esperti) contro la terribile legge urbanistica regionale dell’Emilia Romagna, purtroppo approvata nel dicembre scorso (ma con il voto contrario dei consiglieri di maggioranza di Sinistra italiana ed Mpd). Eppure, nell’ambito delle iniziative legislative della sinistra nessuno ha dato peso alla nostra proposta, né dal punto di vista dell’opportunità politica, né dal punto di vista della tecnica legislativa (che forse il contenimento del consumo del suolo non coincide perfettamente con la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali di cui alla lettera s dell’art. 117, comma 2?).
Si colloca qui la riflessione che sottoponiamo ai presentatori del disegno di legge, esponenti di una nuova sinistra che pensavamo dovesse far propria la pratica di sviluppare una vasta e anche difficile discussione sui temi più importanti e controversi, e non imboccare subito scorciatoie rimodulando precedenti proposte inefficaci o inconcludenti. Sappiamo bene che la proposta eddyburg è radicalmente innovativa in quanto abbandona la materia urbanistica – e quindi la competenza regionale – a favore della tutela dell’ambiente di competenza esclusivamente statale e perciò, secondo noi, presumibilmente più produttiva di risultati concreti.
Il disegno di legge che stiamo discutendo è centrato invece sull’azione regionale che assume un ruolo totalizzante. Spetta infatti alle regioni di adottare “opportuni criteri, parametri e percentuali di riduzione del consumo di suolo coerenti con l’obiettivo […], da articolare a scala comunale o per gruppi di comuni, sia in termini di direttive per la pianificazione, sia in termini di disposizioni immediatamente operative, tenendo conto delle specificità territoriali, paesaggistiche ed ambientali, delle caratteristiche qualitative dei suoli e delle loro funzioni ecosistemiche, nonché delle potenzialità agricole, dello stato della pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica, dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche, dell’estensione del suolo già urbanizzato e della presenza di edifici inutilizzati;” (art. 3, 3° comma, che continua implacabile per altre sei, sette righe).
L’articolo si configura come una dilettantesca riforma urbanistica che ignora tutti i vigenti strumenti di pianificazione. E conferma le linee ispiratrici del disegno di legge che, fin dall’art. 1, cita, fra i riferimenti fondativi, la discutibilissima convenzione europea del paesaggio e non il codice del paesaggio (decreto legislativo 42/2004), né le altre due leggi caposaldo (e le successive modifiche) sulla difesa del suolo (183/1989) e sulla protezione della natura (394/1991). Sono di conseguenza trascurate le pianificazioni specialistiche, i piani paesaggistici, quelli per la difesa del suolo, quelli per la protezione della natura sostituiti dal citato art. 3, comma 3, da improvvisate novità come il “piano del verde e delle superfici libere urbane” (art. 6) e da una congerie di norme (immancabile la delega al governo per la rigenerazione urbana, art. 5), anche benemerite come la tutela degli uliveti, della viticultura e dei pascoli (artt. 11, 12 e 13).
Ci fermiamo qui, non senza rilevare che Loredana De Petris, Vasco Errani, Pietro Grasso e Francesco Laforgia, presi da tante cose inedite, hanno dimenticato l’abusivismo. Da Roma in giù, continua imperterrito a consumare spazio aperto, nella sostanziale assenza (talvolta con la complicità) delle regioni. Quelle stesse regioni che dovrebbero garantire la progressiva riduzione del consumo del suolo. Ricordiamo infine che l’azzeramento (non la riduzione) del consumo del suolo è disposto dal piano regolatore di Napoli approvato nel 2004 e dalla legge urbanistica della Toscana del 2016. Coraggio compagni, sia a Napoli che in Toscana la vita (e l’attività edilizia) continuando come prima, meglio di prima.
La Regione Campania non vuole restare indietro all'Emilia-Romagna, ormai tristemente nota per la sua nuova legge antiurbanistica. In Campania stanno approvando provvedimenti che, col pretesto di colpire l'abusivismo, sollecitano i comuni a incoraggiarlo
Lo scorso 6 febbraio la giunta regionale della Campania presieduta da Vincenzo De Luca ha approvato con la sua delibera n. 57 le “linee guida per le misure alternative alle demolizioni di immobili abusivi” ai fini dell’attuazione della legge regionale 19/2017. L’atto è stato definito con oltre 4 mesi di ritardo rispetto all’impegno dei 90 giorni dall’entrata in vigore enunciato nel testo della legge. Come si ricorderà, su di essa pende il giudizio della corte costituzionale per effetto dell’impugnativa da parte del governo: c’era chi interpretava il ritardo come un indizio di possibili ripensamenti. Ma la campagna elettorale ha esigenze stringenti, non solo in termini temporali. E in tal senso il provvedimento è giunto in tempo utile.
Esso si compone del testo della deliberazione e di un allegato tecnico, che include anche un facsimile di scheda istruttoria. I destinatari infatti sono i comuni campani, unici e autonomi responsabili (il provvedimento lo ribadisce più volte) delle eventuali decisioni in materia. Le linee guida regionali, “ispirate ai principi di semplificazione ed efficienza amministrativa”, sono da intendere come “non vincolanti, volte a favorire l'adozione da parte dei comuni di prassi omogenee e uniformi, a livello regionale, nella istruttoria preordinata alle competenti determinazioni dei consigli comunali ai sensi dell'art. 31, comma 5, del DPR 380/2001 e nella successiva gestione delle scelte inerenti all'utilizzo degli immobili non demoliti”.
“La demolizione di ufficio dell’opera acquisita al patrimonio comunale costituisce la misura ordinaria da adottarsi in ipotesi di abuso”, sottolinea opportunamente l’allegato. “Il consiglio comunale potrà, peraltro, decidere di non procedere alla demolizione (…) ove ravvisi la sussistenza di un interesse pubblico che giustifichi la permanenza dell’opera abusiva e il carattere prevalente dello stesso”.
A tal fine, l’allegato propone “a titolo esemplificativo” disparati casi di “interesse”, elencando l’utilizzo dell’edificio per uffici pubblici o servizi sociali (“anche a gestione privata”), l’incremento del patrimonio comunale per far aumentare le entrate del comune attraverso locazioni o alienazioni, il soddisfacimento di esigenze abitative “attestate dal competente servizio o ufficio comunale”, il contrasto all’ “aggravarsi delle condizioni di disagio abitativo e precarietà sociale in zone ove il fenomeno della realizzazione di edifici ad uso residenziale privi di titolo abilitante riveste proporzioni di particolare rilevanza e nelle quali l’adozione di misure alternative all’abbattimento è compatibile con il perseguimento delle finalità di riqualificazione” indicate nella legge urbanistica regionale 16/2004.
Le farisaiche precisazioni circa la piena autonomia dei consigli comunali non nasconde il messaggio sostanziale. Contro la finalità implicita del testo unico sull’edilizia, cioè impedire che gli edifici abusivi entrino sul mercato, la regione Campania suggerisce ai comuni disposti al compromesso – ma anche agli avvocati degli abusivisti in caso di comuni rigorosi – le giustificazioni opportune alle forme più ampie e disparate di valorizzazione commerciale degli edifici abusivi.
Analogo impegno viene espletato nel consigliare i modi per accertare l’altro requisito richiesto dal DPR 380, il “non contrasto dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico”. Per quanto riguarda gli interessi urbanistici, si consiglia di tener conto del grado di infrastrutturazione del contesto, della compatibilità con “il vigente o il redigendo” strumento urbanistico, delle “vocazioni territoriali dell’area e (…) le prospettive di sviluppo territoriale” (sic).
“Ove l’area sia vincolata paesaggisticamente” si potrà valutare “l’incidenza dell’opera abusiva sulla percezione e sul godimento del paesaggio, tenendo conto del contesto antropico esistente”, in particolare se determina “ostacolo o limitazione per le visuali panoramiche godibili da punti di belvedere accessibili al pubblico o da strade pubbliche” o costituisce “detrattore del valore di panoramicità del sito e del contesto”. In ciò riducendo la concezione del paesaggio alle formulazioni visibilistico-contemplative più anguste, come se la legge del compianto sottosegretario Galasso non fosse mai stata approvata.
Ma è in merito alle possibili destinazioni degli edifici acquisiti che il senso del provvedimento si palesa pienamente. L’elenco relativo, ovviamente “a titolo esemplificativo” (che, in effetti, significa: tutt’altro che esaustivo), comprende: uffici pubblici, alloggi di edilizia residenziale pubblica, alloggi per edilizia residenziale sociale, opere pubbliche di interesse pubblico, opere di urbanizzazione secondaria, programmi di valorizzazione immobiliare anche con l’assegnazione in locazione degli immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, programmi di dismissione immobiliare. In altre parole, quanto la regione Campania consiglia ai comuni è di immettere nel mercato immobiliare l’edilizia abusiva, invece di demolirla, attraverso bando pubblico per l’alienazione o la locazione. “Il contenuto del bando sarà improntato (…) ai principi economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica.”
Sia in caso di locazione che di alienazione si può riconoscere “preferenza (…), a parità di condizioni, all’occupante per necessità”, ossia appartenente alla fascia di maggior disagio, anche per reddito, individuata nel bando e che non possieda altro immobile sul territorio nazionale.
“Le somme ricavate dalla alienazione o dalla locazione degli immobili potranno essere destinate a finalità di pubblico interesse, secondo i programmi e le determinazioni comunali, ivi compresi interventi di urbanizzazione primaria e secondaria, anche al servizio delle zone ove ricadono gli immobili oggetto di alienazione o locazione.”
E dunque, sostanziale equiparazione dell’edilizia abusiva a quella legale, con qualche vantaggio finanziario per i comuni.
Quale messaggio più adatto, in campagna elettorale, per gli abusivisti (e gli aspiranti tali) ? De Luca batte Berlusconi 1-0.
Dopo l’approvazione della sciagurata legge urbanistica E-R, una lettera di ringraziamento a chi ha contribuito a combatterla scritta da un grande urbanista che vi operava in anni migliori e che invita a “continuer le combat”. (m. c. g.)
Carissimi compagni, una cosa la possiamo fare: smettere di piangerci addosso. Allo scopo, mi perdonerete la scivolata retorica, ma sento l'esigenza di richiamarvi il passo conclusivo delle Città invisibili di Calvino, un passo che conoscerete certamente e che è diventata abitudine citare quando si è, come oggi, in grande difficoltà. Un passo che tuttavia dimentichiamo spesso, e proprio quando siamo in difficoltà.
«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare di riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»
Un po' di «attenzione e apprendimento» ci ha portato, qui in Emilia-Romagna, a tentare di contrastare l'ennesima sciagurata «accettazione dell'inferno» da parte del governo locale a proposito delle regole dell'urbanistica. Mdp, Sinistra e Altra Emilia Romagna (lista ex Tsipras) hanno condotto una lunga battaglia unitaria per impedire l'approvazione della legge (all'inizio, alla fine del 2016 - e dunque molto prima che ci si orientasse alla costruzione di un movimento unitario - partecipavano al lavoro comune persino i 5Stelle. Poi, un robusto richiamo da Roma interruppe la collaborazione. Si è tentato un lungo e minuzioso lavoro di "riduzione del danno", presentando numerosi e pesanti emendamenti, organizzando iniziative, sottoscrivendo appelli, contattando sindaci, professionisti e tecnici comunali. Alcuni di noi hanno sostenuto che la battaglia fosse inutile, vista la sproporzione delle forze in campo (solo quattro consiglieri regionali hanno aderito a questa battaglia, su un totale di 60 consiglieri) e sono stati a guardare.
Naturalmente è finita come era inevitabile che finisse: la legge è passata, con la benevola astensione di Forza Italia, e con i soli voti contrari dei quattro consiglieri di sinistra, ai quali alla fine si sono uniti i voti contrari dei consiglieri 5 Stelle. Le modifiche introdotte, per quanto preziose, sono state minime.
Un lavoro inutile, dunque? No, è stato un lavoro prezioso: si è costruita una solida unità tra contributi diversi, provenienti da storie diverse. Una unità di merito, legata a profondi e competenti elementi di «attenzione e apprendimento», fondata su proposte operative concrete, ragionevoli e facilmente operabili, solo che ci fosse stata volontà politica e non cieco asservimento ai costruttori (cooperative comprese) e proprietà immobiliari. Questo a noi è sembrato «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno». Sta a noi ora «farlo durare e dargli spazio». La prospettiva riguarda le prossime elezioni, e, per quanto riguarda noi, le prossime regionali della primavera 2019.
il manifesto bologna, 23 dicembre 2017. Una critica argomentata dell'orrenda legge urbanistica approvata da un consiglio regionale indegno della tradizione della "regione rossa"
In Emilia Romagna d’ora in avanti se un costruttore, armato di “accordo operativo”, incontra un sindaco armato di Pug (Piano Urbanistico Generale)…la pianificazione è cosa morta. Ironicamente si può far riferimento agli indimenticabili “spaghetti western” di Sergio Leone, ma in effetti il far West dell’urbanistica, è stato codificato nei settantasette articoli della legge regionale 218/2017 “disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”.
Una legge che pone pomposamente al primo articolo, alla lettera a) del comma 2, l’obiettivo di “contenere il consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile che esplica funzioni e produce servizi eco sistemici, anche in funzione della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico e delle strategie di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Concetto che ribadisce e specifica all’articolo 5 del capo II, “La Regione Emilia-Romagna, in coerenza con gli articoli 9, 44 e 117 della Costituzione e con gli articoli 11 e 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, assume l’obiettivo del consumo di suolo a saldo zero da raggiungere entro il 2050.
Infine lo sancisce, fornendo la misura massima di consumo di suolo all’articolo 6 Quota complessiva del consumo del suolo ammissibile comma1. In coerenza con l’obiettivo del consumo di suolo a saldo zero di cui all’articolo 5, comma 1, la pianificazione territoriale e urbanistica può prevedere, un consumo del suolo complessivo pari al tre per cento della superficie del territorio urbanizzato… fatto salvo quanto previsto dai commi 5 e 6.
E qui sta il trucco: mentre da un lato si definiscono obiettivi e limiti apparentemente stringenti al consumo di suolo, nello stesso tempo si elenca una lista di eccezioni al computo:
(Art 6 comma 5) “Non sono computate ai fini del calcolo della quota massima di consumo del suolo di cui al comma 1, le aree dei lotti di pertinenza che, dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono utilizzati per la realizzazione: a) di lavori e opere pubbliche o di opere qualificate dalla normativa vigente di interesse pubblico, previa obbligatoria valutazione che non sussistono ragionevoli alternative di localizzazione che non determinino consumo di suolo; b) di interventi di ampliamento e ristrutturazione di fabbricati adibiti all’esercizio di impresa ovvero di interventi di nuova costruzione, nella medesima area di pertinenza o in lotto contiguo, di fabbricati o altri manufatti necessari per lo sviluppo e la trasformazione di attività economiche già insediate; c) di nuovi insediamenti produttivi di interesse strategico regionale che siano oggetto di accordi per l’insediamento e lo sviluppo, di cui all’articolo 7 della legge regionale 18 luglio 2014, n. 14 (Promozione degli investimenti in Emilia-Romagna) o che presentino i requisiti di cui all’articolo 6, comma 1, della medesima legge regionale come specificati con apposito atto di coordinamento tecnico; d) di parchi urbani ed altre dotazioni ecologico ambientali; e) di fabbricati nel territorio rurale funzionali all’esercizio delle imprese agricole; f) di interventi per il parziale recupero della superficie di edifici non più funzionali all’attività agricola, demoliti ai sensi dell’articolo 35, comma 3, lettera e).
(Art.6, comma 6) “Non sono computate altresì nella quota massima di cui al comma 1 le aree utilizzate per l’attuazione delle previsioni dei piani urbanistici previgenti, ai sensi dell’articolo 4”, (vale a dire i 250 Kmq che si dice voler portare a 70Kmq).
Dunque, per un lungo periodo transitorio (tre anni più due) tutti gli interventi ricompresi nelle categorie elencate all’articolo 6 potranno essere realizzate senza che vadano a riempire il carnet del tre per cento, cosicché quella premessa di riduzione dai previsti 250 km quadrati di nuove edificazioni contemplate nei piani precedenti ( cd diritti acquisiti) ai 70 Km quadrati complessivi fino al 2050, in realtà sarà 70 Km quadrati più quanto dei precedenti 250 si riuscirà a realizzare, senza limitazione nei successivi cinque anni: un bel modo di ridurre,(in linea teorica potrebbero addirittura risultare 250 (già previsti e realizzabili) più i 70 prevedibili (relativi al 3% concesso): ovvero 320 Km quadrati.
La legge poi enuclea agli articoli 7,8 e 9 l’altro grande obiettivo enunciato: puntare decisamente sulla “rigenerazione urbana” come grande leva di un nuovo sviluppo del settore, finalizzato a conseguire una più alta attrattività urbana e quindi una rinnovata fase di crescita economica. Lo strumento è individuato, alla lettera c del terzo comma dell’articolo 7, nella possibilità di riqualificazione fondata su interventi “di addensamento e sostituzione urbana”, anche incrementali, che, con particolare riferimento ad aree strategiche della città ovvero ad aree degradate, marginali, dismesse o di scarsa utilizzazione edificatoria, prevedono una loro significativa trasformazione che può comportare la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati, degli spazi aperti e della rete stradale, l’inserimento di nuove funzioni e la realizzazione o adeguamento delle dotazioni, delle infrastrutture e dei servizi pubblici nonché l’attuazione di interventi di edilizia residenziale sociale. Conseguentemente, agli articoli successivi si definisce un corposo elenco di premialità, detrazioni fiscali, aumenti volumetrici e standard differenziati, tali da definire un regime di favore rispetto a qualsiasi altro tipo di edificazione, anche in contrasto a norme nazionali. Una logica che fa scrivere a Roberto Camagni docente emerito di Economia urbana, uno dei più qualificati esperti in materia:
“La mia critica (alla legge) si basa su tre valutazioni:
1. è errata l’interpretazione di fondo che si dà della crisi del settore edilizio e delle difficoltà recenti dei processi di riqualificazione e rigenerazione urbana;
2. è errata e irresponsabile l’attribuzione di tanti privilegi e sconti economici alle attività di riqualificazione e rigenerazione urbana in quanto largamente inefficace nel raggiungere gli obiettivi che la legge si propone e, d’altra parte, perniciosa per la finanza pubblica locale;
3. è contraddittoria la logica che lega gli obiettivi da raggiungere agli strumenti, per la massima parte legati all’iniziativa privata, che si propongono.
Uno degli aspetti più emblematici di questa vicenda è infatti la mole e l’autorevolezza delle critiche piovute sulla proposta di legge da parte dei più qualificati urbanisti ed esperti d’Italia, che hanno evidenziato lo spirito di totale subalternità dell’articolato agli interessi dei poteri forti e la destrutturazione totale del concetto e del primato della pianificazione pubblica, concetto che è stato per decenni elemento distintivo delle politiche urbanistiche della regione e che ne hanno fatto a lungo autorevole e riconosciuta esempio di più avanzato governo del territorio. Un scelta scellerata che si concretizza nel disarmare la pianificazione di ogni possibilità d’incidere sulle scelte ad esclusivo vantaggio dei privati, come specificato agli articoli 31 e seguenti, fino nel più delicato ambito dei centri storici:
(art 31 comma 6). “Per motivi di interesse pubblico e in ambiti specificamente determinati del centro storico, il Pug può disciplinare specifici interventi in deroga ai principi stabiliti al comma 5, lettere a),b) e c), da attuare attraverso l’approvazione di accordi operativi. Il Pug può inoltre individuare le parti del centro storico prive dei caratteri storico architettonici, culturali e testimoniali, nei quali sono ammessi interventi di riuso e rigenerazione, ai fini dell’eliminazione degli elementi incongrui e del miglioramento della qualità urbanistica ed edilizia dei tessuti urbani, ed è ammesso l’aumento delle volumetrie preesistenti”.
Prosegue (all’art 33 comma 2)
“In considerazione degli obiettivi generali stabiliti ai sensi del comma 1, la strategia per la qualità urbana ed ecologico ambientale definisce l’assetto spaziale di massima degli interventi.Tali indicazioni di massima possono essere modificate in sede di accordo operativo senza che ciò costituisca variante al Pug, fermo restando il soddisfacimento del fabbisogno definito dalla strategia stessa.
Da questa breve panoramica, relativa solo ad alcuni degli articoli più emblematici, si vuole rendere chiaro che la portata di questa legge, sull’intero sistema della pianificazione pubblica, potrà determinare conseguenze molto gravi, ed anche conflittuali rispetto ad importanti prerogative e limiti definiti dalla Costituzione e dalle leggi nazionali (anche relative alla fiscalità obbligatoria).
In definitiva, non è stata sufficiente la mobilitazione delle più importanti associazioni ambientaliste, Legambiente e Italia Nostra, prese di posizione dello stesso ANCI, ancorchè non rese pubbliche. Inascoltati gli appelli dei convegni promossi dalle forze di sinistra e dei M5S, con la partecipazione di importanti esperti, critiche riunite in un libro Consumo di luogo (ed Pendragon) che ha avuto una larghissima diffusione. Alla fine, la sordità della giunta Bonaccini e dell’assessore al ramo Donini, ha determinato l’impossibilità del tentativo a lungo portato avanti con generosità da alcuni consiglieri regionali della sinistra, di migliorare attraverso emendamenti per quanto possibile la legge. Alla fine, anche le più ragionevoli proposte di modifica sono state respinte: il richiamo dei cosiddetti “poteri forti”, le imprese edilizie private e cooperative, si è fatto sentire, con tutto il loro condizionate peso di autentici ed unici “stakeholder”. E la Giunta ha piegato la schiena alla voce del padrone.
L’amarezza di coloro che hanno fatto di tutto per migliorare una pessima legge, fa posto alla convinzione che sarà necessaria ancora una forte mobilitazione e un attento monitoraggio per evitare che la speculazione metta le mani su importanti parti del territorio, come sta già avvenendo a Bologna ad esempio ai Prati di Caprara. Una classe politica che fonda le chance di ripresa economica su un ciclo edilizio vetusto ed arretrato non rappresenta un buon auspicio, e prevalgono di gran lunga considerazioni pessimistiche sul futuro. Il voto unitariamente contrario dei gruppi della sinistra e dei M5S, oltre alla lega, il voto favorevole alla legge del solo PD, sono la dimostrazione di un non splendido isolamento.
l'articolo è tratto da "il manifesto bologna"ed è qui reperibile in originale
La città invisibile, 20 dicembre 2017. Dopo l'approvazione della sciagurata legge urbanistica dell'Emilia-Romagna una critica argomentata e la presentazione di un libro collettaneo sull'argomento: Consumo di luogo, a cura di Ilaria Agostini, Pendragon, 2017
Lo smantellamento della materia urbanistica in nome del Libero Mercato, procede. Ne è protagonista la Regione che fu faro della pianificazione e delle pratiche urbane. Il 19 dicembre la proposta di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna – nata in seno alla Giunta PD (e a Confindustria) – è stata approvata in consiglio regionale coi soli voti del PD. Hanno votato contro: Altra Emilia Romagna, SI, Art. 1-Mdp, M5S e Leganord; Forza Italia si è astenuta. La lotta che ha accompagnato l’iter di approvazione è stata intensa. Un nucleo di intellettuali, professionisti e attivisti ha pubblicato un libro che contiene spunti di critica e ipotesi alternative a questa legge di matrice neoliberista. Ne pubblichiamo il capitolo conclusivo.
Il tema della «fine del piano», dell’eclissi del ruolo pubblico nella trasformazione delle città e dei territori, non gode oggi di sufficiente dibattito. La lacuna non può essere colmata dalle riflessioni provenienti dalle pagine di un solo volume – Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna – redatto con i tempi stretti del calendario politico. Tuttavia gli scritti contenuti in questo libro collettivo forniscono aperture concettuali e pratiche, capaci di ridefinire una prospettiva urbanistica che ricomprenda il dato sociale, politico e ambientale. Urbanistica vòlta al superamento delle diseguaglianze territoriali e dello spreco di risorse, al miglioramento dell’ambiente di vita e ad una auspicata democratizzazione del processo decisionale.
Aspirazioni di civile convivenza che pure la legge esprime in apertura (stop al consumo di suolo, riuso etc.), ma che promette di eludere, una ad una. Nel suo articolato, essa coniuga infatti modelli gestionali e di trasformazione territoriale pienamente neocapitalisti. Tentiamo di riassumere i capisaldi della sua “filosofia”: polarizzazione in città sempre più vaste ed energivore (le cosiddette, nostrane, “città metropolitane”); territori agro-industrializzati, ridotti a pura estrazione; priorità, nell’organizzazione territoriale, alla strutturazione logistica affetta da gigantismo; corridoi infrastrutturali che allontanano le aree interne, rendendole irrimediabilmente distanti; obliterazione dello spazio pubblico e comune in favore della mercificazione delle città; riduzione delle varietà dell’abitare. Scenario nel quale è fatto ricorso indiscriminato a strumenti di governance di matrice aziendale, dove il pubblico gioca un ruolo subalterno rispetto al privato, che indeboliscono la democratica partecipazione alle scelte inerenti l’habitat.
Per risolvere le patologie territoriali già manifestatesi quale risultato dell’applicazione dei principi neoliberisti, il DdL dispone un’accelerazione proprio di quei processi che sono stati la causa del male. Al consumo di suolo, il DdL oppone consumo di suolo. Lo dimostra Ezio Righi nel suo saggio in forma dialogica: le periferie cresceranno; «il fisiologico sviluppo delle città» (Ance, 2016) troverà nuovo nutrimento. Nel DdL – fondato peraltro sulla mancata presa d’atto che l’indice regionale di consumo del suolo assicura all’Emilia-Romagna una posizione d’eccellenza – non si ravvede infatti né idea né volontà di contenere la pressione dell’espansione edilizia con nuova agricoltura di qualità, le cui potenzialità economiche sono descritte da Piero Bevilacqua in questo libro. Si tratterebbe di preparare il terreno a un’economia agricola che sia garanzia di occupazione lavorativa, di salute ambientale, di salvaguardia delle connessioni ecologiche, di proficui scambi energetici tra città e campagna. Su questi punti fa leva la legge urbanistica della vicina Regione Toscana (che avrebbe potuto costituire un ottimo esempio), della quale scrive nel suo saggio Anna Marson, protagonista della stesura appunto della LRT 65/2014.
All’invenduto aggiunge edificazione. Il DdL, antistoricamente coerente con l’assioma fallace e malsicuro dell’edilizia come leva prioritaria dell’economia, delinea una nuova ondata di costruzioni, fuori e dentro le città. Opere edilizie di tutte le taglie e grandezze, che vengono favorite «dal paravento dell’interesse pubblico», come illustrato da Paolo Berdini. «Esiste[rebbe] una soluzione più rassicurante – scrive in queste pagine Paola Bonora –, che presuppone un cambio di marcia in direzione del recupero e del restauro. Piccole e medie operazioni di risanamento urbano che potrebbero diventare il volano di un reale processo di riqualificazione, di rilancio dell’edilizia e riassorbimento di forza-lavoro». Soluzione ignorata tuttavia nella proposta di legge, che niente dice neanche in merito al fabbisogno di alloggi pubblici e di residenze in affitto, acuito dalla crisi economica.
Alle diseguaglianze sociali aggiunge diseguaglianze sociali. Oltre all’obliterazione degli standard e al doppio regime normativo che crea un discrimine procedurale tra grandi capitali e cittadini “normali” (cfr. lo scritto di Paolo Dignatici), la LUR prevede diffusamente demolizioni e ricostruzioni – ne scrive qui Pier Luigi Cervellati – che nella città consolidata velocizzano i processi di selezione sociale a discapito delle classi popolari. La nuova legge urbanistica trascura la pietra miliare del piano per il centro storico di Bologna (poi riproposto nelle altre, belle città dell’Emilia-Romagna) che fornì alla cittadinanza un sistema di case popolari pubbliche nei quartieri centrali, in un tessuto urbano reso multifunzionale dal riuso sociale dei “contenitori storici” (gli stessi che oggi sono preda degli appetiti speculativi, come ricorda Piergiorgio Rocchi). Anziché dimenticarla – o volontariamente negarla – questa illustre tradizione dell’urbanistica regionale andrebbe semmai affinata e incrementata.
Alle lacune nel governo democratico del territorio, il DdL aggiunge lacune. L’«abbandono della pianificazione urbanistica come strumento essenziale del governo pubblico del territorio» – scrive, nella sua sintesi storica di 75 anni di urbanistica, Edoardo Salzano – lascia libero il campo alla “negozialità” in urbanistica, alla deroga, al gioco tossico dei crediti e dei debiti edilizi. Contribuisce ad erodere gli spazi democratici e riduce la (già scarsa e inefficace) partecipazione popolare alle scelte di gestione urbana. Fa posto a una visione gestionale tutta economicistica, connaturata al sistema degli interessi privati. Ma ancor più grave è il fatto che questa regressione politica avvenga in una Regione che aveva dimostrato di adempiere brillantemente ai compiti di programmazione, pianificazione, governo, e che sta ora legiferando contro il ruolo che la Costituzione le attribuisce. Sulla destituzione, infine, della competenza costituzionale dei Comuni a pianificare il proprio territorio, sull’autonomia comunale offesa (dei grandi comuni ma, soprattutto, di quelli più remoti della Bassa e dell’Appennino) si sofferma Giovanni Losavio.
Dalla considerazione che alla base del progetto di legge sta una visione di radicale sovvertimento delle regole di corretta pianificazione del territorio, finora affidata alla funzione programmatoria del sistema pubblico, scaturisce l’iniziativa di dar vita a un’opposizione attiva “dentro il Palazzo”, assunta dai gruppi consiliari in Regione de L’Altra Emilia Romagna e del Movimento Cinque Stelle, affiancati da Italia Nostra ER, da intellettuali critici e da “urbanisti resistenti”.
Il presente volume, voluto da Piergiovanni Alleva, prende l’avvio da un dibattito regionale le cui tappe fondamentali sono state la conferenza stampa organizzata da Italia Nostra ER (Bologna, 13 dicembre 2016), la pubblicazione di un paio di documenti collettivi redatti e sottoscritti da urbanisti e tecnici critici (riprodotti nell’Introduzione al libro), il convegno presso la Regione ER (Bologna, 3 febbraio 2017) che già nel titolo – Fino alla fine del suolo – ben individuava l’essenza del problema rappresentato dalla proposta di legge.
In questa resistenza critica – i cui protagonisti sono più numerosi degli autori dei saggi – s’impegnano professionisti, tecnici, ricercatori e docenti (alcuni dei quali godono di autorevolezza internazionale) riuniti per scongiurare la svolta regressiva di una regione un tempo all’avanguardia nell’urbanistica di qualità, nella difesa del territorio e dell’ambiente dalle devastazioni conosciute in tante altre parti del nostro sfortunato Paese; per contrastare la resa al privatismo, l’appropriazione di spazi residui in un territorio già troppo impoverito socialmente, la definitiva subordinazione al mercato del «mondo comune» e della città pubblica. Anche per le generazioni future.
L’opposizione al progetto di legge si estende nel territorio, ai molti comuni che avvertono tutti i rischi dell’urbanistica regressiva: lo testimoniano le iniziative in corso che raccolgono un pubblico numeroso ed interessato e che saranno ancor più numerose nei prossimi mesi.
Il progetto di legge urbanistica dell’E-R ignora il circolo vizioso fra degrado fisico ed esclusione sociale che è alla base dell’aggravarsi delle disuguaglianze nella città contemporanea. Relazione al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017 (m.c.g.)
La centralità assunta dalla rigenerazione urbana nel discorso politico e nell’opinione pubblica, negli scenari programmatici e negli strumenti operativi promossi da regioni ed enti locali, non può che essere valutata positivamente quando posta in opposizione alle pratiche tradizionali di trasformazione del territorio fondate sull’espansione urbana e il dissennato spreco di suolo. Tuttavia, essa comporta dei rischi dei quali bisogna essere consapevoli.
Si tratta di rischi che si corrono quando, occupandosi di sistemi complessi, i concetti perdono la capacità di cogliere le relazioni con i processi in atto e i contesti d’azione concreti, e diventano parole d’ordine utili ad acquisire facile consenso, di volta in volta intorno a una politica, a una norma, a un programma prospettati come risolutivi di un ‘problema chiave’. A me pare che questi rischi siano oggi legati ad alcune modalità di interpretazioni della “rigenerazione urbana” in rapporto all’obiettivo del contenimento del consumo del suolo.
Un esempio particolarmente efficace di tali rischi è proprio nel progetto di legge della giunta dell’Emilia Romagna recante “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”.
La rigenerazione urbana, com’è noto, è diventata da qualche tempo anche in Italia una nozione ombrello sotto la quale trovano copertura interventi e pratiche molto diversi. Da demolizione e ricostruzione di singoli edifici a programmi messi a punto per interi quartieri, da interventi che riguardano aree dismesse e abbandonate a iniziative che investono parti di città dove si concentrano degrado fisico e disagio sociale, dai centri storici alle periferie recenti, e non manca l’atteggiamento fideistico di chi ritiene la rigenerazione urbana capace di «rimettere in moto l’edilizia», e persino di «far ripartire il Paese».
Ugualmente diverse possono essere le finalità che si intende perseguire mediante la rigenerazione urbana. Nel progetto di legge in questione la rigenerazione delle aree edificate è finalizzata ad aumentarne l’attrattività attraverso la riqualificazione dell’ambiente costruito secondo criteri di sostenibilità, e ad accrescerne la vivibilità con la qualificazione e l’ampliamento dei servizi e delle funzioni strategiche ivi insediati”1.
Di fronte a tali esplicite finalità della norma, sembra importante chiedersi: rigenerazione urbana per chi? Non è scontato, infatti, che interventi di riqualificazione orientati ad attirare investimenti, consumatori, nuovi city users o visitatori, possano migliorare la qualità della vita di chi abita nei quartieri interessati da tali interventi. Peraltro, fra le finalità della rigenerazione urbana individuate dal progetto di legge, non vi è alcun accenno alle condizioni abitative delle popolazioni urbane svantaggiate, emarginate o a rischio di esclusione sociale. E questo accade in una fase nella quale vi è crescente consapevolezza dell’aggravarsi delle disuguaglianze sociali nelle città e del contributo che il progetto urbanistico, spesso proprio in nome dell’innalzamento dell’attrattività e competitività territoriale, ha fornito alle dinamiche di esclusione sociale nello spazio urbano.
La rigenerazione urbana, inoltre, nella prospettiva assunta dal progetto di legge comprende unicamente interventi fisici, e prevalentemente interventi pesanti. Gli “interventi di riuso e rigenerazione urbana” includono “le seguenti tipologie di trasformazioni edilizie e urbanistiche dei tessuti urbani esistenti”1:
gli interventi di “qualificazione edilizia”, diretti a realizzare la demolizione e ricostruzione di uno o più fabbricati che presentino una scarsa qualità edilizia, non soddisfacendo i requisiti minimi di efficienza energetica, sicurezza sismica, abbattimento delle barriere architettoniche, igienico-sanitari e di sicurezza degli impianti, previsti dalla normativa vigente (…);
gli interventi di “Ristrutturazione urbanistica”, comprensivi degli interventi di costruzione e successiva demolizione (…);
gli interventi di “Addensamento e sostituzione urbana”, consistenti nei processi di riqualificazione anche incrementali, che, con particolare riferimento ad aree strategiche della città ovvero ad aree degradate, marginali, dismesse o di scarsa utilizzazione edificatoria, prevedono una loro significativa trasformazione che può comportare, in via esemplificativa: la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati, degli spazi aperti e della rete stradale, la delocalizzazione degli immobili collocati in aree soggette a rischio ambientale e industriale, l’inserimento di nuove funzioni e la realizzazione o adeguamento delle dotazioni territoriali, delle infrastrutture e dei servizi pubblici nonché l’attuazione di interventi di edilizia residenziale sociale2.
Il progetto di legge agevola la realizzazione degli interventi sopra elencati prevedendone l’attuazione, rispettivamente, attraverso l’intervento diretto (fatti salvi gli eventuali limiti e condizioni stabiliti dal PUG e ferma restando l’osservanza della disciplina di tutela del centro storico e degli edifici di valore storico, artistico e testimoniale), il permesso di costruire convenzionato, gli accordi operativi o i piani attuativi di iniziativa pubblica.
Tale approccio alla rigenerazione urbana pone diversi problemi. Innanzi tutto, è un approccio tutt’altro che innovativo. Per alcuni versi esso si colloca sulla scia della tradizione italiana dei cosiddetti programmi complessi, per altri versi ricalca la stagione dell’urban renewal anglo-americano. Un approccio incrementale e frammentato, nel quale le diverse iniziative, prive di qualsivoglia inquadramento strategico, sono state spesso considerate quali occasioni per forzare le rigidità degli strumenti urbanistici comunali; un approccio incentrato sulla dimensione fisica della riqualificazione urbana, che ha trasformato radicalmente parti di città affidando un ruolo centrale al settore privato e mancando di governarne gli impatti sociali e sul più vasto sistema urbano.
Proprio alla luce degli effetti perversi prodotti dagli approcci in ultimo citati, dovrebbe essere d’obbligo porsi alcune domande: gli interventi di rigenerazione incentivati dalla legge sono in favore dell’area o degli abitanti? quali conseguenze sociali può comportare il miglioramento delle condizioni fisiche delle parti di città interessate dagli interventi di riuso e riqualificazione urbana? la rigenerazione urbana, nella forma prevista dalla legge, è probabile che riduca o che aggravi le disuguaglianze sociali nelle città?
Alcune norme contenute nel progetto di legge fanno ritenere che non ci si sia posti queste domande. Su un dispositivo merita soffermarsi in particolare. L’articolo 5, comma 3, prevede che “il consumo di suolo non è comunque consentito per nuove edificazioni residenziali, ad eccezione di quelle necessarie: a) per attivare interventi di rigenerazione di parti del territorio urbanizzato a prevalente destinazione residenziale; b) per realizzare interventi di edilizia residenziale sociale, comprensivi unicamente della quota di edilizia libera indispensabile per assicurare la fattibilità economico-finanziaria dell’intervento.”
Se è probabile che l’interesse degli operatori immobiliari si concentri nelle aree centrali più profondamente degradate, ove è possibile ottenere incrementi dei valori immobiliari più cospicui, queste norme comportano il rischio di espellere la popolazione più disagiata attraverso gli incentivi previsti per la rigenerazione e di spingerla nelle parti più periferiche della città mediante le deroghe disposte per l’edilizia residenziale sociale. Con l’evidente conseguenza non solo di provocare il consumo suolo inedificato, ma anche di aggravare le diseguaglianze spaziali.
In Europa e in Italia da tempo il termine rigenerazione urbana è associato ad azioni finalizzate ad affrontare in maniera integrata il circolo vizioso fra degrado fisico ed esclusione sociale che è alla base dell’aggravarsi delle disuguaglianze nella città contemporanea. L’accezione di rigenerazione urbana fatta propria dal progetto di legge sembra ignorarle.
In tali azioni, le dimensioni sociale ed economica della rigenerazione assumono una valenza essenziale, in una duplice prospettiva. Quella che induce a prevedere misure specificamente orientate a tutelare gli abitanti che vivono nelle aree interessate da programmi di riqualificazione per evitarne l’allontanamento, a contrastarne i processi di esclusione ed emarginazione mediante misure a sostegno della formazione e dell’occupazione, a migliorarne le condizioni abitative mediante interventi di riqualificazione del patrimonio a destinazione residenziale e la realizzazione di servizi e infrastrutture. Quella che induce ad attribuire agli abitanti un ruolo cruciare nella messa a punto e attuazione degli interventi di rigenerazione.
In quest’ultima prospettiva, la partecipazione non è solo esercizio di democrazia ma fattore essenziale per garantire l’efficacia dei programmi di rigenerazione. Il progetto di legge ignora anche questo aspetto. La partecipazione è prevista solo come possibilità per i Comuni. Una previsione, questa, che sembra avere valore puramente simbolico, giacché è difficile immaginare un provvedimento che possa negare a un ente locale la possibilità di promuovere la partecipazione civica. Le norme indicano specificamente i concorsi di architettura e la progettazione partecipata, rimarcando, ancora una volta, l’enfasi posta sulla dimensione fisica della rigenerazione1.
Riconoscere il legame fra condizioni di degrado fisico e disagio sociale è essenziale perché la rigenerazione urbana non si risolva nel migliorare lo stato di parti di città peggiorando nel contempo le condizioni di vita degli abitanti più svantaggiati e generando altre aree di degrado e disagio. Intendere la rigenerazione urbana come processo mirato non solo alla riqualificazione fisica (urbanistica ed edilizia), ma anche alla rinascita culturale e alla inclusione sociale implica la mobilitazione di risorse umane e finanziarie diverse rispetto a quelle utilizzate per attuare la gran parte degli interventi di riqualificazione urbana promossi nell’ormai numerosa serie di politiche per progetti e programmi complessi. E, soprattutto, la rigenerazione urbana richiede che gli abitanti si riapproprino della città come bene pubblico e se ne prendano cura. Di tutto questo non c’è traccia nell’articolato del progetto di legge.
Note
1 Articolo 7, comma 1, del progetto di legge, intitolato “Disciplina favorevole al riuso e alla rigenerazione urbana”. Si noti che nel testo licenziato dalla Commissione consiliare competente la parola vivibilità ha sostituito la parola competitività senza che però siano stati modificati altri contenuti della norma
2 Si veda l’articolo 7, comma 3, del progetto di legge.
3Il testo licenziato dalla commissione ha aggiunto fra gli interventi di “Addensamento e sostituzione urbana” la demolizione senza ricostruzione di edifici collocati in areali caratterizzati da un’eccessiva concentrazione insediativa, con l’eventuale trasferimento delle quantità edificatorie secondo le indicazioni del Piano urbanistico generale (PUG).
4 Si veda l’articolo 17 del progetto di legge, intitolato “Concorsi di architettura e progettazione partecipata”, che prevede che per elevare la qualità dei progetti urbani i Comuni possano promuovere il ricorso al concorso di progettazione e al concorso di idee nonché ai processi di progettazione partecipata per la definizione dei processi di rigenerazione urbana, nonché in sede di elaborazione degli indirizzi strategici e degli obiettivi del PUG e dei contenuti degli accordi operativi e dei permessi di costruire convenzionati.
Relazione al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017
Un pressante invito ai sindaci dell'Emilia-Romagna perché fermino una legge che capovolge la tradizione di buongoverno urbanistico. La seduta del Consiglio regionale è stata rinviata al 19 dicembre. Un segnale di difficoltà? Forse i sindaci pensano che la legge mette a serio rischio la finanza pubblica locale? Si legga in proposito qui
Lettera inviata contemporaneamente a “il manifesto”
L’Emilia che si autorappresenta nella proposta di legge urbanistica non è più la regione che definiva “democratica” la pianificazione. È diventata paladina del neoliberismo, della crescita diseguale e senza regole. Relazione al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017.
Da un po’ di anni in Emilia-Romagna si vociferava della necessità di una nuova legge urbanistica che andasse a sostituire la disciplina pianificatoria varata nel 2000, giudicata superata nonostante i ritocchi operati. La crisi e la maggiore consapevolezza dei temi ambientali e climatici hanno corretto il modo di considerare lo sviluppo urbanistico, si diceva. Che, visti i danni prodotti dagli eccessi di consumo di suolo, non va più inteso in termini espansivi ma di limitazione e riciclo del già costruito.
Evviva, ci siamo detti noi che da lungo tempo critichiamo l’immobiliarizzazione e l’abuso di suolo che ne è derivato, che nella nostra regione ha toccato le vette più alte a livello nazionale. Finalmente l’Emilia si sveglia, ci siamo detti e, recuperando l’antica ragionevolezza pianificatoria, ferma lo scempio.
Ma ci eravamo illusi. L’Emilia che si autorappresenta nella proposta di legge in discussione non è più la regione che definiva “democratica” la pianificazione e cercava meccanismi di riequilibrio territoriale e assieme sociale. È diventata la migliore paladina del neoliberismo più acceso, della crescita diseguale e senza regole e, sorda anche alle contraddizioni economiche che hanno condotto alla grande crisi, consegna agli investimenti speculativi privati la politica del territorio.
Eppure gli obiettivi del “contenimento” del consumo di suolo e della “rigenerazione urbana” sono i principi di fondo dichiarati dalla proposta di legge. Peccato siano artifici retorici contraddetti dalle disposizioni indicate, che vanno in direzione opposta.
I costruttori hanno capito da tempo che la crisi del mattone non era congiunturale e risolvibile in termini espansivi, e che non si poteva continuare a edificare in una condizione di mercato saturo per esubero produttivo, deprimendo ancor più i prezzi. Non a caso l’Ance ha varato da almeno un quinquennio il progetto “Riuso” e ha svolto in questi anni una capillare opera di persuasione nei confronti dei soci - i quali tuttavia ancora insistono nel chiedere incentivi e premi volumetrici, non si sa per quale domanda.
Sul piano delle dichiarazioni, anche i politici locali non fanno che ripetere la litania dello “stop al consumo di suolo” e ci intontiscono con il ritornello della “rigenerazione”, ma continuano ad approvare progetti faraonici, il più delle volte inutili – in questa fase è scoppiata la smania di centri commerciali, supermercati e centri culturali, tutti di megadimensioni; i capitali finanziari vanno in questa direzione con la stessa cieca determinazione con cui hanno prodotto prima eccessi di capannoni e poi di residenze: chissà quando scoppierà la bolla.
Nonostante la rendita passiva raggiunga in Italia livelli insani per l’economia (siamo al 39% del Pil) si continua a procedere per il suo incremento.
Rimangono inoltre sul tappeto una serie di questioni, gravi e pericolose che, guarda caso, non vengono correlate e non sono sufficienti a modificare la visuale. Innanzitutto la crisi delle banche legata ai crediti inesigibili. Sofferenze derivate da capitoli diversi ma entro cui - qui sta il nocciolo - il 47,2% dei prestiti deteriorati (Banca d’Italia, 2016) è riconducibile al blocco costruzioni e immobiliare. Un dato che denuncia un’economia sbilanciata, con i forti rischi di instabilità finanziaria richiamati dalla Banca Europea, troppo esposta su questo versante - oltre che comportamenti a dir poco opachi, sia da parte degli immobiliaristi che delle banche, che hanno erogato prestiti imponenti senza esigere garanzie reali.
A ciò si aggiunga che la crisi ha sedimentato in seno agli istituti di credito una grande quantità di immobili, pignorati in parte a cittadini impoveriti ma in prevalenza confiscati alle imprese lanciate in operazioni edilizie fallite per esubero di offerta. Non a caso i principali istituti hanno aperto un filone real estate per smaltire un patrimonio in progressiva svalutazione che grava sui bilanci.
Vi è poi il problema degli immobili invenduti, edifici nuovi da poco costruiti e rimasti senza acquirente oppure cantieri arenati nella crisi: un argomento noto, ben percepito ma mai misurato, salvo stime diversissime sempre contestate. Anche in questo caso se ne trarrebbero considerazioni svalutative, dunque non conviene conoscerne l’esatto ammontare, che invece potrebbe servire per progettarne un sensato utilizzo. Ma sia il governo che le amministrazioni locali si guardano bene dall’impensierire i costruttori. Tuttavia dati eloquenti sulle “rimanenze” – fabbricati classati come merci non vendute – ci vengono dalla Banca d’Italia attraverso l’esame dei bilanci delle imprese di costruzione e immobiliari. Rimanenze che nonostante l’esonero fiscale elargito dal 2013, unite ai debiti, incagliano il ciclo edilizio.
Un eccesso che si è riversato sulle città e sul patrimonio residenziale storico che recenti indagini mostrano in larga misura inutilizzato (1 abitazione su 5) e ampiamente svalutato (il 30% in meno dall’inizio della crisi).
Insomma un quadro economico di desolante preoccupazione, specie a fronte di reiterate richieste dei costruttori, che ora volgono la loro attenzione alla “rigenerazione”, parolina magica dietro cui si nasconde la riconversione del ciclo edilizio. Mi riferisco a un documento Ance inviato al governo il 16 giugno 2016 nel quale si propone la “rottamazione” dei vecchi edifici, e di “rendere gli interventi di demolizione e ricostruzione agevoli, diffusi ed economicamente sostenibili”, di “concepire la sostituzione del patrimonio edilizio come strumento ordinario di intervento sul territorio” e a questo fine di “superare la rigidità delle disposizioni in tema di altezze, distanze, densità edilizia e prevedere una riduzione degli oneri concessori da versare al Comune”. Ancora, si chiede di “incentivare fiscalmente la sostituzione edilizia anche in presenza di aumenti volumetrici” e “detassare i dividendi di chi investe nel capitale di rischio di imprese impegnate in operazioni di rigenerazione delle città”.
Tutto questo, naturalmente, in nome della limitazione del consumo di suolo. Si vuole in questo modo rilanciare l’edilizia senza alcun rischio d’impresa o concessione alla città pubblica, stravolgendo la pianificazione, il governo del territorio e le più basilari regole insediative. La “rigenerazione”, panacea di tutti i mali, si svela nei suoi termini reali di “sostituzione”. Un espediente per rimettere in moto la rendita fondiaria accorciando il ciclo edilizio, ossia la durata dei manufatti, che trova spazio per esplicarsi nelle pieghe di città abbandonate al degrado.
Parole d’ordine che troviamo tradotte per intero nella proposta di legge emiliana, sensibile solo alle ragioni degli investitori.
La “rigenerazione” rappresenterà insomma il core business degli anni futuri. Una svolta che implica l’accorciamento del ciclo edilizio, destinata ad incidere sul piano urbano e territoriale ma che è prima di tutto una svolta culturale. Il bene durevole per eccellenza, che non a caso definiamo e distinguiamo come immobile, diventa labile, deperibile. Una sorte che è già capitata ai valori immobiliari, un tempo assunti a garanzia di investimento di lungo periodo e sicura rivalutazione che invece hanno mostrato la stessa volatilità dei prodotti finanziari di cui erano stampella. Una serie di antichi miti sono caduti, ora sta crollando anche quello della durevolezza dei manufatti.
Un cambiamento che sottende inoltre il passaggio dalla rendita marginale, avvantaggiata nei decenni della fuga dalla città e dello sprawl, a quella posizionale, di rivalutazione della centralità allocativa. Una riconfigurazione del modello di organizzazione spaziale dalle conseguenze importanti sia sotto il profilo territoriale che economico e sociale, da cui potranno derivare intense modifiche degli assetti attuali.
Sullo scacchiere immobiliare si gioca insomma il destino delle città dei prossimi anni, coinvolte in un intenso processo di “riconversione” di abbattimento e ricostruzione - o comunque, come indica la legge, di densificazione, senza rispetto per distanze, altezze, dotazioni, vecchi orpelli di un’urbanistica garantista demodé. Che cambierà la fisionomia e le modalità di utilizzazione di aree centrali, o potenzialmente tali, ora degradate o anche solo sdrucite. Ci si dovrà intendere sul concetto di degrado, se non vogliamo trovarci i picconatori sotto casa. Torna insomma il piccone risanatore, nelle vesti gioiose e politicamente illuminate della rigenerazione.
Che alcune aree, quelle dell’urbanizzazione frettolosa e caotica dell’immediato dopoguerra, meritino riconversione è innegabile. Si aprirà in ogni modo il problema degli abitanti, spesso soggetti sociali disagiati, anziani, stranieri. Una questione che vedrà necessariamente coinvolte le periferie ai margini dell’urbanizzato, nel fatidico 3% di suolo consumabile che la proposta di legge prevede (ma in realtà credo prevalentemente in forma di edilizia convenzionata “di pubblica utilità” e dunque esclusa da questo computo), in cui dovranno sorgere nuovi edifici costruiti all’uopo con contributo esentivo e premiale pubblico, per ospitare le popolazioni espulse dalle zone gentrificate, diventate troppo onerose.
La dinamica è lineare: riconverto zone centrali demolendo e ricostruendo, in più costruisco in periferia su terreni vergini sotto l’ombrello dell’interesse pubblico, accorcio in questo modo il ciclo di vita dei manufatti e introduco l’idea della loro precarietà così mi garantisco un mercato imperituro. Un dispositivo perfetto. Attenzione alle ruspe!
Con il progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale in via di approvazione, l’urbanistica e la tutela del territorio in Emilia-Romagna giungono nude alla meta. Nude in due sensi: da una parte, senza veri strumenti di guida pubblica delle trasformazioni territoriali e con le mani legate da forti articoli prescrittivi tutti orientati all’interesse del privato e, d’altra parte, senza risorse per effetto di un taglio drastico delle entrate da fiscalità immobiliare tali da determinare, verisimilmente e rapidamente. una crisi della finanza locale, dei comuni in particolare.
La mia critica si basa su tre valutazioni:
Se gli incentivi sono poi assegnati sotto la forma di premi volumetrici, come banalmente gli operatori si ostinano a chiedere e le amministrazioni persistono nel garantire, l’inefficacia della strategia e dello strumento incentivante è ancora più chiara se, come ho detto, la crisi è una crisi di domanda.
Per quanto concerne i processi di trasformazione e rigenerazione del tessuto urbano concedo che esso implica costi superiori rispetto all’investimento greenfield. Ma a questa obiezione è necessario rispondere che anche i prezzi di vendita dei manufatti e la profittabilità dei processi è pure più alta! E se in passato tali processi non hanno dato i risultati sperati, ciò è dovuto al fatto che essi subivano l’effetto della migliore profittabilità di costruire all’esterno del tessuto urbano compatto, una alternativa che la legge cerca oggi giustamente di contrastare.
Il secondo errore dipende ancora da una imprecisa valutazione della debolezza dei progetti di rigenerazione nel recente passato: è stata soprattutto la farraginosità della legislazione urbanistica e la sovrapposizione di condizionamenti e controlli a tenere lontani gli imprenditori. E dunque nella legge attuale sarebbe bastata una vera semplificazione procedurale a supporto, ben pensata, ben condivisa con le amministrazioni locali e ben comunicata. Una semplificazione che non dovrebbe essere interpretata come indebolimento della guida pubblica delle trasformazioni né come abolizione di ogni indicazione precisa e quantitativa del piano, come si fa nella legge: la buona imprenditorialità chiede regole chiare, limiti e potenzialità altrettanto chiari e, soprattutto, la garanzia che le negoziazioni avvengano in modo trasparente, sulla base di criteri misurabili e uguali per tutti.
La lunga lista di sconti e di azzeramenti sulla fiscalità immobiliare che discende dalla lettera della legge costituisce un elemento di fortissima preoccupazione per il futuro a brevissimo termine della finanza locale, come chiunque può ben capire. È possibile controbattere che nei processi di trasformazione molti elementi di infrastrutturazione sono già presenti. Ma questo elemento è innanzitutto solo parziale, soprattutto nelle grandi trasformazioni; inoltre non si considera che attraverso gli oneri di urbanizzazione le municipalità devono coprire non solo i costi di investimento ma i notevoli costi di gestione e soprattutto di manutenzione della città, che permangono tutti interi. Infine esistono opere, reti, infrastrutture a carattere moderno - pensiamo alle reti in fibra ottica - che devono essere approntate e nuovi servizi, in particolare di solidarietà, che emergono dalla congiuntura politica attuale che devono essere forniti e che richiedono adeguate risorse pubbliche locali.
Nella legge tutte queste preoccupazioni non trovano alcun ascolto: e giudico tutto questo assolutamente irresponsabile. Tanto più che un’ulteriore fonte di risorse per le municipalità appare a rischio: poiché il piano rinuncia a conformare i diritti di proprietà, appare a rischio, secondo molti sindaci, la possibilità per i comuni di continuare a imporre l’IMU sui terreni edificabili in quanto il loro diritto di edificazione diviene “sfumato”. Ma c’è di peggio: alle legittime preoccupazioni dei sindaci, che rischiano di diventare esplosive, la legge risponde con un emendamento dell’ultima ora: vendere i gioielli di famiglia a prezzi di saldo! L’art 15 comma 2a suggerisce infatti di iscrivere in un apposito albo gli immobili facenti parte del patrimonio disponibile comunale “resi disponibili per interventi di riuso e di rigenerazione urbana”, con indicazione – udite udite! – “del relativo prezzo base di cessione, calmierato rispetto a quello di mercato”. Si consente dunque di svendere il patrimonio comunale per far fronte al deficit della gestione urbanistica, creato a forza di inutili sconti sulla fiscalità urbanistica ordinaria.
E qui mi ricollego al mio terzo punto: la contraddittorietà fra obiettivi e strumenti. All’articolo 34 si dispone che il PUG formuli una strategia per la qualità urbana (un decalogo? un documento?), che fissi obiettivi (naturalmente “generali”) e definisca l’assetto spaziale degli interventi (naturalmente “di massima”), cui affidare una lunga serie di desideri: “crescita e qualificazione dei servizi e delle reti tecnologiche, incremento quantitativo e qualitativo degli spazi pubblici, valorizzazione del patrimonio identitario culturale e paesaggistico, miglioramento delle componenti ambientali, sviluppo della mobilità sostenibile, incremento della resilienza del sistema abitativo,…”. questi desideri, sembra banale ricordarlo, hanno un costo anche molto elevato. Come si intende raggiungerli?
Lo strumento esiste, indicato all’articolo 1: la valorizzazione della capacità negoziale dei comuni! Ma in tutti i paesi dove la negoziazione col privato è altrettanto ritenuta fondamentale, l’amministrazione locale vi partecipa spalleggiata da una struttura legislativa chiara e forte in cui emergono non solo i desideri ma anche gli obblighi per il privato, sia in termini di qualità delle realizzazioni attese che di pagamento di oneri. Ma qui la legge sembra scritta solo a vantaggio della controparte privata e toglie strumenti al negoziatore pubblico. Su che cosa dovrebbe e potrebbe negoziare costui, allorché gli oneri sono già portati vicino a zero e a ogni possibile richiesta di qualità si accompagnano ulteriori premi edificatori di legge? Forse solo sull’obiettivo di evitare che gli oneri divengano negativi in forma di contributi netti a favore del privato?
Una ulteriore quasi certezza si accompagna alla previsione di una crisi dei bilanci comunali: un futuro di crescente town cramming, ossia di forte e insostenibile densificazione del tessuto già edificato, senza alcun parallelo incremento della qualità e della quantità degli spazi pubblici e dei servizi [2]. Se l’obiettivo della legge di rilanciare processi di rigenerazione così come da essa definiti e gestiti dovesse avere successo, questa sarebbe la conseguenza inevitabile, accompagnata da un prevedibile eccesso di offerta e quindi da una caduta dei valori fondiari e immobiliari complessivi. Se poi avvenisse il fatto, anch’esso assai probabile, di una corsa a realizzare diritti edificatori pregressi sulle aree esterne al tessuto consolidato nei primi cinque anni e magari, successivamente, ad anticipare le stesse costruzioni nel tempo all’interno dell’aumento consentito nel lungo termine [3] l’eccesso di offerta complessiva diverrebbe sicuro. E’ questo il tipo di futuro che vuole chi guida la Regione?
Ma c’è un ultimo argomento che vorrei toccare, assai complesso, su cui ho dei dubbi che mi piacerebbe fossero fugati in punta di diritto. Si tratta della questione aperta dalle nuove disposizioni nazionali concernenti il contributo straordinario (art. 16 comma 4 lettera d-ter del Testo Unico sull’edilizia), e cioè una nuova componente degli oneri di urbanizzazione che colpisce almeno al 50% i plusvalori creati da varianti urbanistiche, variazioni di destinazione d’uso e permessi di costruire in deroga. Questo contributo, che finalmente in Italia potrebbe colpire davvero la rendita di trasformazione, fa capolino ogni qualvolta si presentano accordi fra pubblico e privato su trasformazioni del territorio, e dunque anche nel caso della nuova legge dove i cosiddetti accordi operativi hanno una forte centralità.
La legge, data la sua natura di fondo che ho già tratteggiato, appare molto preoccupata dell’evenienza che il contributo straordinario possa vanificare la sua filosofia e risponde in due modi, entrambi a mio avviso errati e controproducenti. Il primo è la diretta esclusione dell’applicabilità del contributo straordinario all’interno del territorio urbanizzato, e cioè all’interno di tutti processi di riuso e rigenerazione urbana, “relativamente alle previsioni del PUG che prevedano la variazione dei parametri urbanistici stabiliti dagli strumenti di pianificazione previgenti o il mutamento delle destinazioni d’uso precedentemente ammesse”. Tale esclusione per una parte rilevantissima del territorio e delle trasformazioni territoriali è a mio avviso incostituzionale essendo il nuovo istituto dettato da una legge nazionale di principi, universalmente valida.
La seconda risposta della legge è ancora più drastica: essa abbandona un principio che universalmente caratterizza i documenti istituzionali di uso del suolo e cioè il loro potere di conformare i diritti di proprietà assegnando indirettamente valore a ogni appezzamento o unità territoriale: “il PUG non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato” (art. 33 comma 5). Se il PUG non conforma la proprietà non indicando una esplicita edificabilità è impossibile realizzarne una variante attraverso i risultati di una negoziazione. Quest’ultima realizza la volontà del piano (e conforma effettivamente la proprietà), ma non c’è una differenza di valore, non c’è plusvalore, quindi non c’è luogo a tassazione. A parte la volontà chiara di vanificare totalmente lo spirito della nuova legge nazionale, questa soluzione proposta è destinata a generare uno scompiglio nel mercato immobiliare, poiché i terreni trasformabili non potrebbero avere più un valore oggettivo fino alla firma dell’accordo. Ne vale la pena? Inoltre questa ‘innovazione’ crea problemi alla stessa logica della legge: quando si assegnano quasi a ogni passo “volumetrie aggiuntive” (ad esempio all’art. 13 o 15), che cosa si intende? Aggiuntive a che cosa? Se non alle indicazioni pubbliche, che non ci sono, saranno aggiuntive alle richieste del privato che ha già prevedibilmente computato tutte le premialità assegnate?
E infine: è possibile in un’economia moderna rinunciare a una funzione così delicata ed essenziale rivestita dai piani regolatori in un mercato fra i più rilevanti? Non verrebbe a somigliare il mercato immobiliare a un mercato di automobili in cui il produttore fosse autorizzato a non dirci di quale cilindrata sia fornito il motore delle automobili che offre?
Queste che mi sembrano contorsioni giuridiche hanno comunque fin da subito un costo. Non adottando il contributo straordinario - eventualmente indicando possibili sue variazioni di intensità in casi particolari - si rinuncia a una grande potenzialità intrinseca allo strumento stesso: quello di rappresentare una soluzione win-win in cui tutti i contendenti, e in questo caso sia il pubblico che il privato, guadagnano: il pubblico perché ottiene risorse per migliorare la qualità urbana attraverso i processi di trasformazione; il privato perché ha la garanzia che queste risorse vengano rimesse nel circuito della domanda pubblica (per esplicita indicazione della legge) rafforzando proprio quell’elemento che appare oggi molto debole e cioè la domanda complessiva di opere edilizie.
Note
[1] Art. 12 comma 3. Il settore edilizio-immobiliare in Italia opera tradizionalmente con una quota irrisoria di capitale proprio e nell’ultima crisi è riuscito a scaricare sul settore bancario tutto il rischio dei suoi investimenti, con effetti devastanti. Ora gli si concede di scaricare una parte dei suoi rischi sul settore pubblico: sarebbe interessante conoscere il parere in merito della Corte dei Conti e anche quello dell’Unione Europea in tema di aiuti di Stato.
[2] È da ricordare poi che “abbuffate” di edificazione concentrata, magari con torri alla milanese (i limiti di densità e di altezza degli edifici sono aboliti dall’art. 9.1.c) possono risultare fortemente idiosincratiche e offensive in un contesto storico (ma anche moderno) che ha la sua forza nell’ omogeneità morfologica, e determinare una riduzione di qualità complessiva del townscape.
[3] Al recente convegno su “Privatizzare l’urbanistica?” a Bologna i difensori della legge hanno avuto buon gioco nel mostrare la ridottissima capacità edificatoria ammissibile al di fuori dell’urbanizzato denso (3% dello stock); ma non hanno citato la dimensione abnorme dei diritti pregressi in circolazione, utilizzabili nei primi 3-5 anni, e, soprattutto, il fatto che la riduzione dei consumi di suolo non deve necessariamente seguire il percorso lineare nel tempo che è stato mostrato al convegno: potrebbe facilmente accadere che nei primi anni si concentri tutta la costruzione consentita nel diffuso, procedendo come nel passato, e si lasci ai futuri amministratori il divieto totale di costruzione (o l’impiccio di richiedere alla Regione un ulteriore 3%!).
Qui articoli contro il progetto di legge urbanistica regionale dell' Emilia-Romagna, di Bonora, Gibelli, Camagni, Cavalcoli e Righi presentati al Convegno "privatizzare l'urbanistica" o scritti per eddyburg. Diciamo no sino all'ultimo minuto!
Una legge sottomessa agli interessi immobiliari, fatale per la finanza pubblica locale di Roberto Camagni
Il progetto di legge della Regione Emilia-Romagna persegue l’obiettivo della rigenerazione urbana attraverso inutili sconti fiscali agli operatori privati e pericolose premialità sui volumi, che rischiano di approfondire la crisi finanziaria dei comuni e densificare senza qualità.
Diciamo no alla privatizzazione dell’urbanistica in Emilia Romagna fino all’ultimo minuto utile! di M.C.Gibelli
Un resoconto del convegno "Privatizzare l’urbanistica", promosso dai gruppi assembleari L’Altra Emilia-Romagna, Misto (Art Uno-MDP) e Sinistra Italiana per discutere dell’inaccettabile progetto di legge urbanistica regionale, Bologna, 15 novembre 2017.
La linea del Piave di Piero Cavalcoli
Una riflessione del responsabile territorio di Italia Nostra Regionale sui disastri che produrrebbero le disposizioni di “semplificazione” formulate nel progetto di legge urbanistica regionale, Relazione presentata al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017.
Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, a cura di Ilaria Agostini, prefazione di Tomaso Montanari
Un istant-book scritto nella primavera 2017 per criticare la minaccia neoliberista della regione ex capofila del buongoverno urbanistico. Con scritti di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano.
Un resoconto del convegno "Privatizzare l’urbanistica", promosso dai gruppi assembleari L’Altra Emilia-Romagna, Misto (Art Uno-MDP) e Sinistra Italiana per discutere dell’inaccettabile progetto di legge urbanistica regionale, Bologna, 15 novembre 2017.
15.11.2017 AM - Per un suolo felice, privatizzare l'urbanistica?
Articoli e link alle relazioni conferenza Privatizzare l'urbanistica finora pervenuti a eddyburg:
Ezio Righi, Una dozzina di “semplificazioni” che ci complicheranno la vita
Piero Cavalcoli, La linea del Piave
La città invisibile online, 22 novembre 2017. Prosegue la marcia della distruzione del buongoverno urbanistico nella regione che una volta era all'avanguardia. Un'ulteriore analisi critica di una legge che abbiamo già denunciato. Corruptio optimi pessima, dicevano gli antichi; con riferimenti
Il 29 novembre, presso l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna è in calendario l’approvazione della proposta di legge urbanistica regionale, ferale attacco alla pianificazione delle città e del territorio. In nome dell’interpretazione del Piano come atto autoritario, l’urbanistica viene oggi annientata. Autoritariamente, tuttavia.
Il disegno di legge, animato da spirito neocapitalistico, riprende e attualizza temi e linguaggio della cosiddetta, mai varata, legge Lupi (2005). La deregulation auspicata dagli industriali (coinvolti, del resto, nella redazione del testo normativo) si invera in ogni passo del testo di legge, accompagnato per mesi da una propaganda istituzionale a suon di slogan: stop al consumo di suolo, rigenerazione urbana etc.
Con gli “accordi operativi” il Ddl ricorre massicciamente alla contrattazione pubblico-privato, nel vuoto pianificatorio. Dietro il paravento della “rigenerazione urbana” nasconde un quadro di demolizioni, anche nei centri storici, e di dislocamento (displacement) dei residenti. A cinquant’anni dal decreto 1444/1968, la proposta legislativa annulla gli standard urbanistici che garantivano ai cittadini italiani l’accesso universale ai servizi e al verde urbano. Per un commento critico corale, approfondito e comparato, rimandiamo al libro “Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna” (Pendragon, 2017).
Ma, tecnica a parte, vogliamo qui sollevare la questione politica.
La proposta di legge si fonda su una struttura logico-interpretativa di stampo squisitamente economicista. La «città è una public company» affermano i funzionari regionali (cfr. la registrazione ufficiale del convegno tenutosi in Regione Emilia-Romagna il 15 novembre 2017[1]). E se la città è una società per azioni ad azionariato diffuso, se i cittadini sono i «proprietari della città» (ibidem), la rigenerazione urbana – abbandonato qualsivoglia carattere progressivo in senso sociale – diventa uno strumento di «convincimento» dei cittadini a «investire sul patrimonio di cui sono proprietari» (ibidem). Chapeau: la casa passa da diritto ad asset, a mero oggetto di investimento. La casa, sullo stesso piano di merci e di titoli finanziari. In questo facile sillogismo, l’urbanistica si trasforma in disciplina della negoziazione. Al macero dunque i cittadini in affitto e quelli che neanche si possono permettere regolarmente un tetto a pigione.
All’interno della logica mercantilista, si sa, qualunque forma di pianificazione contrasta con la libertà incondizionata, carattere fondante dell’economia di Mercato. E perciò la Regione che fu il faro dell’urbanistica italiana (e, per certi versi, europea) dà oggi guerra al Piano. In luogo dei «metodi predittivi» (ibidem) che «consegnano la rendita a chicchessia» (ibidem), è la “strategia” che «dà il comando». Dunque, contribuire all’annullamento delle diseguaglianze sociali e fornire un buon ambiente di vita – compiti costantemente sotto attacco da parte della speculazione fondiaria, immobiliare e finanziaria – sono ora in capo alla Strategia (art. 34), a un’arte militare.
Chi poi realmente sia destinato al comando sulle trasformazioni del territorio comunale è una questione che non trova risposta nell’articolato, se non nell’augurale espressione di un intento formulato tra i principi generali: «la presente legge valorizza le capacità negoziali dei Comuni» (art. 1). È sicuro invece che Comuni e (grandi) proprietari si produrranno in tavoli di “co-decisione” assai poco democratici – chi, come decide? in quali sedi? – e punto partecipati.
Se approvata, la legge sottrarrà ai Comuni la potestà normativa sulle trasformazioni edilizie e territoriali, contro il dettato costituzionale. Il Comune infatti, secondo il Ddl emiliano, «non può» quantificare le dimensioni volumetriche delle trasformazioni, né localizzarle (art. 33, comma 5). «Non può»: lo ripetiamo, è testo di legge. «Non può» redigere tavole, né disporre una disciplina di dettaglio: nessuno deve contrastare le presunte virtù autoregolative del Mercato.
È in questa visione normativa, basata su costi, rendita, produttività, profitability, che si inserisce lo sbarramento del 3% di suolo nuovamente consumabile (non riguardante però insediamenti produttivi e logistici che si ritengano “strategici”; art. 6, comma 5). Le previsioni edilizie dei comuni emiliani si configurano oggi come rendita passiva: 250 kmq di nuova edificazione, troppi in periodo di crisi (ma tali non erano prima del 2008…). Il 3%, che comporterà la cancellazione delle previsioni comunali inattuate, entra in vigore, si badi bene, non prima di tre/cinque anni di “interregno” che vedranno, crisi o non crisi, ulteriore cementificazione.
Nella ratio del Ddl, il Piano comunale rappresenta il retaggio di un passato da dimenticare, scomodo reperto di una «collettivizzazione forzata a mezzo di violenza di Stato» (C17). Ma i mezzi per impedire l’autogoverno della società locale, e la conseguente formazione del Piano come espressione del progetto collettivo di tutela e trasformazione della città e del territorio, hanno proprio il sapore di quella “violenza” che si vorrebbe ora obliterare. Eterogenesi dei fini o stalinismo al servizio del Capitale?
*Gruppo urbanistica perUnaltracittà[
Una critica su due temi centrali del progetto di legge urbanistica dell’Emilia Romagna: le misure per il controllo del consumo di suolo e per la rigenerazione urbana affidata alla negoziazione pubblico/privato. E alcune proposte per il “ravvedimento operoso” in sede di approvazione. Testo per la conferenza "Privatizzare l'urbanistica?".
Una riflessione del responsabile territorio di Italia Nostra Regionale sui disastri che produrrebbero le disposizioni di “semplificazione” formulate nel progetto di legge urbanistica regionale, Relazione presentata al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017.
Sarebbe pertanto indispensabile che una selezione univoca delle disposizioni che mantengono efficacia nei PTCP fosse compiuta responsabilmente dalle amministrazioni provinciali o di area vasta, prima dell’avvio del nuovo indirizzo regionale, secondo modalità aperte alla consultazione e partecipazione; e che conseguentemente la decorrenza del termine per l’avvio dell’adeguamento della pianificazione urbanistica comunale fosse subordinato alla conclusione di questo adempimento da parte della Provincia. Sarebbe inoltre necessario che gli adeguamenti da parte della Regione e dei soggetti di area vasta prescritti dal comma 1 del medesimo articolo 74 non fossero limitati agli strumenti di pianificazione territoriale, ma riguardassero totalità dei dispositivi di legge o regolamentari che fanno riferimento al sistema di pianificazione disposto dalla legge regionale 20/2000.
Le questioni della necessità di disciplina “diretta” delle trasformazioni diffuse nei territori urbanizzato e rurale sono in verità percepite dal progetto di legge, che abbozza una risposta che disciplinerebbe il territorio urbanizzato mediante uno schema di assetto del territorio urbanizzato (articolo 33, comma 2) e una disciplina urbanistica di dettaglio (comma 4). Questa disciplina di dettaglio è però irrigidita in modo intollerabile dall’assoggettamento di qualsiasi modifica, anche di minima entità, al medesimo procedimento che disciplina la formazione del PUG, del PTAV, del PTR... (ma non quella degli accordi operativi).
Se non che, op là, il Comma 3 del medesimo art.33, dopo aver ricordato gli obiettivi generali, le dotazioni territoriali, la gamma degli usi e delle trasformazioni ammissibili, chiarisce che “in particolare” (il che ha tutta l’aria di significare “in sostanza”) il PUG “definisce, per ciascuna parte del territorio urbanizzato: a) gli interventi di addensamento e sostituzione urbana subordinati alla stipula di accordi operativi….b) gli interventi sul territorio urbano consolidato (perché “consolidato”? significa che gli interventi di “addensamento e sostituzione” sarebbero tipici di un tessuto urbano non consolidato? La prescrizione di suddivisione per parti “omogenee” del territorio urbanizzato sottintende quindi la suddivisione in parti consolidate e non consolidate? ndr) che possono essere attuati direttamente con la presentazione di un titolo abilitativo edilizio”, vale a dire, come chiarisce il successivo comma 4, le trasformazioni “attuabili per intervento diretto”.
Macchè, il comma successivo, come in un gioco da play station, smentisce quanto appena detto e chiarisce che “Gli elaborati di cui al comma 5 non contengono in nessun caso una rappresentazione cartografica delle aree idonee ai nuovi insediamenti bensì indicano, attraverso apposita rappresentazione ideogrammatica…. le parti del territorio extraurbano, contermini al territorio urbanizzato, che non presentano fattori preclusivi o fortemente limitanti alle trasformazioni urbane”. Al mercato la scelta.
Continuano i dibattiti sulla devastante proposta di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna. Il prossimo a Bologna: intervengono tra gli altri anche M.C.Gibelli, R.Camagni, P.Bonora e E.Righi. Con riferimenti. (i.b)
Programma Dettagliato dell'evento
Per un suolo felice
PRIVATIZZARE L’URBANISTICA?
Commento alla proposta di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna
Mercoledì 15, 2017
dalle ore 9.00 alle 18.00
Aula Magna della Regione Emilia-Romagna, viale Aldo Moro, 30 Bologna
Ore 9.00 Sui quattro obiettivi del progetto di legge
Presiedono e introducono: PIERLUIGI CERVELLATI e SERGIO CASERTA
Intervengono: PIERO CAVALCOLI Limitazione al consumo di suolo e pianificazione territoriale
RODOLFO LEWANSKI Partecipazione e democrazia
FILIPPO BOSCHI
ROBERTO CAMAGNI Perché favorire la rendita immobiliare?
PAOLA BONORA Rigenerazione urbana e riconfigurazione della rendita
EZIO RIGHI Potere alla rendita, esautorati i comuni (e semplificare non è semplice)
ROBERTO GABRIELLI
YURI TORRI
IGOR TARUFFI
Ore 13.00 pausa pranzo
Ore 14.30 Urbanistica e politiche regionali
Presiede e introduce SERGIO CASERTA
Intervengono SILVIA PRODI Urbanistica e democrazia
MARIA CRISTINA GIBELLI Perché copiare (e peggiorare) il modello lombardo?
ANGELA BARBANENTE Rigenerazione urbana per chi?
ANNA MARSON Il territorio bene comune? Il ruolo delle politiche regionali
GIOVANNI LOSAVIO
MARINA FOSCHI il paesaggio e il Codice – La Regione e le Sovraintendenze
Conclude PIERGIOVANNI ALLEVA.
Riferimenti
Qui un articolo introduttivo di eddyburg sulla scellerata legge di eddyburg "Diciamo No al progetto al progetto di legge urbanistica della regione Emilia Romagna!" Qui una recensione al libro "Consumo di luogo" - a cura di Ilaria Agostini e testi di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Montanari, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano che critica questa legge urbanistica. Vi segnaliamo anche, sempre su eddyburg gli articoli di Enzo Righi, di Ilaria Agostini di Giovanni Losavio e di Paola Bonora, scritti per i nostri frequentatori.
Ecco come la Regione Campania rinvia ad un futuro - che via via retrocede - la determinazione organica di regole per l’uso pianificato del territorio, e consente intanto forme dissennate di densificazione edilizia e di abusivismo
A giudicare dalla produzione legislativa della Regione Campania, le finalità effettive cui deve rispondere il “governo” del territorio secondo le visioni della maggioranza che la amministra appaiono molto preoccupanti. Lo documentano bene – io credo – un provvedimento compiuto (ora impugnato dal ministro Delrio) ed uno in itinere.
Il primo è costituito dalla legge regionale 19/2017.
Fra parentesi, vale la pena di evidenziare, con la sensibilità scaramantica che affligge noi partenopei, che il numero 19 non porta bene al territorio e all’ambiente in Campania. Nel 2001 la legge regionale 19 è stata quella con cui si è dato il via alla costruzione di parcheggi sotterranei, piccoli, grandi e grandissimi – tantill’ tant’, cchiù tant’ e tanton’, per dirla con il napoletano antico de ‘o guarracin’ – al posto degli agrumeti e dei giardini della penisola sorrentina. Nel 2009 la legge regionale 19 è stata quella con cui si è “disciplinato” in Campania il famigerato piano casa berlusconiano, poi più volte rimaneggiata e prorogata, sempre peggiorandola.
Ora, nel 2017, con la nuova legge 19 la maggioranza che sostiene la giunta De Luca ha annunciato «linee guida regionali per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi ai sensi dell’articolo 31, comma 5, del DPR 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico […] in materia edilizia)».
In concreto, la sullodata maggioranza impegna l’esecutivo regionale a fornire ai consigli comunali, ormai entro pochi giorni (devono essere 90 a partire dal 22 giugno 2017), suggerimenti utili a:
- individuare i «prevalenti interessi pubblici» che possano giustificare la mancata demolizione di edifici abusivi;
- affittare o vendere, «anche con preferenza per gli occupanti per necessità», gli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale e non demoliti;
- determinare quindi canoni o prezzi differenziati per le superfici adeguate al nucleo familiare e per quelle eventualmente eccedenti;
- definire e verificare l’originale requisito di “occupante per necessità”;
- determinare i parametri relativi all’adeguatezza della superficie abitativa rispetto alla composizione familiare;
- comunicare le deliberazioni consiliari in materia ai magistrati che – arrassosia ! – abbiano ordinato, per gli stessi immobili, la demolizione ai sensi dell’art. 31 comma 9 del DPR 380/2001.
Con la medesima legge 19/2017, poi, non solo è stata concessa un’ulteriore proroga, rispettivamente fino al 31 dicembre 2018 ed al 31 dicembre 2019, per l’adozione e per l’approvazione dei Piani Urbanistici Comunali (PUC) nelle province dotate di un piano territoriale approvato (tutte, meno quella di Napoli, dove pertanto non vige praticamente scadenza alcuna), ma viene anche consentito nei comuni sprovvisti di piano di ampliare, nel frattempo, gli edifici artigianali o industriali fino ad un rapporto di copertura pari al 60 % del lotto.
In parole povere, la Regione Campania rinvia ad un futuro che via via retrocede la determinazione organica di regole per l’uso pianificato del territorio, consente intanto forme dissennate di densificazione edilizia con l’alibi delle destinazioni produttive e, comunque, resiste all’idea di demolire gli edifici abusivi, dei quali auspica invece la vendita ai medesimi abusivisti, con evidenti ammiccamenti – fora le zeze e fora lo scorno, disse la vavosa malezziosa – a tutti coloro che di diventare abusivisti stanno meditando.
E nei territori sui quali le regole sono già state compiutamente determinate ? Per esempio, nell’area sorrentino-amalfitana, che è dotata di un piano urbanistico-territoriale (in sigla PUT) con specifica considerazione dei valori paesaggistico-ambientali approvato, ai sensi della 431/1985, con la legge regionale 35/1987 ? Nella seduta del 20 luglio 2017 la commissione consiliare regionale competente ha licenziato per l’aula, con qualche prudente emendamento, la proposta di legge del consigliere regionale Alfonso Longobardi, del Gruppo “De Luca Presidente”.
La proposta licenziata prevede numerose modifiche della l.r. 35/1987, che costituisce il testo normativo del PUT. Modifiche tendenti tutte a consentire interventi edilizi non ammessi oggi, specie nelle more della formazione dei PUC conformi al PUT (in particolare per quanto concerne ristrutturazioni ed ampliamenti edilizi anche in ambiti fortemente tutelati), oppure a ridurre la portata delle disposizioni volte a salvaguardare il paesaggio o a soddisfare esigenze collettive.
Le possibili modifiche più gravi sono diverse. Ci limitiamo perciò a citarne alcune esemplificando.
Si propone innanzitutto di introdurre nell’art. 3 la specificazione che il PUT «ha efficacia sull’attività di trasformazione edilizia ed urbanistica soltanto attraverso i piani urbanistici comunali e/o intercomunali», in frontale conflitto con la natura del PUT, che ha valore ed efficacia di piano paesaggistico, ed è dunque immediatamente, direttamente ed universalmente cogente.
Si vorrebbe poi introdurre l’obbligo, per il dimensionamento dei piani comunali, di calcolare il fabbisogno abitativo computandovi la «somma dei fabbisogni di ciascuna abitazione sovraffollata»; l'interpretazione letterale del testo integrativo porterebbe a considerare sovraffollata ogni abitazione in cui risieda una famiglia con un numero di componenti superiore a quello delle stanze, quindi anche un'abitazione di 3 stanze in cui viva una famiglia di 4 persone o una di 4 stanze con 5 residenti o una di 5 stanze con 6 residenti, e via dicendo. Di conseguenza, il vano che risulterebbe necessario in ognuno di questi casi confluirebbe nel monte vani di fabbisogno da tradurre in nuove abitazioni programmate, ma l'abitante in più nell'abitazione sovraffollata non ne riceverebbe alcun beneficio, continuando a dover vivere in quella che usa: in altri termini, il disagio di alcuni si tradurrebbe nel vantaggio parassitario di altri. E non è un caso, infatti, che si preveda anche di cancellare radicalmente la norma che oggi obbliga a riservare i nuovi alloggi necessari in rapporto al disagio abitativo alle sole famiglie residenti in abitazioni malsane o sovraffollate. Tali proposte appaiono in definitiva capaci di produrre soltanto un sovradimensionamento speculativo dei piani comunali.
Si intende inoltre cancellare integralmente l’art. 11 che prevede specifici standard urbanistici per i comuni dell’area, incrementati rispetto agli altri della Campania per ciò che riguarda il verde pubblico, in considerazione della loro vocazione turistica.
Si propongono ancora forti modifiche alla disciplina degli interventi stradali, consentendo dovunque, anche per la viabilità minore o poderale, di realizzare sezioni stradali praticamente doppie rispetto a quelle minimali oggi ammesse in rapporto alla variegatissima e fragile morfologia del territorio ed ai suoi valori paesaggistici.
Si ammettono infine ampliamenti volumetrici, nuove pertinenze e nuove piscine per tutte le strutture ricettive esistenti, a prescindere dalla loro ubicazione, che spesso insiste invece in tessuti edificati storici o in ambiti extraurbani delicatissimi e più che vulnerabili.
Il senso dell’iniziativa legislativa è chiarissimo: non potendo abrogare il PUT, se ne persegue l’erosione, con esiti certamente più lenti, ma non meno distruttivi.
Perché in Campania governare il territorio deve ormai significare, nella visione programmatica dell’attuale maggioranza, ridurre “lacci e lacciuoli” e promuovere senza eccezioni la logica dello slogan “padroni in casa propria”. Proprio com’era per la maggioranza che sosteneva la giunta Caldoro nella precedente consiliatura.
Repliche di Paola Bonora su Articolo 9 blog - la Repubblica e di Piergiovanni Alleva alle dichiarazioni dell'assessore Donini a seguito dell'articolo di Tomaso Montanari sul disegno di legge urbanistica dell'Emilia-Romagna. 14 agosto 2017 (p.d.)
L'8 agosto ho pubblicato su Repubblica un articolo dedicato alla pessima legge urbanistica che sta per essere approvata dal Consiglio Regionale dell'Emilia Romagna. Il giorno dopo ha replicato, con molto spazio e nessun argomento, l'assessore Donini. Io non ho avuto occasione di replicare. Lo fa ora, con la lettera che pubblico di seguito, una delle massime esperte di consumo di territorio, la bolognese Paola Bonora. (t.m.)
Caro Tomaso,
avevo letto con grande piacere il tuo articolo su Repubblica dell’8 agosto sulla legge urbanistica dell’Emilia-Romagna. Speravo nell’apertura di una discussione nazionale visto con quanto impegno il giornale affronta il tema dell’abusivismo e del destino del territorio martoriato da troppe costruzioni. Ma la risposta dell’assessore di due giorni dopo sembra aver messo un macigno su qualsiasi confronto, a conferma che l’Emilia appartiene a un universo parallelo inscalfibile, non è chiaro se per l’antica reputazione o se per disegni neogovernativi che solo qui possono mostrare consenso.
Una legge che consentirà una liberalizzazione insensata grazie a deroghe prive di margini, controproducente sotto il profilo economico in una situazione che ancora risente del surplus produttivo, irrazionale in termini urbanistici nel rifiuto di piani istituzionalmente definiti, antidemocratica sul versante delle potestà municipali schiacciate dalle opzioni di investimento private. Figlia dell’insana passione neoliberista del centro-sinistra per il cemento e l’asfalto. Al cui riguardo l’assessore rivendica la primazia emiliana: sempre i primi della classe questi ligi emiliani, peccato l’affermazione soffra anche di un grave difetto di informazione. Persino Confindustria, nell’audizione consultiva, ha protestato per gli eccessi di indeterminatezza e vacuità del ruolo istituzionale: non se la sentono, i costruttori, di assumersi la responsabilità di sostituirsi alle istituzioni. Che ognuno si assuma le proprie. Paradossale. E desolante.
Ma da noi l’ipocrisia legalista è prassi consolidata, non si abusa, si deroga. Molto più semplice, si inventano le scappatoie e si legittima a priori. Tutto regolare. Condoni preventivi. Avrei casi scandalosi da raccontare di insediamenti, regolarmente licenziati attraverso fantasiose normette ad hoc, privi di opere di urbanizzazione tra cui addirittura le fogne. Dov’e la differenza con il Sud? Quando anche le entrate fiscali diventano sempre più misere - come la legge in discussione ora prescrive.
Questo chiasso tardivo sull’abusivismo (fenomeno notissimo e denunciato da tempo) rischia di diventare un altro modo per distrarre l’attenzione da problemi e contraddizioni ancor più gravi. Nel silenzio assordante che in nome della crescita consente scempi “legali”. Sarebbe il momento di aprire una discussione seria sui principi di legalità e di interesse pubblico, in urbanistica continuamente strapazzati e distorti. Ma siamo vittime della retorica di quest’epoca barbara che ha perso intelligenza e cerca di abbagliarci con giochi di parole cui non corrispondono realtà.
Paola Bonora
La nuova legge urbanistica della regione Emilia-Romagna, una volta all'avanguardia del buongoverno del territorio, legittima l'abusivismo della speculazione immobiliare. la Repubblica, 8 agosto 2017
É il caso di ricordare che la CILA non è un titolo abilitativo di interventi edilizi: è una modalità prescritta per alcuni casi di attività edilizia libera che apportano modificazioni allo stato di fatto che vanno registrate a futura memoria: recinzioni, demolizioni, modifiche interne, modifiche dell’uso... Restauro scientifico e restauro e risanamento conservativo vengono quindi accomunati per importanza all’allargamento di un bagno o alla conversione di un laboratorio in magazzino.
Perché farne scandalo? Fino ad ora il restauro è rimasto (disgraziatamente) assoggettato a SCIA, e anche con questa è il progettista ad attestare conformità e bontà del suo progetto. Per gli interventi su costruzioni classificate di valore storico-architettonico, culturale e testimoniale dai piani urbanistici, si tratti di CILA o di SCIA, è comunque obbligatorio il parere della Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio, e in entrambi i casi i lavori possono avere immediato inizio. In fin dei conti non sembra esserci una gran differenza. E invece la differenza c’è, eccome: riguarda le sanzioni in caso di violazioni, che il dis-ordinamento nazionale e regionale del controllo edilizio differenzia secondo le opere eseguite siano soggette a permesso di costruire o a SCIA. In un intrico di disposizioni confuse e contraddittorie le violazioni di carattere qualitativo, quali rilevano per gli immobili con vincolo urbanistico a restauro, ricadono fra gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA, e come tali sanzionate, anche se con troppa clemenza.
«L’architetto Piero Cavalcoli, sentito oggi in commissione Seta, esprime le critiche di Articolo 1 alla legge voluta da Bonaccini». LaPressa, 6 luglio 2017 (m.c.g.)
Si è tenuta oggi l'audizione degli esperti in commissione consiliare Seta del Comune di Modena sulla legge urbanistica in fase di discussione in Regione. Per Articolo UNO-MDP è intervenuto l’architetto Piero Paolo Cavalcoli. Secondo i bersaniani la nuova Legge regionale va cambiata radicalmente a partire dal ripristino della pianificazione e della potestà reale dei Consigli comunali su questa materia.
«Come Articolo UNO-MDP Modena, assieme ai consiglieri presenti nei comuni della Regione, siamo convinti che la nuova Legge urbanistica inciderà e influenzerà parecchio il futuro dello sviluppo del territorio dei comuni emiliano romagnoli e per questo chiediamo con forza che i Consigli comunali possano ricoprire un ruolo determinante nella stesura definitiva e nel potere decisionale sugli Accordi Operativi che giungeranno in discussione nei Consigli comunali. Fra i punti richiesti ci sono: il ripristino di un vero ruolo centrale dei Consigli comunali sulla pianificazione urbanistica e non uno svilimento con inserimento della negoziazione diretta con i privati tramite Accordi Operativi; l’acquisizione preventiva, da parte della Regione, dei pareri di tutti i Consigli comunali della Regione; la riduzione delle troppe deroghe che di fatto concedono altro consumo di suolo ; una rigenerazione urbana meno occasionale e più mirata; limitare gli espropri solo nei casi di aree con progetti di destinazione pubblica; ruolo attivo dei cittadini e dei Consigli comunali sulla pianificazione del territorio, inteso come prezioso bene comune» -ha detto Vincenzo Walter Stella a nome del gruppo.
«Se si è d’accordo sull’individuazione dei problemi, non lo si è affatto sulle proposte di soluzione. Il disegno di legge non mantiene l’equilibrio tra i quattro temi che disciplina: i provvedimenti predisposti per la semplificazione rendono inoperanti quelli della difesa dell’ambiente, mentre quelli dello sviluppo economico e della riqualificazione urbana tendono a comprimere quelli necessari per garantire la legalità e il controllo. In questo senso ci sentiamo di affermare che l’impianto riflette in gran parte il punto di vista dei costruttori» - ha affermato l’architetto Piero Paolo Cavalcoli.
«Il “telaio” a cui riferire gli emendamenti che si vogliono proporre, costruito sui quattro punti citati, rappresenta una soglia “di minima” al di sotto della quale ogni modifica risulterebbe poco significativa ed in definitiva finirebbe col confermare un punto di vista che non può più appartenere alla disciplina e al suo carattere di pubblico interesse». Secondo Cavalcoli, quello proposto è dunque un insieme di modifiche che ha senso se viene discusso ed accettato nel suo insieme:
1. Sul tema dell’ambiente e del consumo del suolo è necessario portare a coerenza la proposta formulata dal progetto di legge innanzitutto cancellando le numerose limitazioni disposte (deroghe riguardanti interventi da sottrarre al calcolo), contrastando la vaghezza degli strumenti di verifica e di controllo ad essa collegati, ed infine, proponendo meccanismi di distribuzione delle quote concesse, sia sotto il profilo delle loro relazioni con le differenti caratteristiche dei luoghi (da disciplinare attraverso un consolidamento della pianificazione territoriale di area vasta) sia sotto il profilo dei tempi della loro attuazione (da programmare in funzione dell’obiettivo 2050), i soli strumenti che possono garantire un’ordinata e documentata applicazione dei dispositivi di limitazione del consumo di suolo. Ulteriori misure vanno poi proposte a rafforzamento delle procedure di verifica della sostenibilità degli interventi di trasformazione territoriale (VALSAT), in particolare riferimento all’esigenza, indispensabile per l’esercizio di questi strumenti di valutazione, di definire quantità e qualità delle previsioni
2. Sul tema della semplificazione e del contenuto dei piani comunali sembra necessario tornare a condizionare l’attività di negoziazione pubblico/privato alla definizione, pubblica e preventiva, del progetto di città che si vuole perseguire, da ottenere mediante definizione inequivoca delle quantità e delle destinazioni d’uso previste sia all’interno che all’esterno del TU. In questo quadro è necessario ripristinare le regole del dovuto rispetto dei centri storici e dei beni da tutelare nell’ambito del costruito e nel contempo eliminare ogni possibile contraddizione con i principi della legge nazionale, sia per quanto riguarda le necessarie dotazioni di spazi pubblici sia per quanto riguarda i parametri minimi di definizione dell’”ingombro” delle previsioni
3. Sul tema della legalità e delle procedure di approvazione e di controllo è necessario affiancare alle misure di adeguamento dei dispositivi di legge ai recenti indirizzi dell’ANAC un robusto rafforzamento del ruolo dei processi partecipativi alle decisioni di pianificazione e di attuazione, anche in attuazione della L.R 9 febbraio 2010, n.3, a partire dalle procedure di accordo previste per la maggioranza delle pratiche di attuazione dei piani, che vanno sottratte alla vaghezza delle prescrizioni dei PUG ed alla contemporanea responsabilità affidata prevalentemente agli organi tecnici comunali. Ulteriori misure vanno peraltro proposte per le procedure di controllo sugli effetti delle decisioni assunte nell’ambito degli accordi, introducendo clausole di dissolvenza in caso di mancato rispetto degli impegni o in caso di effetti negativi sotto il profilo ambientale o sociale valutati dopo l’esecuzione delle opere
4. Sul tema dello sviluppo economico e della rigenerazione urbana va decisamente contrastata la convinzione degli estensori del progetto di legge che la prospettiva di ripresa del settore edilizio sia esclusivamente fondata sugli interventi di“sostituzione e densificazione”, convinzione che esclude dagli incentivi il territorio urbano “consolidato” che è viceversa la parte più bisognosa di alleggerimento sul terreno delle pratiche burocratiche nonché bisognosa di strategie di riqualificazione dotate di qualità sia nella progettazione che nella esecuzione delle opere. Per quanto riguarda la parte “non consolidata” va viceversa riaffermata la necessità che essa sia prevalentemente dedicata al recupero delle dotazioni ambientali e di pubblico servizio della cui carenza soffre la maggioranza dei territori urbanizzati.
«L’informazione e la partecipazione dei cittadini (singoli o associati) vale finché non compromette l’opacità e la discrezionalità dei processi decisionali nei rapporti tra Regioni e amministrazioni comunali». lacittàinvisibile, 31 maggio 2017 (c.m.c.)
«Dalla precedente legge urbanistica, la legge 1 del 2005 la partecipazione non è più un esercizio di stile ma è parte attiva delle procedure già dall’avvio del procedimento. E questo ha un significato preciso: non si tratta solo di una questione culturale e di democrazia ma anche di legittimità. Se non si seguono i dettami della norma si rischia di produrre atti non validi.»
«Uno dei punti cardine della legge regionale 65 del 2014 (Norme per il governo del territorio) è quello del coinvolgimento nei processi urbanistici di tutti i soggetti interessati al governo del territorio. Al Capo V, infatti, si stabilisce che la Regione promuove e sostiene l’informazione e la partecipazione. Non si tratta di pura formalità, ma di un principio che la legge attiva in modo tale che i risultati di queste attività contribuiscano alla definizione dei contenuti degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica.»
Così l’Assessore Vincenzo Ceccarelli, intervenendo il 26 maggio al convegno «La partecipazione nel governo del territorio in Toscana: Il nuovo regolamento regionale» organizzato dalla Regione Toscana, in cui il Garante all’informazione ha presentato il nuovo Regolamento sulla partecipazione del governo del territorio. Peccato che Ceccarelli non si renda conto che le sue affermazioni suonano come l’ennesima controprova di una politica fatta solo di proclami, annunci, dichiarazioni, promesse, contraddette puntualmente dai fatti.
Nella fattispecie, né l’Assessore, né Aldo Ianniello, Dirigente del settore Pianificazione del territorio che fa capo all’Assessore medesimo, si degnano di rispondere a una precisa richiesta, più volte avanzata dalle associazioni ambientaliste: quale sia la prassi seguita dalla Regione Toscana nel valutare i risultati delle Conferenze di copianificazione quando queste non provvedano al dimensionamento delle previsioni di nuovi insediamenti nel territorio extraurbano: è la Domanda cui la Regione Toscana non risponde già pubblicata su eddyburg.
«La Regione promuove e sostiene l’informazione e la partecipazione” afferma Ceccarelli. Evidentemente la sua idea di promozione e sostegno consiste nel rispondere alle domande gradite, magari concordate con il compiacente giornalismo locale, mentre a quelle vere, che vengono dai “cittadini, singoli o associati, nonché di altri soggetti interessati pubblici o privati» (sempre dall’intervista di Ceccarelli) si oppone il silenzio. Evidentemente, l’informazione e la partecipazione dei cittadini (singoli o associati) vale finché non compromette l’opacità e la discrezionalità dei processi decisionali nei rapporti tra Regioni e amministrazioni comunali.
Stando così le cose, la pur volenterosa Garante all’informazione e comunicazione della Regione Toscana che in nove mesi non è riuscita a ottenere uno straccio di risposta dai propri “superiori politici” dovrebbe coerentemente dimettersi; o, per lo meno, risparmiare i soldi dei cittadini piuttosto che spenderli in inutili convegni.
«La posta in gioco, a partire dall’esperienza emiliano romagnola è assestare un colpo durissimo alla concezione stessa del pianificare a livello nazionale». ilmanifestobologna.it, 17 maggio 2017 (p.d.)
Un instant book per criticare la minaccia di legge neoliberista della regione ex leader del buongoverno urbanistico. A cura di Ilaria Agostini. Testi di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Montanari, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano.
È uscito Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, a cura di Ilaria Agostini, prefazione di Tomaso Montanari (Pendragon, 2017, 112 pagine, 8 euro).
Il libro collettivo nasce a seguito della presentazione del progetto di legge Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio (4223) della Regione Emilia-Romagna. Per i suoi contenuti di stampo neoliberista e per il ruolo nazionale che la regione ricopre nella pianificazione, il disegno di legge urbanistica ha suscitato un immediato allarme tra intellettuali e urbanisti critici e, nelle forze politiche di opposizione, L’Altra Emilia Romagna e Movimento 5 Stelle.
Gli autori del libro, le moderne “cassandre” di cui scrive in prefazione Tomaso Montanari, denunciano pubblicamente i rischi di una legge che favorirà un inedito consumo di luoghi – urbani e rurali – e un restringimento degli spazi di democrazia e di autodeterminazione, in nome dell’interesse privato e speculativo.
Dietro gli slogan del risparmio di suolo e della rigenerazione urbana, della semplificazione e della negoziazione, si nasconde il pericolo di un’«eclissi della pianificazione». In particolare, se il DdL si trasformerà in legge: il piano urbanistico sarà sostituito da “accordi operativi”; il consumo di suolo sarà garantito per un altro 3%, pari a centinaia di chilometri quadrati di nuova edificazione; il tessuto delle città storiche potrà essere interessato da demolizioni; la semplificazione riguarderà solo i grandi operatori generando un doppio regime normativo.
Prefazione di Tomaso Montanari. Contributi di: Ilaria Agostini, Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Sergio Caserta, Pier Luigi Cervellati, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Giovanni Losavio, Anna Marson, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano.