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VIII - LA CULTURA URBANISTICA DI FRONTE ALLA CITTÀ OPULENTA
1 Aprile 2004
Urbanistica e società opulenta, Laterza, Bari, 1969
1. Una posizione subalterna. C’è ancora una domanda cui dobbiamo rispondere, prima di provarci a individuare -come ci proponiamo di fare a conclusione della nostra indagine - alcune concrete prospettive di lavoro, che varranno appunto a chiarire e a precisare quella generale linea d’azione che abbiamo per ora appena accennato. Quali sono, nella loro sostanza, gli atteggiamenti che prevalgono nell’attuale cultura urbanistica a proposito delle questioni che abbiamo ora affrontato? Quali sono, cioè, le principali posizioni nei confronti della città opulenta?

Lo abbiamo già affermato: ci sembra che l’attuale cultura urbanistica non sia ancora pervenuta a formulare un’analisi sufficiente della città opulenta, e che, per questo motivo, essa non abbia potuto individuare chiaramente e coerentemente le radici e le cause dell’attuale situazione della città, né, di conseguenza, le prospettive e le speranze che possono schiudersi al suo futuro. E poiché l’opulenza costituisce ormai l’innegabile realtà di fatto, la cultura urbanistica - quando non si oppone disperatamente e velleitariamente a tutte le condizioni date, com’è il caso, già da noi esaminato, del neo-utopismo - finisce inevitabilmente per patire la logica dell’ordinamento dell’opulenza e per subordinarvisi: il che accade sia quando si aderisce e ci si adegua piattamente al portato dello sviluppo storico, accettandolo acriticamente in tutti i suoi aspetti, sia quando si tenta di distinguersi da esso e di criticarlo, senza però aver maturato una sufficiente consapevolezza della sua ambiguità, e quindi dell’occasione storica che essa costituisce.

L’atteggiamento di acritica adesione all’opulentismo costituisce a sua volta il comune substrato di due differenti posizioni: una subisce l’opulenza come processo in atto, ed è quindi contraddistinta da una visione della realtà ancora dinamica, irrequieta, apparentemente anticipatrice; l’altra accetta l’opulenza come l’unica realtà possibile, come il dato indiscutibile e assiomatico, in nessun modo valutabile e criticabile.

Gran parte della cultura urbanistica italiana è dominata, ci sembra, dalla prima di tali posizioni; e ciò non è davvero casuale o inspiegabile, ma è invece strettamente legato alle generali condizioni della nostra società. In Italia, infatti, l’opulenza è indubbiamente un processo in atto, il quale, nella misura in cui è anche il portatore di valori storicamente positivi (la fuoriuscita dalla miseria e dalla fame, l’affermazione proletaria, la pacificità della democrazia, la liquidazione dell’importanza sociale dei privilegi lbol1ghesi e di quelli pre-moderni), e nella misura in cui, per converso, è frenata e ritardata dalle resistenze opposte dai residui del passato, sollecita e sospinge a una partecipazione attiva al suo realizzarsi.

Naturalmente, dato che una simile posizione non è fondata su di una consapevolezza delle autonome esigenze di sviluppo della città e su di una conseguente critica dell’opulentismo, ed è anzi contraddistinta da una inconsapevole ma globale accettazione di quest’ultimo, fuori da ogni capacità di distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi, si giunge ad assumere come valori anche gli aspetti più inquietanti ed erronei dello sviluppo opulento, e si è portati a rivivere e a ribadire quell’impostazione che abbiamo definito funzionalistica. Ecco, insomma, che la città viene considerata e riguardata come una mera e subordinata funzione dell’assetto opulento del sistema.

Necessariamente, contro e malgrado ogni buona intenzione, si concepisce allora l’urbanistica come un semplice strumento per la lotta dell’opulentismo contro le remore e gli impacci che ne ostacolano lo sviluppo. E poiché, in quanto urbanisti, si può partecipare a questa lotta solo conformando la città secondo il modello di riferimento adottato (quello, appunto, dell’opulenza), si giunge, nel concreto, a ideare e a progettare degli insediamenti i cui punti di forza sono costituiti dall’esaltazione e dalla celebrazione delle più vistose conseguenze dell’opulentismo: l’ipertrofia delle attività terziarie, nelle quali viene vissuto il lavoro superfluo; il dinamismo irrequieto, che deriva dalla mancanza di ogni regola umanamente accettabile; la ,genericità dei valori e dei contenuti, in cui si esprime la gratuità e l’arbitrarietà del consumo opulento; infine, la fuga solitaria verso la natura, che costituisce la evasione estrema, e necessariamente individualistica, da una città ridotta a congestionata “conurbazione”.

2. L’astrazione sociologistica di Kevin Lynch

Una identica impostazione funzionalistica caratterizza la seconda delle posizioni cui abbiamo accennato: quella che, identificando empiricamente l’esistente con l’assoluto, accetta la condizione dell’opulenza come l’unica realtà possibile. Crediamo che questa posizione possa essere efficacemente illustrata da alcune tesi che sono alla base delle ricerche del noto studioso statunitense, Kevin Lynch.

Il Lynch si propone di analizzare la città e di individuarne gli elementi caratterizzanti attraverso la percezione che i suoi abitanti ne hanno; “dobbiamo considerare la città -egli dice non come un oggetto a sé stante, ma nei modi in cui essa viene percepita dai suoi abitanti”. L’inchiesta diretta, il test orale e grafico, le “battute di rilevamento” condotte da squadre di esperti, la costruzione infine di una “sintesi” mediante la sovrapposizione delle diverse impressioni sulla città ricavate dagli “uomini della strada” che in vario modo hanno collaborato all’impresa: questi sono gli strumenti (l’armamentario tecnico della sociologia più ammodernata) dei quali Lynch si giova per la sua analisi dell’ambiente urbano. Una simile analisi, tuttavia, non resta per il Lynch fine a se stessa. Dallo studio e dall’elaborazione del materiale in essa raccolto, dall’indagine accurata e minuziosa delle sensazioni che i mille oggetti di cui è composta la città (vie, case, insegne, quartieri, alberi, argini, fiumi, monumenti, arredi, parchi) sollecitano e suscitano negli abitanti, lo studioso americano intende desumere le leggi che consentano di costruire ambienti urbani dotati dell’attributo che più lo interessa: dotati cioè di figurabilità, ossia di quella “qualità che conferisce a ogni oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa”.

Crediamo di vedere, sottese all’impostazione di Lynch, due esigenze la cui validità ci sembra incontestabile, e che è tanto più interessante porre in rilievo, in quanto esse trapelano da un contesto d’idee e di convinzioni che a nostro avviso è viziato (come subito vedremo) da gravissimi limiti. Ci.sembra intanto, in primo luogo, che l’interesse dimostrato per la figurabilità possa alludere (certo ambiguamente) all’esigenza di ricondurre l’attenzione dell’urbanista su quello che è il suo più pertinente e peculiare campo d’azione: la forma della città, i valori estetici che in essa devono esprimersi. Ci sembra poi, in secondo luogo, che nel proposito di vedere e di studiare la città attraverso gli occhi dei suoi abitanti, si nasconda in qualche modo la esigenza di assumere l’uomo come punto di partenza dell’operazione urbanistica.

Ma quale uomo? I limiti della posizione di Lynch divengono subito palesi. “Pragmatismo e sociologismo americano costituiscono il sostrato culturale a cui va ricondotto il suo pensiero”, e di conseguenza l’uomo è per lui, ovviamente, l’uomo dato, l’uomo di Boston o di New Jersey o di Los Angeles, così come può esser colto secondo i metodi e con “le distinzioni della psicologia sperimentale”. È un uomo “metastorico e metaculturale”, nel senso di una disumana e alienante astrazione: non nel senso cioè che possa e sappia giudicare e criticare la cultura e la storia per utilizzarle e rinnovarle, ma nel senso che, concepito ormai come “un organismo biologico legato alle sensazioni elementari e alle necessità pratiche”, vive, di necessità, solo nel presente e, distaccandosi da ogni legame con qualsivoglia tradizione, si è identificato con quel solo momento della sua storia che è appunto, con le sue ideologie, con la sua cultura, la società opulenta.

La generica forza di convinzione delle “immagini” urbane; la mera “percezione visiva” suscitata nel singolo individuo (e sia pure nelle “centinaia di migliaia di individui” statisticamente sommati) dai vari e disparati elementi della città di oggi; la “capacità d’orientamento” che quest’ultima richiede all’uomo che in essa s’avventura: questi sono i fenomeni che interessano il Lynch. E allora, fatalmente, mentre l’esigenza di ricondurre l’attenzione sui problemi della forma si dissolve in uno sterile formalismo psicologico-emozionale, la sua totale indifferenza per una definizione intrinsecamente autosufficiente e non contraddittoria della città lo rende pienamente disponibile per l’opulentismo, Nella patria del Lynch, d’altronde, la società opulenta non si identifica forse, quasi senza più residui, con quella situazione data che nella concezione e nell’ideologia dell’empirismo neopositivistico esaurisce ogni possibilità?

È chiaro dunque perché, sulla base della posizione del Lynch, la città è un fenomeno al quale non è possibile conferire alcun ordine. Essa non è il luogo di una cittadinanza, non è il luogo in cui risiede e opera una società; è soltanto e semplicemente l’ asilo (e la sorgente dei godimenti “visivi” o”percettivi”) di una moltitudine di individui, i quali vivono la loro libertà in modo meramente singolare e particolaristico. Non vi sono quindi - non possono esservi - leggi capaci di regolarla, né ideali comuni che possano darle una ragione.

3. La critica di un comunista.

Il processo dello sviluppo opulento non viene tuttavia tranquillamente accettato dall’insieme dell’attuale cultura urbanistica. Oltre alle due posizioni delle quali ci siamo ora occupati, e che possono venire entrambe riportate a un’identica matrice funzionalistica, esiste infatti - come abbiamo accennato - una terza posizione, caratterizzata dal fatto di avvertire l’estensione e la gravità della crisi cui è giunta l’intera vita sociale nella svolta dal capitalismo borghese all’opulenza, e di opporsi alle conseguenze che tale crisi comporta sul terreno dell’urbanistica, senza individuare peraltro in tutta la sua ambiguità - e dunque anche nella sua potenzialità positiva - la portata di quella svolta.

Una simile posizione è sostanzialmente espressa da un noto urbanista italiano d’orientamento marxista, Carlo Aymonino. Appunto per questo motivo, appunto cioè perché ci sembra che l’Aymonino possa essere considerato un significativo esponente della posizione che ora ci interessa esaminare, ci soffermeremo brevemente sulle sue tesi.

All’Aymonino, senza dubbio, non sfuggono le negatività presenti nell’attuale condizione della città, ma cade nell’errore (di utopistica radice) di un’apodittica negazione di tutta la realtà storica. L’informità della “città terziaria” e il suo carattere parassitario e superfluo; la dissoluzione della città, da “concentrazione stabile produttiva e culturale [...] in una concentrazione temporanea che tende sempre più ad assolvere il solo compito dello sviluppo forzato dei consumi”; la “marcata accentuazione di taluni consumi individuali che divengono “fine a se stessi” e che finiscono per condizionare “l’intera struttura urbana”; infine, “la generale tendenza alla fuga dalla città, verso un territorio che sempre più assume anch’esso gli “aspetti , alienati ‘ della città stessa”, tutti questi fenomeni, che indubbiamente e palesemente caratterizzano la città dell’assetto opulento, sono colti e enumerati (e naturalmente condannati) con una sensibilità critica e una decisione che derivano allo studioso dalla sua esperienza comunista. Tuttavia, l’Aymonino si limita a enumerare semplicemente tali fenomeni, descrivendoli con una certa sommarietà: egli non li analizza e non tenta di individuarli nelle loro cause. La realtà è che egli non intuisce il fatto che la crisi, di cui pur egli coglie tutti gli aspetti negativi,costituisce una svolta effettiva nel processo storico: poiché precisamente l’approdo opulento è senz’altro una novità, una fuoriuscita dall’ordinamento capitalistico-borghese.

I due modelli (quello capitalistico-borghese e quello opulento ), non vengono neppure distinti.. La situazione attuale - la situazione dell’opulenza - è presentata, fuori da ogni sua ambiguità, come un mero deterioramento di quella borghese; la città contemporanea è semplicemente il prodotto di alcune “trasformazioni”, sia pure “notevoli”, della città capitalistico-borghese: e non a caso, sembra talvolta che “l’elemento determinante” di tali trasformazioni debba esser visto unicamente nella “tendenza, da parte delle imprese industriali [ ...] a lasciare la città”.

Ne consegue che l’Aymonino identifica il superamento dell’assetto opulento (il quale tuttavia, et pour cause, non è mai definito come tale dall’Autore) nel rovesciamento dell’assetto capitalistico-borghese - in realtà, come tale, già storicamente finito - e nell’approdo più rapido possibile alla soluzione rivoluzionaria prevista e preconizzata dal marxismo; la quale però, poiché l’avversario che combatteva è stato ormai liquidato dall’opulenza, non si presenta più con le caratteristiche di quella mordente incisività sulla realtà storica che così a lungo ha sostenuto il movimento operaio e ne ha determinato la coscienza e la capacità di lotta, ma deve ormai dispiegarsi, nel vuoto, in tutto il suo astratto contenuto ideologistico, e dunque come salto qualitativo assoluto. Non a caso l’Aymonino, lungi dal partire da una differenziata analisi critica della città di oggi, e insomma da un esame che permetta di rilevare l’ambiguità e di distinguere la potenzialità positiva della città opulenta, dirige sostanzialmente il suo sforzo a dedurre, da una ideale città del futuro, quelle regole che l’urbanistica dovrebbe adoperarsi a imporre al magma confuso e caotico della megalopoli moderna.

E qual’è poi “l’idea generale”, qual’è “la nuova condizione umana, di valore universale”, che in tali regole dovrebbero esprimersi? Di necessità, l’una e l’altra non possono non essere quanto mai indeterminate e vaghe: “la molteplicità delle scelte” per “la più completa libertà sociale” è infatti, per l’Aymonino, quel contrassegno decisivo della società di domani, che nella città d’oggi bisogna prepararsi a esprimere “in termini formalmente compiuti”.

La scarsa chiarezza di tali formulazioni - che l’Autore d’altra parte riconosce di dover “verificare con una ricerca più approfondita” - giustifica il tentativo d’interpretarle. E l’interpreteremo secondo una chiave che l’Aymonino medesimo, con una sua citazione conclusiva di un brano di Marx, sembra suggerire e legittimare: secondo una chiave marxiana.

Ma prima di accingerci a questo tentativo, vogliamo osservare che il brano di Marx citato dall’ Aymonino - soprattutto se letto nel suo contesto - non ci sembra particolarmente calzante con l’”ipotesi di ricerca” alla quale lo studioso comunista vuole riferirlo. Marx sostiene infatti che “la natura della grande industria porta con se variazioni del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto - prosegue Marx - come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale. Questo è l’aspetto negativo. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l’effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell’operaio come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte. Per essa diventa questione di vita e di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’un con l’altro.

Marx coglie quindi una contraddizione tra la “grande industria” e la “sua forma capitalistica”, e riconosce nell’”individuo totalmente sviluppato” un obiettivo che si raggiungerà solo con l’”inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia”. Ma ci ‘sembra chiaro che un simile obiettivo è, nella dottrina comunista e marxista, soltanto un obiettivo storico, intermedio; un obiettivo che si colloca pur sempre all’interno di quella “sfera di produzione materiale vera e propria” da cui è indispensabile uscire per raggiungere, nella sua pienezza, il “regno della libertà”. Ci sembra in definitiva che sia a una siffatta “libertà”, e non a quella direttamente e quasi tecnologicamente legata alla “grande industria”, che l’ Aymonino si riferisca: ci stupirebbe, oltretutto, che la nuova condizione umana di valore universale, cui l’ Aymonino allude, fosse esclusivamente legata a una determinata “forza produttiva”, quale la “grande industria” indubbiamente rimane.

4. Città comunista e città opulenta: due prospettive coincidenti?

In realtà, come è sufficientemente noto, nella posizione marxiana e marxista la condizione umana di piena libertà, quella condizione che comporta il salto qualitativo dal “regno della necessità” al “regno della libertà”, si viene a realizzare e a concretare nella fuoriuscita dal lavoro: e cioè da quel momento insostituibile della vicenda dell’uomo, da quel fondamentale aspetto della sua operazione, che nel marxismo è vissuto come contingente - o meglio storica - alienazione, e nel cui superamento pienamente si identifica il punto di discrimine tra un’esistenza umana determinata “dalla necessità e dalla finalità esterna”, e un’esistenza vissuta invece, finalmente, come libero e dispiegato “sviluppo delle capacità umane”.

Non ci sembra una pretestuosa forzatura delle tesi dell’Aymonino, né un’avventata estrapolazione di esse, sostenere - come sosteniamo - la coincidenza tra la città in cui sarà verificata “la più completa libertà sociale” e la società che sarà marxianamente pervenuta al “vero regno della libertà” uscendo dalla necessità del lavoro. C’è dato allora di cogliere il perché della insufficienza e dell’astrattezza dell’ “ipotesi” dell’Aymonino, nella sua pretesa di essere proposta risolutrice dei problemi della città d’oggi. Bisogna infatti convenire che, per la posizione di cui ci stiamo ora occupando, la città dell’avvenire, la città della “molteplicità delle scelte” e della “più completa libertà sociale” - quella città da cui pur debbono trarsi le regole per ordinare la realtà urbana di oggi - è vista e prefigurata come la città in cui si è raggiunta quella “condizione fondamentale” per l’avvento del “vero regno della libertà” che Marx vedeva in una massima “riduzione della giornata lavorativa”, e in cui perciò l’estensione generalizzata del tempo libero è divenuta la condizione comune di una umanità affrancata dall’alienazione del lavoro.

Ma pur tralasciando ogni considerazione di principio sulla validità umana di una simile prospettiva, dobbiamo peraltro necessariamente sottolineare che entro una tale ipotesi la tensione rivoluzionaria del comunismo finisce inevitabilmente per identificarsi con la realtà storica dell’opulenza. È stato proprio uno studioso di formazione marxista, Herbert Marcuse, a cogliere con singolare acutezza il fatto che, nella realtà della società opulenta, viene esclusivamente a concretarsi proprio quella tesi marxiana “secondo cui il regno del lavoro non può che restare il regno della necessità [ ...] , mentre il regno della libertà può svilupparsi unicamente al di fuori e al di sopra del regno della necessità”. Afferma infatti ancora il Marcuse:

“Io credo che qui dovremmo discutere se nella società industriale ad alto sviluppo questa concezione possieda ancora un valore in generale, ed è probabilmente questo il punto più cruciale di tutta la questione: amiamo tutti i concetti di piena realizzazione di ciascuno, di libero dispiegamento delle capacità individuali, a tutti sta a cuore l’eliminazione dell’alienazione, però oggi dobbiamo domandarci: che senso ha una cosa del genere? Che senso ha, se nella società tecnologica di massa il tempo lavorativo, il tempo lavorativo socialmente necessario, è ridotto al minimo e il tempo libero quasi tocca le proporzioni di un tempo pieno? Che fare allora? Se ancora indulgiamo a espressioni venerande come “lavoro creativo” o “sviluppo creativo”, non verremo a capo di nulla. Che senso ha oggi quella vecchia istanza? Vuol dire che tutti andranno a pesca o a caccia, che scriveranno tutti poesie o dipingeranno e via elencando? So bene che è facilissimo tirare al ridicolo in queste cose, e in questo momento mi esprimo in modo provocatorio, giacché proprio questo è per me uno dei più seri problemi del marxismo e del socialismo, e penso non di questi soltanto. Proprio su questo punto dobbiamo acquisire concretezza, e non limitarci più a discorrere di autodispiegamento dell’individuo e di lavoro non alienato, ma porci la domanda: che senso ha una cosa del genere? Perché la progressiva riduzione del lavoro necessario non è più un’utopia, bensì una possibilità molto reale”.

Allora la città del futuro, la città nella quale ci si illude di trovar la legge per superare le negatività presenti nella città contemporanea, viene a coincidere, praticamente senza residui, con la città dell’opulenza. Infatti, come abbiamo dimostrato, il tempo libero non è altro che il portato naturale dell’evoluzione del sistema in cui il lavoro è ridotto - sulla base della originaria operazione dello sfruttamento - a capitale; di quella evoluzione, precisamente, che ha nell’assetto opulento il suo punto terminale e invalicabile.

Quindi affrontare oggi il problema della città entro la prospettiva di una libertà realizzata come uscita dal lavoro, conduce, di fatto, semplicemente a proseguire lo sviluppo opulento dell’insediamento urbano, venendo a porre oggettivamente in crisi ogni volontà rivoluzionaria di rinnovamento; sicché, seppur si vuole salvare quest’ultima, seppur si vuole rimanere fedeli, si è necessariamente sollecitati alla fuga in avanti nell’utopia e nell’estremismo. In realtà, proprio dalle posizioni come quelle dell’Aymonino si sprigiona spesso una tensione ad accelerare ed estremizzare quel processo di trasformazione opulenta della città che - lo abbiamo visto - porta alla fine, inevitabilmente, l’insediamento urbano al suo destino di crisi: a quel destino, cioè, che vede l’unica possibile uscita dalla congestione metropolitana (e dalla conseguente paralisi della vita urbana) nella dispersione delle residenze e nella dissoluzione dell’organismo cittadino.

Ma c’è di più: poiché il limite della piena uscita dal lavoro e della generale affermazione del tempo libero rimane semplicemente un limite, poiché in altri termini non si raggiunge mai, per i motivi che abbiamo più sopra enunciati, la piena e definitiva uscita dalla forma (fenomenologica, sociologica, psicologica) del lavoro e il tempo libero viene invece largamente vissuto come lavoro superfluo, ecco che la posizione della quale ci stiamo ora occupando deve rivelare, come necessario contrappunto all’estremismo, anche il proprio velleitarismo. Ed ecco allora che, mentre da un lato, come prima s’è visto, si è dovuta far propria la prospettiva e la tendenza dello sviluppo opulento, dall’altro lato, ogni qual volta ci si propone di far concretamente i conti con le cose, si è costretti ad accettare la realtà dell’opulenza così come questa storicamente si presenta. Ci si riduce, perciò, in definitiva, accantonando la critica e l’opposizione alle conseguenze dell’opulentismo, a rimaner subalterni a quest’ultimo anche nell’immediato: ad accettare in sostanza questa città così come il processo opulento la va configurando, e a celebrarne gli aspetti più caratterizzanti e negativi: il “problema” del tempo libero, la centralità delle attività terziarie, la genericità e la fungibilità dei valori e dei contenuti.

Non ci sembra dunque casuale se nell’attuale pratica professionale degli urbanisti italiani si rileva spesso una chiara tendenza formalistica, dalla quale non è esente chi, come l’ Aymonino, pur partendo dalla premessa della necessità di un impegno nell’analisi e nella trasformazione della società, e cogliendo poi una serie di importanti aspetti della nostra realtà sociale e urbanistica, non raggiunge però una sufficiente consapevolezza dei problemi e delle prospettive del nostro tempo. Una prova significativa di tale tendenza formalistica è costituita, crediamo, dalla fortuna che ha incontrato - proprio tra gli urbanisti più vicini alla posizione che abbiamo ora analizzato - la tematica non priva d’interesse, ma certo ambigua, dei contenitori. Questi sono infatti presentati e concepiti spesso come organismi urbanistici e architettonici nei quali è possibile svolgere, indifferentemente, una serie di funzioni estremamente varie e diverse (commerciali, residenziali, burocratiche e amministrative, artigianali, scolastiche, ricreative e così enumerando), senza che nessuna di esse conferisca un qualche carattere distintivo all’edificio nel quale vien svolta. Il contenitore, in altri termini, si configura come una struttura edilizia e urbanistica massimamente fungibile e ”poli-funzionale”, disponibile per qualunque contenuto, e ridotta quindi tendenzialmente a pura forma, ossia a mera empiricità generica.

5. La questione delle attrezzature collettive”

C’è un tema, fra tutti quelli che oggi costituiscono argomento di studio e di discussione tra gli urbanisti, che nonostante la sua apparente settorialità e il modo in cui finora è stato affrontato, ci sembra comunque - per tutto quello che abbiamo fin qui i sostenuto - particolarmente interessante e merita senz’altro di essere preso in considerazione: è il tema delle cosiddette “attrezzature collettive”. È chiaro il motivo di questa nostra affermazione: le “attrezzature collettive” costituiscono, infatti, i luoghi, le aree, gli edifici predisposti e organizzati per la soddisfazione di una serie di esigenze di carattere pubblico e comune; esse costituiscono dunque, per ciò stesso, un momento urbanistico legato a quella realtà del consumo comune di cui abbiamo ribadito più volte l’importanza e la decisività.

Le attrezzature scolastiche e per l’infanzia, le chiese e i centri parrocchiali, le attrezzature sanitarie e quelle ricreative e sportive, i centri culturali e le biblioteche, le attrezzature per l’esercizio dei diritti democratici, i centri sociali e quelli civici, i centri commerciali e le attrezzature collettive domestiche: queste sono - in una delle classificazioni correnti - le principali categorie di “attrezzature urbanistiche” oggi riconosciute. E non è forse evidente che esse costituiscono una sorta di prolungamento di quei luoghi e quegli edifici (l’acropoli, la rocca, l’agorà, il foro e l’arengo, il tempio e la cattedrale) che nella città classica e in quella medievale costituivano i punti focali della vita cittadina e i nuclei dell’ordinamento formale dell’organismo urbano? Non sono esse forse lo sviluppo di quei servizi collettivi che Owen e Fourier ponevano al centro delle New Harmony o dei Falansteri? Tutto ciò è talmente ovvio e palese che non merita certo di soffermarvisi più a lungo. Ma quel che vogliamo ora sottolineare è che la questione delle “attrezzature collettive”, ove sia posta al centro dell’interesse e dell’impegno di quanti si occupano del destino della città contemporanea, se consente di cogliere, nell’immediato, l’occasione dell’opulenza, costituisce anche un iniziale superamento dei suoi limiti.

In effetti, dato che l’assetto opulento è caratterizzato dal fatto che, nel suo ambito, il consumo di tutti è divenuto la dimensione centrale e decisiva dell’intera vita economica e sociale, e che esso può -e addirittura deve - crescere ed espandersi con una propria autonomia, ecco che esiste oggi la possibilità concreta di cogliere l’occasione dell’opulenza non solo per soddisfare, in modo via via più ampio, i bisogni che vengono oggi avvertiti, ma per porre anzi, dispiegatamente, il consumo di tutti - nella sua nuova autonomia - come la realtà centrale e ordinatrice dell’organismo urbano: di porre perciò le “attrezzature collettive” come l’elemento decisivo della città.

D’altra parte, dal momento che il limite dell’opulentismo è soprattutto ed essenzialmente costituito, nei confronti della città, dall’individualismo che è intrinsecamente connesso al modo opulento di fruire il consumo, è chiaro che ogni sforzo orientato a consolidare o a inventare, a proporre o a sostenere forme comuni di consumo, è uno sforzo che, per ciò stesso, tende a porsi in opposizione alla logica del modello opulento, a contraddirla e a negarla e, infine e in prospettiva, a pretenderne e a prepararne il rovesciamento e la sostituzione. La questione delle “attrezzature collettive” potrebbe allora effettivamente costituire il fulcro di un’azione volta a restituire un ordinamento autonomo alla città; a operare dunque per la città di domani, cominciando a costruirla nel presente. E poiché una tale questione è stata già da tempo affrontata, dalla cultura e dalla prassi urbanistica, si tratta di vedere adesso in che modo gli urbanisti abbiano saputo lavorare su di un simile tema.

Occorre innanzitutto rilevare, a questo proposito, che negli ultimi anni si è manifestato nel nostro paese un rinnovato interesse per il problema delle “attrezzature collettive”, e che un primo frutto di tale interesse può esser già oggi individuato in alcuni parziali approfondimenti di quel problema, i quali, pur senza costituire delle clamorose novità -e, soprattutto, senza aver condotto ancora a un organico e complessivo sviluppo della questione delle “attrezzature” -, indicano tuttavia una positiva tendenza della cultura urbanistica, che ci sembra interessante sottolineare per due motivi particolari.

Innanzitutto perché, dal momento che quegli approfondimenti non nascono da un tentativo di individuare le ragioni di principio dell’operazione urbanistica, e sono invece essenzialmente sollecitati dalle esigenze della pratica, essi - se sono ancora, appunto per tale motivo, precari e insufficienti - costituiscono però una prova ulteriore di un fatto al quale abbiamo già accennato: del fatto, cioè, che è la medesima realtà d’oggi, la realtà dell’opulenza, a pretendere ( e a consentire) un più largo e impegnato interesse al tema delle attrezzature urbanistiche. In secondo luogo, perché nella capacità dimostrata dagli urbanisti (o, almeno, dai migliori di loro) di avvertire e registrare la sollecitazione che scaturisce dalla concreta realtà sociale (quella sollecitazione per uno sviluppo del consumo di tutti, di cui s’è detto), si può scorgere un confortante segno di speranza per una loro più matura presa di coscienza.

La necessità di superare la tradizionale separazione tra “residenze” e “attrezzature”, e la conseguente concezione dello sviluppo della città come una continua “aggiunta” di unità integrate, in cui le parti tradizionalmente “residenziali” costituiscono solo un aspetto, inscindibile dagli altri; la proposta di realizzare un “telaio” di “attrezzature collettive” come struttura ordinatrice dell’organismo urbano, e dell’intero territorio, al quale è tendenzialmente esteso “l’effetto città”; l’esigenza di sottrarre “le attrezzature collettive” ai criteri strettamente funzionalistici o fisiologici che, nell’impostazione tradizionale, ne regolavano avaramente il dimensionamento, e la tendenza invece a stabilire degli “standards” fondati sulla previsione di un più largo affermarsi della dimensione sociale della vita dei cittadini , queste sono, tra le nuove acquisizioni dell’urbanistica italiana, quelle che ci sembrano più interessanti e promettenti. In esse, infatti, comincia a manifestarsi empiricamente non solo una generale tendenza a estendere quantitativamente il peso delle “attrezzature collettive” e a precisare e ad affinare i metodi per una loro migliore determinazione, ma, soprattutto, una iniziale e positiva volontà: la volontà di rompere le barriere che separano il consumo pubblico dal consumo privato e di vivere ogni momento della “residenza” come consumo pubblico; la volontà di ricondurre un tale consumo al suo ruolo di elemento centrale e ordinatore della città; di valutare e misurare l’efficacia dell’operazione urbanistica in base al grado di fruibilità del consumo comune assicurato a ogni cittadino dalle sistemazioni urbanistiche stesse; di trovare infine, proprio sul terreno del consumo pubblico e comune, il decisivo e peculiare punto d’incontro tra l’urbanistica e la realtà sociale.

6. L ‘ipotesi del modello nucleare”

Certo, una siffatta volontà, proprio perché per ora è generalmente vissuta come empirica approssimazione, proprio perché non è ancora sufficientemente fondata ne su di una chiara ed esplicita consapevolezza dei principi peculiari alla disciplina urbanistica né su di una rigorosa analisi del processo storico contemporaneo, rischia di stemperarsi nella ovvietà del praticismo - o addirittura di dissolversi nelle frivolezze brillanti di una moda -, e minaccia contemporaneamente di risolversi in una mera velleità tecnocratica.

Già altre volte la tendenza tecnocratica e il velleitarismo demiurgico hanno pesato sulle migliori intenzioni e sulle intuizioni più promettenti degli urbanisti. È il caso, che qui particolarmente ci interessa ricordare, di quella concezione “nucleare della città che, pur costituendo un primo tentativo moderno di conformare 1’insediamento umano sulla base di una determinata organizzazione delle attrezzature, si traduceva poi in uno schema razionalisticamente e astrattamente precostituito dei modi della convivenza sociale, il quale non trovava alcuna effettiva corrispondenza nella realtà della società civile, e tentava perciò di sovrapporsi a quest’ultima come una soffocante camicia di Nesso oppure - più sovente - veniva da essa anarchicamente rifiutato e infranto.

Non vogliamo affermare con questo che non abbia, in linea di principio, alcun senso la tesi secondo cui la società (e dunque anche la città) debba trovare la propria più peculiare e armonica organizzazione in una gamma via via crescente di organismi e istituti e livelli associativi, che dall’iniziale nucleo sociale della famiglia si allarghino a mano a mano fino a comprendere l’intera umanità. In questo senso, anzi, ci sembra che i propugnatori del “modello nucleare” abbiano colto, sia pure implicitamente e con tutti i limiti di un’approssimazione astrattamente sociologica, una importante verità di principio, che sarebbe del tutto erroneo negare seccamente, respingendo la vita sociale ai suoi poli estremi: l’individuo e l’umanità.

Resta tuttavia indiscutibile il fatto che oggi, nella concreta situazione della nostra epoca, la vita sociale non è organizzata - né è immediatamente organizzabile - secondo i moduli ipotizzati nel “modello nucleare” della città. Così, mentre l’esclusivizzata astrattezza di un tale modello conduceva i suoi sostenitori a esaltare gli ipotetici elementi di coesione entro i vari “livelli associativi” da essi previsti (e a trascurare di conseguenza le relazioni tra i diversi “livelli” ), la loro preoccupazione di valorizzare una sociologica “scala umana” li portava a dissolvere tendenzialmente l’unitarietà dell’intero organismo sociale e urbano in nome di una velleitaria - o soffocante - compattezza dei “livelli” elementari (le “unità di vicinato”, le “comunità”, i”quartieri”). E perciò appunto, essi erano inevitabilmente condannati a raggiungere, con la loro azione, due sbocchi pratici entrambi negativi.

Da un lato, infatti, nella misura in cui le loro schematiche teorie riuscivano a trovare una qualche concreta applicazione, essi potevano ancorarsi, entro il sistema sociale storicamente dato, a un unico punto di riferimento, a una sola struttura organizzativa: quella costituita dalla dimensione produttiva. Nascevano così i”quartieri operai”, o le “comunità” strettamente e funzionalmente asservite - in modo più o meno paternalistico - a questa o a quell’altra fabbrica; nascevano, insomma, le unità residenziali pienamente e direttamente appiattite alle leggi e agli interessi aziendali, segregate e rinchiuse nel cerchio angusto di una realtà produttiva prevaricatrice e alienante. Ma dall’altro lato, nella misura in cui la vita sociale rifiutava di farsi imprigionare negli schemi razionalistici e nelle tecnicistiche astrazioni dei propugnatori del “modello nucleare”, quest’ultimo veniva semplicemente vanifìcato e dissolto dall’incontro con la concretezza delle cose, e rivelava tutto il suo velleitarismo. La forza spontanea della vita sociale operante nella città - di una vita sempre più dominata dal dispiegarsi del consumo opulento -, sebbene priva di un suo ordine sufficiente disgregava le tecnocratiche illusioni dei pianificatori, e svuotava di contenuto e di significato i loro tentativi e i loro progetti.

7. La linea degli standards”

A un destino analogo va incontro chi, senza rendersi conto della reale portata e della potenzialità di rinnovamento che è sottesa al tema delle “attrezzature collettive”, vede in esso unicamente il problema di assicurare ai cittadini, in aggiunta alle dotazioni edilizie di cui già possono disporre (case, alloggi, stanze), “adeguate” dotazioni urbanistiche di verde attrezzato, di aree ed edifici scolastici, e così enumerando.

È esattamente ciò che accade nell’ambito di quella che può esser definita la “linea degli standards urbanistici”. Infatti entro questa linea si perviene, è vero, a comprendere che il problema della città può esser risolto solo se si pone l’accento sugli elementi pubblici, comuni, collettivi: ma questi ultimi non vengono visti come l’elemento ordinatore dell’intero insediamento umano, come il principio stesso della città, come il momento decisivo di quest’ultima e di ciascuna delle sue parti. Gli elementi pubblici vengono considerati invece unicamente come delle aggiunte , come delle integrazioni, che devono completare un assetto delle città che può, in definitiva, restare quello tradizionale.

Poco importa in altri termini, agli assertori della “linea degli standards”, che la porzione volumetricamente più consistente della città (quella costituita dagli edifici destinati alla residenza) resti sostanzialmente immodifìcata, e perciò dominata da una concezione individualistica dell’abitare. Poco importa che ogni uomo, ogni cittadino, resti un individuo nel suo alloggio, e che continui a fruire entro di esso un consumo individualisticamente organizzato: basta solo che ogni individuo possa disporre, oltre che dell’alloggio tradizionalisticamente inteso, anche di determinate quantità di aree destinate a usi comuni e pubblici.

È facile rendersi conto dell’insufficienza di una linea siffatta. Essa, in primo luogo, è una linea meramente riformistica, e come tale è per principio subordinata al sistema dato. Non abbiamo forse affermato che gli elementi pubblici sono concepiti - entro quella linea - solo come aggiunte e integrazioni? Ma allora, essi vengono inevitabilmente concessi unicamente laddove ( e nella misura in cui) il sistema può concederli, senza nulla modificare della propria sostanza. Per ciò appunto, la città che è possibile conformare secondo la “linea degli standards” non solo è una città nella quale i superamenti dell’individualismo sono sempre inevitabilmente parziali, hanno sempre un carattere meramente sussidiario, non solo è una città in cui ibridamente convivono elementi comuni e parti dominate dall’individualismo, ma è poi un insediamento nel quale quel tanto di elementi comuni, non più individualistici, che è stato concesso, può essere in ogni istante contraddetto e negato.

La “linea degli standards” è dunque anche una linea velleitaria. In effetti, in tutto il periodo in cui il processo dell’opulenza è ancora al suo inizio, la richiesta di dotazioni in aggiunta deve inevitabilmente venir respinta, perché la spesa che essa inevitabilmente comporta, mentre non appare oggettivamente necessitata, non corrisponde d’altra parte a una qualche riduzione di spesa (quindi a una liberazione di risorse) in un altro punto dell’assetto urbanistico e sociale.

Poi, a mano a mano che l’evoluzione opulentistica fa scomparire - nell’inutile abbondanza - ogni problema di risorse, e che diviene perciò economicamente possibile soddisfare la richiesta di quelle dotazioni in aggiunta, l’ibridismo tra elementi comuni e parti individualistiche d’1ll’insediamento viene fatalmente a risolversi nell’unico modo pienamente compatibile con l’opulentismo: con la fine cioè, con la scomparsa e la vanificazione, di quel tanto di elementi comuni che è riuscito a manifestarsi e a concretarsi, e con il trionfo di quell’insediamento disperso che segna evidentemente la fine di ogni linea legata all’espressione degli elementi comuni della città.

8. L ‘indispensabile punto di partenza

Disconoscere il carattere ambiguo dell’opulentismo impedisce di portare un contributo risolutivo alla crisi della città; si è infatti portati, inevitabilmente a una evoluzione del sistema sociale che è letale per la città, oppure - sottolineando esclusivamente ,gli aspetti negativi dello sviluppo opulento e impedendosi così di scorgere la potenzialità positiva che ambiguamente convive nella complessa realtà dell’opulenza - a vedere l’unica strada in un’astratta e velleitaria fuga in avanti. Ma non basta neppure - lo abbiamo visto - avvertire solo empiricamente la centralità della questione degli elementi comuni della città: che in tal modo non si giunge a comprendere il collegamento profondo che esiste tra il problema della rinascita della città e quello dello sviluppo della società, e si è condotti a oscillare tra le tentazioni tecnocratiche e demiurgiche e le ovvietà subalterne del riformismo.

Per superare effettivamente l’opulentismo (e, con esso, la minaccia che grava sulla città d’oggi) bisogna invero riconoscerlo innanzitutto come tale: bisogna assumere cioè piena consapevolezza della svolta che esso rappresenta rispetto all’ordinamento capitalistico-borghese e coglierne quindi, insieme, il limite erroneo e l’intrinseca potenzialità positiva. È solo in tal modo, è solo nel quadro di una reale e dispiegata comprensione dell’opulentismo e della concreta possibilità di superamento che in esso si manifestano, che possono oltre tutto acquistare un significato non velleitario ne generico alcune intuizioni che sono contenute nelle posizioni più interessanti della presente cultura urbanistica; è solo in tal modo che diviene possibile dare una ragione, un senso, una prospettività, una profondità storica a quelle concrete iniziative, oggi ancora vissute empiricamente, nelle quali i migliori urbanisti italiani dimostrano di saper cominciare a cogliere - almeno praticamente e nelle cose - la possibilità costituita dall’opulenza.

Per conto nostro, crediamo di aver dimostrato a sufficienza in che cosa risieda una simile possibilità; abbiamo anzi già accennato a una generale linea d’ azione (quella, in sostanza, che consiste nello sviluppo del consumo di tutti in consumo comune) attraverso cui quella possibilità può divenire effettuale. Ma come può cominciare a svo1gersi, concretamente e nei fatti, una simile linea d’azione? Come partire per cogliere l’occasione dell’opulenza e per dar principio a quel superamento dei limiti dell’opulentismo, che è indispensabile per liberare la città dalla minaccia che grava su di essa, e per darle anzi un volto pienamente estetico?

Occorre innanzitutto uscire dal chiuso dei discorsi strettamente settoriali e specialistici, e sforzarsi invece di legare la tematica urbanistica, nel suo complesso, alla concretezza, alla carne e al sangue della vita sociale: e precisamente alla vita di una società che, giunta ormai all’opulenza, è contraddistinta dalla piena affermazione del momento del consumo. Siamo così riportati al nostro primo problema: il problema di sviluppare, di rendere consapevole, di portare a piena conoscenza, quella volontà di conformare la città d’oggi secondo le esigenze del consumo comune. Una simile strada, può oggi esser effettivamente percorsa? Esiste insomma la possibilità che la società venga incontro agli urbanisti, e li strappi finalmente da quell’isolamento, da quell’amara e distaccata solitudine, in cui intristiscono le loro migliori intuizioni? La risposta, in linea di principio, non è davvero difficile, dopo tutto quel che abbiamo finora argomentato; anzi, ne discende direttamente e immediatamente.

E in effetti, poiché nell’assetto opulento si è affermato un consumo di tutti che pretende oggettivamente e inconsapevolmente di liberarsi dalle mistificazioni dell’individualismo, e aspira a svilupparsi in consumo comune, deve certamente esistere, nella società, un insieme di forze che sollecitano a tale sviluppo, e che vi sono anzi vitalmente interessate. È allora proprio nel collegamento con queste forze che l’urbanistica può trovare non solo il sostegno tattico, ma soprattutto l’alleanza strategica. Essa può ritrovarvi cioè, insieme con quel positivo condizionamento che le garantisca di evitare la tentazione demiurgica e velleitaria, anche quel radicamento di principio nella storia che le consenta di acquisire la base per l’esplicazione della propria autonomia.

Per individuare queste forze dovremo approfondire l’esame dell’opulenza, spostando però l’attenzione, dal terreno dei princìpi e dalle leggi di fondo, al terreno della concretezza storica e del processo attraverso il quale l’opulentismo si viene manifestando e affermando, soffermandoci in particolare sulle contraddizioni sociali che nel corso di quel processo si sviluppano.

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