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Orsola Riva
E' morta Rosa, la donna dell'Alabama che prese l'autobus e sconfisse i razzisti
26 Ottobre 2005
Altre persone
"Dissero che ero stanca. Ma io non ero stanca, non in quel senso. Ero solo stanca di arrendermi". Da il Corriere della sera del 26 ottobre 2005, la storia della donna che "restò seduta perché tutti noi potessimo levarci in piedi".

Era sera, rientrava dal lavoro come tutte le sere e si sedette nel primo posto che trovò. Non era uno di quelli «riservati» ai neri, le ultime quattro file in fondo al bus. Ma non c'era tanta gente. Di fianco a lei, un uomo, anche lui di colore, guardava fuori dal finestrino. Altre due donne, nere, stavano sedute in una fila vicina. Salirono dei bianchi e l'autista ordinò al «quartetto» di alzarsi per fare posto (il mondo, allora a Montgomery, Alabama, andava così: il bianco pigliava tutto). Rosa, chiusa nel suo cappotto e quasi nascosta sotto il suo cappellino, lentamente ruotò il bacino e piegò le gambe per lasciar passare il suo vicino ma restò come inchiodata al sedile. Subito dopo, le altre due «intruse» oltre il corridoio si alzarono per lasciar sedere l'unico bianco che era rimasto in piedi. Lei, invece, no.

Fu così che Rosa Louise McCauley maritata Parks, 42 anni, figlia di Leona e James, due contadini di Tuskegee, Alabama (insegnante lei, falegname lui), moglie innamorata di Raymond, barbiere, e lavoratrice instancabile (faceva la rammendatrice ai grandi magazzini di Montgomery e per questo portava un paio di severi occhiali con la montatura di metallo) divenne un simbolo della lotta per i diritti civili.

Era il 1˚dicembre 1955. Rosa aspettò paziente l'arrivo degli agenti che la portarono in prigione per violazione delle leggi segregazioniste (reato che comportava dieci dollari di multa e quattro di spese processuali).

Non era la prima volta che una persona di colore finiva in carcere per quel motivo. E anche in quel caso tutto si svolse, almeno in quelle prime ore, in modo pacifico, ordinato. Poi la Storia, inopinatamente, decise di dare uno strappo. E per farlo «sequestrò» una signora timida e minuta e l'autobus su cui viaggiava (oggi parcheggiato allo Henry Ford Museum) e li trasformò in bandiere del movimento per i diritti civili.

Nel giro di pochi giorni, attorno al caso di Rosa si mobilitò l'intera comunità afroamericana di Montgomery, arringata, fra gli altri, anche da un giovane e semisconosciuto reverendo, Martin Luther King Jr. Dai pulpiti delle chiese (quelle dei neri), sulle prime pagine dei giornali (il Montgomery Adviser,

anch'esso «black»), su migliaia di volantini, fu stampato un annuncio che invitava a non prendere più gli autobus. Per 381 giorni, l'intera comunità si arrangiò altrimenti, con i pochi taxisti neri della città che mettevano a disposizione le proprie macchine per dieci cents (il prezzo di un biglietto di autobus), e la maggior parte dei pendolari (40 mila persone, pari a circa il 70 per cento degli utenti di mezzi pubblici) che andavano al lavoro a piedi, chi anche per decine di chilometri (ma con un danno non indifferente per la locale compagnia di trasporti). Furono giorni durissimi, con arresti, pestaggi e bombe nelle chiese. Il caso divenne nazionale e il 13 novembre 1956 la Corte Suprema americana dichiarò che la segregazione sugli autobus era illegale. Una vittoria storica, un primo, fondamentale, passo nella lotta per il riconoscimento dei diritti civili ai neri. Ma Rosa perse il lavoro e suo marito pure. Alla fine, dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte, fu costretta a lasciare Montgomery per Detroit, dove è stata a lungo assistente di un deputato democratico di colore e dove è morta lunedì notte a 92 anni.

All'epoca dei fatti ne aveva 50 in meno e, cosa rarissima per il suo tempo, aveva un diploma di scuola superiore che il marito, attivista politico, l'aveva convinta a prendersi. Da qualche tempo, pure lei lavorava, a titolo volontario, come segretaria di E.D. Nixon, presidente della sezione locale dell'NAACP, una delle più antiche e importanti organizzazioni dei diritti civili americani.

L'autista che le aveva ordinato di alzarsi non la conosceva. Ma lei sì. Si chiamava James F. Blake, e un'altra volta, dodici anni prima, l'aveva già costretta a scendere dal «suo» autobus perché lei si era rifiutata, dopo aver pagato il biglietto, di scendere e rientrare dalla porta posteriore, come imponeva la versione locale delle famigerate Jim Crow laws (le leggi sulla segregazione razziale che prendevano il nome da un personaggio di una canzonetta sudista su un contadino nero, «naturalmente» straccione e ignorante).

Quella volta, Rosa decise di restare dov'era. «Dissero che ero stanca — raccontò nella sua biografia —. Ma io non ero stanca, non in quel senso. Ero solo stanca di arrendermi». Come ha ricordato ieri il reverendo Jackson, «Rosa restò seduta perché tutti noi potessimo levarci in piedi».

«Pensai al nonno e al suo carretto e non mi mossi»

L'autista voleva che ci alzassimo, tutti e quattro.

All'inizio non ci muovemmo, ma lui disse: «Liberate questi posti». E gli altri tre si spostarono. Io, no.

Ripensai a quando me ne stavo alzata tutta la notte senza riuscire a prendere sonno e mio nonno teneva la pistola vicino al camino o a quando lui andava in giro con il suo carretto tirato da un cavallo e nascondeva una pistola nel retro del carro. Arrivò un poliziotto, chiamato dall'autista, e mi arrestò. Ricordo che gli chiesi: «Ma perché fate i prepotenti con noi?». E l'agente rispose: «Non lo so, ma la legge è legge, e tu sei in arresto».

Ementremi arrestavano pensai che quella era davvero l'ultima volta che sarei stata umiliata in quel modo. La gente racconta che io non mollai il mio posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca, non fisicamente almeno.

E comunque non più di quanto lo fossi sempre alla fine di una giornata di lavoro. Non ero vecchia, anche se un sacco di gente ha un'immagine di me come se io fossi già stata vecchia allora. Avevo quarantadue anni.

No, l'unica cosa di cui ero stanca era di arrendermi».

(il brano è tratto dall'autobiografia di Rosa Parks «My Story», 1992)

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