loader
menu
© 2024 Eddyburg
Edoardo Salzano
20090520 Urbs, civitas, polis, le tre facce dell'urbano
18 Marzo 2010
Articoli e saggi
Intervento al convegno “Interpretare la neourbanità”, Bologna, 20 maggio 2009. Pubblicato in: Per una nuova urbanità dopo l’alluvione immobiliarista, a cura di P. Bonora, P.L.Cervellati, Diabasis, Reggio Emilia 2009

Il convegno, dal titolo “Interpretare la neourbanità. Prospettive per l’organizzazione metropolitana. Dalla Città de-formata alla Città alleanza di città”, è stato organizzato dal Corso di laurea in Scienze geografiche dell’Università di Bologna, iretto da Pola Bonora. In calce la locandina scaricabile in .pdf

URBS, CIVITAS, POLIS

LE TRE FACCE DELL’URBANO

Per cominciare

Me sembra che non sia necessario discutere tra noi sulla realtà del territorio quale la viviamo e la conosciamo – sui caratteri e le conseguenze della crisi nella quale viviamo – e neppure ragionare troppo sulle sue cause. A proposito di queste vorrei dire soltanto si tratta, a mio parere, dell’estrema (fino adesso) manifestazione di quel “declino dell’uomo pubblico” di cui Richard Sennet ha illustrato il lungo percorso.

Oggi dobbiamo soprattutto di ragionare su ciò che è possibile fare. Su quali siano i punti di partenza su cui basarsi per uscire positivamente dalla crisi. Come diceva Cervellati “con l’ottimismo della disperazione”, possiamo forse cogliere la crisi come l’occasione di cambiare. Se è vero – come è vero – che crisi non significa necessariamente sconfitta, arretramento, regressione, catastrofe, ma semplicemente rottura d’una situazione apparentemente stabile: rottura, quindi, dalla quale si può uscire regredendo o progredendo, dirigendosi verso una situazione peggiore o una migliore.

Visto che ho adoperato questa parola, “migliore”, vorrei dichiarare subito che non sono un “migliorista”. Non ritengo sufficiente correggere, migliorare, depeggiorare, mitigare meccanismi in sé perversi, ma sono convinto che la svolta necessaria sia radicale, che debba tendere a un assetto (della cultura, dell’economia, della società) nettamente diverso e alternativo rispetto a quello esistente. Un assetto da costruire gradualmente e pazientemente, ma verso il quale orientare ciascuno dei passi che si compiono, delle azioni che si promuovono o alle quali si concorre.

E poiché sono convinto anche dell’intrinseca positività dell’uomo (del maschio e soprattutto della femmina) ho anche fiducia nel fatto che gli elementi positivi, quindi i germi di un possibile futuro, possiamo già scorgerli nel presente se guardiamo con sufficiente attenzione a ciò che accade nella società. Naturalmente, togliendoci i paraocchi del pensiero corrente, del “pensiero unico” che ci inducono a condividere, e utilizzando invece le lenti del nostro buonsenso, nutrito dei principi e delle convinzioni che liberamente ci siamo formati.

Critica ai miei colleghi, gli urbanisti

Vorrei partire da una critica ai miei colleghi urbanisti, perché mi sembra che nei decenni più vicini abbiamo perso una convinzione, che alimentava il meglio della cultura urbanistica non solo italiana.

Mi riferisco al titolo di questo mio intervento, cioè alla consapevolezza profonda del fatto che la città, l’oggetto della nostra operazione di urbanisti, è costituita dall’insieme dei tre elementi rintracciabili nella sua stessa denominazione: la città come struttura fisica, la città come società, la città come governo.

Dimenticare la necessità di un continuo intreccio tra questi tre elementi, occuparsi della città (e più largamente del mondo urbano) solo sul versante della sua architettura, o solo su quello della società che la abita, o solo su quello della politica è causa di necessari fallimenti e non conduce a nessun risultato positivo. Può solo fornire contributi parziali (e perciò di necessità viziati) a chi tenta di fare una sintesi.

Da questo punto di vista vorrei citare un brano molto bello, scritto da uno storico ed economista francese, membro dell'Assemblea legislativa alla fine del XVIII secolo, che ho trovato molti anni fa citato nella Miseria della filosofia di Karl Marx. Il suo nome è Pierre-Edouard Lemontay:

“Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce”[1].

Penso che oggi il campo di ciascuno di noi non possa allargarsi per diventare grande come i campi che già Lemontay, due secoli fa, rimpiangeva. Dobbiamo perciò cercare di ragionare insieme, di costruire poco per volta quell’”intellettuale collettivo” che è necessario per comprendere il mondo di oggi. Perciò sono particolarmente contento di occasioni come quella di oggi, e perciò mi sembra perversa e controproducente la tendenza prevalente nel mondo degli urbanisti di rinchiudersi di ciascuno nel campo della propria certezza, della propria disciplina, del proprio brandello di verità che possiede.

La città

Ma torniamo al punto. La domanda che vorrei pormi è la seguente. Che cos’è che non ci piace nel modo in cui oggi l’urbano si è trasformato /si sta trasformando? Evidentemente ci riferiamo a un’idea di città che vediamo stravolta nell’insediamento di oggi. Ci riferiamo a un “immaginario” che non riconosciamo nella realtà.

Può essere che il nostro immaginario sia sbagliato, che non abbia qualità e caratteristiche oggi accettabili, e che quindi sarebbe giusto per noi rinunciare a esso, alla nostra idea di città, e accettarne un’altra. É quello che fanno – mi sembra – nostri illustri, intelligenti, onesti colleghi, che difendono questo insediamento che a noi sembraa disfatto e invivibile, inumano. Lo considerano come un segno dei tempi mutati, in un mutamento nel quale occorre adeguarsi. Può essere che abbiano ragione loro. Ma io oggi non ne sono affatto convinto. Perciò riparto dalla mia idea di città: un’idea di città che ha alla sua radice una cultura che mi sembra ancora viva, sebbene da molti ignorata.

La mia idea di città

Nella mia idea di città gli spazi pubblici hanno un ruolo primario. Parlo di spazi pubblici in un senso molto ampio: spazi fisici e spazi virtuali, spazi dell’urbs e spazi della civitas e della polis. La piazza, l’asilo nido e la scuola, la biblioteca pubblica e il parco fanno parte dello stesso universo del diritto di sciopero e di quello di riunione.

Per me la città nasce con gli spazi pubblici. L’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, ha generato quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.

È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti i classici spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.

Non credo che sia necessario in questa sede soffermarmi su questo punto. Mi limiterò ad aggiungere che nella nozione di spazio pubblico della città sono entrate a far parte due componenti rilevanti:

- il carattere pubblico dell’esigenza che la città offra un’abitazione a tutti, a condizioni correlate alle capacità di spesa dei cittadini;

- il carattere pubblico delle regole che governano l’assetto fisico e funzionale della città nel suo insieme.

Dobbiamo vedere gli spazi pubblici come l’insieme dei luoghi – materiali e immateriali – nei quali si manifesta il momento comune, collettivo, sociale della vita di ciascuno. E allora, in questo senso credo che dobbiamo inserire, accanto ai luoghi della comunità cittadina, anche i luoghi della comunità di classe: anche la fabbrica capitalista, come il luogo nel quale – come necessario antidoto alla proprietà del capitale – si costituisce la solidarietà del proprietari della forza-lavoro.

Oggi

La mera elencazione degli elementi che costituiscono la vita urbana ci fa comprendere facilemente come tutto questo sia in profonda crisi perché investito da un processo di dissoluzione di tutto ciò che vive nella dimensione del pubblico, del comune, del collettivo, del sociale.

Gli spazi pubblici classici, tradizionali, sono privatizzati e commercializzati: dalla piazza alla scuola, dalla sanità all’università. Gli standard urbanistici, come garanzia di un livello minimo di aree da utilizzare per le attrezzature e i servizi pubblici, garantito a tutti i cittadini della Repubblica, aboliti e sostituiti da “prestazioni” erogate da porivati. La casa, interamente abbandonata al mercato e alle sue follie.

Il legame di continuità tra spazio privato e spazio pubblico egualitario (apero al ricco e al povero, al cittadino e al foresto, al giovane e al vecchio) , già messo in crisi dalla zonizzazione sociale del razionalismo, definitivamente spezzato dalla segregazione delle gated communities e del emarginazione dei diversi. Le regole, scavalcate dalle deregulation progressivamente estesa a ogni dimensione della pianificazione. La fabbrica, devastata dal ricorso sempre più massiccio ed esclusivo al lavoro precario.

Orfani della politica

É possibile opporsi a questo trend e concorrere a un’uscita diversa dalla crisi attuale?. Io penso che, poiché è necessario, è anche possibile.

Trenta o quarant’anni fa la risposta l’avremmo cercata nella politica. Ma oggi la politica non c’è più: quella dei partiti si è ridotta alla mera conquista e conservazione del potere, indipendentemente da ogni finalizzazione a un progetto di società ispirato a principi di equità, solidarietà e libertà. Conta solo il risultato elettorale, il successo raggiungibile nel breve periodo. L’unico traguardo è la scadenza del mandato elettorale.

Se i partiti sono oggi caratterizzati da una visione miope, nella quale è solo l’oggi che conta e il futuro è il contenitore di promesse dimenticate il giorno stesso in cui vengono pronunciate, allora è inutile chiedere a questi partiti di farsi carico degli interessi della città, del territorio, della collettività in quanto tale: interessi che richiedono obbligatoriamente una visione di lungo periodo, una prospettiva ampia, uno sforzo prolungato nel tempo.

Oggi siamo orfani della politica: dovremmo portare tutti la fascia nera al braccio. Non per piangere, ma per ricordare che la politica dobbiamo riconquistarla.

Un filo di speranza

La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata – secondo me - a un filo molto tenue che tuttavia esiste. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.

Mi riferisco ai movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dall’Onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.

Le istituzioni

Assumere ciò che si muove nella società come il principale punto di riferimento non deve farci trascurare l’altro interlocutore essenziale: le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Domenico Finiguerra, il sindaco di quel piccolo comune del milanese che ha avviato con l’esempio il movimento “Stop al consumo di suolo” ha scritto parole molto benne e giuste sulla necessità di “occupare le istituzioni”, di espugnarle pacificamente, con gli strumenti della democrazia.

Le istituzioni: tutte, ma con maggiore attenzione per la prima, per il comune, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti. Tuttavia non dobbiamo dimenticare mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia.

Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, alla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Quattro obiettivi

Si può reagire al mainstream e navigare controcorrente a condizione che si assumano quattro obiettivi, che sono anche quattro impegni.

Bisogna resistere. La difesa degli spazi pubblici deve essere al centro dell’ attenzione. Non devo insistere sul fatto che mi riferisco allo spazio pubblico in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme.

Bisogna far crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali. Un esempio vistoso è il termine “vincolo”: si intende per tale qualunque destinazione del suolo che non consenta l’edificabilità di tipo urbano: è un vincolo la destinazione a una utilizzazione agricola, o all’inpianto o la conservazione di una forseta, alla ricerca in un’area archeologica, nella costituzione di un’area di libera visione di un monumento o al godimentoi di un paesaggio. “Voncolo” è tutto ciò che contrasta con l’uso mercantile, venale del suolo.

Terzo obiettivo e terzo impegno: bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.

E infine, bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più si allargherà il campo di quanti occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.

Dove sono gli intellettuali?

Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetterebbe agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali, sono depositari d’un sapere che dovrebbero amministrare al servizio della società. Dovrebbero saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dovrebbero saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.

Mi sembra invece che gli intellettuali (almeno, quelli che praticano professionalmente e accademicamente la pianificazione territoriale e urbanistica) siano del tutto assenti da quello che accade nella società.

Quando se ne occupano, nel migliore dei casi (e naturalmente salve le dovute eccezioni) è per moderare, mitigare, addolcire le devastazioni più gravi. Si veda il caso dello sprawl, di questa cancrena del territorio e dell’idea stessa di civiltà urbana. C’è chi afferma che non si può che prendere atto di ciò che è stato e continua a essere, che le “villette” piacciono agli italiani e quindi bisogna incentivarne l’espansione. E che le aree devastate devono essere oggetto di razionalizzazione, adeguamento dei servizi, riprogettazione. Non si comprende che il primo obiettivo in assenza del quale qualunque intervento diventa stimolo all’ulteriore espansione della devastazione, è contrastare il fenomeno, bloccarlo, impedire che venga sottratto alla naturalità dello spazio rurale, un solo metro quadrato che non sia socialmente necessario. Solo dopo si potrà procedere a rendere civilmente abitabili le aree devastate.

[1]Citato in Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115

ARTICOLI CORRELATI
© 2024 Eddyburg