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1. IL PIANO DEL 1992

Il 14 dicembre 1992 il Consiglio comunale di Venezia aveva adottato una variante generale al piano regolatore, relativa alla città storica insulare. Lo strumento, la cui redazione era stata faticosamente avviata nel 1982, per essere sospesa nel 1985, ripresa alla fine del 1987, ed infine conclusa all'inizio del 1990, al momento della sua presentazione aveva suscitato grande interesse, e larghi e talvolta entusiastici consensi: basti pensare ai giudizi espressi da Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Antonio Iannello, Felicia Bottino, Teresa Cannarozzo, Vittoria Calzolari, Raffaele Panella, Paolo Maretto, Tommaso Giura Longo, per citarne alcuni soltanto.

1.1. Il rigore analitico e la precisione prescrittiva: eliminate le discrezionalità

In particolare, si era ritenuto che il nuovo strumento costituisse un coerente sviluppo, ed un soddisfacente perfezionamento, delle esperienze sin'allora effettuate di disciplina dei centri storici in base al metodo cosiddetto dell'analisi e della classificazione tipologica delle unità edilizie.

Infatti, nelle precedenti applicazioni di tale metodo si aveva avuto modo di riscontrare un duplice ordine di carenze.

Sotto il profilo più propriamente "analitico" (delle unità edilizie) si aveva potuto rilevare frequentemente, anzi in termini pressoché generalizzati, nella costruzione delle "classi tipologiche", una certa indebita commistione tra valenze squisitamente strutturali e valenze più propriamente funzionali.

Per fare degli esempi, era facile trovare indicate come "classi tipologiche" quella delle "chiese", e quella dei "conventi". Ma tali denominazioni comunicano un "uso" (magari originario e consolidato), non un "tipo". La "classe tipologica" alla quale appartengono le unità edilizie comunemente adibite all'esercizio dei culti può piuttosto denominarsi delle "unità edilizie speciali a struttura unitaria", e ad essa appartengono altresì unità edilizie comunemente adibite a luoghi di incontro, di ritrovo, di spettacolo, e simili. La "classe tipologica" alla quale appartengono le unità edilizie comunemente adibite a convivenza conventuale può piuttosto denominarsi delle "unità edilizie speciali a struttura modulare", e ad essa appartengono altresì unità edilizie comunemente adibite ad altre forme di convivenza collettiva, anche temporanea: come collegi, caserme, reclusori, complessi di uffici, e simili.

Vale la pena di sottolineare subito che (soltanto) un approccio analitico rigorosamente strutturale consente, in sede precettiva, cioè nel dettare le disposizioni pianificatorie, di definire la gamma di "utilizzazioni compatibili" di ogni "classe tipologica" (cioè di tutte le concrete unità di spazio che sia stato riscontrato appartenervi), concependo come "compatibili" tutte le utilizzazioni la cui efficiente esplicazione non sia necessariamente tale da contraddire, o da "forzare", le caratteristiche (anche solo di organizzazione spaziale) del "tipo".

Sotto il profilo, per l'appunto, "precettivo", si era poi rilevato che, nella più gran parte delle esperienze pianificatorie precedentemente condotte, le disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" non erano affatto, od assai scarsamente, relazionate alle individuate "classi tipologiche" (cioè ai connotati distintivi di ognuna di esse), ma riferite a "categorie d'intervento" (restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione, ecc.).

Così, sempre per fare un esempio, nell'ambito del "risanamento conservativo" venivano previsti "il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio" nel "rispetto degli elementi tipologici". Demandando pressoché totalmente il riconoscimento degli "elementi costitutivi" e degli "elementi tipologici" alla discrezionalità del progettista, o del soggetto pubblico competente a rilasciare il provvedimento abilitativo all'intervento.

Per la prima volta, invece, nel nuovo strumento per la città storica lagunare di Venezia, erano definite e descritte precisamente le caratteristiche ritenute identificative e distintive di ognuna delle individuate "classi tipologiche" (costruite sulla base di considerazioni esclusivamente strutturali), ed erano riferite puntualmente ad esse le disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" ed alle "utilizzazioni compatibili". Cosicché tali disposizioni potevano (quindi) assumere (anche) il carattere di "linee guida" alla progettazione degli interventi, di indicazione della, o delle, corrette possibilità di intervento: ma in assenza, o con la massima riduzione, d'ogni apprezzamento discrezionale e "caso per caso".

Si noti che questo modo di procedere non ha prodotto affatto un generalizzato irrigidimento delle possibilità trasformative dell'edilizia esistente nella città storica lagunare di Venezia, ma esattamente il suo contrario. L'avere valorizzato, indicandole come (pressoché uniche) caratteristiche meritevoli di mantenimento (o di ripristino) le caratteristiche strutturali connotanti le diverse "classi tipologiche" ha infatti consentito di giudicare ammissibili (indicandone le corrette modalità) trasformazioni ritenute (e di fatto stabilite) precluse in una diversa ottica "conservazionistica": quella del mantenimento di "tutto com'é".

Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di articolare, nel rispetto di precise regole, unità edilizie in più unità immobiliari funzionalmente autonome: compresi i sottotetti, e compresi i piani cosiddetti "nobili" delle unità edilizie comunemente chiamate "palazzi", cioè dotati di grandi saloni passanti. Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di modificare l'assetto interno della più gran parte dei vani. Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di inserire servizi igienici e tecnologici, secondo plurime soluzioni.

E basti pensare, sotto un altro profilo, alla vasta gamma di utilizzazioni che, come s'é già detto, il nuovo strumento aveva potuto definire "compatibili" con le unità edilizie appartenenti alle diverse "classi tipologiche".

E' il caso di far presente che lo stesso approccio culturale, e quindi sia analitico che prescrittivo, era stato unitariamente assunto con riferimento sia alle unità edilizie "preottocentesche" che a quelle "ottocentesche" che a quelle "novecentesche", sia alle unità edilizie "di base residenziali" che a quelle "di base non residenziali" (a capannone) che a quelle "speciali".

Relativamente alle unità edilizie novecentesche, peraltro, si era ritenuto di esprimere altresì un giudizio puntuale circa la loro "qualità", e di individuare quelle unità edilizie le cui caratteristiche strutturali, distributive e compositive, ed i cui elementi costitutivi, non presentassero alcun interesse storico e/o artistico, nemmeno di carattere testimoniale. Tali unità edilizie erano state poi distinte tra quelle "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", in quanto il loro impianto fondiario e le loro caratteristiche dimensionali risultavano in ogni modo coerenti con le regole conformative che hanno presieduto la vicenda storica dell'insediamento, e comunque con l'assetto urbano risultante da tale vicenda, e quelle "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", in quanto risultavano invece contrastanti con le predette regole conformative, o tali da configurare un assetto urbano contraddittorio con esse, e comunque incongruo. Delle prime era stabilita possibile anche la demolizione integrale e la ricostruzione, ma sul medesimo sedime, delle seconde era prevista la sostituzione con unità edilizie tali da configurare un assetto urbano riproponente le suddette regole conformative storiche, e comunque più congruo.

Tali scelte discendevano da un rigoroso convincimento in ordine alla produzione edilizia. Secondo il quale, nel corso della vicenda storica, fino ad un (relativamente recente) "momento" di "rottura", al costruire hanno presieduto regole conformative, estrinsecantisi nelle caratteristiche tipologiche strutturali dei manufatti edilizi, e da esse ricostruibili, capaci di consentire anche una crescita organica del manufatto, ed il mutamento della sua forma, del suo aspetto (espressione degli "stili" succedutisi nel tempo, od anche sincronicamente confrontantisi), talvolta delle sue funzioni, senza negarsi né contraddirsi. Regole tali da rendere possibile la riconoscibilità di precisi "tipi" edilizi, quali modalità peculiari di portare a sintesi struttura, forma e funzione, e quindi la costruzione di "classi tipologiche", ma al contempo tali da produrre il costituirsi di ogni manufatto come individuo irriducibile ad ogni altro, non fungibile con gli altri.

A partire da un determinato "momento" che costituisce, per l'appunto, una riconoscibile "rottura" nella continuità della vicenda storica delle dinamiche urbane (quand'anche le relative datazioni variino considerevolmente da luogo a luogo), il costruire manufatti edilizi inizia a rispondere a regole sostanzialmente indifferenziate, con l'applicazione di tecniche costruttive e di sistemi tecnologici e materiali largamente standardizzati, e, tutt'al più, a diversi "stili". Ne consegue la legittimazione del prescrivere la conservazione solamente di quegli specifici manufatti che siano giudicati costituire esemplari di rilevante pregio artistico-architettonico, od almeno testimonianze particolarmente significative di un particolare "stile".

Per il vero, l'operazione valutativa che si é appena sopra descritta (ed argomentatamente motivata), nello strumento urbanistico adottato nel 1992 si presentava compiutamente effettuata relativamente alle unità edilizie "di base", assai insufficientemente, o meglio discontinuativamente, rispetto alle unità edilizie "speciali", un certo numero delle quali, ove "novecentesche", avrebbero dovuto essere coerentemente classificate (anche e soprattutto), in base ai criteri dianzi indicati, come unità edilizie soltanto "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", od addirittura "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", mentre si ritrovavano classificate con esclusivo riferimento alle loro caratteristiche tipologiche strutturali.

Ma la carenza era rimediabile (senza stravolgere l'unitarietà di impianto concettuale dello strumento urbanistico, anzi rafforzandola) con un supplemento di analisi, e con conseguenti decisioni riclassificatorie correttive: operazioni entrambe successivamente effettuate dagli uffici competenti dell'urbanistica comunale nel predisporre le controdeduzioni alle osservazione presentate allo strumento adottato.

1.2. Il programmato governo delle utilizzazioni

In secondo luogo, al momento della presentazione del nuovo strumento, e nei mesi successivi, si era apprezzata la distinzione tra "utilizzazioni compatibili", con le caratteristiche degli spazi fisici, e "destinazioni d'uso", cioè utilizzazioni rese vincolanti in vista del perseguimento di interessi generali. E si era apprezzata la previsione per cui le prime erano valide a tempo indeterminato, mentre le seconde dovevano essere riviste, aggiornate, eventualmente variate ogni quinquennio, così da tener conto delle dinamiche sociali ed economiche, e delle esigenze collettive.

E' opportuno sottolineare che il nuovo strumento non imprimeva destinazioni d'uso vincolanti a tutte le unità di spazio (unità edilizie ed unità di spazio scoperto) disciplinate (nelle unità di spazio non interessate da destinazioni d'uso specifiche potendo quindi essere attivate tutte le utilizzazioni compatibili), né si preoccupava di rendere vincolanti più o meno vaste congerie di destinazioni d'uso.

Erano resi vincolanti, infatti, soltanto cinque tipi di destinazioni d'uso:

- quella per strutture pubbliche e/o per attività collettive,

- quella per attività ricettive,

- quella abitativa,

- quella manifatturiera,

- quella per strutture culturali private.

Destinare una congrua quantità di spazi, in ogni insediamento urbano, o parte di insediamento urbano, a strutture pubbliche e/o per attività collettive, in rapporto alla popolazione insediata, é, oltre che primario dovere culturale e politico di ogni operazione di pianificazione appena appena decente, un preciso obbligo giuridico, stabilito dalla legislazione statale italiana sino dal 1967, e (ovviamente) ribadito dalla legislazione regionale. Vale caso mai la pena di far presente come il nuovo strumento urbanistico per la città storica di Venezia rendesse flessibilmente governabili le destinazioni d'uso per strutture pubbliche e/o per attività collettive, consentendo che l'attribuzione della specifica destinazione (a scuola, o ad ufficio pubblico, o ad attrezzatura sociale, e così via) potesse essere definita, nel rispetto di taluni criteri di equilibrio, ma in relazione alle esigenze di volta in volta emergenti, con semplice deliberazione del Consiglio comunale, senza seguire complesse procedure di variante allo strumento urbanistico.

Parimenti obbligatorio é imporre vincoli di destinazione d'uso relativamente alle attività ricettive, stanti i chiari disposti in materia della legislazione sia statale che regionale.

Relativamente poi alle altre destinazioni d'uso vincolanti impresse dallo strumento urbanistico adottato nel 1992, quella abitativa, quella manifatturiera e quella per strutture culturali private, occorre rammentare come esse fossero rivolte a preservare, sulla base di una scelta culturale e politica e mediante un atto amministrativo, nella competizione economica per l'uso degli spazi che si svolge nel cosiddetto "mercato" degli immobili, quote adeguate di spazi per funzioni che risultano, presentemente, tutte "deboli" in tale competizione, ma essenziali nel primo caso per conservare alla città storica i suoi stessi connotati urbani, nel secondo caso per mantenervi attività tradizionali componenti della sua identità, nel terzo caso per promuovere lo sviluppo di quelle attività che unanimemente o quasi sono ritenute suscettibili di ricostituire una nuova "base economica urbana" a Venezia: le produzioni di "beni immateriali".

In ogni caso, non si può dire che queste tre destinazioni d'uso "ingessassero" le dinamiche di trasformazione funzionale, o addirittura la vitalità economica e sociale della città.

Le ultime due, quella manifatturiera e quella per strutture culturali private, erano assai "sobriamente" impresse a pochissime unità di spazio, ritenute eccezionalmente idonee per i predetti usi.

La destinazione abitativa era attribuita soltanto a quelle parti delle unità edilizie che avessero utilizzazione abitativa in atto alla data di adozione dello strumento urbanistico.

Per le singole preesistenti unità immobiliari, o le parti delle stesse, site ai piani terreni delle unità edilizie destinate ad abitazioni, che non fossero componenti integranti, anche sotto il profilo funzionale, dell'unità edilizia e/o immobiliare cui appartenessero, e per le quali fossero definite ammissibili utilizzazioni diverse da quella abitativa, erano ammessi i mutamenti:

a) da qualsiasi utilizzazione in atto ad utilizzazioni per servizi di pertinenza agli alloggi, servizi di pertinenza degli esercizi commerciali al minuto, servizi di pertinenza dei pubblici esercizi, qualora le unità immobiliari, o le loro parti, interessate, non fossero, o potessero essere rese, neppure a seguito dell'effettuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili, abitabili nel rispetto di ogni altra vigente disposizione legislativa e/o regolamentare;

b) dall'utilizzazione abitativa in atto ad utilizzazioni per artigianato di produzione di beni artistici o connessi con le persone e le abitazioni, artigianato di servizio, esercizi commerciali al minuto, pubblici esercizi, uffici aperti al pubblico, uffici privati, studi professionali, sedi espositive, strutture associative, a condizione che le unità immobiliari, o le loro parti, interessate, non fossero, o potessero essere rese, anche a seguito delle trasformazioni fisiche ammissibili, abitabili nel rispetto di ogni altra vigente disposizione legislativa e/o regolamentare, ed invece fossero, o potessero essere rese, nel rispetto di tali disposizioni, utilizzabili per le utilizzazioni non abitative predette.

Nelle unità edilizie di tipo C, cioè nei cosiddetti "palazzi", anche se destinati ad abitazioni, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avesse una superficie utile superiore a 400 metri quadrati, e le trasformazioni fisiche ammissibili non consentissero di ricavarne almeno due unità immobiliari ad utilizzazione abitativa, erano ammessi i mutamenti dell'utilizzazione da quella in atto, ivi compresa quella abitativa, a qualsiasi utilizzazione definita compatibile.

Infine, nelle unità edilizie destinate, in tutto od in parte, ad abitazioni, ove almeno i 2/3 dell'unità edilizia interessata avessero, alla data di adozione dello strumento urbanistico, un'unica utilizzazione, diversa da quella abitativa, ovvero ove fosse ammissibile il mutamento dell'utilizzazione di almeno i 2/3 dell'unità edilizia interessata per adibirli ad un'unica utilizzazione non abitativa, si prevedeva potesse essere concesso od autorizzato, su conforme deliberazione del Consiglio comunale, il mutamento dell'utilizzazione in atto delle restanti parti dell'unità edilizia, per adibirle alla medesima predetta utilizzazione, purché ricorressero i seguenti presupposti:

a) l'utilizzazione prevista delle restanti parti dell'unità edilizia fosse compatibile;

b) l'utilizzazione degli spazi interessati fosse condizione per l'efficiente svolgimento di funzioni particolarmente coerenti con le caratteristiche della città storica di Venezia, quali attività direzionali pubbliche e private, culturali, di istruzione superiore, e quindi per il mantenimento nella città storica di Venezia di dette funzioni;

c) i soggetti interessati si impegnassero con il Comune, mediante convenzione, a provvedere a propria cura e spese alla riallocazione degli utilizzatori delle parti dell'unità edilizia, che avessero un'utilizzazione abitativa in atto e delle quali venisse concesso od autorizzato il mutamento dell'utilizzazione, in altri congrui immobili, siti nell'ambito della città storica di Venezia e che non avessero un'effettiva utilizzazione abitativa in atto;

d) fossero date dai soggetti interessati idonee garanzie reali o finanziarie per l'adempimento degli obblighi assunti con la convenzione.

In ogni caso, si stabiliva che non fosse considerata utilizzazione difforme dalla destinazione l'utilizzazione parziale delle singole unità immobiliari, destinate ad abitazioni, per artigianato di produzione di beni artistici o connessi con le persone e le abitazioni, per artigianato di servizio, per studi professionali, qualora tale utilizzazione riguardasse non più del quaranta per cento della superficie utile dell'unità immobiliare interessata, e fosse effettuata da un residente nella medesima unità immobiliare.

Era quindi amplissimamente prevista la possibilità non soltanto di utilizzare per vaste gamme di funzioni non abitative (se del caso variando l'utilizzazione specifica) unità edilizie, od immobiliari, originariamente adibite ad uso abitativo, e che avessero legittimamente in atto utilizzazioni non abitative, ma anche di attivare utilizzazioni non abitative di unità edilizie, od immobiliari, o di loro parti, che avessero in atto utilizzazioni abitative. Fermo restando che ad utilizzazioni non abitative era adibita la grande quantità di "unità edilizie di base non residenziali a capannone" e di "unità edilizie speciali", nonché (virtualmente tutte) le unità edilizie realizzabili in conseguenza della (eventuale o prescritta) ricostruzione delle "unità edilizie coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano" e delle "unità edilizie incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano".

Insomma: non si sarebbe potuto in alcun modo sostenere (argomentatamente) che la nuova disciplina avrebbe bloccato le dinamiche insediative delle attività produttive. Perfino ove si fosse voluto ripetere la sesquipedale sciocchezza per cui l'"esodo" degli abitanti dalla città storica di Venezia sarebbe dovuto soprattutto, od almeno anche, ad una carenza di posti di lavoro, e quindi di attività produttive insediate, in tale ambito.

Mentre é necessario riconoscere che "si commette un errore quando si vede nell'esodo della popolazione anche il sintomo di una decadenza economica della città. Anzi, poiché esso si accompagna ad una crescita dei prezzi immobiliari, va visto al contrario come la conseguenza della crescente appetibilità di Venezia, e del suo centro storico in particolare, come effetto della localizzazione in esso di famiglie ricche e di attività remunerative, in grado di competere con successo con quelle già insediate, provocandone l'espulsione. Al limite, si può dire addirittura che l'esodo sia la conseguenza indesiderata del successo di Venezia come città" [1] .

Infatti, pur in presenza, negli ultimi due decenni, di una vivace (ed assolutamente positiva) dinamica di incremento della domanda di lavoro nella terraferma veneziana, e soprattutto nei comuni dell'area veneziana diversi dal capoluogo, ha continuato a crescere, rilevantemente, in termini assoluti, il numero dei lavoratori pendolari che trovano lavoro nel Comune di Venezia, ed in particolare proprio nella città storica, gli spostamenti pendolari per motivi di lavoro con origine dalla quale, e verso ogni destinazione, si sono invece fortemente ridotti. Così, al 1991, a fronte di circa 28 mila pendolari in entrata nella città storica, si avevano circa 7 mila pendolari in uscita dalla stessa città storica.

I trasferimenti di attività produttive dalla città storica di Venezia non sono, ad ogni buon conto, mai avvenuti in conseguenza di una impossibilità di reperire spazi attribuibile ad una disciplina urbanistica denegante la sottrazione di spazi alla funzione abitativa. Sono avvenuti per incompatibilità tra le modalità di esercizio contemporaneo (o degli ultimi trascorsi decenni) di tali attività, o di parti di esse, e gli assetti tipologici e morfologici degli spazi veneziani. Sono avvenuti per dinamiche afferenti strategie aziendali, o riassetti del capitale finanziario, o ristrutturazioni dei settori di appartenenza, comunque estranee alle discipline urbanistiche, e rispetto alle quali le discipline urbanistiche, ed in genere le politiche degli enti territoriali, sono (giustamente, secondo l'opinione prevalente ed ormai quasi unanime nel nostro Paese come nel resto del mondo) del tutto ininfluenti.

La "mortalità" delle "unità locali", cioè la cessazione di attività economiche, ha riguardato essenzialmente quelle strettamente legate (in termini di produzione e vendita di beni e servizi) alla funzione abitativa, cioè all'entità (ed in qualche misura alla composizione) della popolazione residente (panetterie, drogherie, lavanderie, per fare qualche esempio). La "natalità" di "unità locali" ha invece riguardato essenzialmente quelle legate all'uso temporaneo, soprattutto turistico, della città: non tanto, anzi per nulla affatto, la ricettività, quanto la produzione e vendita di beni e servizi rivolti ai turisti.

E' vero che nell'ultimo decennio intercensuario i posti di lavoro nella città storica di Venezia risultano diminuiti di un po' meno di 4 mila unità, ma di più di 5 mila, nello stesso decennio, sono diminuiti gli attivi residenti nella stessa città storica che in essa lavorano (la qual cosa ha ovviamente prodotto un ulteriore incremento dei pendolari in entrata). Per cui si può ritenere che anche tale fenomeno sia effetto delle dinamiche intercorse nell'entità e nella composizione della popolazione residente.

In conclusione, si può ben dire che il problema prioritario non è quello di facilitare, nella città storica di Venezia, l'insediarsi di qualsivoglia attività produttiva (in concreto, stanti le inerzie degli operatori, le dinamiche delle rendite, non solo immobiliari, le capacità "pervasive" e "totalizzanti" di certi settori economici, sempre quelle legate all'uso turistico della città). Ma é piuttosto quello di mantenere nella medesima città storica una qualche ricchezza di funzioni, e soprattutto una popolazione stabile di congrua entità e fisiologicamente articolata per ceti e classi d'età.

Per la qual cosa non basta certamente riservare spazi alla funzione abitativa, mediante una disciplina urbanistica che ne vincoli la destinazione d'uso. Non basta, ma é necessario.

1.3. Gli ambiti di trasformazione della morfologia urbana

Mentre, come dianzi si é ricordato, per la più gran parte della città storica il nuovo strumento urbanistico dettava disposizioni immediatamente precettive e direttamente operative (nel senso che nel loro rispetto potevano essere richieste ed abilitate le trasformazioni, fisiche e funzionali, delle singole unità di spazio), per 50 "ambiti" il medesimo strumento stabiliva che le più radicali trasformazioni in essi previste (non tutte le trasformazioni ammissibili, quindi) fossero subordinate alla preventiva formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio. Ciò in quanto per gli stessi ambiti (tranne che per uno di essi, l'Arsenale, assoggettato alla stessa disciplina per garantirne l'unitarietà di concezione e gestione fisico-funzionale) lo stesso strumento urbanistico disponeva fossero oggetto di trasformazioni riconducibili alla nozione di "ristrutturazione urbanistica".

Si trattava, in buona sostanza, delle aree oggetto di interventi edificatori in epoca successiva a quella che si può considerare la conclusione di una vicenda storica insediativa veneziana presieduta da regole precise e costanti: vuoi interventi di nuovo impianto, vuoi interventi di estesa riedificazione, vuoi ad elevato specialismo morfologico e funzionale (il Mulino Stucky, l'area della ex Junghans, la Marittima, Piazzale Roma, l'Isola nuova del Tronchetto, i cantieri ex CNOMV, tanto per fare qualche esempio), vuoi di tipo tradizionalmente residenziale (i quartieri di edilizia pubblica economica e popolare).

Tali scelte discendevano da una precisa nozione di insediamento urbano storico (in senso proprio, e stretto). Secondo tale nozione l'insediamento storico é inteso come l'area urbana che conserva, nelle caratteristiche dell'organizzazione territoriale, dell'assetto urbano, dell'impianto fondiario, nonché nelle caratteristiche strutturali, tipologiche e formali sia dei manufatti edilizi che degli spazi scoperti, i segni delle regole che hanno presieduto alla vicenda storica della sua conformazione.

Con tale definizione non si vuole affatto aderire ad una (banale ed infondata) lettura degli insediamenti storici quali prodotti (necessariamente) "armoniosi" di una unitaria (sincronicamente e diacronicamente) "visione" dell'organismo urbano. Si é al contrario ben consapevoli dell'essere gli insediamenti storici frutto e risultante di "conflitti": di conflitti degli uomini con i supporti fisico-ambientali del loro insediarsi, e di conflitti (di interessi materiali, religiosi, culturali) tra gli uomini, cioè tra individui, famiglie, gruppi, ceti, classi.

Il fatto é che la dinamica di tali conflitti si é dipanata, foggiando e trasformando gli insediamenti storici, nel rispetto di alcune regole di fondo, di alcune costanti dei rapporti tra l'attività trasformativa antropica ed il suo supporto fisico-ambientale (quello specifico supporto fisico-ambientale), tra le caratteristiche del sito (di quello specifico sito) e le esigenze umane (funzionali e di rappresentazione), tra i materiali disponibili e le tecniche costruttive.

Queste regole, queste costanti, sono identificabili, e danno ragione di quel che la vicenda storica degli insediamenti ha prodotto, e consentono l'autentica conservazione di quanto é essenziale degli elementi e degli aspetti in cui esse si sono inverate, conferendo ai relativi oggetti qualità di componenti del "patrimonio culturale" della comunità insediata, e dell'intera umanità, presente e futura, in quanto in essi sono sedimentate le memorie della loro vicenda.

Inoltre, come s'é già detto, esse sono specifiche di ogni singolo insediamento storico, la cui identità é pertanto irriducibile a quella di qualsiasi altro.

Questa é la ragione per la quale si assume che dell'assieme di ogni insediamento storico debba essere prescritta:

- la conservazione delle individuate caratteristiche, mediante la manutenzione, il restauro ed il risanamento conservativo degli elementi fisici in cui, e per quanto, esse siano riconoscibili e significative;

- il ripristino delle predette caratteristiche, mediante trasformazioni degli elementi fisici, in cui, e per quanto, esse siano state alterate.

E per la quale, concretamente, si assume che di ogni insediamento storico nel suo insieme si debbano prescrivere il mantenimento, ovvero la ricostituzione negli aspetti alterati in termini incompatibili od incongrui rispetto alle identificate caratteristiche e regole conformative:

- della maglia insediativa e dell'impianto fondiario storici;

- della giacitura e della larghezza degli elementi viari, nonché dei relativi arredi,

- del sistema degli spazi scoperti, nonché dei rapporti tra spazi scoperti, spazi coperti e volumi edificati.

Con ciò non si esclude affatto che di altre aree urbane, diverse dall'insediamento storico, non si prescriva, parimenti, la conservazione dei connotati concreti dell'esistente organizzazione morfologica, con il mantenimento finanche delle essenziali caratteristiche dimensionali e formali delle unità di spazio (unità edilizie e spazi scoperti) che le compongono.

Ma, in tali casi, la prescrizione discende da un giudizio positivo puntuale circa la "qualità" dell'organizzazione morfologica della specifica area urbana considerata. La qual cosa é legittimata dal fatto che, in epoca relativamente recente, a partire da quel determinato "momento" di "rottura" di cui precedentemente s'é detto a proposito delle unità edilizie, nella conformazione delle aree urbane le regole di fondo, le costanti, che avevano presieduto alle fasi precedenti della vicenda (raramente e comunque scarsamente formalizzate, ed in ogni caso, come s'é detto, con caratteri di specifica ed irriducibile individualità), sono state soppiantate da nuove regole (di norma formalizzate, anche se in termini assai differenziati), scarsamente, o per nulla, correlate alla specificità dei supporti fisico-ambientali e dei siti: regole largamente "riproducibili", cioè riproponibili (e di fatto riproposte) in luoghi diversi, e largamente, quindi, "fungibili". Per cui della loro applicazione é concettualmente legittimo prevedere di conservare non ogni esito (perché irripetibile), ma soltanto gli esiti giudicati più significativi e "riusciti" (in termini di "qualità").

Ad ogni buon conto, per gli "ambiti" che il nuovo strumento urbanistico disponeva fossero oggetto di trasformazioni riconducibili alla nozione di "ristrutturazione urbanistica" il medesimo strumento urbanistico dettava:

- precise direttive per la formazione dei prescritti relativi strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio;

- disposizioni circa le trasformazioni, fisiche e/o funzionali, effettuabili prima dell'entrata in vigore di tali strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio.

La componente del nuovo strumento urbanistico ora sommariamente esposta fu la prima (e per un po' l'unica) ad incontrare obiezioni critiche, nell'approssimarsi dell'adozione dello strumento stesso, e nel periodo immediatamente successivo, da parte di tre esponenti della cultura urbanistica: il prof. arch. Leonardo Benevolo, il prof. arch. Pierluigi Cervellati, l'arch. Roberto D'Agostino.

Essi affermarono [2] che il nuovo strumento era "del tutto indeterminato nelle scelte sulle grandi aree strategiche di accesso e di frangia sul cui uso si giocheranno i destini di Venezia".

Si replicò che così non era. Riferendosi ad una delle aree da essi citate, quella dello Stucky, si fece presente che per essa erano indicate dal nuovo strumento urbanistico, con puntuale riferimento a sue specifiche parti, destinazioni per archivi pubblici, per centro congressuale polivalente privato, per alberghi, per abitazioni, e che soltanto per una specifica parte si consentiva la successiva scelta (da parte del consiglio comunale, non della proprietà) tra destinazioni per alberghi e destinazioni per attività direzionali, uffici privati, sedi espositive, comunque funzionalmente integrate con il centro congressuale. Riferendosi ad un'altra delle aree da essi citate, quella della Marittima, si fece presente che per essa il nuovo strumento urbanistico disponeva di "destinare ad impianti portuali marittimi [...] la parte dell'ambito che risulti necessaria nel contesto di una riorganizzazione delle funzioni portuali nell'area lagunare veneziana, la quale comunque mantenga in Venezia insulare gli scali del traffico passeggeri, di linea e crocieristico", nonché di "destinare a spazi d'ormeggio attrezzati ed a ricovero, manutenzione, riparazione e noleggio di piccole imbarcazioni la totalità, o comunque una congrua quota, della parte dell'ambito che non risulti necessaria per le utilizzazioni [predette]", essendo possibile destinare una quota di tale seconda parte dell'ambito a strutture turistico-ricettive, purché di livello medio (pressoché mancanti in Venezia).

Gli stessi critici affermarono allora di ritenere inammissibile che il nuovo strumento urbanistico si permettesse di decidere in merito ad "aree strategiche" di rilievo addirittura sovracomunale, pur trattando soltanto la città storica insulare.

Si replicò che tale affermazione (oltretutto contraddittoria con la prima) era infondata, giacché, come il già fatto esempio di Marittima stava a dimostrare, in tali casi il nuovo strumento urbanistico subordinava esplicitamente la propria operatività, prima che ai redigendi strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio, a scelte da operarsi da parte della pianificazione sovraordinata (neppure generale comunale, ma provinciale o metropolitana o regionale). E che comunque le scelte indicate per le "aree strategiche" erano conformi, se non a determinazioni di strumenti di pianificazione territoriali vigenti (all'epoca, come per il vero tuttora, tale requisito non era posseduto neppure dal piano regionale per l'area della laguna di Venezia), agli orientamenti di quei disegni pianificatori a scala d'area vasta (in primis il piano comprensoriale dei primi anni '80) che avevano ricevuto i più vasti consensi culturali e politici, nonché ai più condivisi e più precisamente formulati orientamenti delle forze politiche localmente maggioritarie ed egemoni.

2. LA NUOVA GIUNTA, IL SUO OPERATO ED I SUOI ESITI

Il programma sulla cui base era stato eletto il sindaco Cacciari aveva previsto di procedere sollecitamente a definire la pianificazione attuativa di alcuni degli "ambiti" ad essa assoggettati dallo strumento generale adottato nel 1992, dando quindi per scontato il perfezionamento dell'iter formativo di quest'ultimo.

Per quasi due anni, invece, la nuova giunta non si è preoccupata di programmare la predisposizione, da parte degli uffici competenti, delle controdeduzioni alle osservazioni (non molte, anzi straordinariamente ed inconsuetamente poche) presentate allo strumento adottato.

Dopodiché, nell'estate del 1995, ha varato quattro proposte di deliberazioni consiliari, redatte dal consulente generale prof. arch. Leonardo Benevolo, che avrebbero modificato profondamente lo strumento adottato, intaccandone le caratteristiche salienti, snaturandolo e smantellandone l'impianto precettivo, per la qual cosa hanno ricevuto pesantissime critiche, tra le altre, da una quindicina di illustri urbanisti di tutta Italia, da Antonio Cederna a Tommaso Giura Longo, da Paolo Maretto a Bernardo Rossi Doria, da Antonio Iannello a Sandro Dal Piaz a Lucio Barbera, tanto per ricordare qualche nome.

Successivamente, tali proposte di deliberazioni consiliari, già sottoposte all'esame della competente commissione consiliare, sono state accantonate in quanto l'assessore all'urbanistica ha maturato la convinzione di doversi procedere non a controdedurre alle osservazioni presentate allo strumento adottato nel 1992 (pur essendo stato consegnato, nel ottobre del 1995, il progetto di controdeduzioni elaborato dall'ufficio comunale competente) e neppure a modificarlo per quanto necessario od opportuno, ma piuttosto a redigere, in qualche mese, un nuovo strumento urbanistico, e quindi "ricominciare da capo", con adozione, pubblicazione, osservazioni, ecc. ecc. A tale scelta operativa si sono espressamente dichiarate contrarie tre delle quattro componenti della originaria maggioranza (Verdi, Rifondazione Comunista ed Alleanza Democratica) ed una forza politica, come il PPI, con la quale, stante le nuove dinamiche nazionali, si punterebbe a trovare ampie intese. Ma l'assessore all'urbanistica non ne ha tenuto alcun conto, ed ha fatto conoscere (con un documento, redatto dal consulente generale prof. arch. Leonardo Benevolo, del 29 novembre 1955) le fondamentali caratteristiche innovative (rispetto allo strumento adottato nel 1992) dell'impostazione del nuovo strumento (che ricalca largamente quella espressa nelle quattro proposte di deliberazioni di cui dianzi s'è detto). Le medesime caratteristiche innovative sono state poi rienunciate, più sinteticamente, nel "progetto preliminare al piano regolatore generale", presentato alla fine di marzo del 1996.

Nel frattempo l'assessore comunale all'urbanistica faceva produrre ed esibire ponderose riflessioni in merito alle disposizioni che dovessero ritenersi ancora vigenti dei "piani particolareggiati" per la città storica degli anni '70, il cui periodo di tempo di piena efficacia, dopo un paio di proroghe, era definitivamente scaduto. Le conclusioni di tali riflessioni erano, in estrema sintesi, che dovessero ritenersi sempre vigenti soltanto le disposizioni relative alle trasformazioni fisiche effettuabili sui singoli edifici nelle cosiddette "zone di conservazione", e null'altro. In particolare, che non dovessero ritenersi più vigenti le cosiddette "destinazioni d'uso", neppure se riferite ad intere aree urbane.

Il fatto è che tutte quelle riflessioni, e le relative conclusioni , muovevano dal presupposto che quelli degli anni '70 fossero tipici "piani particolareggiati", e cioè strumenti urbanistici di specificazione del piano regolatore generale.

Così non era, e la cosa era stata puntualmente chiarita nei pareri della Commissione tecnica regionale fatti propri dalla Giunta regionale nelle deliberazioni di approvazione di quei piani.

Infatti, per ammettere la legittimità dei piani adottati dal Comune, si precisò che essi, correttamente ai sensi di molteplici disposizioni di leggi speciali per Venezia, "hanno assunto non solo la forma, ma anche il contenuto di piani di ricostruzione, ai quali può riconoscersi la duplice funzione di Piano regolatore generale e di piano particolareggiato, e, conseguentemente, l'attitudine autonoma a variare un Piano regolatore generale". E si aggiunse che "la funzione reale di piano particolareggiato" era invece riservata ai cosiddetti "piani di coordinamento".

Ne deriva che i piani per la città storica di Venezia formati negli anni '70 hanno da considerarsi "decaduti" quanto ad una parte dei loro contenuti tipici di "piani particolareggiati", ma vigenti a tempo indeterminato quanto ai loro contenuti di variante, modificativa ed integrativa, del Piano regolatore generale del 1962.

Ma, stanti le caratteristiche proprie sia di quei piani che del Piano regolatore generale del 1962, distinguere le due speci di contenuti appare impresa improba, e probabilmente impossibile. Cosicché si può tranquillamente asserire che vigono a tempo indeterminato tutte le disposizioni dei "piani particolareggiati" degli anni '70, con l'eccezione dei "vincoli" di destinazione per usi pubblici e/o collettivi che implichino l'espropriazione dei relativi immobili, in quanto essi "decadono" dopo cinque anni dall'entrata in vigore del Piano regolatore generale, o della sua variante, che li abbia posti.

Tra l'altro, deve ritenersi vigere a tempo indeterminato, in quanto in variante (integrativa) del Piano regolatore generale, la disposizione per cui quei "piani particolareggiati" dovevano essere specificati e dettagliati da "piani di coordinamento": disposizione, tra l'altro, rafforzata da una legge regionale [3]. 55/1977. E parimenti l'altra disposizione, derivante dalla prima, per cui, in assenza di vigenti "piani di coordinamento", e di successivi "progetti di comparto", erano ammissibili soltanto le opere di manutenzione ordinaria ed una parte di quelle di manutenzione straordinaria.

Insomma: deve ritenersi vigente a tempo indeterminato quell'infernale meccanismo di pianificazione "a scatole cinesi" che ha, o avrebbe, ove non fosse stato sovente disinvoltamente aggirato (ma tali disinvolture non sono di certo apprezzabili), davvero "ingessato" totalmente la città storica, per di più senza garantire affatto la qualità culturale delle trasformazioni, e cioè la preservazione dei valori dell'edilizia storica.

Quell'infernale meccanismo che si voleva correttamente superare con la variante generale per la città storica finalmente completata alla fine degli anni '80, ed adottata nel 1992: quella variante che sarebbe stato necessario fare rapidamente entrare in vigore, indirizzando gli uffici competenti ad attribuire la massima priorità alla formulazione delle controdeduzioni alle osservazioni pervenute, sottoponendo al consiglio comunale le medesime controdeduzioni non appena formulate, inoltrando lo strumento alla Regione per l'approvazione.

Mentre ricominciando da capo (a decorrere da non si sa quando) con l'adozione di un nuovo strumento, la pubblicazione dello stesso, il ricevimento delle osservazioni, la formulazione e la deliberazione delle controdeduzioni, nemmeno con la massima buona volontà si può supporre che tale nuovo strumento, capace di superare la situazione dianzi descritta, entri in vigore prima della fine del 1998.

E c'è dell'altro. All'inizio del mese di febbraio del 1996 è entrato in vigore il "Piano di area della laguna e dell'area veneziana" (PALAV), finalmente approvato dalla Regione. L'articolo 35 delle sue norme stabilisce che siano considerati "centri storici" quelli come tali perimetrati negli "atlanti provinciali" pubblicati a cura della stessa Regione: nel caso di Venezia, tra l'altro, l'intera città insulare, compresi Piazzale Roma, la Marittima, l'Isola Nuova del Tronchetto, e simili. Sono quindi dettate alcune direttive per l'adeguamento degli strumenti urbanistici generali comunali, e si stabilisce che, fino a quando non si sia provveduto a tale adeguamento, nei "centri storici" sono consentiti soltanto, oltre alle opere manutentorie, o gli interventi disciplinati da vigenti strumenti urbanistici attuativi (piani particolareggiati o strumenti equivalenti), o quelli disciplinati da Piani regolatori generali redatti in conformità alla legge regionale 31 maggio 1980, n.80 (la quale, in estrema sintesi, prescrive, per la disciplina urbanistica dei centri storici, l'uso del metodo dell'analisi e della classificazione tipologica).

Ebbene: i "piani particolareggiati" formati negli anni '70 sono indubbiamente "decaduti" in quanto strumenti urbanistici attuativi; vigono invece, come s'è visto, in quanto varianti del Piano regolatore generale, ma in quanto tali non sono conformi ai dettati della legge regionale 80/80. Per cui, o per una ragione, o per l'altra, non possono essere consentiti gli interventi da essi disciplinati. Alla predetta legge regionale 80/80 era invece conforme la variante generale per la città storica adottata nel 1992, ma non si è voluto farla entrare rapidamente in vigore. Con la conseguenza, ancora una volta, che in tutta Venezia insulare sono presentemente consentibili soltanto gli interventi manutentori, nonché qualche intervento disciplinato da alcuni strumenti urbanistici attuativi, relativi a pochissime e circoscritte aree, formati negli ultimi anni.

E non basta: la situazione è quella sommariamente descritta, ma che così sia non si è voluto riconoscere. Per cui, presumibilmente, sono state rilasciate quantità non irrilevanti di provvedimenti abilitativi (concessioni ed autorizzazioni) eccedenti i limiti strettissimi di quel che era consentibile, e quindi illegittimi.

(segue)

[1] Mariolina Toniolo, La formazione dell'area metropolitana letta attraverso il mercato immobiliare, I.R.S.E.V., riprodotto in proprio, Venezia, 1991.

[2] "Tre grandi urbanisti italiani bocciano il piano regolatore", in Il Gazzettino di Venezia del 29 novembre 1992.

[3] La legge regionale 9 settembre 1977, n.55, recante "Attuazione dei piani particolareggiati nell'ambito del Comune di Venezia".

3. IL NUOVO PIANO

Alle metà di giugno del 1996 l'attuale Giunta comunale ha varato, e sottoposto al Consiglio, una nuova variante generale al piano regolatore di Venezia, relativa alla città storica insulare, che, in buona sostanza, assorbe i lavori compiuti, e gli elaborati prodotti, in funzione di quella adottata alla fine del 1992, snaturando peraltro le caratteristiche essenziali di quest'ultimo strumento con alcune ben mirate modificazioni.

Tali modificazioni corrispondono, sostanzialmente (con qualche correzione rivolta ad ovviare alle più sfacciate violazioni di legittimità, od ai più evidenti "svarioni" culturali, messi in luce dal dibattito dei mesi precedenti), a quelle indicate, circa un anno prima, dalle quattro proposte di deliberazione di cui s'è detto.

Per effetto di tali modificazioni un complesso sistematico di "regole", discendenti dalle caratteristiche in essere del territorio, dotato di interni meccanismi di correzione e di adeguamento che ne garantivano sia la flessibilità che la coerenza, definito nella trasparenza del processo democratico, qual'era la variante adottata nel 1992, verrebbe sostituito da un catalogo di "suggerimenti", che tutti (e soprattutto i detentori di "poteri forti", e quelli che avessero "santi in paradiso", e meglio sapessero "contrattare") potrebbero seguire o non seguire, scegliendo à la carte in funzione dei propri interessi, e concordando caso per caso i propri obblighi, in uno scenario di opaca discrezionalità che corromperebbe profondamente i titolari dei pubblici poteri, sia politici che amministrativi, ed i loro rapporti con i cittadini.

Ma non sarebbe soltanto snaturato un piano: concretamente, e di conseguenza, sarebbe snaturata la città storica di Venezia, nelle sue essenziali caratteristiche sia fisiche che sociali.

3.1. Trasformazioni fisiche valutabili discrezionalmente, caso per caso

Una prima modificazione muove dal falso presupposto che nel classificare (nello strumento adottato nel 1992) le unità edilizie preottocentesche non si sia tenuto adeguato conto delle intervenute alterazioni delle caratteristiche tipologiche originarie. Falso in quanto, proprio a questo fine, erano state identificate le due classi delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni".

In base al predetto presupposto si vorrebbe prevedere (articolo 4 delle Norme del nuovo strumento) che, al momento della domanda dell'abilitazione ad operare trasformazioni, si effettui un "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto".

Secondo tale "procedimento" il proprietario dell'unità edilizia dichiarerebbe l'unità edilizia stessa "integra", oppure "ristrutturata in modo reversibile", oppure "trasformata in modo irreversibile". Per suffragare tale dichiarazione sarebbe tenuto a produrre nulla più che i medesimi elaborati relativi alla documentazione dello stato di fatto dell'unità edilizia che lo strumento adottato nel 1992 prescriveva in tutti i casi di richieste di provvedimenti abilitativi ad operare trasformazioni. La dichiarazione sarebbe esaminata da una "commissione scientifica comunale" (non si specifica né cosa sia né da chi sia composta), che avrebbe tempo non più di venti giorni per dire la sua, e sarebbe accettata o respinta dal "responsabile del procedimento" (cioè da un funzionario comunale dell'edilizia privata) entro novanta giorni, trascorsi i quali, con il meccanismo del "silenzio assenso", sarebbe automaticamente confermata la dichiarazione del proprietario.

Soltanto ove lo stato dell'edificio fosse, con questa procedura, definito "integro", varrebbero le precise disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" dettate dallo strumento del 1992, puntualmente riferite alle caratteristiche identificative e distintive di ognuno dei "tipi" edilizi, dallo stesso strumento definite e descritte.

Mentre per le unità edilizie dichiarate "ristrutturate in modo reversibile" sarebbero ammissibili, alternativamente, le medesime "trasformazioni fisiche ammissibili" dettate dallo strumento del 1992 (chiamate, chissà perché, di "restauro"), "combinate" con quelle di "ripristino" delle situazioni originarie, "in modo da avvicinarsi il più possibile al modello descritto" (dallo strumento del 1992), oppure, a discrezione, "altri interventi volti a conservare o a modificare ulteriormente la situazione presente, purché il nuovo assetto non risulti incompatibile, o maggiormente incompatibile, col recupero del modello originario".

E per le unità edilizie dichiarate "trasformate in modo irreversibile" sarebbero ammissibili, alternativamente, le trasformazioni "volte a salvaguardare gli elementi antichi superstiti, e a conservare o modificare ulteriormente la situazioni presente, che comunque non vadano ad alterare i rapporti col contesto, ad accrescere il volume, la superficie lorda, il numero dei piani, né a modificare l'inviluppo complessivo", oppure, a discrezione "la ricostruzione dell'organismo originario mediante il ripristino filologico o tipologico".

Secondo le definizioni delle "tipologie di intervento" (articolo 3 delle Norme del nuovo strumento), che si vorrebbe ad ogni costo introdurre, il "ripristino filologico" si effettuerebbe "quando è disponibile una documentazione individuale del manufatto, attraverso i resti superstiti e/o i disegni e le descrizioni dell'edificio", ed il "ripristino tipologico" si effettuerebbe "quando si conosce solo il modello tipologico del manufatto, desunto dal sedime, dall'appartenenza a una serie di edifici circostanti, e/o dalle rappresentazioni storiche in pianta e in alzato", nel qual caso "è possibile edificare un nuovo manufatto, che sia la replica del modello tipologico": cioè realizzare un bel falso architettonico !.

Non occorre, si ritiene, sottolineare l'estrema genericità e vaghezza delle disposizioni alle quali dovrebbe sottostare la progettazione, e l'attuazione, delle trasformazioni, ogniqualvolta l'unità edilizia fosse dichiarata, con il procedimento discrezionale e "caso per caso" dianzi descritto, "ristrutturata in modo reversibile" o "trasformata in modo irreversibile".

Si noti inoltre che in ogni caso (cioè in qualsivoglia stato siano dichiarate le unità edilizie) si vorrebbe precisare che sono ammissibili comunque (quindi a prescindere dal rispetto delle disposizioni replicate o introdotte ex novo) le trasformazioni di manutenzione sia ordinaria che straordinaria. Palesemente non essendo riusciti a comprendere la logica dello strumento adottato nel 1992, che assoggettava alle stesse disposizioni, puntualmente riferite alle caratteristiche riconosciute di ogni unità edilizia, tutte le trasformazioni fisiche, in qualsivoglia delle (famigerate, verrebbe da dire, per gli usi che si è preteso e si continua a pretendere di farne) "categorie d'intervento" esse rientrassero.

3.2. Pressappochismi e sciatterie

Il "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto", e quanto ne consegue in termini di disposizioni da osservare, è dalla sistematica dell'apparato normativo del nuovo strumento (si veda l'articolo 4 delle Norme), riferito a tutte le "unità di spazio", quindi, secondo l'impostazione dello strumento adottato nel 1992, e confermata da quello nuovo, sia alle "unità edilizie" che alle "unità di spazio scoperto". Ma, sia per la terminologia usata che per le concrete indicazioni date (e largamente citate nel precedente paragrafo 3.1.), appare smaccatamente pertinente alle sole unità edilizie.

Non basta: riferendosi alle unità edilizie, i predetti dispositivi dovrebbero valere per tutte quelle classificate dagli elaborati grafici e dall'apparato normativo, od almeno da uno dei suoi elaborati, e quindi anche, ad esempio, per le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e per le "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto" (le uniche categorie, come si dirà in prosieguo, introdotte dal nuovo strumento, non comparenti nelle Norme, ma comparenti nell'Appendice 1, che ne costituisce parte integrante). Per le prime, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto", la Scheda 28 dell'Appendice 1 dispone che siano ammissibili sia la "ristrutturazione con vincolo parziale, di conservazione delle murature esterne e del volume", sia, a determinate condizioni, la demolizione e ricostruzione. Per le seconde, le "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto", la Scheda 29 dell'Appendice 1 dispone che in assenza di uno "strumento urbanistico esecutivo" siano ammissibili, oltre alle trasformazioni manutentorie, soltanto la demolizione senza ricostruzione, e che lo "strumento urbanistico esecutivo" possa prevedere anche la riedificazione. In entrambi i casi, quale applicabilità può aversi dei succitati dispositivi?

Dalle Norme del nuovo strumento non sono trattate le categorie di unità edilizie che, come si è detto nel precedente paragrafo 3.1., lo strumento del 1992 denominava "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni". La cosa potrebbe essere considerata coerente conseguenza del previsto "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto", per cui qualsiasi unità edilizia potrebbe essere definita "ristrutturata in modo reversibile" o "trasformata in modo irreversibile" (per usare la terminologia del nuovo strumento), e quindi, anche, "parzialmente trasformata" o "oggetto di fusioni od addizioni" (per usare la terminologia di quello del 1992). Ma, invece, le categorie delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni" continuano a comparire negli elaborati grafici e nell'Appendice 1 (che delle Norme costituisce parte integrante): col che ogni coerenza va a farsi benedire. Ed assieme alla coerenza va a farsi benedire anche l'applicabilità dello strumento: sia perché le disposizioni dettate nelle Schede 8 e 9 dell'Appendice 1 non trovano inquadramento, e fondamento, nelle Norme, sia perché le medesime disposizioni non sono registrate (né registrabili) con quelle date dall'articolo 4 delle Norme per le unità edilizie che siano dichiarate "ristrutturate in modo reversibile" o "trasformate in modo irreversibile".

Parimenti, dalle Norme del nuovo strumento non é trattata la categoria di unità edilizie che lo strumento del 1992 denominava "unità edilizie di base residenziali ottocentesche di ristrutturazione", che però continua a comparire negli elaborati grafici e nell'Appendice 1: anche in questo caso, le disposizioni dettate nella Scheda 11 non trovano inquadramento, né fondamento, nelle Norme, con conseguente ardua applicabilità.

Le Norme del nuovo strumento trattano con un unico complesso di disposizioni (dettato dall'articolo 12) le "unità edilizie di pregio architettonico" sia "complessivo" che "limitato all'assetto esterno", laddove le Norme dello strumento del 1992 trattavano separatamente le due categorie delle "unità edilizie di complessivo pregio architettonico" e delle "unità edilizie di pregio architettonico limitato all'assetto esterno". Le due categorie ora citate sono peraltro, nel nuovo strumento, distintamente individuate negli elaborati grafici, e distintamente trattate nell'Appendice 1: ma, essendo le disposizioni dettate dall'articolo 12 delle Norme rimaste quelle che lo strumento del 1992 aveva definito specificamente, ed unicamente, per le "unità edilizie di complessivo pregio architettonico", vi è piena ed insanabile contradditorietà con quelle dettate dalla Scheda 13 per le "unità edilizie di pregio architettonico limitato all'assetto esterno", parimenti trascritte dallo strumento del 1992.

Nelle Norme del nuovo strumento non compaiono le "unità edilizie di base a tipologia mista", disciplinate dallo strumento del 1992. In questo caso, in coerenza con gli altri elaborati: infatti, negli elaborati grafici del nuovo strumento, le indicazioni di appartenenza di talune unità edilizie, o, meglio, di loro parti, a diverse categorie, sono state sostituite dalla riconduzione di tali unità edilizie ad un'unica categoria. Con il risultato che unità edilizie derivanti dall'addizione di uno o più piani, configurati come "residenziali", ad un "capannone", sono incluse nelle categorie delle "unità edilizie di base a capannone", e che anche tali piani aggiuntivi dovrebbero sottostare alle puntuali disposizioni dettate, in considerazione delle loro specifiche caratteristiche, già dallo strumento del 1992, per le "unità edilizie di base a capannone".

Il nuovo strumento riconduce tutte le unità edilizie novecentesche in sei sole categorie (contro le dieci dello strumento del 1992):

- le "unità edilizie novecentesche di complessivo pregio architettonico" e le "unità edilizie novecentesche di pregio architettonico limitato all'assetto esterno", delle quali già si è detto;

- le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone a fronte acqueo" e le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone senza fronte acqueo";

- le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto".

E' arduo intendere le ragioni per le quali l'assoluta non pertinenza delle classificazioni riferite alle caratteristiche "tipologico-strutturali" con l'edilizia novecentesca, sostenuta dagli estensori del nuovo strumento, non valga per le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone a fronte acqueo" e le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone senza fronte acqueo", considerate anche dal medesimo nuovo strumento, e valga invece per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura unitaria", per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura modulare", per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura modulare complessa", per le "unità edilizie speciali novecentesche ad impianto singolare o non ripetuto", che, invece, erano considerate dallo strumento del 1992, e non lo sono dal nuovo strumento.

E' da verificare se, ed in quale misura, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto" coincidano, in termini individuativi, cioè negli elaborati grafici, con le unità edilizie classificate, dallo strumento del 1992, "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", oppure "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano". Tale ultima classificazione è stata contestata dagli estensori del nuovo strumento in quanto si è negato (in contrasto con i fondamentali studi di Saverio Muratori, Paolo Maretto, Gianfranco Caniggia) che siano esistite, e siano riconoscibili, delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano" veneziano. In proposito, si potrebbe chiedersi perché l'articolo 1 delle Norme del nuovo strumento dichiari che "la disciplina urbanistica riconosce le regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento".

Ad ogni buon conto, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto" non sono trattate dalle Norme del nuovo strumento, per cui, anche in questo caso, le disposizioni dettate nelle Schede 28 e 29 dell'Appendice 1 non trovano inquadramento, né fondamento, nelle Norme, con conseguente ardua applicabilità.

Delle "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" la Scheda 28 dispone che siano ammissibili, in base a provvedimento abilitativo in diretta applicazione dello strumento generale, la "ristrutturazione con vincolo parziale, di conservazione delle murature esterne e del volume", con "possibilità di limitate correzioni del partito architettonico esterno, motivate dalle trasformazioni interne". E' invece richiesta la vigenza di uno "strumento urbanistico esecutivo" per effettuare trasformazioni di "demolizione e ricostruzione sullo stesso sedime o su sedime diverso, con le limitazioni di volume e di altezza stabilite dallo strumento stesso". Non si vede per quale ragione la demolizione e ricostruzione, ove avvenga sull'identico sedime, e sia disposto avvenga con l'identico volume e l'identica altezza, di un edificio, debba essere subordinata ad un "piano urbanistico esecutivo", tipico strumento di specificazione di assetti morfologici diversi da quelli in essere

Delle "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto" la Scheda 29 dispone che "in assenza di indicazioni date da uno strumento urbanistico esecutivo, l'unico intervento ammesso, oltre la manutenzione ordinaria e straordinaria, è la demolizione senza ricostruzione, assimilando il suo sedime all'unità di spazio scoperto in cui è collocata", mentre "all'interno di uno strumento urbanistico esecutivo può essere indicata l'utilizzazione alternativa del sedime, come spazio scoperto o per una nuova edificazione non commisurata alle caratteristiche del manufatto edilizio". A prescindere dalla chiarezza espressiva, le disposizioni non sono sostanzialmente diverse da quelle dettate dallo strumento del 1992 per le "unità edilizie incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", se non perché in quest'ultimo strumento non si prescriveva mai la demolizione senza ricostruzione.

La cura, l'attenzione e l'intelligenza con cui si è proceduto a "manomettere" gli elaborati dello strumento del 1992 sono, infine, ottimamente esemplificate dall'articolo 13 delle Norme del nuovo strumento, recante "prescrizioni comuni alle unità edilizie". Il comma 1 di tale articolo detta disposizioni da osservarsi nelle "trasformazioni fisiche consentite o prescritte nelle unità edilizie di cui ai precedenti articoli". Il comma 2 del medesimo articolo, "sforbiciato" per renderlo coerente con il fatto che nelle Norme non compaiono (come s'è già detto, ma non se ne intende la ragione) riferimenti a categorie di unità edilizie comparenti, invece, sia negli elaborati grafici che nell'Appendice 1, dispone che "il rispetto delle prescrizioni di cui al comma precedente può essere richiesto anche nei casi di effettuazione di trasformazioni fisiche consentite o prescritte nelle unità edilizie di cui ai precedenti articoli": cioè nelle stesse unità edilizie per le quali il rispetto delle medesime prescrizioni era, dal comma precedente, tassativamente richiesto!

Quanto agli spazi scoperti, non si intende la ragione per la quale nelle Norme del nuovo strumento, rispetto a quelle dello strumento del 1992, siano state soppresse le disposizioni generali relative ai "percorsi carrabili" ed ai "percorsi ferroviari", pur presenti, sebbene in termini assai limitati, in Venezia insulare.

3.3. Libertà di mutamenti d'uso

Una ulteriore modificazione essenziale riguarda la disciplina delle "destinazioni d'uso".

Una delle proposte di deliberazione di cui dianzi s'è detto prevedeva la totale eliminazione d'ogni vincolo di destinazione d'uso.

Il nuovo strumento, negando la distinzione, operata dallo strumento adottato nel 1992, tra momento "strutturale", valido a tempo indeterminato, che definisce le gamme di "utilizzazioni compatibili", e momento "programmatico", da aggiornare con periodicità quadriennale, che fissa (soltanto per quanto ritenuto necessario od opportuno) le "destinazioni d'uso", prevede l'"assorbimento" della determinazione delle "destinazioni d'uso" nella determinazione delle "utilizzazioni compatibili" (articolo 21 delle Norme del nuovo strumento).

Per cui le utilizzazioni in atto potrebbero essere generalmente modificate attivando una delle altre utilizzazioni già definite "compatibili" dallo strumento del 1992. Salvo che siano in atto utilizzazioni per "abitazioni", "industrie", "impianti per la cantieristica minore" od "impianti per la cantieristica minore", nel qual caso il mutamento sarebbe ammesso soltanto ove si pronunciasse favorevolmente la solita fantomatica "commissione scientifica comunale" e la commissione consiliare per l'urbanistica.

Di nuovo, quindi, un complesso di "regole", certe ed uguali per tutti quelli che ricadessero in predeterminate situazioni, quale quello definito dallo strumento del 1992 (e dettagliatamente descritto al precedente paragrafo 1.2.) sarebbe sostituito da un procedimento discrezionale, nel quale deciderebbero, caso per caso, un organo tecnico ed addirittura un organo politico, chiamato il primo non all'interpretazione ed all'applicazione tecnica di una norma, ma a concorrere ad una decisione, ed il secondo non a stabilire regole, ma a decidere, di volta in volta, sui singoli casi concreti, senza predefiniti criteri di valutazione.

Nei fatti, si può agevolmente prevedere che chiunque si vedesse, eventualmente, su tali basi negata la facoltà di attivare un'utilizzazione diversa da quella in atto (abitativa, poniamo), e ricorresse al TAR avverso il diniego, otterrebbe ragione, proprio in conseguenza dell'inammissibile discrezionalità del procedimento. E conseguentemente la difesa delle funzioni "deboli" (di quella abitativa in primo luogo) si tradurrebbe in una mera finzione, in una drammatica burla.

Ci si deve ad ogni modo compiacere del fatto che, grazie alle polemiche suscitate dalla predetta precedente proposta di deliberazione, ci si è resi conto del fatto che eliminare (come quella proposta di deliberazione voleva) ogni vincolo d'uso relativamente alle destinazioni per strutture pubbliche e/o per attività collettive, così come alle destinazioni per attività ricettive, sarebbe stato illegittimo, in quanto non avrebbe rispettato le norme statali e regionali in argomento.

Così compare tra gli elaborati grafici del nuovo strumento (si veda il punto 2.4.3 dell'articolo 2 delle Norme) la "tavola contrassegnata dalla sigla B2, in scala 1:3.550 [perché questa scala anomala proprio per l'indicazione del "vincoli urbanistici"?] recante l'individuazione delle aree [...] pubbliche o riservate alle attività collettive a servizio della città antica [...] e l'individuazione delle strutture ricettive alberghiere".

Per il vero, in tele tavola compaiono, oltre alla voce "strutture ricettive alberghiere", le voci:

- aree per servizi esistenti

a. aree per l'istruzione

pubbliche

private

b. aree per attrezzature di interesse comune

pubbliche

private

c. aree per attrezzature per il gioco e lo sport

pubbliche

private

d. aree per parcheggi

pubbliche

private

- aree per servizi di progetto

L'elaborato grafico, pertanto, imprime specifiche, vincolanti destinazioni d'uso (per l'istruzione, per attrezzature d'interesse comune, per parcheggi), ad immobili privati, i quali già hanno la relativa utilizzazione in atto, precludendone il mutamento, in casi diversi da quelli normati dal dianzi citato articolo 21 delle Norme del nuovo strumento. Ma tale vincolo non trova alcun riferimento nelle Norme.

Si pretenderebbe, anche con tali "vincoli", di avere adempiuto agli obblighi di dotazione di spazi per strutture pubbliche e/o per attività collettive posti dalle vigenti leggi, ma tali spazi, per potere soddisfare i predetti obblighi, devono essere pubblici, o deve essere prescritto lo divengano (si veda, in particolare, l'articolo 25 della legge regionale 27 giugno 1985, n.61, al comma dodicesimo e passim: soltanto per i parcheggi è ammesso, al quarto comma, il "vincolo convenzionale d'uso pubblico").

Vero è che le Norme dello strumento del 1992 prevedevano espressamente che ove i soggetti pubblici istituzionalmente competenti all'utilizzazione delle unità di spazio destinate a specifiche utilizzazioni per strutture pubbliche e/o per attività collettive (teatri, cinematografi, locali di spettacolo, impianti scoperti per la pratica sportiva, impianti coperti per la pratica sportiva, impianti per lo spettacolo sportivo, parcheggi attrezzati scoperti, autorimesse, strutture per l'istruzione) non intendessero procedere all'acquisizione delle medesime unità di spazio, avrebbero potuto lasciarne temporaneamente la gestione a soggetti privati, ma in base ad idonee convenzioni, le quali stabilissero tra l'altro: "l'eventuale corrispettivo della concessione", nonché "i modi, le forme ed i limiti dell'utilizzazione e/o delle attività di gestione", e soprattutto "i modi ed i limiti della fruizione da parte dei terzi dell'unità di spazio [...], secondo le finalità d'ordine collettivo connaturate alla specifica destinazione d'uso". Ma, per l'appunto, una tale possibilità era considerata eccezionale, temporanea, circoscritta a peculiari funzioni, prevista da precise disposizioni, vincolata all'ottenimento di garanzie da stabilirsi in termini predeterminati. Nulla di tutto ciò nel nuovo strumento, giacché le sue Norme dell'argomento non fanno nemmeno menzione.

L'elaborato grafico, inoltre, vincola immobili, genericamente, a "servizi di progetto", senza articolarne tale generica destinazione neppure nelle quattro grandi categorie di cui al DM 1444/1968 (riprese dalla legislazione regionale).

Vero è, anche in questo caso, che le Norme dello strumento del 1992 prevedevano che la specifica destinazione d'uso, delle unità di spazio alle quali era attribuita la destinazione per strutture pubbliche e/o per attività collettive, potesse essere determinata, ovvero variata qualora già indicata, con semplice deliberazione del Consiglio comunale, ma ciò solamente all'interno delle destinazioni riconducibili alle due grandi categorie delle "aree per l'istruzione" e delle "aree per attrezzature d'interesse comune", ed a condizione che fosse dimostrato e garantito il rispetto delle vigenti disposizioni in merito alle dotazioni minime di spazi per servizi pubblici e/o d'uso collettivo, con riferimento alle predette "aree per l'istruzione" ed "aree per attrezzature di interesse comune". Anche in questo caso, nulla di tutto ciò nel nuovo strumento.

Per tutte le ragioni suesposte, è assai da dubitare che il nuovo strumento rispetti le vigenti disposizioni in ordine ai rapporti tra capacità insediativa e quantità (determinate distintamente per l'istruzione, le altre attrezzature, il verde ed i parcheggi) di dotazioni pro capite di spazi per strutture pubbliche e/o per attività collettive.

3.4. Gli "ambiti"

Una quarta modificazione essenziale consiste nella revisione delle disposizioni relative ai 50 "ambiti" per i quali lo strumento del 1992 prevedeva che le più radicali trasformazioni in essi previste fossero subordinate alla preventiva formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio (piani particolareggiati). Essa comporta innovazioni di approccio e procedimentali, ed innovazioni di merito.

Giova ricordare (se ne è parlato al precedente paragrafo 1.3.) che tale previsione dello strumento del 1992 fu la prima ad incontrare obiezioni critiche da parte del prof. arch. Leonardo Benevolo, del prof. arch. Pierluigi Cervellati e dell'arch. Roberto D'Agostino.

La severa critica per cui lo strumento urbanistico adottato nel 1992 sarebbe stato "del tutto indeterminato nelle scelte sulle grandi aree strategiche", oppure (basta mettersi d'accordo: con sé stessi, si vuole dire) si sarebbe permesso di decidere sulle stesse, pur avendo ambito di competenza subcomunale, ha continuato incessantemente ad essere reiterata, sempre con riferimento a quello strumento urbanistico.

Mentre, successivamente, si è affermato[1], il "micidiale dispositivo è [stato] disinnescato". Da che cosa? che cosa è cambiato? semplice: degli autori di quella critica uno é divenuto assessore all'urbanistica e l'altro suo consulente.

Uno dei due, il prof. arch. Leonardo Benevolo, contestando lo strumento adottato nel 1992, aveva scritto che il "percorso dal piano [...] del centro storico ai 50 piani particolareggiati [degli "ambiti"] é inaccettabile e rovinoso: offre lo strumento tecnico per dribblare un ragionamento di pianificazione generale ancora mancante, e per andare direttamente al fatto compiuto, area per area. Le norme registrano alcuni patteggiamenti già avvenuti come le localizzazioni universitarie alla Giudecca [2], le residenze e gli uffici un po' dovunque [3], e aprono la strada ad altri patteggiamenti [...]. Questo piano si arrende alla logica dominante e offre agli interessi forti l'occasione per restare defilati, di non affrontare il giudizio globale e democratico implicito nella procedura di un vero piano regolatore in scala adeguata".

Naturalmente, invece, definire in termini esecutivi le trasformazioni della sventagliata di aree (Stucky, ex Scalera, Junghans, tra le altre) interessate dal cosiddetto "Progetto Giudecca", al di fuori di uno strumento unitario riguardante almeno la città storica lagunare, era ed é accettabilissimo e benefico. Soprattutto se lo si fosse fatto senza definire (in molti casi) neppure un piano particolareggiato unitario per ognuno degli ambiti coinvolti, ed attendendo che scadesse il regime di salvaguardia delle previsioni dello strumento adottato nel 1992 per disattenderle ove dessero fastidio, spostando di sito alberghi, residence, abitazioni e quant'altro.

Com'era accettabilissimo e benefico proporre, già nell'estate del 1994, una deliberazione (poi fortunatamente, o fortunosamente, insabbiatasi presso la competente commissione consiliare) relativa all'Isola Nuova del Tronchetto, che avrebbe disatteso e contraddetto le scelte operate circa l'Isola, da atti di pianificazione e da altri atti amministrativi di istituzioni veneziane, da e per quasi quindici anni.

Che avrebbe negato, ridicolizzandola, l'esigenza di garantire prioritariamente, nell'Isola Nuova del Tronchetto, il soddisfacimento di tutte le esigenze di approvvigionamento, di magazzinaggio, di deposito, esprimibili dalle attività economiche operanti nella città storica. Che non avrebbe consentito di ovviare alle irrazionalità ed alle diseconomie del sistema degli approvvigionamenti della città storica di Venezia, così da potere, tra l'altro, regolamentare il trasporto delle merci nei canali e nei rii in termini sostenibili dal tessuto urbano ed edilizio veneziano. Che avrebbe riproposto, oltre un trentennio dopo la cancellazione dal Piano regolatore generale comunale del "centro direzionale" accanto alla "testa di ponte", la medesima scelta, esaltando lo squilibrio complessivo della città lagunare, e condannando all'impoverimento funzionale i suoi quartieri meno prossimi alla "testa di ponte".

In proposito, allora, il prof. arch. Leonardo Benevolo ammannì pubblicamente, al colto ed all'inclita, la fantasiosa fola per cui il piano comprensoriale, nella versione del 1979, da lui avallata come componente del comitato scientifico del Comprensorio, avrebbe precluso ogni e qualsiasi trasformazione ed utilizzazione dell'Isola Nuova del Tronchetto, al fine di indurre la SVIT a regalarne la proprietà al Comune, od a demolire l'isola con un gesto di titanica disperazione, mentre, tramando nell'ombra, l'allora assessore comunale all'urbanistica si inventava la destinazione ad "interscambio merci", cosi da rilanciare, con una scelta da allora (chissà perché) irreversibile, l'edificabilità dell'isola.

Fantasiosa fola: anzi, spudorata menzogna. Giacché nella versione del 1979 del piano comprensoriale, consegnata dal Segretario del Comprensorio arch. Vezio E. De Lucia al Presidente avv. Antonio Casellati, ed avallata dal prof. arch. Leonardo Benevolo come componente del comitato scientifico del Comprensorio, l'Isola Nuova del Tronchetto era inequivocabilmente destinata (tutta e soltanto, ma non é di questo che si discute) alla funzione di "interscambio urbano merci", con edificazione di strutture le cui superfici ed i cui volumi avrebbero dovuto essere determinati in riferimento all'integrale soddisfacimento delle esigenze di approvvigionamento della città storica veneziana. Anche i grandi urbanisti dicono le bugie (talvolta?).

Dell'Isola Nuova del Tronchetto, ad ogni buon conto, si tratterà di nuovo, diffusamente, in prosieguo.

3.4.1. Piani particolareggiati, progetti unitari e piani di recupero

Il nuovo strumento manterrebbe la prescrizione dell'obbligatoria formazione di piani particolareggiati (articolo 23, commi 1, 2, 3 e 4, delle Norme del nuovo strumento) soltanto per 16 "ambiti":

- Tronchetto (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Marittima (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Stazione F. S. di S. Lucia (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Piazzale Roma (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, al quale viene peraltro sottratto il complesso detto dei "Magazzini Parisi");

- Ex piazza d'armi (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Italgas" ed "Area Scomenzera");

- S. Marta/S. Basilio (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992);

- Ex orto botanico (corrispondente, con qualche incomprensibile modifica della perimetrazione, ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "ENEL");

- Arsenale (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Arsenale" e "Cantieri C.N.O.M.V.");

- S. Pietro di Castello (introdotto dal nuovo strumento, salva una parte, inclusa dallo strumento del 1992 in un "ambito" denominato "I.A.C.P. Quintavalle");

- Ex cantieri A.C.T.V. (coincidente con metà di un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "Cantieri A.C.T.V./Cantieri Celli");

- Giardini della Biennale (corrispondente, con una limitata modifica della perimetrazione, ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Ex cantieri Celli (coincidente con l'altra metà dell'"ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "Cantieri A.C.T.V./Cantieri Celli");

- Area Muner (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Molino Stucky/Scalera/Trevisan (corrispondente all'unione di due "ambiti", individuati dallo strumento del 1992 e da esso denominati "Mulino Stucky" e "Scalera Film", nonché di una vasta area alle spalle, verso la laguna, del complesso del Mulino Stucky);

- Tappetificio Gaggio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Area Junghans (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Junghans 1" e "Junghans 2").

I piani particolareggiati relativi ai predetti "ambiti" dovrebbero rispettare le direttive (sempre, anche se in diversa misura, assai più generiche di quelle stabilite dallo strumento adottato nel 1992) dettate da un'apposita appendice alle Norme. E, per il vero (ma lo si deduce soltanto dal punto 2.4.4.2 dell'articolo 2 delle Norme del nuovo strumento), anche le indicazioni di tre tavole, in scala 1:2.000, "indicative dell'assetto urbanistico risultante".

Peraltro, è precisato (al punto 1.3.2 dell'articolo 1 delle Norme del nuovo strumento), "le trasformazioni fisiche e funzionali e la configurazione dell'assetto territoriale degli ambiti [...] possono - motivatamente e su conforme parere della Commissione scientifica comunale - essere rispettivamente definite e organizzate in termini diversi da quelli previsti negli elaborati costituenti l'Appendice". La formulazione è tale da non precludere (quali che fossero le intenzioni degli estensori e dei proponenti del nuovo strumento) alcuna difformità, foss'anche la più radicale, dei contenuti dei piani particolareggiati dalle direttive per essi dettate dallo strumento generale.

Con ciò, le decisioni pianificatorie generali, capaci di considerare unitariamente l'intera città, attribuendo, in una visione unitaria d'insieme, pesi (cioè quantità di spazi, edificati e non edificati) e funzioni alle sue diverse parti, sarebbero svuotate di significato, potendo successivamente essere contraddette "a pezzi e bocconi".

Oltretutto, la cosa sarebbe patentemente in contrasto con la vigente legislazione regionale, che prevede che gli strumenti urbanistici particolareggiati siano autonomamente definiti dai comuni, proprio in quanto esige che essi siano conformi a strumenti urbanistici generali, i quali, invece, devono essere controllati da un'istituzione sovraordinata (la regione o, in prospettiva, la provincia), per garantirne al rispondenza ad interessi più complessivi. E come potrebbe essere effettuata tale verifica, ove uno strumento urbanistico generale non dettasse disposizioni vincolanti neppure relativamente agli elementi essenziali, quali le quantità e le dimensioni dell'edificabile, e le funzioni prevalenti, ed i loro rapporti, che potrebbero essere decise a discrezione da piani sottratti a qualsiasi controllo?

Si stabilisce poi (articolo 23, comma 4, delle Norme del nuovo strumento) che prima dell'approvazione dei piani particolareggiati siano ammissibili non soltanto le trasformazioni specificamente definite tali, ambito per ambito, dalle relative schede (come nello strumento del 1992), ma anche, generalizzatamente, gli interventi di manutenzione (ordinaria e straordinaria, si suppone) e quelli di restauro. E che c'azzecca (direbbe l'attuale titolare del dicastero dei lavori pubblici) il restauro con i manufatti edilizi, peculiarmente e massicciamente presenti negli "ambiti", per i quali le disposizioni generali consentono sinanco la demolizione? Ma questo non è che un altro episodio della ricorrente sciatteria.

Per altri 11 "ambiti" sarebbe invece disposto (articolo 23, commi 5, 6 e 7, delle Norme del nuovo strumento) che "gli interventi eccedenti la manutenzione ordinaria e straordinaria, volti a modificare i servizi pubblici insediati [...], ovvero a sostituirli con altri servizi pubblici, sono autorizzati [????] mediante semplice progetto edilizio - nelle forme e con gli atti previsti per le opere pubbliche dalle disposizioni vigenti in materia - a condizione che tale progetto sia esteso a tutta l'area perimetrata". Mentre si dovrebbe ricorrere alla preventiva formazione di un piano particolareggiato per "gli interventi volti a destinare il compendio immobiliare o parte dello stesso ad insediamenti privati, ovvero volti a por fine - frazionandola - all'unità funzionale e/o dominicale del compendio medesimo".

Gli "ambiti" in questione sarebbero i seguenti:

- Area ASPIV (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "S. Andrea");

- Tabacchificio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Carcere (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "Santa Maria Maggiore");

- Ospedale S. Giustinian [4] (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "G.B. Giustinian");

- Macello (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Macello/Cantiere Oscar" e "Mulino Passuelo");

- Sacca S. Biagio /Genio Civile (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Area Umberto I (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Ospedale SS. Giovanni e Paolo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Caserma S. Daniele (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Sacca Inceneritore (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Sacca S. Biagio/AMAV (corrispondente a circa metà di un "ambito" individuato dallo strumento del 1992).

Non si intende per quale ragione l'essere gli "ambiti" suelencati appartenenti al patrimonio di soggetti pubblici (enti pubblici territoriali, ma anche enti pubblici strumentali, ed altri enti pubblici), e l'essere destinati alla produzione di servizi pubblici, dovrebbe esentare dal definire gli assetti urbani (ché di questo si tratta) di intere zone attraverso gli ordinari strumenti, e procedimenti, della pianificazione urbanistica.

Tale esenzione comporterebbe, essenzialmente, che i "progetti" relativi agli "ambiti" suindicati sarebbero definitivamente approvati senza obbligo di preventiva pubblicazione, di raccolta delle osservazioni della "società civile", di assunzione motivata di determinazioni in ordine a tali osservazioni.

Ma comporterebbe anche, a legislazione invariata, che solamente l'approvazione dei "progetti preliminari" (che [5] consistono soltanto in una "relazione illustrativa" ed in "schemi grafici"), relativi ai predetti "ambiti", competerebbe [6] al consiglio comunale, mentre l'approvazione dei "progetti definitivi" (che [7] contengono "tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni") competerebbe alla giunta municipale.

E ciò, ovviamente, soltanto laddove si trattasse di opere pubbliche di competenza comunale. Mentre non v'é nessun presupposto giuridico per imporre che i progetti di soggetti diversi dal Comune debbano essere approvati (con la correlativa discrezionalità tecnica, politica ed amministrativa) da un organo decisionale del Comune, anziché abilitati, dal medesimo Comune, ma a seguito di mero riscontro di conformità con la disciplina urbanistica.

Si noti infine che la Corte costituzionale, con sentenza 7/19 ottobre 1992, n.393, ha dichiarato l'illegittimità di una norma di legge statale (della legge 17 febbraio 1992, n.179) perché nella figura del "programma integrato d'intervento" unificava strumento urbanistico attuativo e progetto delle trasformazioni, e sopprimeva la distinzione tra approvazione dello strumento urbanistico attuativo e successivo rilascio del provvedimento abilitativo.

Anche i "progetti" relativi agli "ambiti" da ultimo elencati dovrebbero rispettare le direttive dettate dall'apposita appendice alle Norme (ed alle indicazioni delle tre tavole, in scala 1:2.000, "indicative dell'assetto urbanistico risultante").

Ma, anche in questo caso, è precisato (al comma 6 dell'articolo 23 delle Norme del nuovo strumento, e con rinvio al punto 1.3.2 dell'articolo 1 delle stesse Norme) che i "progetti [...] possono discostarsi" da tali direttive "su conforme parere della Commissione scientifica". Anche in questo caso, la formulazione è tale da non precludere (quali che fossero le intenzioni degli estensori e dei proponenti del nuovo strumento) alcuna difformità, foss'anche la più radicale, dei contenuti dei "progetti" dalle direttive per essi dettate dallo strumento generale. E valgono quindi tutte le obiezioni dianzi fatte alla medesima disposizione riferita ai previsti piani particolareggiati.

Relativamente all'"ambito" denominato "Ospedale SS. Giovanni e Paolo" si stabilisce (al comma 7 dell'articolo 23 delle Norme del nuovo strumento) che "il progetto può riguardare una parte soltanto dell'ambito [...] purché sia accompagnato da un progetto di massima riguardante l'assetto di tutta l'area". Evidentemente, si ignora che, secondo "le forme e gli atti previsti per le opere pubbliche dalle disposizioni vigenti in materia" [8], la "figura" del "progetto di massima" non è contemplata, e si intende comunemente sostituita da quella del "progetto preliminare", che, come già s'è detto, consiste soltanto in una "relazione illustrativa" ed in "schemi grafici".

Per altri 14 "ambiti" sarebbe invece disposto (articolo 23, commi 8 e 9, delle Norme del nuovo strumento) che "gli interventi di manutenzione, restauro e ristrutturazione che non modificano gli assetti esterni e le sistemazioni a terra sono immediatamente autorizzabili [???] mediante semplice progetto", mentre "gli interventi di modifica alle facciate degli edifici e alle sistemazioni a terra, quelli di demolizione e ricostruzione e di nuova costruzione sono [...] soggetti alla preventiva approvazione di uno o più piani di recupero di iniziativa pubblica o privata".

Gli "ambiti" in questione sarebbero i seguenti:

- I.A.C.P. S. Marta (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con limitate modifiche di perimetrazione);

- I.A.C.P. Sacca S. Biagio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. S. Girolamo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. S. Alvise (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Madonna dell'Orto (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Gesuiti (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Celestia (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Quintavalle (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, salva una parte, inclusa dal nuovo strumento nell'"ambito" denominato "S. Pietro di Castello");

- Quartiere S. Elena (introdotto dal nuovo strumento);

- Sacca Fisola (introdotto dal nuovo strumento);

- I.A.C.P. Campo della Rotonda (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. S. Giacomo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Campo di Marte (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con una incomprensibile modifica della perimetrazione);

- I.A.C.P. Campo di Marte (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con una incomprensibile modifica della perimetrazione).

Non si intende per quale ragione le trasformazioni che comportino modificazione delle facciate degli edifici, ovvero delle semplici "sistemazioni a terra", ed anche quelle di demolizione e ricostruzione, ove avvengano sul medesimo sedime, debbano essere subordinate alla formazione di uno strumento urbanistico, qual'è, o dovrebbe essere, un piano di recupero. Per converso, non si intende come trasformazioni di demolizione e ricostruzione, ove avvengano su diverso sedime, e addirittura di nuova costruzione, possano essere accettabilmente disciplinate da piani di recupero non obbligatoriamente riferiti, ciascuno, in termini unitari, ad un perimetrato "ambito", ma invece, potenzialmente, plurimi, cioè riguardanti anche un solo edificio, od un solo lotto. Di certo, si rinuncerebbe a prevedere e promuovere operazioni di ridisegno, anche morfologico, e di riqualificazione, complessivamente riguardanti "ambiti" di bassa, o bassissima, qualità complessiva, largamente degradati, e profondamente "estranei" all'organizzazione morfologica del tessuto urbano insulare veneziano.

Inoltre, relativamente a tali ultimi "ambiti", non è dettata alcuna direttiva, neppure riferita alle ammesse trasformazioni di demolizione e ricostruzione, e di nuova costruzione, nemmeno meramente quantitativa. Per cui, ancora una volta, sarebbe (illegittimamente) eluso l'obbligo di decidere nello strumento urbanistico generale, in una visione unitaria d'insieme, in ordine ai pesi, cioè alle quantità di spazi, edificati e non edificati, oltre che alle funzioni, da assegnare alle diverse parti del territorio considerato (e di consentire il controllo di tali decisioni da parte della competente istituzione sovraordinata).

Resta da aggiungere che, rispetto allo strumento adottato nel 1992, non sarebbe più necessario formare strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio relativamente ai seguenti "ambiti":

- Fatebenefratelli;

- I.A.C.P. San Giobbe;

- I.A.C.P. San Leonardo;

- I.A.C.P. Campo della Lana;

- Cotonificio Olcese Veneziano;

- I.A.C.P. Corte Colonne;

- I.A.C.P. Sant'Anna.

Le ragioni sono del tutto imperscrutabili. Documenti prodotti dall'assessorato all'urbanistica, prodromici al nuovo strumento pianificatorio, avevano affermato che si potevano riconoscere "integrati al contesto", e quindi non richiedenti la formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio, i seguenti "ambiti": I.A.C.P. San Giobbe; I.A.C.P. San Leonardo; I.A.C.P. Campo della Lana; Cotonificio Olcese Veneziano.

E' francamente arduo comprendere in cosa e perché I.A.C.P. San Giobbe, I.A.C.P. San Leonardo e I.A.C.P. Campo della Lana (almeno per la più gran parte) si differenzino da altre aree, interessate da edificazioni pubbliche, per le quali si detterebbe la disciplina da ultimo ed appena sopra esposta.

In ogni caso, ci si compiace che non sia riproposta l'ipotesi, avanzata in un suo precedente scritto dal prof. arch. Leonardo Benevolo, di ripristinare, nell'area detta I.A.C.P. San Leonardo, il "tessuto storico precedentemente esistente", ignorando il fatto che immediatamente prima della realizzazione degli edifici attuali sulla più gran parte della predetta area insistevano una raffineria di zolfo ed una fabbrica di conterie, e prima ancora (all'epoca del cosiddetto "Catasto napoleonico") la stessa area risultava in gran parte inedificata.

Ancora, è arduo comprendere come si possa riconoscere "integrato al contesto" il Cotonificio Olcese Veneziano. Ed il complesso del Fatebenefratelli? e gli "ambiti" I.A.C.P. Corte Colonne e I.A.C.P. Sant'Anna? si attendono, almeno, motivazioni (non necessariamente condivisibili).

3.4.2. Contenuti delle direttive

Si è già segnalata l'estrema "povertà" delle direttive dettate dal nuovo strumento relativamente agli "ambiti" per i quali sia prescritta la formazione di piani particolareggiati, o di "progetti unitari", rispetto a quelle dettate dallo strumento del 1992.

Tale "povertà" è particolarmente acuta, con riferimento sia agli assetti morfologici da perseguire sia (perfino) alle quantità di spazi edificati da mantenere, o da realizzare, di spazi scoperti da sistemare, nonché di spazi (edificati o scoperti) da destinare alle diverse funzioni, laddove si tratti di "ambiti" di pertinenza di soggetti pubblici di qualsivoglia genere. Così per l'"ambito" della Marittima (relativamente al quale l'Autorità portuale ha competenze anche pianificatorie [9] , che peraltro devono esplicarsi "previa intesa con il comune" e non potendo "contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti"), per l'"ambito" denominato "area ASPIV" (di pertinenza di un'azienda speciale municipale), per l'"ambito" del Tabacchificio, per l'"ambito" del Carcere, per l'"ambito" dell'Ospedale S. Giustinian [10] , per l'"ambito" del Macello, per l'"ambito" di Sacca S. Biagio/Genio Civile, per l'"ambito" dell'Ospedale Umberto I, per l'"ambito" dell'Ospedale SS. Giovanni e Paolo, per l'"ambito" della Caserma S. Daniele, per l'"ambito" della Sacca dell'Inceneritore (di pertinenza di un'altra azienda speciale municipale), per l'"ambito" di Sacca S. Biagio (di pertinenza, anch'esso, di quest'ultima azienda speciale municipale).

Di poco più "ricche" sono le direttive dettate per l'"ambito" della Stazione F. S., tra le quali, ad ogni buon conto, non ricompare quella, dettata dallo strumento del 1992, di "prevedere una riorganizzazione delle attrezzature ferroviarie che contempli una fermata di parte dei vettori, con connesse strutture per il carico/scarico degli utenti, verso l'estremità settentrionale dell'ambito, dove deve essere previsto un collegamento pedonale diretto, mediante ponte sul Rio della Crea, con l'ambito del Macello". Tra le nuove previsioni per tale ambito si può segnalare quella del mantenimento degli edifici adiacenti a quello del vero e proprio terminale ferroviario, dei quali lo strumento del 1992 prevedeva invece la demolizione, per fare luogo ad edificazioni di più spiccato rilievo formale, secondo un'organizzazione territoriale di più elevato livello qualitativo.

Del resto, una spiccata predilezione per il mantenimento di manufatti recenti di bassissima qualità emerge da buona parte delle nuove direttive: così, per fare soltanto qualche esempio, nell'espansione otto-novecentesca dell'Arsenale meglio nota come ex Cantieri C.N.O.M.V., nell'"ambito" denominato "Molino Stucky - Scalera - Trevisan" (laddove invece non ci si preoccupa di preservare gli edifici otto-novecenteschi, di altissimo valore storico-testimoniale, prospicienti il Rio di S. Biagio, da utilizzazioni, quale quella alberghiera, la cui efficiente esplicazione non potrebbe che comportare trasformazioni fisiche gravemente alteranti quantomeno il sistema delle aperture nei prospetti), nell'"ambito" della Junghans, nell'"ambito" dell'Ospedale G. B. Giustinian, nell'"ambito" dell'Ospedale SS. Giovanni e Paolo, e perfino nell'"ambito" della Sacca dell'Inceneritore.

L'altra predilezione che emerge è quella per i "falsi".

Nell'"ambito" che il nuovo strumento denomina "Ex piazza d'armi" (cioè nell'area meglio nota come ex Italgas), si prevede la "realizzazione di un nuovo canale in prosecuzione del rio di S. Maria Maggiore fino al canale della Scomenzera", secondo un tracciato che non ripropone alcuna storica via d'acqua, mentre giace parallelo a quello secondo il quale scorreva il poi interrato Rio dei Secchi.

Nell'"ambito" della Junghans si prevede la realizzazione di un nuovo rio con un percorso ad angolo (o ad "L"), perpendicolare per un tratto al fronte lagunare e per l'altro tratto al Rio del Ponte Longo: una previsione assolutamente gratuita, secondo un tracciato che non ripropone alcuna precedentemente esistente via d'acqua, né alcuna regola conformativa della morfologia storica veneziana. Una previsione utile soltanto a configurare uno stucchevole mini-insediamento residenziale "di prestigio" (per bas bleu), con casettine in linea, affacci sul nuovo rio e giardinini privati. Mentre, nello stesso "ambito", non si prevede né di ripristinare le due fondamente storicamente esistenti sia lungo il Rio del Ponte Piccolo che lungo il Rio del Ponte Longo, né di riproporre un ampio spazio scoperto sistemato a verde (da destinare, oggi, alla fruizione collettiva) verso la laguna.

Un ampio spazio scoperto sistemato a verde, anzi "organizzato in forma di parco pubblico", è invece previsto nell'"ambito" degli Scali di S. Marta e di S. Basilio, lungo "la riva del canale della Giudecca dal rio di S. Basilio al canale della Scomenzera". Ciò per "ricordare la presenza dell'antica spiaggia di S. Marta", che era tutt'un'altra cosa, ovvero per "concludere degnamente la riva delle Zattere, come i giardini napoleonici concludono la riva degli Schiavoni", come recita il recentemente divulgato "progetto preliminare al piano regolatore generale". Tralasciando l'insopportabile formalismo del proposito, si può agevolmente prevedere che la simmetria di tale nuovo "parco" non si istituirebbe con i giardini "selviani", ma piuttosto (anche e soprattutto in termini di immagine "spelacchiata" e miserella) con quelli della riva di S. Elena. E non si intende come la "inclusione" (anche in termini morfologici e formali) nel tessuto urbano veneziano di ambiti strutturati, or'è quasi un secolo, in termini tali da renderli ad esso profondamente estranei (come quelli degli Scali portuali di S. Marta e di S. Basilio) possa avvenire mediante la realizzazione di un "parco" lungo l'affaccio acqueo, cioè mediante una sistemazione da sempre estranea alle caratteristiche del medesimo tessuto urbano veneziano, in quanto mai ricorsa negli assetti prodotti dalle sue dinamiche storiche in epoca preottocentesca. Ma già: i nuovi protagonisti dell'attività pianificatoria veneziana non credono all'esistenza ed alla riconoscibilità delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano" veneziano!

Del resto, non si intende neppure come la predetta "inclusione" degli ambiti di cui si tratta nel tessuto urbano possa avvenire destinandone gli spazi edificati esclusivamente ad attività direzionali, ad attrezzature per l'istruzione, ad attrezzature culturali, ad attrezzature associative, ad attrezzature ricreative (lo strumento adottato nel 1992 sceglieva, tra le attrezzature per l'istruzione, quella universitaria, e, tra le attrezzature culturali, quella consistente in centri di ricerca, ma, soprattutto, prevedeva consistenti spazi per abitazioni collettive, intese come collegi, convitti studentati, ed anche per abitazioni ordinarie, con presenza di uffici privati, di studi professionali, di artigianato, di commercio al minuto, di pubblici esercizi)

Nell'"ambito" degli Scali di S. Marta e di S. Basilio si prevede anche un bel falso architettonico, ovvero la "riedificazione della fabbrica di tabacchi documentata nel catasto Napoleonico [...] secondo le modalità del ripristino tipologico o volumetrico, secondo la documentazione disponibile".

Come nell'"ambito" del Carcere si prevede "dismessa la destinazione carceraria, il ripristino tipologico o volumetrico dell'antico convento di S. Maria Maggiore".

Come nell'"ambito" di S. Pietro di Castello si adombra "la possibilità del ripristino filologico o tipologico del corpo di fabbrica conventuale relativo al secondo chiostro". Nel medesimo "ambito", per converso, si prevede la demolizione di buona parte degli edifici esistenti nell'"area retrostante la chiesa", da sistemare a "parco pubblico". Le demolizione riguarderebbe, tra l'altro, circa la metà del quartiere I.A.C.P. Quintavalle: niente di male, stante che "percorrendo tutto il grande complesso si rileva lo stesso sciatto disegno, la ripetitività ossessiva dei moduli, la medesima artificiosità dei giardinetti che impediscono all'edificio di stabilire un contatto diretto con la strada e negano l'inserimento di attività commerciali e artigianali ai piani terreni" [11]. E poi non si prevede la demolizione degli edifici prospicienti la laguna, forse valutando che "l'effetto alla distanza dell'affaccio lagunare appare non sgradevole e complessivamente accettabile" [12]. Però si prevede la demolizione di tre edifici che lo strumento del 1992 aveva classificato "preottocenteschi": è stata appurata, ed adeguatamente documentata, un'errata attribuzione?

Quello da ultimo citato non è l'unico caso di "discrasia", per così dire, tra le indicazioni (cartografiche) relative agli "ambiti" e le puntuali classificazioni delle unità edilizie. Si deve sempre pensare alla ricorrente sciatteria? Anche quando le indicazioni cartografiche relative all'"ambito" denominato "area Molino Stucky - Scalera - Trevisan" prevedono la demolizione senza ricostruzione di una "unità edilizia di base non residenziale a capannone senza fronte acqueo", magari giustificabilissima ed opportunissima, ma senza che nessuna norma esplicita ammetta, negli "ambiti", la derogabilità delle disposizioni generali che, di tali unità edilizie, prescrivono il mantenimento?

Di due ambiti, infine, è bene trattare separatamente, e specificamente: dell'Isola Nuova del Tronchetto e dell'Arsenale.

3.4.3. L'Isola del Tronchetto

Vale la pena di rammentare che proprio a proposito dell'Isola del Tronchetto la nuova giunta aveva mostrato, a meno di un anno dal suo insediamento, il gran conto in cui intendeva tenere il programma per realizzare il quale il sindaco Cacciari aveva chiesto il consenso degli elettori, ed ottenuto quello della maggioranza di essi.

Aveva infatti proposto al consiglio comunale di controdedurre, in termini radicalmente difformi da quanto in argomento puntualmente specificato nel programma, alle osservazioni presentate ad una variante al Prg relativa alla sola Isola del Tronchetto.[13]

Occorre ricordare che per qualche decennio, in questo dopoguerra, le componenti più consapevoli e mature della cultura nazionale e le forze politiche della sinistra si erano battute per evitare che l'ambito veneziano della Marittima, di Piazzale Roma e del Tronchetto divenisse un unico, grande, insensato, devastante "centro direzionale", che avrebbe esaltato lo squilibrio complessivo della città lagunare, accentuando le sue gravitazioni verso la "testa di ponte", e condannando all'impoverimento funzionale i suoi quartieri ad essa meno prossimi, e che avrebbe aggravato il peso dei mezzi di trasporto su gomma nel sistema della mobilità a servizio della stessa città lagunare, determinando addirittura più consistenti penetrazioni di tali mezzi nel suo stesso contesto. E che le stesse componenti e forze si erano battute per ottenere che l'Isola Nuova del Tronchetto, sorta dalle acque, per iniziativa privata (e privata è tuttora la più gran parte dell'isola), negli anni '50, in un contesto di torbide manovre, fosse almeno destinata a funzioni di generale interesse della città di Venezia e dei suoi abitanti.

Finalmente, il "piano comprensoriale" veneziano, adottato all'inizio del 1980 ma mai entrato in vigore, aveva assegnato, come già si è ricordato, all'Isola del Tronchetto innanzitutto funzioni di "interscambio urbano di merci", e, soltanto in via residuale, di ricovero delle auto degli abitanti della città storica.

Un bel po' di anni appresso, la variante generale per Venezia insulare adottata nel 1992 aveva prescritto la formazione di un nuovo piano particolareggiato per l'Isola del Tronchetto, aveva ridotto drasticamente la volumetria complessiva prevista nell'isola, aveva precisato che gli spazi destinati alla funzione di "interscambio merci" dovevano essere tali da soddisfare la relativa domanda globale esprimibile dalla città storica, ed aveva ammesso attività di tipo direzionale soltanto negli spazi eventualmente residui, purché tali attività avessero raggio d'influenza almeno regionale e non fossero insediabili in unità edilizie esistenti nel tessuto urbano storico.

Irridentemente dichiarando di volere sostanzialmente accogliere una osservazione (presentata da Stefano Boato, Pierluigi Cervellati, ed altri) che chiedeva di escludere a priori ogni attività di tipo direzionale, nonché commerciale e legata alle funzioni turistiche, il nuovo assessore all'urbanistica, arch. Roberto D'Agostino, aveva proposto di modificare le scelte adottate in senso diametralmente opposto a quello auspicato, e cioè di assegnare alle volumetrie ancora edificabili nell'isola in via principale la generica destinazione di "strutture di servizio alla città", e, soltanto secondariamente, una volta quantificata la relativa domanda, la funzione di "interscambio merci".

Quanto correttamente poi si intendesse procedere alla quantificazione della domanda per funzioni di "interscambio merci" era stato fatto intravedere da uno studio, del quale erano anticipatamente divulgate le conclusioni, in base al quale gli spazi necessari sarebbero risultati di risibile entità, per l'ottima ragione che erano state valutate non le esigenze di mercati all'ingrosso, depositi, magazzini, e simili, di tutti gli operatori economici insediati e insediabili nella città storica, ma soltanto quelle di movimentazione delle merci di una parte dei trasportatori in conto terzi presentemente operanti.

L'impegno, solennemente assunto con i cittadini nel programma per realizzare il quale il sindaco Cacciari era stato eletto, di "realizzare al Tronchetto solo l'interscambio merci e i servizi per la mobilità non turistica", era stato perentoriamente rammentato alla giunta non soltanto da qualche voce isolata, ma anche da componenti della maggioranza consiliare (i Verdi, Rifondazione comunista, esponenti del PDS). Nel competente consiglio di quartiere una proposta di parere favorevole non era riuscita ad ottenere un solo voto positivo.

Alla fine, la proposta di deliberazione era scomparsa dall'ordine del giorno del consiglio comunale.

Sembra però che si vogliano ora ottenere gli stessi risultati per altra via. Alcuni accenni testuali del recentemente divulgato "progetto preliminare al piano regolatore generale" già avevano indotto, infatti, a ritenere che l'Isola Nuova del Tronchetto dovesse costituire, assieme agli scali di Santa Marta e San Basilio all'area ex Italgas, a Santa Maria Maggiore, al Tabacchificio, il nucleo essenziale di quel "centro della città bipolare" la cui creazione costituisce la (sola) "idea forza" del predetto documento.

Si veda la perentorietà con cui si asserisce [14]

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