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Sardegna, l'ira del mattone

Renato Soru fa votare un decreto che vieta di costruire lungo le coste della Sardegna e fino a 2 km dal mare. Contro la giunta si scatenano comuni di centrodestra, qualche amministratore di centrosinistra e i quotidiani dell'isola. Tutti hanno qualche interesse in campo



C. SA. - CAGLIARI «Un decreto choc», per il quotidiano La Nuova Sardegna. Soru fautore di un'isola «cavernicola», di un turismo di roulotte, tende, camper, per La Repubblica. Sono gli attacchi da sinistra, al neo presidente della regione sarda che alla terza riunione di giunta ha portato e fatto passare dopo qualche ora di discussione, un decreto che impone per sei mesi la salvaguardia delle coste della Sardegna dalla cementificazione, in attesa di una nuova legge urbanistica. Tutto alla luce del sole, al termine di una campagna elettorale vinta dal fondatore di Tiscali con un margine altissimo, e dove la materia della tutela delle coste era centrale, nel programma del centrosinistra, nella sensibilità dell'opinione pubblica. Proponente della legge è un assessore della Margherita, responsabile dell'Urbanistica, Gian Valerio Sanna, consenzienti tutti gli altri assessori, dai Ds all'Udeur, nonostante le spinte di molti amministratori locali di questi partiti sensibili alla lusinga dell'edilizia. La prima reazione è venuta, con la riunione della giunta ancora in corso, da un consigliere regionale di Forza Italia costruttore edile gallurese. E dalla Gallura proviene il coro di no. Sono tutti sindaci di centrodestra, da Olbia ad Arzachena, alla Maddalena. Avevano pronti piani per costruire insediamenti di alcuni milioni di metri cubi, dalla Costa Turchese della figlia di Berlusconi a sud di Olbia, ai piani del miliardario americano Tom Barrack, succeduto all'Aga Khan nella Costa Smeralda.

Insospettati, almeno insospettabili sino a qualche settimana fa, sono invece gli aiuti che vengono in queste ore al fronte del cemento, da La Nuova Sardegna a La Repubblica. Scontato quello dell'altro quotidiano dell'isola, L'Unione Sarda, dell'editore costruttore Sergio Zuncheddu. I due giornali del gruppo Espresso usano toni inusitati nei confronti di Soru. Per La Nuova Soru è «uno sceriffo», che «usa la mannaia». Poco meno di un incosciente che «va in vacanza mentre infuria la polemica», divertito dell'effetto che fanno i suoi primi provvedimenti. Inspiegabile attacco, per chi non conosce i primi atti della giunta Soru, gli altri «colpi di mannaia» del neo presidente. Uno in particolare, la sospensione di un appalto di 48 milioni di euro per l'informatizzazione della Regione, vinto insieme da un'associazione temporanea di imprese formata da Kataweb del gruppo Espresso, dall'Unione Editoriale dell'editore dell' Unione Sarda, e di Accenture, il cui responsabile per la Sardegna è un figlio del ministro degli interni Beppe Pisanu. L' Unione Sarda ha una ragione in più del giornale concorrente per avercela con Soru, responsabile della bocciatura di una delibera presa dalla giunta di centrodestra a quattro giorni dal voto per le regionali, l'8 giugno, che affidava a una società immobiliare appartenuta al suo editore un appalto di 83 milioni di euro per costruire i nuovi uffici della Regione in un'area al centro di Cagliari. Entrambi i giornali hanno gridato al conflitto di interessi. Soru replica: «Tiscali non parteciperà più ad appalti regionali». Ma ogni giorno è un nuovo assalto.

Il neo presidente gode però secondo molti di una popolarità crescente. Mantiene le promesse, ha bloccato la costruzione delle centrali eoliche, ormai proliferanti. Ha bloccato l'attività estrattiva e devastante delle cave di una società americana che cerca l'oro nell'isola. E' netto sulla costa: «Il turismo non è l'edilizia». Critica il modello dei villaggi al mare, strapieni d'estate, villaggi fantasma per dieci mesi all'anno, «i sardi manovali e camerieri quando va bene». I pezzi di Sardegna che il decreto della giunta salva dalla distruzione, dallo choc della distruzione, sono intere oasi verdi, fra Olbia e San Teodoro, fra Arzachena e Olbia, Santa Teresa e Palau. Vengono bloccati villaggi a Villasimius, Chia, Teulada, Cabras. I sardi che respirano, sollevati, anche increduli, non hanno voce sui giornali.

In difesa delle emozioni. E del turismo

di Sandro Roggio

Negli anni Settanta la regione Sardegna decise di salvaguardare una fascia di 150 metri dal mare che negli anni Novanta - sulla base del dibattito culminato con l'approvazione della legge urbanistica e dei piani paesistici - fu estesa a 300 metri. Poi i piani paesistici sono stati annullati e per lungo tempo non è successo nulla di buono. La politica, con rare eccezioni, ha scelto la strada conveniente dell'attesa, nella continua ricerca di espedienti per fare saltare il sistema delle regole.

La giunta Soru ha deliberato un vincolo provvisorio per una fascia di 2 chilometri dal mare: con una tempestività inattesa dopo tanto ritardo e che consente di guardare al futuro con altri occhi. Un atto salutato da molti, anche fuori della Sardegna, con soddisfazione: che in qualche modo decide l'inclusione delle coste isolane tra i grandi beni culturali del paese. Ma sono le argomentazioni dei vari detrattori di questa linea che spiegano la giustezza della misura.

Sindaci di comuni costieri rei di non avere aggiornato i loro piani urbanistici e qualche speculatore che si preparava ad approfittare dei vuoti normativi. Rieccole le tesi contro le norme di tutela «contrarie ai metodi raffinati della pianificazione» e ovviamente «contro lo sviluppo» e ancora (sob!) «contro l'autonomia dei comuni». Anche se nessuno nega che la sottrazione categorica di parti dei litorali alla trasformazione ha scongiurato uno scempio di considerevoli proporzioni.

Non è vero che il ricorso alle misure urgenti di salvaguardia sia operazione astratta e grossolana, specie nei casi in cui vi sia un ampio riconoscimento del valore di un ambiente e sia avvertito il rischio di danni irreversibili. E' già avvenuto per i beni storico artistici. Nessuno si sorprende che grandi parti delle città italiane siano sostanzialmente immodificabili ancora prima di essere state assoggettate a sofisticate analisi urbanistiche (non solo il profilo dei palazzi del Canal Grande a Venezia o quello di piazza di Spagna a Roma ma una miriade di paesaggi urbani consolidati ). Verso i paesaggi naturali il processo di affezione avviene con più lentezza. Ma per stare al caso serve osservare che in questi anni è cresciuta molto in Sardegna l'attenzione verso i suoi paesaggi litoranei e non è prematuro immaginare di ampliare, con gli strumenti della pianificazione, gli ambiti di tutela. Che potrà avvenire anche con molto consenso.

Nessun atto sopraffattore quindi. E' solo successo che la soglia di sopportazione verso le alterazioni dei luoghi più belli dell'isola è stata ampiamente superata, che i sardi dei paesi e delle città della Sardegna - non solo quelli che si affacciano sul mare - guardano con indignazione ai danni, questi si pregiudizievoli per il turismo dei prossimi anni. E nell'interesse di un'ampia comunità translocale che spetta alla regione continuare nella strada intrapresa. Un sistema di vincoli non è nient'altro che il riconoscimento di siti dove le sensazioni di chi si guarda attorno sono più forti e aumentano appunto quanto più ci si avvicina alla riva del mare, come ad un bosco, alla cima di un monte, ad un antico insediamento («tu chiamale se vuoi emozioni» cantava Lucio Battisti). E il valore di intensità emotiva di questi ambiti è confermato guarda caso dal valore di mercato (qui la rendita è molto elevata in caso di trasformazione) che si spiega con l'alta domanda di possesso esclusivo.

Ma sbaglia chi dice che tutto ciò sia contro il turismo nella linea del protezionismo autarchico. Nel piano paesistico (da redigere con un procedimento semplice) si troveranno le soluzioni per rispondere puntualmente alle attese degli operatori turistici che non hanno niente ma proprio niente in comune con faccendieri e palazzinari.

Vi ricordate Villa Certosa di Berlusconi? Eccola qui

L’ultimo documento di grande rilievo internazionale sulla conservazione e il restauro del patrimonio costruito è senza dubbio la Carta Cracovia 2000, che ha raccolto l’adesione di studiosi di 34 paesi europei ed extra europei. Al punto 11, si sottolinea come «il turismo culturale, oltre che per il suo positivo influsso sull’economia locale, deve essere considerato anche come un fattore di rischio». Si parla solo di turismo culturale, non prendendo nemmeno in considerazione quello con altre finalità e dando quindi per scontato l’altissimo rischio per il patrimonio che queste comportano. In un recente incontro culturale all’Ateneo Veneto è stato reso pubblico che nel 1950 vi era, nel centro storico di Venezia, una popolazione di 145 mila abitanti a fronte delle 500 mila presenze annue di turisti. Per il 2004 i dati parlano di 64 mila abitanti e 14 milioni di presenze annue di turismo.

Le cifre parlano da sole e forse non vi sarebbe bisogno di commento se non fosse per un’incredibile, insostenibile assunto che accomuna quasi tutti gli uomini politici che amministrano direttamente o indirettamente la città di Venezia, così come d’altronde altre città d’Europa. Per tale assunto il turismo dovrebbe sempre aumentare, in conformità alla domanda mondiale. Questo mancato senso del limite, che ottant’anni fa si definiva ingenuamente ed entusiasticamente progressista, è oggi del tutto contrario ad ogni concezione umanistica della realtà ed è contrario, qui a Venezia, allo stesso senso o spirito della città, che fu costruita in riferimento a limiti successivi, con territori acquisiti dalla laguna e nella laguna, con profondissimo rispetto di essa, nonché delle situazioni socio-economiche della collettività in tutti i momenti della storia della città.

Il termine sviluppo, ci dice Abbagnano, deve essere inteso come movimento verso il meglio. Dove è qui il meglio? La parola progresso deriva dal latino, mi muovo pro; questo pro non deve necessariamente intendersi solo come oltre, ma anche a vantaggio. A vantaggio di chi nel nostro caso?

A favorire il senso di sviluppo illimitato, vi è una menzogna, fra le tante qui a Venezia, che ha la finalità di voler far «aggredire» la città da più punti, facendo pensare così di «decongestionare» il centro costituito dalle aree attorno a Piazza San Marco, dove la popolazione ha quasi smarrito ogni suo riscontro psicologico con la città. Al contrario, quest’idea non è che un sotterfugio che condurrà e conduce a un intasamento delle aree periferiche così come sono intasate oggi quelle centrali. Una fermata di ciò che si definisce linea sub-lagunare alle Fondamente Nuove, sarebbe, per esempio, in tal senso decisamente devastante. Si parla, in un panorama mondiale, della limitatezza delle risorse e proprio qui a Venezia, in questa città ricca di risorse culturali, che sono però fragilissime, si vuole pervicacemente procedere ad un cosiddetto sviluppo che è in realtà distruzione.

E in nome di un progresso, che non è certamente a vantaggio dei cittadini, non contenti dello stato di degrado culturale e sociale in cui versa una comunità sempre più privata della propria identità, si tende inevitabilmente ad intaccare la stessa esistenza del costruito.

Le legittime aspirazioni anche economiche dei cittadini veneziani non possono realizzarsi a discapito della città, come se essa fosse un «usa e getta».

Qualcuno li ha contati. Sono quarantasette i comitati cittadini sorti a Firenze negli ultimi anni. Quarantasette, quasi uno ogni isolato. Si battono contro un parcheggio che dovrebbe sostituire un giardino, contro un centro commerciale - l´ennesimo che prende a svettare nella piana - , contro quello che chiamano il Tubone, un tunnel che passerebbe sotto le colline di Fiesole, contro quei complessi edilizi (un po´ residenza, un po´ commercio, un po´ uffici) che sorgono dove un tempo c´era uno stabilimento industriale (per esempio, l´ex panificio militare), ma anche contro il taglio di un boschetto di lecci o contro un ponte sull´Arno che avrebbe dovuto sostituire una passerella pedonale e collegare il parco delle Cascine con il quartiere dell´Isolotto. I comitati sono oggetto di studi e a loro ha dedicato attenzione la politologa dell´Istituto universitario europeo Donatella Della Porta in Movimenti senza protesta scritto per il Mulino insieme a Mario Diani (pagg. 230, euro 20) e in Comitati di cittadini e democrazia urbana, che uscirà da Rubettino.

Dall´inverno scorso si sono dati un coordinamento. Si sono presentati alle elezioni di giugno, sostenendo con Rifondazione comunista e il "Forum per Firenze" la candidatura di Ornella De Zordo, il cui successo (12 per cento) ha costretto il sindaco diessino Leonardo Domenici al ballottaggio con il candidato di centrodestra (che poi ha sonoramente battuto). Il coordinamento è nato per due motivi. Intanto per fronteggiare il nuovo piano regolatore, che in Toscana si chiama piano strutturale e che è stato approvato prima delle elezioni. Per il Comune è un avvenimento storico, che interrompe decenni di immobilità e avvia interventi indispensabili. Secondo i comitati, invece, è una somma di progetti sconnessi che stanno a cuore soprattutto ai privati e non risolvono nessuno dei problemi di Firenze. L´altro motivo del coordinamento è di evitare quello che gli studiosi chiamano "effetto Nimby": fate qualunque cosa - un inceneritore, uno svincolo autostradale - ma non vicino a casa mia (Nimby è l´acronimo di Not in my back-yard, non nel mio giardino).

Ogni comitato è legato a una zona della città: piazza Beccaria, piazza Alberti, San Lorenzo, Santo Spirito, Campo di Marte, Santa Croce. Ma perché tutto questo accada a Firenze non è semplice a dirsi. Il capoluogo toscano è un cantiere di grandi trasformazioni. Arrivano prestigiosi architetti: Norman Foster lavora alla stazione dell´Alta Velocità, Jean Nouvel a un albergo al posto di una concessionaria Fiat, Santiago Calatrava all´ampliamento del Museo della Fabbrica del Duomo. Per non parlare di Arata Isozaki, vincitore del concorso per sistemare l´uscita degli Uffizi, che ancora non sa se la sua pensilina sarà costruita o no.

Ma Firenze, a detta di molti, è anche affetta da un malessere ambientale. Il centro storico, per esempio, si sta svuotando di residenti. Secondo uno studio di Manlio Marchetta, professore di urbanistica all´Università, se nel 1987 era residenza il 30 per cento delle superfici edificate, ora quella quota va dal 10 al 15 per cento. E anche queste case rischiano di diventare alberghi, affittacamere o uffici. Un centro storico che perde residenti, recitano i fondamentali dell´urbanistica, deperisce. Invecchiano i suoi abitanti. Diventa una zona di transito per le macchine, solcata da frotte di turisti e da persone che vanno in ufficio o che, di sera, affollano i ristoranti. Insieme agli abitanti fuggono le botteghe alimentari, le scuole e le farmacie. E arrivano pizzerie, bar, negozi di souvenir e magazzini di abbigliamento. Abbandonano persino le grandi banche, che lasciano liberi palazzi monumentali. Chiudono i cinema (Astra, Supercinema, Edison, Capitol) e le librerie sono minacciate dalle catene di jeans.

Alcune rilevazioni smentiscono tanto pessimismo. Per esempio la classifica annuale del Sole 24 ore, che nel 2003 assegnava a Firenze la palma del "vivere bene". E, inoltre, la malattia non affligge solo Firenze. Ma poche città al mondo vantano quel che vanta Firenze. «Per il centro storico», spiega Marchetta, «non esiste un piano specifico, nonostante lo prescriva una legge regionale. Non sono fissati criteri per la destinazione degli immobili e le regole le detta il mercato, che privilegia interessi speculativi. E tutto peggiorerà quando si libereranno edifici universitari, giudiziari e bancari».

La replica è di Gianni Biagi, assessore all´Urbanistica: «Non è vero che il cambio di destinazione degli edifici sia libero, ma purtroppo l´attività di affittacamere è senza controllo. Il centro ha perso il 12 per cento dei residenti nell´arco di un decennio, ma soprattutto nei primi anni Novanta, poi l´emorragia è rallentata. Il nostro piano strutturale si propone di riportare abitanti nel centro, come è accaduto nell´ex complesso delle Murate, e di spostare fuori dei viali ottocenteschi molte attività che si sono accumulate senza programmazione».

Le macchine intasano il centro. Basta una rassegna di moda alla Fortezza da Basso e la città si paralizza. L´edificio, costruito nel 1534 da Antonio da Sangallo, vedrà raddoppiato lo spazio per le fiere da 30 a 60 mila metri quadrati. «Attrarrà altro traffico», denunciano i comitati, «smentendo le intenzioni del Comune di voler alleggerire il centro». Tutta l´area dei giardini intorno ai bastioni, una prodezza rinascimentale, con le torrette e il rivestimento in bugnato del mastio, è stata ridisegnata. E questo intervento ha scatenato violente polemiche. Oggetto della contesa un parcheggio di due piani con un centro commerciale addossato alle mura. Il parcheggio doveva essere interrato, ma di fatto lo è solo in gran parte, perché lungo una delle cortine la costruzione fuoriesce da terra, compromettendo la percezione dei bastioni. E litigi furiosi ha suscitato anche la sistemazione delle strade intorno alla Fortezza a causa di un sottopasso realizzato con una curva troppo stretta, e che si è dovuto ricostruire daccapo.

«Dove ora c´è il parcheggio, un tempo si fermavano gli autobus turistici, che pure impedivano la vista dei bastioni», replica Biagi. «E sopra il parcheggio ci sarà un giardino», insiste l´assessore, il quale però ammette che forse il progetto poteva essere migliore. Tutto l´intervento è realizzato con il meccanismo del project financing, che da alcuni anni si è diffuso moltissimo e che a Firenze è in gran voga. Consiste più o meno in questo: l´amministrazione pubblica dà in concessione a un privato un bene - un palazzo, un´area - , il privato lo ristruttura o costruisce ex novo creandovi diverse attività e traendo profitto dalla loro gestione.

Il project financing è previsto anche per un intervento a San Salvi, che pure vede fronteggiarsi il Comune e il comitato "San Salvi chi può". Qui in un parco di 32 ettari sorgono i padiglioni di un ospedale psichiatrico costruito nel 1891. Dalla fine degli anni Settanta al posto dell´ospedale ci sono una Usl e alcune cooperative sociali e teatrali. Un progetto prevede numerosi appartamenti e nuovi edifici per uffici, un parcheggio e una serie di zone verdi. La residenza è necessaria, «rende l´area viva 24 ore al giorno ed è il "volano economico" dell´intera operazione di recupero», sostengono gli autori del progetto. Il parco viene smembrato, replicano al comitato, e si avvantaggeranno soprattutto coloro che potranno permettersi una lussuosa casa in mezzo al verde.

Altri due interventi - uno a Novoli, nei 32 ettari dove la Fiat aveva il suo stabilimento, l´altro nei 168 ettari di Castello, a ridosso dell´aeroporto e di proprietà della Fondiaria - vengono considerati di grande rilievo dall´Amministrazione, che sostiene di averli avviati per decongestionare il centro storico. Gli oppositori li descrivono invece come operazioni di lottizzazione privata e di valorizzazione immobiliare che smentiscono l´intenzione del piano strutturale di non consumare altro suolo. A Novoli le costruzioni sono state avviate sulla base di un piano (poi modificato) di Leon Krier, l´architetto amico di Carlo d´Inghilterra. Sono già in funzione una sede dell´università, progettata da Adolfo Natalini, e un centro commerciale, mentre è in fase di completamento il Palazzo di Giustizia, con torri da 32 e 64 metri su disegno di Leonardo Ricci. Verranno poi costruiti appartamenti, studi e sedi di banche, secondo un piano di Aimaro Isola e Francesco Dal Co. Novecentomila metri cubi in totale, al centro dei quali sarà sistemato un parco di 12 ettari che, a detta dei progettisti, avrà effetti sulla qualità dell´aria di tutto il quartiere. Diversa la posizione dei comitati: «Quella zona di Firenze è già stremata e non sopporta altri pesanti carichi urbanistici».

La vasta pianura fra l´aeroporto, Peretola e Castello «è l´ultima consistente porzione non edificata di Firenze, se si escludono le colline», ricorda Marchetta. È un´area depressa e paludosa, a suo tempo sottoposta a una bonifica che ha messo a regime le acque con due reti di canali, in parte pensili. «Questo territorio era destinato a parco territoriale. Se si installassero, come previsto, un milione 400 mila metri cubi, Firenze si salderà con altri paesi della piana, creando un´immensa conurbazione», aggiunge Marchetta. «A Castello ci sono molte cose da definire», replica Biagi, «ma non è lottizzazione privata: lì andranno la Regione, i carabinieri e poi uffici, abitazioni e un parco di 80 ettari».

Su Novoli e Castello si riaccendono le polemiche che divisero la sinistra fiorentina una ventina di anni fa. Il Comune mise in cantiere due insediamenti molto più pesanti di quelli avviati ora. Ma pressato da Italia Nostra e da altre associazioni, intervenne il segretario di Botteghe Oscure, Achille Occhetto. Che costrinse i compagni fiorentini a fare marcia indietro. Da allora, però, molta acqua è passata sotto i ponti dell´Arno.

I responsabili delle morti, delle malattie e dell’inquinamento del petrolchimico di Marghera ora hanno qualche nome e qualche faccia. La Corte d’appello di Venezia, infatti, ha ribaltato la sentenza del processo di primo grado che aveva assolto tutti gli imputati e ha condannato cinque di loro ad un anno e mezzo di reclusione per l'omicidio colposo dell’operaio Tullio Faggian, uno dei lavoratori morti per l’avvelenamento dal cloruro di vinile monomero (Cvm) emesso dall’impianto industriale veneto. I condannati sono Emilio Bartalini, Renato Calvi, Alberto Grandi, Piergiorgio Gatti, Giovanni D'Arminio Monforte. Condanne parziali certamente, ma che confermano la tesi accusatoria, ovvero che le numerose morti e malattie che hanno colpito i lavoratori di quell’azienda sono state provocate proprio dall’inefficienza dei controlli sulle emissioni e dalla scarsa attenzione dei dirigenti alla tutela della salute di chi ha lavorato una vita al Petrolchimico e lì quella vita l’ha pure persa.

Si gira così la buia pagina del 2 novembre 2001, quando i 28 imputati, tutti dirigenti o ex dirigenti di Montedison, Enimont e Enichem, furono assolti, lasciando senza colpevoli il disastro ambientale di Marghera. Finisce invece in prescrizione il reato di omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980. Prescrizione che comunque riconosce la fondatezza del reato. La Montedison è stata considerata responsabile civile delle morti per Cvm registrate tra il 1973 e il 1980. Ora dovrà risarcire con 50mila euro le famiglie e con 8mila euro i figli delle vittime, oltre a farsi carico di tutte le spese processuali.

«Purtroppo - ha commentato il pm di Venezia Felice Casson - la giustizia è arrivata troppo tardi. È un processo che si sarebbe dovuto fare vent'anni fa. Vent'anni fa avrebbero condannato tutti, come conferma la sentenza di oggi».

«Questa sentenza dimostra il reato di disastro ambientale» gli fa eco Legambiente «Viene dimostrata la relazione tra il modo di impostare e condurre l'impresa e le pesanti conseguenze sulla popolazione e i lavoratori, fornendo uno strumento in più per il futuro: una riconversione della logica industriale che garantisca il rispetto della salute dei lavoratori e dei cittadini, dell'ambiente e della legge».

Anche il prosindaco di Mestre, Gianfranco Bettin, ha voluto commentare la sentenza: «La giustizia ha battuto un colpo importante oggi nell'aula bunker di Mestre. Il Tribunale ha riconosciuto l'esistenza di reati, cioè di offese alla salute dei lavoratori e all'ambiente. Per alcuni reati, per la prima volta, ci sono delle condanne. Per altri – osserva Bettin - è intervenuta la prescrizione a riprova che la lentezza della giustizia è la miglior garanzia, anche in assenza di complicità, per i potenti. E a riprova che i tentativi in corso, in Parlamento, di abbreviare i termini di prescrizione dei reati sono un ulteriore servizio ai potenti e ai delinquenti».

Con la sua aria calma di vecchio signore educatissimo, colto, ironico, disordinato come un professore da vignetta, toccato a volte da una dolce tristezza, Robert Altman (anzi, Bob Altman) del Missouri ha scardinato nella sua lunga vita di regista tutti i miti, tutto l'immaginario mitico d'America: la guerra e lo spettacolo, le mode e la famiglia, la psicoanalisi e il rapporto tra padroni e servi. Ha scardinato gli Stati Uniti stessi, nello straordinario affresco America oggi dove oltre venti personaggi ideati da Raymond Carver s'incrociavano in disperata amarezza, nella struttura narrativa composita tipica di alcuni tra i film più popolari di Altman, lo stupendo Nashville, Un matrimonio in cui recitava pure Vittorio Gassman, Pret-à-porter, Radio America estremo suo film prima della morte.

Il più indipendente dei registi americani contemporanei perseguiva con forte volontà l'aspirazione impossibile d'ogni artista: raccogliere in ciascun film l'intero mondo, o almeno fare di ogni film una metafora del mondo. C'è riuscito: in parte, si capisce. Una delle sue prime opere importanti, M.A.S.H., prima Palma d'oro al festival di Cannes nel 1971, non era soltanto il racconto della vita d'un gruppo di chirurghi anarchici in un ospedale militare durante la guerrra di Corea: rappresentava i disastri di ogni guerra, i sacrifici umani, lo spirito pacifista e antimilitarista dell'epoca. Nashville era pure una denuncia della sopraffazione, del tradimento,della concorrenza e della violenza come valori della società americana.

Ha avuto la carriera di un uomo libero: ossia un percorso aspro, affrontato con serenità coraggiosa. A un certo punto, per una serie di insuccessi commerciali, non lo facevano più lavorare: lui s'è messo a fare piccoli film o a lavorare per la televisione, a Hollywood è tornato dopo anni con I protagonisti, analisi della spietatezza del mondo del cinema. A un altro punto non lo facevano lavorare perché aveva più di 60 anni, e la regola di Hollywood licenzia i registi a quell'età: lui ha diretto film con finanziamenti europei. Ha realizzato commedie funeste o incantevoli, La fortuna di Cookie, Il dottor T. e le donne. Con Gosford Park, ambientato in una tenuta nobiliare inglese negli Anni Trenta, è grandissimo. E Radio America, l'ultima fatica a 81 anni, era l'addio molto commovente a una cultura ormai fuori del presente, a un pubblico grato e ammirato, alla propria esistenza tumultuosa e quasi felice.

NELLA furia iconoclasta che ispira il centrodestra in materia ambientale, la maggioranza ha deciso di sferrare l’ultimo assalto a ciò che resta del nostro patrimonio paesaggistico, un patrimonio che appartiene a tutti e quindi anche a quelli che votano per l’opposizione, reiterando i fasti e i nefasti del Malpaese con l’aggravante della recidiva. All’origine di quest’offensiva, non c’è solo una diversità di cultura, di sensibilità o - se vogliamo usare una parola ancor più impegnativa - di civiltà

C’è evidentemente una precisa volontà devastatrice, un piano, un progetto per lo smantellamento definitivo del sistema di tutele, di controlli e di garanzie, allo scopo di procedere in modo più libero e spedito sulla strada della speculazione, dell’affarismo e quindi del dissesto.

Con la frettolosa conversione in legge del decreto presentato dal ministro Matteoli, un ministro dell’Ambiente che ha goduto finora di generose ed eccessive benevolenze da parte di vecchi e nuovi ecologisti, la maggioranza non ha semplicemente modificato i criteri e le procedure per la composizione delle Commissioni per la valutazione di impatto ambientale (VIA). Ma, per usare un facile calembour, ha dato praticamente il via alla devastazione programmata e autorizzata del territorio nazionale.

E per conseguire un tale risultato, irridendo ancora una volta l’autorità della Consulta come già sulla questione televisiva o sulla giustizia, s’è nascosta dietro il paravento della sentenza con cui la Corte costituzionale aveva deliberato che la Commissione speciale per le opere strategiche fosse integrata anche dai rappresentanti delle Regioni.

Fatto sta che, per realizzare questa prescrizione, il governo ha stabilito inopinatamente di ridurre il numero dei tecnici chiamati a comporla, compromettendone ulteriormente la funzionalità: già oggi la Commissione speciale è tanto oberata di progetti, in virtù dei discutibili meccanismi innescati dalla Legge Obiettivo, che è costretta a ricorrere a esperti e consulenti esterni. Contemporaneamente, per prendere - come si dice - due piccioni con una fava, sono stati modificati in maniera del tutto ingiustificata i requisiti per i membri della Commissione ordinaria, a cui spetta fra l’altro valutare i progetti di dismissione delle centrali nucleari, pregiudicandone così l’autonomia operativa.

Tutto questo accade per di più all’indomani di un appello pubblico, lanciato dal Fondo per l’Ambiente italiano e sottoscritto da personalità di varia estrazione, in difesa del patrimonio paesaggistico. Ma il grido d’allarme, a quanto pare, è rimasto inascoltato.

Un emendamento introdotto in extremis alla legge delega sull’ambiente prevede infatti la depenalizzazione completa per qualunque reato commesso ai danni del paesaggio. Più che un condono o un’amnistia, è un colossale colpo di spugna che legittima retroattivamente anche gli abusi totali, cioè "i lavori compiuti in assenza o difformità delle autorizzazioni", comprendendo le violazioni sull’aumento delle superfici o dei volumi consentiti.

É come abrogare delitti gravi quali il furto, la rapina o l’omicidio. E nel nostro caso, sono delitti commessi contro l’intera collettività.

Se si pensa poi che le due leggi fondamentali sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio risalgono entrambe al 1939, viene da commentare che almeno in questa materia il Cavaliere (Berlusconi) batte il Cavaliere (Mussolini); il regime (televisivo) sconfigge il regime (fascista); l’Italia in divisa azzurra supera perfino l’Italia in camicia nera. In piena dittatura politica, ben prima che arrivasse il decreto Galasso nel 1984 a fissare nuovi vincoli paesaggistici, 65 anni fa il duce s’era preoccupato di sancire un criterio puramente estetico per impedire la modifica delle bellezze naturali, la manomissione del panorama, insomma lo scempio del Belpaese. E sappiamo bene purtroppo che cosa è accaduto durante la Prima Repubblica, con tutti i guasti e i danni prodotti da un abusivismo sistematico, dal lassismo amministrativo e giudiziario, dalla prassi devastante delle sanatorie e dei condoni edilizi.

Adesso, sotto la dittatura mediatica, il saccheggio può riprendere e continuare, anzi viene legalizzato, autorizzato dal Parlamento o meglio dalla maggioranza che sostiene il governo. Diventa - e ripugna qui usare un’espressione del genere - "cultura di governo", presunta e falsa modernizzazione, semplificazione dei controlli e snellimento delle procedure, deregulation selvaggia.

Evidentemente, per rinnegare lo Stato di diritto, nell’era della televisione e di Internet non è più necessario abolire le libertà personali, quella d’opinione e di critica. E neppure, l’opposizione parlamentare. Basta cancellare il paesaggio.

Prima: il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001 in vigore il 30.6.2003) nella versione originaria ammetteva una ricostruzione fedele "di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente".

Dopo: la circolare 7.8.2003 n.4174 del Ministro delle infrastrutture, G.U. 25.11.2003, ma già il D.L. 301/2002, ampliano in maniera larghissima e persino ridicola il senso di demolizione e ricostruzione. Restano solo i vincoli della volumetria e della sagoma: dunque si possono modificare l'area di sedime, le caratteristiche dei materiali e, incredibile chiarimento della circolare, aumentare le superfici utili "con il conseguente incremento del carico urbanistico". Siamo su un piano quasi filosofico: la possibilità dell'aumento "deve ritenersi insita nella natura di tale intervento". Inoltre, poiché manca il riferimento all'area di sedime, la circolare afferma comicamente che ciò non vuol significare possibilità di ricostruire l'edificio in un altro luogo (grazie tante!!), ma ammissibilità di "modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di sedime" se esse rientrino nelle cosiddette variazioni non essenziali (la cui aleatorietà nelle leggi regionali ben conosciamo). Dimenticavo il sapido finalino: la demolizione/ricostruzione può essere applicata anche alle costruzioni abusive che abbiano ottenuto la concessione in sanatoria.

Insomma, un liberismo smaccato che darà un'ennesima mazzata alla buona urbanistica e alla buona architettura. Da quest'ultimo punto di vista vedi bene, tra l'altro, che l'aumento delle superficie significa, per esempio, inserire nel dato volume abbastanza alto un maggior numero di solette, come si è visto più volte realizzare in palazzi (per esempio milanesi) una volta abitati trasformati in banche e uffici di grande aziende, o, da ultimo, in favoleggianti atelier dei principi della moda. E come si potrà procedere da parte del professionista e dell'impresa? Non, come prima e giustamente, mediante la concessione edilizia, ma semplicemente e carinamente attraverso la Dia (Denuncia di inizio attività): vale a dire: continua la cuccagna per impresari e (spiace dirlo) per tanti, troppi architetti. Del resto, a proposito di questi ultimi, come nel caso dei sottotetti sul quale sono già intervenuto sul sito e in "la Repubblica", colpisce (ma non sorprende, dati i tempi, e anche la memoria di mezzosecolari malefatte che li hanno coinvolti) il maggioritario loro silenzio, il sostanziale disimpegno degli ordini professionali e dell'università con rare eccezioni, il disinteresse delle riviste. Ti ho già scritto che "Il giornale dell'architettura", forse l'unica a dedicare un articolo al tema, lo fa in maniera tanto distaccata, meramente informativa (lì ho ricavato le notizie), senza alcuna pesante deplorazione né alcun commento almeno dubitoso, da renderti pressoché definitiva la certezza che mai risorgerà una lotta, una forte opposizione da parte del nostro mondo culturale e professionale verso i poteri che governano la distruzione pianificata e a loro "conveniente" del paese.

In un Paese dove l’emergenza istituzionale sta diventando la regola, il problema del patrimonio culturale rischia di apparire un tema "minore", buono al più per qualche scaramuccia di confine fra opposti schieramenti, e non, come invece è, una questione essenziale per la "tenuta" del Paese. Perciò preoccupa l’assalto all’articolo 9, «il più originale della nostra Costituzione» come ha detto Ciampi: il nesso fra i suoi due commi lega fortemente tutela, ricerca e fruizione, e verrebbe snaturato dall’aggiunta (che si può ben fare altrove) della protezione degli animali, propugnata tuttavia da parlamentari di destra e di sinistra.

Continua intanto l’intensa attività legislativa promossa dal ministro Urbani. Non mancano "mosse" positive, come il disegno di legge sulla qualità architettonica (peraltro già calpestato da un selvaggio condono edilizio) o il decreto legislativo che adatta la legge Merloni agli immobili di valore culturale. Più importanti (e più controversi) i due interventi di sistema, il nuovo Codice dei beni culturali e il riassetto del Ministero. I punti più deboli del Codice, frutti di soluzioni compromissorie, sono la sovrapposizione di competenze fra Stato e regioni (peraltro sancita dall’infausta riforma del Titolo V della Costituzione) e l’interpolazione del silenzio-assenso nell’art. 12 del Codice, scritto all’inizio con opposte intenzioni.

Nella sezione sul paesaggio, che modifica la legge Galasso del 1985, ottima è la definizione del paesaggio come prodotto di interrelazioni fra natura e cultura, secondo la formulazione della Convenzione europea; ma sarebbe stato meglio seguirla anche nella prescrizione di una "forte lungimiranza" per la pianificazione paesaggistica. Positivo l’obbligo di piani paesaggistici regionali con riqualificazioni e recuperi, buona la definizione del piano paesaggistico, cogente per i comuni, che aumenta aree e immobili da tutelare. Molto positivo il divieto di autorizzazioni in sanatoria dopo la realizzazione, anche parziale, degli interventi: si dovrebbero così bloccare scellerati tentativi di depenalizzare gli abusi, come quello tentato pochi mesi fa, e poi ritirato.

L’innovazione più rilevante è che le Soprintendenze perdono il potere di annullare "a valle" le autorizzazioni edilizie delle amministrazioni locali, e acquistano la possibilità di partecipare, "a monte", alla redazione dei piani paesaggistici. Buona idea, se non fosse che la collaborazione delle Soprintendenze (preposte, secondo la Costituzione, alla tutela del paesaggio) viene lasciata alla buona volontà delle Regioni, che col Ministero «possono» (e non «devono») stipulare «accordi per l’elaborazione dei piani paesaggistici». Anche il parere di merito delle Soprintendenze sui singoli progetti, a richiesta di regioni o enti locali, per quanto reso «entro il termine perentorio di 60 giorni», non sembra avere valore vincolante, e non è nemmeno richiesto per modificare il colore delle facciate, con conseguenze temibili.

Quanto alla gestione dei beni culturali pubblici, il Codice eredita le ambiguità della normativa precedente. La gestione "indiretta" (di privati o fondazioni) è considerata equivalente a quella "diretta" delle amministrazioni pubbliche. Musei e monumenti possono essere "conferiti in uso" alla fondazione che li gestisce, purché la partecipazione dell’amministrazione pubblica sia prevalente. Peccato che questo principio sia stato già violato nello statuto della fondazione del Museo Egizio di Torino, secondo cui lo Stato, proprietario del Museo, lo "conferisce in uso" alla Fondazione, ma si auto-mette in minoranza nel Consiglio di amministrazione, composto di nove membri, dei quali uno solo (il soprintendente regionale del Piemonte) appartiene al Ministero, cinque sono di nomina politica (due dal ministro, uno ciascuno da Regione, Provincia e Comune) e tre sono designati dalle due fondazioni bancarie interessate. Il Consiglio nomina il direttore, a cui non è richiesta alcuna competenza egittologica; anche nel comitato scientifico, peraltro senza alcun potere, solo un membro su sette dev’essere egittologo.

È una piena abdicazione dello Stato al proprio ruolo, peraltro già scritta a tutte lettere nella legge Veltroni di riforma del ministero, secondo cui il Ministero «può partecipare al patrimonio delle fondazioni con il conferimento in uso di beni culturali». La riduzione dei musei a merce di scambio con gli agognati finanziamenti privati, a quel che pare, non è né di destra né di sinistra. Questo modello di Fondazione, che inglobando il Museo è di fatto sovraordinata all’amministrazione pubblica, non può funzionare e non funzionerà. Peccato, perché le Fondazioni museali potrebbero essere efficaci se organizzate in parallelo alle soprintendenze, senza subordinare gli esperti a chi competenza non ha (a Torino, gli egittologi a chi non ha mai visto un geroglifico). Miopi preoccupazioni localistiche hanno inquinato l’intera partita: a sei anni dalla legge Veltroni, non una Fondazione è operante, e dai privati arrivano molte promesse ma nemmeno un centesimo.

Ma i danni di questa concezione mercificata dei musei non si fermano qui: legata alla prospettiva delle fondazioni è infatti l’istituzione dei poli museali, decisa dal governo di centro-sinistra e attuata da Urbani. I poli istituiti a Roma, Firenze, Napoli e Venezia, per la prima volta nella storia e in contraddizione coi principi di tutela, hanno "scorporato" i musei dal territorio, considerandoli come entità a parte. Questo vuol dire per esempio che le grandi raccolte fidecommissarie di Roma, tutte di identica origine e storia, sono ora di competenza di soprintendenze diverse: ricadono nel "polo museale" se sono passate in proprietà pubblica (Borghese), sotto altra soprintendenza se sono ancora private (Colonna, Doria Pamphilj).

Si spezza così il nesso vitale fra la città, coi suoi palazzi e chiese, e i musei, che dall’identico tessuto di committenze e collezioni trassero origine e alimento. Nata dall’ossessione del modello americano coi suoi musei staccati dal territorio (ma nelle chiese di New York non c’è Giotto, non c’è Tiziano, non c’è Caravaggio), questa ferita al modello italiano di tutela ha una sola spiegazione: staccare i musei dalle soprintendenze territoriali per privatizzarli affidandoli a fondazioni come quella in gestazione per l’Egizio.

Urbani, sembra, sta ripensando l’intera materia nel contesto della riforma del ministero. L’unica soluzione decente sarebbe di reintegrare i quattro "poli" nel loro humus, creando altrettante soprintendenze urbane (città e musei). Pessima idea sarebbe invece trasferire i poli museali ai soprintendenti regionali, che spesso mancano delle competenze necessarie per gestirli. Più grave ancora sarebbe la ventilata abolizione delle due più importanti soprintendenze archeologiche del nostro Paese, anzi del mondo, quella di Roma e quella di Pompei. Di esse va invece garantita la massima autonomia gestionale, nonché l’alta professionalità e competenza specifica del Soprintendente-archeologo che le dirige.

Disastroso, infine, sarebbe intendere le Soprintendenze territoriali come uffici tecnici, emanazione periferica di quelle regionali, e ancor peggio affidare queste ultime a funzionari o manager di nomina politica e con scarse o nulle competenze specifiche. Su questo e su altri punti, la riforma del Ministero, che fa sistema con il Codice, ne svelerà presto spirito e intenzioni. Con un processo graduale, che potrebbe partire dalle Soprintendenze urbane di Roma, Venezia, Napoli e Firenze e dalle archeologiche di Roma e Pompei, tutte le Soprintendenze dovrebbero essere concepite come enti di ricerca e di tutela, dotati di ampia autonomia scientifica, amministrativa e contabile e gestiti in prima persona dal Soprintendente. Se lo Stato non vuole dichiarare la propria disfatta, c’è una sola strada possibile, ed è questa.

L’ Assemblea nazionale francese sta discutendo da qualche giorno la “carta dell'ambiente”, presentata in aula dal ministro della giustizia e dalla relatrice dell'Ump. La maggioranza del gruppo Ps chiede maggiore coerenza fra parole e fatti, giudicando comunque positivo l'inserimento nella Costituzione. Anche in Italia ci sono novità. Mentre il Senato il centrodestra ha consumato a colpi di maggioranza lo stravolgimento della Costituzione e del principio di separazione dei poteri, alla Camera è pronto per l'aula un testo che integra l'articolo 9 della carta fondamentale.

Il termine “ambiente” è assente dalla Costituzione entrata in vigore 56 anni fa. Oggi è, tuttavia, unanime il riconoscimento che l'ambiente già costituisce nel nostro ordinamento un “valore costituzionale”. Varie successive sentenze della Corte Costituzionale hanno riconosciuto il bene ambientale come valore primario, assoluto e unitario, non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi, un bene fondamentale garantito e protetto, da salvaguardare nella sua interezza. Da due anni è entrata in Costituzione anche la parola “ambiente”. Nel nuovo titolo quinto della parte seconda, riorganizzando la ripartizione di competenze fra stato e regioni, si assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la “tutela dell'ambiente e dell'ecosistema”.

Un testo di modifica costituzionale dell'articolo 9 era già stato approvato dal Senato a settembre e costituiva un inutile peggioramento, perfettamente funzionale alle pessime politiche ordinarie del governo Berlusconi in materia ambientale: il centrodestra si è concentrato su politiche territoriali anti-ambientali (infrastrutture, mobilità, edilizia), sull'occupazione delle istituzioni e dei poteri ambientali, sullo smantellamento di ogni politica attiva (in omaggio ad una concezione burocratica e centralista del “governare”). In questo quadro, vale la pena toccare la Costituzione solo se la forma migliora e la sostanza consente di tutelare e valorizzare meglio l'ambiente.

Ora la commissione Affari Costituzionali della Camera ha definito un nuovo (migliore) testo, accogliendo larga parte delle proposte contenute in una proposta avanzata da vari parlamentari del centrosinistra: la Repubblica “tutela l'ambiente e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni; protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali”. Si potrebbe già discutere in aula a luglio, rimandando poi la proposta al Senato.

I due commi si aggiungono all'attuale articolo 9 della Costituzione; non ne intaccano la forma e la sostanza, rivelatesi importanti per salvaguardare paesaggio e cultura del nostro paese; costituiscono in pratica un articolo successivo che completa principi e valori richiamati nella prima parte della carta fondamentale.

Le formulazioni sono abbastanza sobrie, secche, essenziali; sono stati discussi, prima inseriti poi tolti, incisi e formule più analitici. Sono state accantonate disposizioni che rischiavano di complicare l'articolo con concetti ambigui, impropri in quella parte della Costituzione. Non si inseriscono nuovi verbi che non facciano già parte del lessico costituzionale italiano; non si contraddicono definizioni di altri articoli o parti (il plurale “ecosistemi” non pregiudica il singolare “ecosistema” dell'articolo 117); future generazioni e biodiversità (coerentemente al plurale) fanno già parte di convenzioni internazionali e disposizioni europee di rango superiore.

La novità è il rispetto degli animali. È una citazione che sta facendo molto discutere, che ha portato Alleanza Nazionale a votare contro in commissione, che ha visto commenti contrastanti, che può indurre a conflitti interpretavi e attuativi. Apprezzo la maturazione di una giusta nuova esigenza, con una formale garanzia non equivocabile. Sottolineo il verbo che la regge: promuove! Insisto sulla opportuna valenza anche culturale del richiamare il “vivente non umano”.

La mancata novità è lo sviluppo sostenibile, che vede forti perplessità sia in Forza Italia che in Rifondazione Comunista, sbagliate a mio avviso, tanto più che l'inciso sull'interesse (anche?) delle future generazioni esprime lo stesso concetto in modo meno rigoroso e formale. Sintetizzando (non me ne vogliano), Forza Italia ha paura della sostenibilità (comunque un vincolo all'economia), Rifondazione dello sviluppo (comunque dannoso all'ecologia), entrambi colgono il lato di una contraddizione del concreto sviluppo dell'ultimo paio di secoli. Regole ONU e EU possono consentirci di tentare un passo “diverso” verso l'inevitabile futuro (che non coincide con il progresso).

In commissione affari costituzionali abbiamo avanzato l'idea di predisporre una vera e propria legge costituzionale in materia di diritto dell'ambiente, che citi tutti i principi della legislazione ordinaria, che sovraordini il coordinamento delle varie materie in testi unici (acqua, aria, suolo, mare, ecc.), che arricchisca la prassi normativa costituzionale italiana sulla scia di altri paesi (come la Francia) pur nella consapevolezza che i casi di rinvio sono oggi rarissimi (ad esempio nell'articolo 137). Sarebbe auspicabile un pronunciamento preliminare dei gruppi parlamentari su questa idea: se si prevede un rinvio (con norma esplicita o atto d'indirizzo) forse si può “asciugare” ulteriormente il testo; se non si prevede, alcune carenze andrebbero corrette, come il diritto all'acqua. Bisognerà anche verificare l'atteggiamento del governo, oggi ambiguo, diviso fra il brutto testo approvato al Senato e astratte dichiarazioni di neutralità. Il peggiore è stato ancora una volta Matteoli che ha parlato di testo “stravolto” dalla Camera, contestando (lui, ministro dell'ambiente!) che si parli in Costituzione di biodiversità e animali. Incredibile, ma vero!

22.03.2004

Urbani non ne dice una giusta

di Vittorio Emiliani

Il ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, è stato ospite sabato sera della bella, utile e spiritosa trasmissione di Fabio Fazio Chetempochefa. Doveva spiegare novità e pregi della legislazione promossa dal suo governo per il patrimonio storico e artistico e e per il paesaggio della Nazione, tutelati dalla Repubblica, secondo l’articolo 9 della Costituzione.

Per prima cosa ha detto che in basi alle leggi precedenti i beni culturali demaniali, pubblici, ecc. potevano essere venduti, infatti gli elenchi ora predisposti dall Agenzia del Demanio sono stati redatti in base ad un Regolamento del 2000.

Non è vero.

È vero invece che in base alle leggi Bottai del 1939 recepite nel Testo Unico del 1999 i beni immobili pubblici (perché di questi soprattutto si tratta) erano inalienabili in quanto tali. Infatti molti di essi, anche importanti, non vennero neppure sottoposti a vincolo perché non ve ne era bisogno essendo incedibili (fatte salve rare eccezioni). Poi, nelle votazioni alla Camera per la Finanziaria 2000, la Lega Nord infilò un emendamento che ribaltava questo principio: tutti i beni diventavano dunque alienabili, salvo eccezioni. L’ intero Polo (si presume anche Forza Italia e magari pure l’ on. Urbani) votarono quello sciagurato emendamento e, ahinoi, pure una parte dell’Ulivo. L’emendamento passò. Ma la Finanziaria doveva essere ancora vagliata dal Senato e le associazioni di tutela, il gruppo dei Verdi e altri sollecitarono l’allora ministro Melandri a rimediare a quella enorme falla. Il Senato votò un ordine del giorno che impegnava il governo a varare un Regolamento che ripristinasse il principio fondamentale (tutti i beni culturali pubblici sono inalienabili salvo eccezioni autorizzate dalla Soprintendenze) e normasse le eccezioni. Una commissione lavorò mesi. Produsse un testo approvato da tutti, compresi i Comuni e le Province divenuto il Regolamento n.283 emanato con decreto presidenziale Ciampi il 7 settembre 2000.

Cardine di esso: la predisposizione di elenchi da parte degli Enti pubblici proprietari di quei beni e il loro invio alle Soprintendenze Regionali le quali avrebbero operato entro 24 mesi le opportune integrazioni inserendoli nell’elenco previsto. Le richieste di affitto, di cessione in uso a privati, dovevano essere accompagnate da un piano di utilizzo dettagliato. Se il piano non fosse poi stato realizzato in modo adeguato, la Soprintendenza poteva revocare la cessione in uso.

Sabato sera Giuliano Urbani, dopo aver definito sciocchezze i due principi ricordatigli da Fabio Fazio (inalienabilità generale con eccezioni; alienabilità generale con eccezioni) ha vantato la superiorità del suo Codice sulle leggi precedenti. Senonché gli è scappato detto: «Prima si pensava di vendere. Oggi si vuole vendere». E ha calcato su quel si vuole. È Tremonti che vuole, per fare cassa. Altrimenti perché avrebbe creato la Patrimonio SpA, perché non tenersi stretto il Regolamento Melandri? Appunto perché si vuole vendere.

Allora, quali beni sono classificati inalienabili dal Codice e quali lo erano per le tanto spregiate leggi precedenti? Vediamo un po’. Secondo il Regolamento n.283, inalienabili erano: 1) i beni riconosciuti con legge monumenti nazionali; 2) i beni di interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere; 3) i beni di interesse archeologico; 4) i beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche , cioè sedi o ex sedi di Municipalità, di Vescovadi, di Accademie, ecc.

Cosa resta nel tanto decantato (dal ministro) Codice Urbani? Restano i beni archeologici e gli immobili riconosciuti come monumenti nazionali. Sparisce però completamente il punto 2 e diventa molto vago il punto 4. Quindi c’è un palese indebolimento.

Ma Urbani ha aggiunto: stavolta gli elenchi li facciamo noi. Una mezza verità poiché li sta facendo l’Agenzia del Demanio e li invia al Ministero. Non ci sono più di mezzo gli Enti pubblici. C’è l’Agenzia del Demanio che vuole vendere e che dà un prezzo pure all’isola di Giannutri o alla Villa di Tiberio.

Vi è di più e di peggio: il ministro Urbani ha consentito che nel suo Codice venisse introdotto il congegno tremontiano del silenzio/assenso. Se le Soprintendenze non rispondono alla richiesta dell’Agenzia del Demanio nel termine di 120 giorni (che poi si riducono in realtà a 30), dando motivato parere, il loro silenzio equivale ad un si venda. Secondo il ministro, è un lavoretto da poco per le Soprintendenze. Secondo il soprintendente regionale delle Marche, Francesco Scoppola, uno dei più preparati, il nostro lavoro, soltanto per i beni demaniali, si moltiplicherà per sette. Poi c’è il condono edilizio voluto da Tremonti (al quale Urbani si è blandamente opposto). Un condono, ha ammesso, non è una bella cosa, ma col solito scatto d’orgoglio ha sottolineato: per la prima volta abbiamo escluso le aree protette. Altra mezza verità. E stata l’opposizione a costringerveli. Silenzio tombale di Urbani invece su di un altro punto-chiave del condono: per la prima volta vengono sanati anche abusi commessi in parte su suoli demaniali. Mai accaduto. Un altro varco aperto nella tutela. A quando condoni totali sul demanio marittimo, fluviale, ecc.?

E i Musei, diverranno privati? Urbani ha svicolato così: la proprietà dei Musei rimarrà pubblica. La proprietà, certo. Ma l’intera gestione diventerà privata. A cominciare dal Museo Egizio di Torino. Infine, una delle materie più roventi: i piani paesistici, la legge Galasso, i poteri di bocciatura delle Soprintendenze per i progetti deturpanti. Tutte le Regioni che lo vorranno, ha spiegato testualmente Urbani, potranno assumere piani paesistici che faranno aggio sui piani urbanistici. Prima, succedeva di più e di meglio: con la legge Galasso dell’85, le Regioni erano obbligate ad adottare piani paesistici cogenti e se non lo facevano, il Ministero con le sue Soprintendenze si sostituiva a loro. Come è infatti avvenuto in Campania e Calabria, come stava avvenendo, finché ci fu la Melandri al Collegio Romano, in Puglia e nella stessa Lombardia.

Dal 1° maggio, col Codice, il potere di bocciare un mostro paesaggistico non ci sarà più. Le Soprintendenze saranno chiamate a dare un semplice parere, preventivo e consultivo, sull’autorizzazione comunale. Poi saranno disarmate. Giustificazione di Urbani: tanto, quelle bocciature le cancellava sistematicamente il Tar.

Non è vero: su 3.000 bocciature di media all’anno, quelle importanti rimanevano tali. Irrevocabilmente. In certe regioni rimanevano tutte valide.

I costruttori più disinvolti e rapaci staranno brindando. Difatti il progetto di legge urbanistica di cui è relatore l’on. Lupi (FI) promette di peggiorare il Codice Urbani e pare che stia incontrando consensi pure fra deputati dell’opposizione. Si gradiscono smentite.

La legge urbanistica nazionale ha più di sessant'anni e, pur essendo un'ottima legge, ne dimostra molti di più: le città sono molto cambiate negli ultimi decenni, e cambiati sono i contenuti e i modi delle loro trasformazioni. Un parlamentare della maggioranza, Maurizio Lupi, e un parlamentare dell'opposizione, Pierluigi Mantini, firmatari di due diversi progetti di nuova legge urbanistica, stanno cercando di costruire un testo unificato da sottoporre al dibattito delle camere. L'impresa ha suscitato perplessità e diffidenze: nel clima politico attuale ciò è più che comprensibile, ma la maggior parte delle riserve espresse derivano probabilmente da idee sbagliate sui compiti dell'urbanistica.

Con urbanistica si intendono ormai le cose più diverse, dall'arte di progettare e costruire le città, ai problemi della difesa ambientale o delle sostenìbilità, mentre l'urbanistica regolata dalle leggi è un'attività più specifica di quanto generalmente si immagini.

L'urbanistica è un'attività rivolta, con la forza della legge, alla definizione delle modalità d'uso del suolo e della mobilità. Nella pratica questo vuol dire che il compito dell'urbanistica è quello di controllare e ridurre i possibili effetti negativi prodotti dalle trasformazioni urbane di qualunque tipo.

A causa delle caratteristiche del suolo, una risorsa scarsa e non riproducibile , per svolgere il suo compito 1'urbanistìca non può intervenire dopo che le trasformazioni sono avvenute, sarebbe troppo tardi. L'urbanistica deve anticipare le trasformazioni ed è così costretta a costruire essa stessa il mercato urbano, un'operazione che svolge soprattutto attraverso l'assegnazione dei diritti di edificazione, espressi negli indici di edificabilità, oggetto principale di contesa quando si discutono le scelte di un piano regolatore.

La costruzione del mercato urbano ha conseguenze significative sui diritti dei cittadini. L'importanza politica delle scelte dell'urbanistica deriva dal fatto che quelle scelte determinano le condizioni del dove e come abitano, lavorano, fanno la spesa, si divertono, e di quanto tempo sono costretti a consumare per spostarsi da un posto all'altro. Un noto giurista ha definito il piano regolatore una «costituzione impermanente»: il piano regolatore è una costituzione proprio perché definisce non solo i diritti di proprietà, ma soprattutto i diritti di cittadinanza; è una costituzione impermanente

a differenza della Carta costituzionale destinata a sfidare il tempo , perché la città si trasforma e il piano regolatore si modifica per disegnare e controllare le trasformazioni urbane. Dire che attraverso la costruzione e il controllo del mercato urbano l'urbanistica disegna i nostri diritti di cittadinanza non significa negare l'importanza di altri compiti come quello della costruzione di una città bella, oltre che giusta. Una città bella può essere un diritto di ogni cittadino, ma sarebbe difficile considerarla l'attributo di maggior rilievo, anche perché in un mondo come il nostro è molto difficile stabilire uno standard condiviso di bellezza urbana, mentre è meno difficile trovare un accordo su quello che dovrebbe essere lo spazio minimo necessario per abitare, o il tempo massimo che si è costretti a passare in automobile o in metropolitana per recarsi al lavoro o a scuola.

Ricordare che l'urbanistica attraverso il controllo spaziale esercita una forma molto importante di controllo sociale significa dire che l'urbanistica disegna i diritti di cittadinanza e che è questo il suo compito principale.

Si tratta di un compito costituzionale che non può essere eluso, e che pertanto deve stare al cuore dei principi definiti dalla legge urbanistica nazionale; i principi che devono garantire un'uniformità di trattamento dei diritti pur nel rispetto delle differenze regionali.

Nel quadro dei principi fissati dalla legge nazionale, le leggi urbanistiche regionali regoleranno le attività amministrative e tecniche attraverso cui l'urbanistica costruisce nei diversi contesti locali il mercato urbano e definisce i diritti di cittadinanza.

Se questi, e non altri, sono i compiti dell'urbanistica, è necessario che il progetto di nuova legge urbanistica nazionale sia il risultato di un accordo su un testo unificato, perché riguarda principi e regole che debbono durare nel tempo, indipendentemente dal variare delle maggioranze parlamentari. Pertanto, perplessità e diffidenze nei confronti dell'iniziativa di Lupi e Mantini sono ingiustificate, e se l'approdo parlamentare non dovesse essere possibile, il loro tentativo rimarrà comunque un contributo culturale e politico molto utile alla redazione di una nuova legge urbanistica nazionale e alla crescita del nostro costume democratico.

La nuova legge urbanistica? «E' il delirio di uno speculatore trasformato in legge». L'allarme sarà lanciato pubblicamente oggi - nell'ambito della giornata di Italia Nostra su «Paesaggio e tutela» - ma è da qualche tempo che il mondo degli urbanisti è entrato in agitazione per quel che sta accadendo in parlamento, e in particolare nella commissione ambiente. Che si appresta a partorire una legge considerata mostruosa da gran parte degli urbanisti e salutata con favore dello stato maggiore dei costruttori (Confedilizia benedicente); una legge il cui fulcro è la sostituzione degli «atti autoritativi» con quelli «negoziali»: in sintesi, l'ingresso ufficiale degli interessi privati nella sede di definizione dei piani urbanistici, quelli che una volta dovevano tutelare l'interesse generale. Proprio oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti, in commissione ambiente, al «testo unificato» sul governo del territorio. Padre della legge è Maurizio Lupi, ciellino confluito in Forza Italia sin dagli esordi del partito Mediaset, già assessore all'urbanistica a Milano e ispiratore anche della legge urbanistica in via di approvazione in Lombardia. E del «modello lombardo» - una vera fonte di ispirazione, così come è successo per la sanità e la scuola - la nuova legge è l'applicazione fedele, a livello nazionale. In primo luogo, si stabilisce che il «governo del territorio» spetta alle regioni, salvando per lo stato centrale solo «gli aspetti direttamente incidenti sull'ordinamento civile e penale, sulla tutela della concorrenza nonché sulla garanzia di livelli uniformi di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Il potere legislativo delle regioni avrebbe così assai scarse limitazioni, denuncia Italia nostra che vede nella proposta di legge la sostanziale smentita dell'articolo 9 della Costituzione («la Repubblica tutela il paesaggio»).

Quanto agli strumenti per «governare il territorio», il successivo articolo 4 della proposta di legge non lascia dubbi, enunciando sin dal titolo quel principio-cardine del «modello lombardo» che è la sussidiarietà tra pubblico e privato. E se in materia sociale questo vuol dire lasciare allo stato solo i rifiuti che il mercato lascia dietro di sé, in materia urbanistica la sussidiarietà alla lombarda si traduce facendo sedere i costruttori e i soggetti privati forti alla scrivania dove si progetta la città: «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti». Chi sono questi «soggetti interessati»? «Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di `soggetti interessati' ci si riferisca al cittadini e alla cittadina? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare», scrive Edoardo Salzano sull'Archivio di studi urbani e regionali (n. 77/2003, che contiene un esteso dibattito sulla riforma urbanistica in discussione). E che i «soggetti interessati» siano quelli che hanno «voce e potere», come dice l'urbanista Francesco Indovina, lo conferma anche la relazione di accompagnamento al disegno di legge.

«E' un testo terrificante», sostiene Vezio De Lucia, che descrive così l'effetto della legge a regime: «il governo del territorio non sarebbe più nelle mani dei poteri istituzionali, ma sarebbe affidato ad `atti negoziali' tra tutti i soggetti interessati, cioè i proprietari fondiari». Il trionfo dell'«urbanistica contrattata», inaugurata per l'appunto nella Milano da bere e in quella del decennio successivo. Tra gli urbanisti l'allarme è diffuso. «Mentre tutte le regioni stanno legiferando, una legge quadro dovrebbe indicare i princìpi generali, questa non lo fa e allo stesso tempo dà persino un accesso di potere alle regioni», commenta Indovina. Intanto la Lombardia marcia da sola verso la sua legge, in attesa della sua consacrazione su scala nazionale.

Caro Direttore, desidero sottoporle alcune considerazioni - non necessariamente per la pubblicazione - su un tema rilevante trattato da l'Unità il 20-3-2004 (articolo di Maria Zegarelli sulla legge di riforma dell'urbanistica, tema poco dopo trattato anche d V. Emiliani a proposito di beni culturali). In entrambi gli articoli sembra quasi che l'urbanistica sia prevalentemente o soltanto una faccenda di paesaggio. Forse andrebbero fatte alcune precisazioni.

Innanzitutto, va detto che il tema del paesaggio, quello della urbanistica negoziale, quello (che pare dimenticato) della natura dell'urbanistica, quello del governo del territorio e quello delle modifiche costituzionali sono altamente interrelati.

Quando l'estate scorsa furono presentati a Milano in Regione i progetti di legge (Lupi FI, Mantini Margherita, Sandri Ds; il prossimo 31 marzo verrà di nuovo trattato il tema, sempre a Milano in un grande albergo, da urbanisti milanesi, dai presentatori dei progetti, e da avvocati immobiliaristi) non eravamo ancora in presenza di due grosse novità:

a) il tentativo di compattamento delle opposizioni, e,

b) la Sentenza 303 / 2003 della Corte costituzionale, che onde evitare equivoci afferma che nonostante la riforma costituzionale del 2001 parli di governo del territorio e non più di urbanistica, la materia urbanistica non è affatto scomparsa.

L'on. Mantini presentò, anche con un articolo su Urbanistica Informazioni, l'ipotesi di una operazione "bipartisan" di accordo tra il suo progetto e quello di Forza Italia. Mi chiedo se con la situazione politica successiva un "esperimento" bipartitico del genere (a meno che non sia un'ipotesi di grossa coalizione...) sia ancora di attualità, o se il progetto della Margherita non debba prima di tutto accordarsi con quello Ds.

Quanto alla legge di principi generali, mentre l'urbanistica è materia nota e una legge si potrebbe forse fare velocemente, il "governo del territorio", che comprende anche l'urbanistica insieme a tante altre cose, andrebbe studiato con calma piuttosto che precipitarsi a fare una legge generale. E si vedrebbe allora l'intreccio con temi costituzionali non ancora risolti: era questa proprio una delle materie ancora soggette a chiarimenti dopo la riforma costituzionale del 2001, anche se i tentati chiarimenti furono poi dimenticati quando dalla riforma la Loggia o poi La Loggia-Bossi si passò un pò disordinatamente a più succulente materie relative ai poteri costituzionali. E della difficile applicazione della legge 131 del 5 giugno 2003 di adeguamento dell'ordinamento repubblicano alla nuova Costituzione mai si sente parlare. Il tema tuttavia continua a non essere chiaro, e ricordiamo che persino una nota Sentenza della Corte Costituzionale, la 407 del 2002 , parlava di tematiche "inestricabilmente intrecciate" a proposito di ambiente, beni, territorio. E si sa che, a parte le differenze di opinioni e di interessi tra regioni e amministrazione statale, anche dentro a quest'ultima esistono modi assai diversi di vedere il tutto, come minimo tra gli apparati che si occupano di Ambiente, Beni (e quindi paesaggio), Infrastrutture, Difesa del suolo; nonostante la Corte invochi una "leale cooperazione" tra le amministrazioni. Inoltre, sempre a proposito di governo del territorio, non sarà da escludere che qualcuno veda nell'espressione una specie di riconoscimento di "sovranità" regionale sul territorio (sicché converrebbe trovare un altro nome). Qualche rilievo avevo fatto in una serie di osservazioni sui temi ambientali e territoriali in rapporto alla Costituzione in un mio breve corso di Giurisprudenza alla Bicocca, poi pubblicate in tre puntate di sintesi nel sito www.filosofia-ambientale.it e riprese in www.sernini.net. Ben a proposito in un'intervista a l'Unità del 12/9/2003 Campos Venuti denunciava i tentativi di "secessione urbanistica".

Del resto, anche la recente vicenda del Condono, se portato dinnanzi alla Corte con l'assunto che non si tratta di materia statale (neppure nei principi generali o qualcosa di simile) ma esclusivamente regionale, rischia di essere una zappa sui piedi: le regioni che non vogliono il condono non l'applicherebbero, tutte le altre sì, come avverrebbe per tutta l'urbanistica ove fosse esclusivamente regionale o se lo stato non potesse dettare principi di fondo. Sono immaginabili le conseguenze di questa urbanistica "differenziale", della quale avevo avvertito brevemente in uno studio del 1985.

Vorrei anche accennare al fatto che mi pare esagerato ridurre tutta l'urbanistica, come è ora di moda, ai temi del paesaggio. L'urbanistica riguarda anche e forse soprattutto gli insediamenti umani sul territorio di persone e attività, quante, dove, come, quanto dense, città e non città. Anche in Francia i poteri di pianificazione urbanistica sono locali, comunali, ma esistono norme generali, per es. circa gli strumenti di coerenza territoriale, e vi sono inoltre norme di intenzione urbanistica per l'intero paese, a durata ventennale. E anche in Inghilterra la libertà di costruire non è esente da obiettivi politici generali. Per quanto sia in voga il paesaggio, e la bellezza, e l'elogio della qualità della vita agreste, come è possibile far scomparire non soltanto gli eccessi della pianificazione ma anche le parti usuali dell'urbanistica? E l'importanza degli agglomerati urbani? Ad Amsterdam come a Londra di fanno piani, in Francia si discute se densificare Parigi, in Inghilterra si discute pubblicamente se i milioni di nuovi alloggi necessari si debbano fare espandendo Milton Keynes pianificata come espandibile o invece vadano collocati nelle zone abbandonate di una città esistente come Birmingham, e sempre in Inghilterra si discute di case dal costo sopportabile. Da noi è persino difficile sapere qualcosa delle previsioni abitative decennali delle regioni, richieste dalla legge del 1978. E per molte norme il testo Unico dell'Edilizia del 2001 sembra soppiantare la normativa urbanistica.

Certo, mi si dirà, i progetti in discussione si occupano anche di urbanistica, infatti trattano delle nuove regole negoziali, della perequazione immobiliare e finanziaria tra operatori. Ma, e qui giustamente vedo che Vezio De Lucia ha fatto dei rilievi in proposito, si può andare verso una tendenza terrificante. Se l'urbanistica è sempre meno politica, se il privato fa un vero piano urbanistico avendo però come intento non la organizzazione dell'insediamento sul territorio ma solo la valorizzazione proprietaria, sparisce l'interesse pubblico, sparisce la differenza tra giusta remunerazione della rendita e speculazione. Eppure, già l'Einaudi nel 1920 studiando il problema delle abitazioni, mentre magnificava come unico sistema valido quello liberista puro, doveva poi ammettere che a volte subentrano valutazioni politiche a modificare i modelli. Forse si vuol andare a piani urbanistici privati come si fece a Beyrouth negli ani '90, o a casi come quello del Mori Bulding nel quartiere centrale Rappongi di Tokyo, esproprio privato (oppure partecipazione azionaria!) e libera costruzione? Nella Polonia deregolata è successo che si sono costruite case in luoghi sgraditi ai ceti più ricchi ma con caratteristiche inarrivabili per i ceti più poveri. Risultato: case non occupate. E' chiaro che le nostre Società di Trasformazione Urbana, specialmente se non se ne garantisce la presenza pubblica maggioritaria, oggi che con la perequazione eventualmente funzionante si incentiva al costruire prevalentemente chi ha grandi possibilità finanziarie - e infatti sono molto presenti sul mercato le grandi immobiliari - potranno allontanare tramite l'esproprio piccoli proprietari non graditi nella zona da "abbellire": uno sfratto dei proprietari insomma. Senza che si voglia disporre almeno la regola che queste operazioni nella città abbiano inizio da zone dismesse e da zone veramente degradate. Quanto all'extraurbano (per quanto poco trovi credito tra architetti alla moda questo termine), vedremo forse i privati acquistare terreni liberi e costruirci sopra vere e proprie piccole città, di cui essi e non certo sostanzialmente i Comuni farebbero il piano urbanistico? Questa ottica privatistica trova un singolare elemento simmetrico in una iniziativa di questi giorni sùbito e forse affrettatamente magnificata da molte parti: il privato che acquista immobili "mostruosi" per poi demolirli. Se si tratta di abusivismo, ci sono già le norme sull'abbattimento, e le ammende per l'illecito andrebbero comunque portate a livelli più alti. Se si tratta di edifici che semplicemente non piacciono all'acquirente, ma furono regolarmente costruiti, mi pare un caso di arroganza proprietaria bella e buona.

Insomma, sarà una istanza ingenua, ma credo che non sarebbe male se tra tutti gli urbanisti si discutesse di tutta la materia, e poi si discutesse ampiamente tra questi e i politici, e poi questi operassero sapienti mediazioni sui progetti di legge, se possibile, oppure molti emendamenti accompagnati da un pò di supporto dell'opinione pubblica. Temi difficili, se ci si occupa solo di calcio e di TV, e se persino le riforme costituzionali - è stato giustamente lamentato giorni fa - fanno poca audience. Ma ancor più difficili se sui giornali non si spiega ampiamente tutto l'intrico.

Professor Mazza, la filosofia che ispira il testo Lupi sembra essere "più contrattazione, meno piani regolatori". Lei è d´accordo con questa impostazione?

«È una semplificazione eccessiva. Il problema è mal posto, perché l´alternativa non è tra "più contrattazione" e "meno piani" (le regole sono indispensabili), ma tra contrattazione trasparente e contrattazione opaca e collusiva, come quella che si è praticata finora nelle sedi dei partiti, delle banche, negli studi professionali, nelle associazioni sindacali e imprenditoriali. Ogni scelta urbanistica comporta una discriminazione che richiede contrattazione e accordo. Il problema, tutto politico, è quale sia il senso degli accordi, se gli accordi servano interessi particolari oppure generali».

In che modo questo testo può correggere le storture che gravano sulle nostre città?

«Nessuna legge può correggere storture che sono il prodotto dei sistemi di valori della nostra cultura e anche della cultura tecnica. La nostra cultura tecnica non sarà mai una cultura adulta sino a quando i tecnici per progettare avranno bisogno di una legge che imponga, per esempio, densità edilizie, dal momento che la loro integrità professionale non è sufficiente a impedire che si progetti con densità eccessive. Bisogna costringere tecnici e politici ad assumersi le loro responsabilità senza nasconderle dietro il paravento delle leggi».

Una delle obiezioni mosse al testo è che con la via negoziale la città non verrebbe più governata con un´attenzione unitaria.

«Se si escludono quelle di fondazione, le città si sono sempre trasformate con progetti parziali. Se un disegno complessivo è disponibile, talora i progetti parziali lo completano o reinterpretano, talora segnano uno scarto rispetto ad esso, uno scarto che può indicare l´avvio di un nuovo disegno complessivo. Il riconoscimento del carattere parziale dei processi di trasformazione urbana ricorda che il perseguimento di un disegno complessivo è ostacolato dal fatto che il disegno tende ad essere stabile nel tempo, mentre le trasformazioni sono il prodotto della dinamica di interventi settoriali e di interessi individuali. Il disegno complessivo non può essere congelato in un modello rigido come il piano regolatore, deve essere un costrutto sociale, la metafora spaziale di un programma politico che diviene un quadro di riferimento, continuamente ricostruito e reinterpretato con il contributo dei progetti parziali».

La presentazione di Francesco Erbani

L'intervento critico, di Edoardo Salzano

Una ventata neoliberista, anzi una burrasca, si abbatte sull´urbanistica italiana. Sta per giungere in porto la riforma della legge che dal 1942 regola il governo del territorio. Ed è una riforma, patrocinata dalla maggioranza di centrodestra, che spazza via alcuni dei principi cruciali della pianificazione, di ciò che regola, cioè, la trasformazione di un suolo: dove si costruisce, dove no, dove vanno fatte le strade, i ponti, i binari, dove c´è verde da tutelare, paesaggio da rispettare, dove c´è agricoltura da salvaguardare.

In primo luogo viene incrinato lo stesso principio della pianificazione, quello per cui in una città gli interventi devono essere coordinati l´uno con l´altro e rispondere a una visione d´insieme. In secondo luogo viene abbattuto il primato dell´autorità pubblica, sostituita da una serie di "atti negoziali" in cui la stessa autorità pubblica (il Comune, per esempio) è solo uno dei protagonisti di una trattativa (l´altro o gli altri sono i privati). In terzo si affida alla discrezione delle Regioni definire quali luoghi vanno pianificati e quali no.

La riforma, che nel mese di aprile viene discussa in Commissione per giungere in aula prima dell´estate, ha un padre che ha già sperimentato queste soluzioni. Si chiama Maurizio Lupi, è un deputato di Forza Italia. «Questa è una legge che fissa principi», spiega Lupi, «seguendo il nuovo dettato costituzionale che affida allo Stato poteri di indirizzo e alle Regioni facoltà legislativa». Non è vero, assicura, che tutta la pianificazione passa alla contrattazione: essa infatti si dividerebbe in due fasi, una di tipo più strutturale, che resta affidata all´ente pubblico, e un´altra di tipo attuativo, che procede invece per via negoziale.

Prima di arrivare a Montecitorio, Lupi è stato assessore all´urbanistica del Comune di Milano, dove questa filosofia della deregulation si è inverata in un documento datato maggio 2000 ed elaborato da Luigi Mazza ( che qui sotto intervistiamo), docente di urbanistica al Politecnico, professionista molto stimato e noto per le sue simpatie diessine. A Milano si è bandito il piano regolatore sostituito da un documento di indirizzi in cui sono fissati una serie di obiettivi di massima anche questi - si legge nel documento - soggetti a modifica. Per il resto tutto il futuro della città è affidato alla contrattazione fra l´amministrazione comunale e i privati (proprietari di aree, di industrie dismesse, di immobili, oppure grandi investitori). Chi vuole può presentare un progetto. Una commissione comunale lo valuta e, se lo ritiene apprezzabile e in linea con gli indirizzi fissati, lo approva. Partito di gran carriera, il sistema milanese si è però via via inaridito: da un centinaio di progetti si è scesi, negli ultimi mesi, a poco meno di una decina.

La soluzione milanese si è comunque diffusa in molte altre città, dove il vecchio piano regolatore non è stato formalmente soppiantato, ma lo si è nei fatti svuotato procedendo per progetti riferiti a singole trasformazioni, spesso in contrasto con il piano. Il modello della giunta Albertini (che raccoglieva una serie di pratiche e di leggi proliferate dagli anni Ottanta in poi) ha trovato orecchie sensibili presso amministrazioni di centrodestra, ma anche di centrosinistra (ultima in ordine di tempo la giunta di Salerno, che ha accantonato il piano redatto da Oriol Bohigas, che pure era ispirato alla dottrina della deregulation più spinta).

La legge divide gli urbanisti, incassando l´obiezione di molti ( vedi qui sotto l´intervista a Edoardo Salzano, per molti anni professore a Venezia), ma anche una tiepida adesione dai vertici dell´Inu, l´Istituto nazionale di urbanistica. Contrarie, invece, alcune associazioni ambientaliste, come Italia Nostra.

Delle questioni che riguardano il governo del territorio le sinistre si occupano poco e talvolta in modo contraddittorio. Non mancano le dichiarazioni di principio, belle e un po’ generiche, scritte nelle sedi romane, spesso senza riscontri nelle concrete situazioni locali. Dove i se e i ma, sempre incombenti, si addensano e gli enunciati restano nello sfondo fino a scomparire.

Succede che alcuni casi si proiettino finalmente al di là delle dispute locali, com’è accaduto – grazie anche a Berlusconi – per le trasformazioni delle aree litoranee della Sardegna. Questi quattrocento chilometri di coste sono parte essenziale del paesaggio del bel Paese,del quale rischia di restare solo l’etichetta di un formaggio: basta un altro condono. L’ultimo sistema costiero italiano che conserva grandi tratti ancora intatti ha subito, pure con qualche tentativo di impedirlo, un processo di sperperi iniquo. Con un lauto ritorno economico per pochi e infime contropartite per la stragrande maggioranza dei sardi ( per usare una chiave di lettura apparentemente ideologica).

Negli ultimi anni si è temuto il peggio: il precedente governo regionale di centrodestra aveva deciso di sferrare l’ultimo assalto, anche approfittando della distrazione degli altri schieramenti ( il vuoto di legge data 1997).

Ci voleva Renato Soru – un imprenditore arrivato per caso alla politica – per rimettere con fermezza la questione all’ordine del giorno e convincere la sua maggioranza a non cedere alle forti pressioni provenienti da più parti.

Con l’approvazione della nuova legge è oggi possibile arrestare un processo che rischiava di consegnare alle future generazioni un paesaggio inservibile, improponibile nel mercato turistico prossimo ( già ora molti turisti propendono per luoghi del tutto diversi dai villaggi di cartapesta e dagli scenari in stile billionnaire).

I danni arrecati sono tanti e non serve recriminare. Ma uno sguardo retrospettivo consente di vedere la disattenzione di decenni specie anche da parte delle forze politiche più attente e che non hanno colto del tutto l’importanza della questione ambientale nonostante le teorie appunto (si pensi al discorso di Enrico Berlinguer sull’austerità).

La decisione della maggioranza di centrosinistra che sospende questo svolgimento, indicando un altro modello di sviluppo, ha provocato scomposte reazioni specie tra i sindaci di centrodestra (e qualche esitazione tra esponenti del centrosinistra) specie in Gallura, laddove notoriamente la rendita è più elevata. Ma il rigetto del disperato ricorso al Tar proposto da questi sindaci ridimensiona molto la propaganda.

Un pezzo di strada è fatta e ora si apre la fase delicata della pianificazione ed è evidente che non mancheranno le occasioni di duro confronto sullo sviluppo.

Come in tutte le pratiche politiche le proposte di governo innovatrici vanno sostenute. In casi come questi serve che chi vuole battere le destre invece di stare nelle retrovie porti avanti il dibattito; come i cittadini che non hanno case al mare da vendere si aspettano.

Quella legge non gli piace. L'ha detto nei giorni scorsi e l'ha ribadito ieri. Gianni Nieddu, sindaco diessino di Budoni, sembra un po' imbarazzato quando Mauro Pili, Matteo Sanna e Fedele Sanciu sparano a zero sulla maggioranza di centrosinistra che governa la Regione. Il primo cittadino del centro gallurese arriva alle 10.45 nell'aula consiliare, ma non si avvicina ai tre consiglieri del centrodestra che hanno scelto Budoni come prima tappa di una protesta contro le nuove norme approvate pochi giorni fa dal Consiglio regionale in materia di urbanistica nelle zone costiere. Nieddu prende posto nelle ultime file. Poi quando Pili e soci concludono i loro interventi si avvicina al microfono e tuona parole pesantissime contro la Giunta Soru, contro la legge appena approvata e contro i consiglieri regionali che definisce «ostaggi del presidente, che non si rendono conto che stanno facendo male ai sardi». Parole uscite dalla bocca di un diessino che l'ex sindaco di Iglesias accoglie con misurata gioia.

«Non posso che esprimere il mio apprezzamento per quanto sta facendo l'amministrazione comunale di Budoni ? dice Pili ? abbiamo voluto iniziare in questo paese un viaggio che ci porterà in tanti altri centri della Sardegna. Budoni è un paese-simbolo. Sindaco e consiglieri si sono svincolati dai partiti per portare avanti una battaglia importantissima, per denunciare una legge che blocca lo sviluppo». L'ex presidente della Regione è convinto che dietro la legge approvata dal Consiglio nei giorni scorsi si nasconda una grande speculazione. Non dice chi ci sarebbe dietro, ma fa capire che nei prossimi giorni - carte alla mano - renderà pubblici una serie di documenti (atti notarili compresi) relativi a operazioni «nei 300 metri dal mare dove le ristrutturazioni sono sempre state vietate». Nell'aula consiliare c'è tanta gente. Segno che a Budoni l'argomento è particolarmente sentito. C'è anche qualcuno che chiede a Pili chiarimenti su come fare i ricorsi. «A chi si deve rivolgere un privato che si vede bloccata la lottizzazione?», domanda. «In primo luogo al Tar, poi al Consiglio di Stato e infine al presidente della Repubblica», risponde il consigliere regionale di Forza Italia. Poi la parola passa a Gianni Nieddu

Il sindaco è un po' emozionato. Da qualche settimana ha preso le distanze dal suo partito e non lo nasconde. «Nessuna segreteria politica ci condizionerà ? dice ? io sono di sinistra, ma allo stesso tempo sono anche uno spirito libero. Non prendo ordini da nessuno. Sono convito che la vera risorsa è l'edilizia. Noi avevano delle convenzioni che devono essere rispettate. Ne va di mezzo lo sviluppo di questa zona. Servono posti letto, alberghi. Con questa legge si blocca tutto. Bisogna modificarla. Non ci tireremo indietro se ci sarà da presentare un ricorso al Consiglio di Stato». Gianni Nieddu in questi giorni ha pensato anche alle dimissioni dalla carica di sindaco. «Ma non è giusto nei confronti della gente che ci ha votato ? sottolinea ? noi siamo con la gente in questa battaglia. Vogliamo invitare il relatore di questa legge, gli chiediamo di venire qui a Budoni per darci delle spiegazioni. Non si capisce bene cosa si voglia salvare».

TRA le molte motivazioni dei successi elettorali di Berlusconi nel 1994, nel 2001 e anche nel ´96 quando l´Ulivo ebbe la meglio ma i voti raccolti da Forza Italia realizzarono comunque un record, ci fu l´elemento dell´antipolitico.

La sbronza del politichese, l´arroganza dei partiti, l´autoreferenzialità degli apparati, l´ipocrisia ideologica utilizzata come copertura del malaffare e del malgoverno, avevano generato un movimento di rigetto della politica che del resto aveva in Italia una sua tradizione secolare.

Berlusconi fu l´immagine-simbolo dell´antipolitico, nei comportamenti, nel linguaggio, nell´immagine che aveva di sé e che proiettava sulla gente, mille volte amplificata dalla potenza mediatica di cui disponeva.

Quest´immagine di un´Italia antipolitica è stata travolta dallo stesso Berlusconi venerdì 22 luglio con la nomina di Rocco Buttiglione nella Commissione europea, al posto di Mario Monti. Un uomo intriso di politichese, immerso da dieci anni fino al collo nel teatrino della partitocrazia, completamente digiuno della cultura economica necessaria per ricoprire l´incarico cui è stato destinato e per di più preferito a un tecnico di fama internazionale a causa d´uno scontro virulento all´interno del governo: questo è avvenuto due giorni fa sotto gli occhi stupefatti dei milioni di italiani che ancora credevano in un leader immune dalle manovre degli odiati partiti, portatore delle virtù del nuovo qualunquismo, fautore delle competenze e dell´eccellenza dei tecnici rispetto ai professionisti di partito.

Buttiglione al posto di Monti, l´intrigo politico vincente sulla qualità professionale universalmente riconosciuta, non è stata una sorpresa per chi non è mai caduto nella rete seduttiva berlusconiana, ma per quanti ci avevano creduto in buona fede e per dieci anni di seguito. Per isolare e colpire Follini si premia il suo avversario interno abbassando a un avvilente mercato un incarico europeo di primaria importanza. Questa scelta ha ferito a morte la residua fiducia che molti milioni d´ingenui ancora riponevano in un venditore d´illusioni preso purtroppo sul serio ancora fino all´altro ieri.

Il primo a esser messo a conoscenza di quella scelta - narrano le cronache - è stato il cancelliere tedesco Schroeder con il quale il nostro premier era a cena la sera di quel giorno "fatidico". Riferiscono le cronache "autorizzate" che tra le qualità del nuovo commissario italiano appena scelto, Berlusconi abbia decantato al Cancelliere la perfetta conoscenza, di Buttiglione, della lingua tedesca. Sembra che il Cancelliere se ne sia molto compiaciuto.

È fantastico. Questa roba viene riferita nei telegiornali con assoluta serietà, dai mezzibusti della Rai e di Mediaset senza una piega, un soprassalto di ironia o di stupore: Buttiglione sa il tedesco, informa Berlusconi, e Schroeder manifesta il suo contento. C´è mai stato nella storia d´Italia un primo ministro di questo conio? È mai stata calpestata e resa comica agli occhi del mondo intero una nazione che, pur nei suoi limiti storici, ha avuto al vertice delle istituzioni uomini di notevole e alle volte grande qualità morale, intellettuale, politica?

E Rocco Buttiglione non sente vergogna per esser stato strumento attivo di questa cialtronesca rappresentazione? «Debbo la mia nomina esclusivamente alla generosità del presidente del Consiglio», ha dettato alle agenzie il neocommissario europeo. Come se si trattasse d´una mancia, sicuramente generosa, e non dell´interesse dell´Italia in Europa! Lo ripeto, tutto ciò ha del fantastico. Raffigura un incubo dal quale finalmente ci stiamo risvegliando. Almeno così si spera. Non senza trovarci alle prese con un inventario di rovine che sono il risultato di tre anni di malgoverno affidato a una banda di dilettanti, di saltimbanchi, di clown e, diciamolo, di imbroglioni.

* * *

Che fossero imbroglioni lo si diceva da tempo. Ma ora c´è la prova autentica, la prova provata, fornita dal neoministro Siniscalco, già direttore generale del Tesoro nei tre anni di Tremonti all´Economia e da un paio di settimane suo successore.

Dice Siniscalco (in Consiglio dei ministri e nel Documento di programmazione finanziaria approvato dallo stesso Consiglio) che: c´è un buco da ripianare di 24 miliardi; senza una manovra di quella dimensione il nostro deficit viaggerebbe a 4 punti e mezzo in rapporto col Pil; il medesimo Pil, che nell´anno in corso avrà sì e no un progresso dell´1,3 per cento, non si schioderà da un magro 2,2 nei tre anni successivi; in quei tre anni ci vorranno ulteriori manovre correttive pari a un totale di 27 miliardi, più quella appena effettuata di 7,5 miliardi. Il totale generale nel quadriennio 2004-2008 sarà dunque di 51 miliardi di euro, pari a 110mila miliardi di vecchie lire, più almeno 12 miliardi se si vogliono ridurre le imposte secondo il progetto Berlusconi. E siamo a 63 miliardi di euro, ma ancora non sono nel conto i soldi (molti) mancanti alla scuola, alla sanità, al rilancio delle imprese, alla formazione e agli ammortizzatori sociali; il tutto stimabile a un minimo di altri 15-20 miliardi (i soli ammortizzatori sociali pesano, ridotti al minimo, per 7 miliardi, dei quali ne erano stati stanziati nel bilancio 2004 soltanto 800 milioni ridotti a 300 dopo la stangatina votata l´altro ieri dalle Camere).

E siamo a 81 miliardi (160 mila miliardi di lire). Ma non è ancora finito.

Il debito pubblico sarà a 106 miliardi nel 2005 secondo l´ottimistica valutazione di Siniscalco. Il quale stima indispensabile ridurlo a 100 entro il 2008 per far fronte agli impegni europei e alle richieste delle agenzie di rating. Come? Con alienazioni di patrimonio (immobili e privatizzazioni) dell´ammontare di 75 miliardi nel triennio 2005-2008.

È possibile? Secondo me no, sulla base dell´esperienza passata e considerato che, salvo disfarsi delle azioni dell´Eni, dell´Iri e della Finmeccanica e di pochi immobili di pregio da cartolarizzare, non c´è trippa per gatti.

Insomma una rovina, un abisso finanziario per colmare il quale non si vedono le risorse disponibili salvo una cura da cavallo da imporre ai contribuenti di tutte le classi di reddito, con ripercussioni inevitabilmente depressive sul ciclo economico.

E dire che ancora un mese fa gli speaker della maggioranza, suffragati dal premier e da Tremonti, davano del farneticante a chi dai banchi dell´opposizione e dalle colonne della libera stampa avvertiva dell´incombente catastrofe. Distraendo l´opinione pubblica con ridicoli diversivi teleguidati.

Urge una domanda al buon Siniscalco: lui, direttore generale del Tesoro, che cosa ha fatto in questi tre anni? Chi ha avvertito del disastro? Perché è rimasto a condividere questa vera e propria rapina della pubblica ricchezza? E che cosa ha fatto (o non fatto) il Ragioniere generale dello Stato cui spettava il compito di registrare una tale rovina di giorno in giorno crescente?

Una risposta sarebbe non solo opportuna ma assolutamente dovuta.

* * *

Follini si batte coraggiosamente per modificare alcune norme sciagurate della "devolution" e del premierato. Il partito sembra con lui, ma i nomi che contano no e gran parte dei gruppi parlamentari neppure.

Difficile prevedere come finirà. Finora pensavo che fosse una tigre di carta. Mi ravvedo e mi scuso con lui: non è di carta, è un carattere duro e serio e va dritto per la sua strada. Non è di carta, ma non è neppure una tigre poiché non ha dietro di sé le forze che potrebbero renderlo tale. È un onest´uomo che si è - forse tardivamente - accorto di stare dalla parte sbagliata, su un treno che viaggia senza controllo verso il nulla con crescente velocità.

Di fronte alle cifre sopra ricordate, che non sono le nostre ma del ministro dell´Economia, Follini dovrebbe portare il suo partito fuori dall´alleanza. Che ci sta a fare in quella compagnia? Bossi, una volta incassata la "devolution" si staccherà dal convoglio, tornerà nelle sue valli a coltivare quel po´ di potere che gli sarà stato regalato sulla pelle della Repubblica "una e indivisibile".

E Follini, ancora lì a battersi con i suoi Baccini, i suoi Lombardo, i suoi Buttiglione, che per una carica venderebbero - come stanno facendo - la dignità del paese e di se stessi? Non ho alcun titolo per dar consigli a Follini, ma fossi in lui salterei in corsa dal predellino finché è ancora in tempo.

* * *

Il sociologo De Rita, celebrato autore delle ricerche del Censis, ha posto giorni fa una domanda interessante al centrosinistra: qual è il blocco sociale di cui volete assumere la rappresentanza? Ha avuto varie risposte tra le quali la migliore mi è sembrata quella di Piero Fassino: un lungo elenco di motivazioni civiche che spingono oggi un numero crescente di italiani a dissociarsi da Berlusconi. Ma De Rita ha replicato: la risposta regge finché c´è contro di voi Berlusconi; regge in negativo. Ma ci si aspetta da voi che vi candidate a governare un disegno positivo.

Penso anch´io che sia urgente un programma positivo. Non una filosofia, ma quattro o cinque punti concreti di che cosa fare e come, cominciando dal come gestire il disastro che si andrà - si spera - a ereditare. Secondo me non c´è molto tempo.

Prodi pensa di cominciare a novembre una sorta di giro d´Italia «per ascoltare gli umori, i bisogni, i desideri dei concittadini». Sarà certamente utilissimo, ma individuare i punti da risolvere e il modo per affrontarli è un compito che spetta al leader e al gruppo dirigente che lo affianca. Perciò faccia pure il giro d´ascolto ma prima o nello stesso tempo formuli il programma completo, il "che fare" e vada con quello a confrontarsi con il paese. Sarà quella la sua vera investitura da leader, ma faccia presto. Le travi del tetto sono marcite e non tengono più.

È una proposta indecente

di Giovanni Sartori

Le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto l’elettore di destra non si deve sentire obbligato a sostenere il progetto di revisione della costituzione proposto dal governo Berlusconi, così come l’elettore di sinistra non si deve sentire obbligato a combatterlo. Una Costituzione è la casa di tutti, e tutti la dovrebbero accettare se abitabile (se migliora quella che c’era), o respingere se inabitabile (se la peggiora). E dunque la domanda è se la Costituzione già approvata in prima lettura al Senato sia buona o cattiva, funzionale o disfunzionale.

A questa domanda ho già risposto nello scritto «Una Costituzione incostituzionale?» pubblicato in appendice alla 5 edizione del volume «Ingegneria Costituzionale Comparata». L’interrogativo è retorico. La mia risposta non è soltanto che si tratta di una cattiva Costituzione, ma addirittura di una Costituzione incostituzionale. Possibile? La dizione può sembrare contraddittoria o comunque paradossale. Ma nell’ottica del costituzionalismo non lo è.

È vero che molti giuspositivisti guardano soltanto alla effettività di una Costituzione e si dissociano dal costituzionalismo reso «impuro» dal suo contenuto assiologico. Certo, il costituzionalismo è assiologico. Però è anche teleologico; accantonare la teleologia è più difficile che rifiutare l’assiologia. Il diritto ha uno scopo? Ha una ragion d’essere? A cosa serve? Nemmeno il giuspositivista si può sottrarre a queste domande. Alle stessa stregua è tenuto a chiedersi quale sia il telos delle Costituzioni. Domanda alla quale il costituzionalismo dà una risposta unanime. La parola Costituzione viene riesumata sul finire del 700 per disegnare una nuova realtà: la creazione di un sistema di governo «limitato» , di un sistema di «garanzia della libertà» (come scriveva Benjamin Constant). Al tempo di Cromwell non si diceva ancora «Costituzione»; si diceva covenant, pact, frame, fundamental law. E quando questi termini vennero riassorbiti nella parola Costituzione, la parola non denotava una qualsiasi organigramma di esercizio del potere; designava soltanto la sua forma garantistica. E dunque una Costituzione che non garantisce la libertà può essere detta incostituzionale.

Ciò posto, dobbiamo essere in chiaro a quale pubblico ci rivolgiamo: se a quello degli specialisti (i costituzionalisti), a quello dei parlamentari, oppure al più largo pubblico dell’opinione pubblica. In questo mio intervento io guardo, soprattutto, all’opinione pubblica, e così vado a distinguere tra opposizione ed oppositori. La prima è l’opposizione istituzionale, l’opposizione gestita nelle sedi istituzionali (nel Palazzo) dai partiti di opposizione: oggi l’opposizione di sinistra. Gli oppositori sono invece tutti i cittadini (tra i quali il sottoscritto, che certo non ha titolo per parlare in nome dell’opposizione), ovunque si trovino lungo l’asse destra-sinistra, che si oppongono, o potrebbero opporsi, al cambiamento costituzionale in corso. E in questa chiave il problema è di come l’opposizione istituzionale possa sensibilizzare e mobilitare l’universo (anche di destra) degli oppositori possibili.

Così vengo al punto. La controproposta dell’opposizione si riassume nella «bozza Amato». È una controproposta che va bene? Forse sì per gli interna corporis del Palazzo: concilia le varie anime del centrosinistra, dialoga con la maggioranza offrendole aperture, smussa i punti spinosi. Ma non bene, mi permetto di osservare, per gli oppositori in cerca di autore, in cerca di bandiera. Se l’interlocutore è l’opinione pubblica, allora una proposta «terzista» è controproducente, fa più male che bene. Una battaglia non si combatte con i «ni»; si combatte con i no. E a un progetto che snatura il costituzionalismo si deve rispondere con un rifiuto chiaro e netto.

L’obiezione è che non basta dire no. Io rettificherei così: non basta dire no e basta. Vale a dire che ci occorre un no sostenuto da una alternativa. Quale? È noto che in passato io ho sostenuto il semipresidenzialismo di tipo francese. Ma oggi non ci possiamo permettere di offrire all’opinione pubblica una formula complicata che non può capire. Aggiungi che sul semipresidenzialismo non siamo mai stati tutti d’accordo, e quindi che ci torneremo a dividere. L’unica alternativa a tutti nota è quella del sistema parlamentare. Non sarà la nostra prima preferenza. Ma siamo nella peste, e perciò dobbiamo rinunciare alle prime preferenze che ci dividono per ripiegare su una seconda preferenza, un second best, che ci può unire, e che può essere rivenduta (migliorata) all’opinione del Paese.

Dico di proposito «rivendere», per dire, che dobbiamo risalire una china, che dobbiamo rivalutare un sistema politico che abbiamo troppo svalutato. Perché mai, chiediamoci, il sistema parlamentare resta il sistema praticato (con una sola eccezione, la Francia) in tutta l’Europa occidentale? Perché solo noi ne chiediamo il superamento e il ripudio? Se rivisitiamo le critiche che hanno bersagliato la nostra prima Repubblica, le colpe che le vengono attribuite sono solo marginalmente colpe costituzionali, colpe della Costituzione del 1948. Occorre ristabilire questa verità. Ripeto: se quasi tutta l’Europa occidentale resta fedele al modello parlamentare, perché noi no? Perché noi siamo passati a un sistema elettorale maggioritario? È una vulgata di moda. Ma è una sciocchezza. L’Inghilterra è ferreamente maggioritaria e ferreamente parlamentare.

Comunque sia, non abbiamo altra alternativa. Beninteso, la formula parlamentare va ripresentata con miglioramenti (in chiave di governabilità) che il grosso dei costituzionalisti propone da tempo: voto di sfiducia costruttivo, fiducia votata soltanto al primo ministro (che così diventa un primus super pares), più un sistema elettorale idoneo. Con il che tornare a difendere un difendibilissimo sistema parlamentare sarebbe intelligente e possibile. Ma qui ci imbattiamo in uno strano incaglio: la strana dottrina (ignota in tutto il mondo) del ribaltone.

Questa strana dottrina fece presa nel 1994 per sostenere la richiesta di Berlusconi, dopo lo sgambetto di Bossi, di nuove elezioni. Dopodiché dilagò anche nella sinistra, sempre pronta a proporre e a sposare cattive cause. Tanto è vero che la ritroviamo nella bozza Amato, dove si legge che «per garantire il rispetto della volontà popolare degli elettori... è giusto che non siano legittimati i cosiddetti ribaltoni». Amato soggiunge che «in caso di sfiducia, e su proposta (del premier) vi sarà lo scioglimento del Parlamento, a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente, anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato».

Amato è davvero il nostro dottor sottile. Qui si destreggia per salvare capra e cavoli. Da un lato nega l’elezione diretta («si conviene che si debba rendere noto... il nome del candidato alla guida del governo, senza tuttavia farne oggetto di separata menzione sulla scheda elettorale»), ma poi ne accetta, anche se in modo attenuato, l’implicazione che la maggioranza iniziale non può essere cambiata. Insomma, l’elezione diretta non c’è, ma è come se ci fosse. Per me è troppa bravura. E, bravura a parte, l’argomentare resta viziato da questa contraddizione: che se il nome del candidato sulla scheda non c’è, allora non si può invocare «il rispetto della volontà popolare degli elettori», visto che questa volontà non è stata espressa dal loro voto.

Il punto importante è però un altro. È che non possiamo sostenere il sistema parlamentare, e al tempo stesso sostenere il divieto di ribaltone. Perché quel divieto distrugge, inceppandola, l’essenza stessa di un sistema di governo caratterizzato dalla flessibilità. Non è più tempo di tatticismi. La dottrina del ribaltone non esiste nel costituzionalismo europeo ed è assurdo che diventi, da noi, una ossessione dominante della nostra riforma costituzionale. O la rifiutiamo senza quisquiliare, oppure chi si oppone al premierato assoluto resta senza retroterra, senza controproposta di ricambio. Perché, ripeto, non si può difendere un sistema parlamentare e negare a quel sistema il diritto di cambiare maggioranza.

Vengo ai rispettivi punti forti e punti deboli del dibattito tra i due schieramenti. Il punto di maggior forza dei difensori del «Silvierato» (il premierato disegnato su misura per Berlusconi) è di ricordare che tutte le cattive idee che l’opposizione sta attaccando oggi, sono state partorite in passato dalla sinistra (a cominciare dal premierato elettivo, lanciato da D’Alema). Purtroppo è largamente così. E la sinistra lo deve ammettere: abbiamo sbagliato e abbiamo cambiato idea (dopotutto Berlusconi le idee le cambia tutto il tempo). Nascondere i propri errori fa cattiva impressione, è cattiva politica.

La maggioranza dispone di un secondo argomento: che il suo premierato non è assoluto, perché sarà fronteggiato dal contropotere di un Senato «forte». Ma se sarà così, allora il nuovo sistema diventa più disfunzionale e assurdo che mai. Disfunzionale perché il contenzioso con il Senato diventerebbe davvero paralizzante. Ma sarà davvero così? Il Senato paralizzante non appartiene al disegno di Lorenzago; risulta da concessioni ottenute dall’opposizione. Non è detto, pertanto, che in itinere quelle concessioni non vengano rinnegate. Quanto più verranno esibite come bloccanti, e tanto più rischiano il veto di Berlusconi. Un’altra possibilità è che i «saggi» berlusconiani escogitino un sistema elettorale che produca anche al Senato federale una maggioranza schiacciante e fedele. Ma in ogni caso una rotella che non gira, ingigantita e fuori posto, non dovrebbe soddisfare nessuno, nemmeno l’opposizione. Un motore costruito per grippare non è un motore «costituzionale»; è soltanto un cattivo motore.

E l’opposizione? Il suo punto di forza dovrebbe essere di denunciare con forza che il «Silvierato» è in grado di conquistare e di occupare tutte le posizioni di potere del sistema politico. La bozza Amato non denunzia niente con forza; il che indebolisce la natura inderogabile delle «garanzie democratiche» che Amato delinea nel suo testo: alzare il quorum per l’elezione del capo dello Stato, dei presidenti delle Camere, e per l’approvazione delle regole del gioco. Sia chiaro: il mio lamento sulla forza argomentativa non toglie che questa parte del testo Amato sia ottima. Sorprende soltanto una omissione: che il Nostro non sembra avvertire che anche la Corte Costituzionale è conquistabile, e che la difesa della sua autonomia non può essere assicurata da quorum (che assicurano soltanto che la minoranza ottenga la debita fetta di lottizzazione) ma invece da una radicale depoliticizzazione delle procedure di nomina e anche dei corpi nominati. Perché un organo giurisdizionale di ultima istanza non deve essere fabbricato dalle parti sulle quali è tenuto a giudicare.

Mi fermo a questo punto. Come già avvertito in premessa, io non mi immedesimo con l’opposizione istituzionale; sono un oppositore quidam de populo, reso tale (e il caso si ripete, direi, per il grosso dei costituzionalisti) da una cattiva Costituzione. È anche di tutta evidenza che qui non torno a spiegare, nel merito, perché la Costituzione che ci viene proposta sia cattiva (l’ho fatto nell’altro testo che ho citato). Qui mi interessa la strategia atta a trasformare una minoranza istituzionale perdente (nei numeri parlamentari) in un universo di oppositori vincenti (al referendum; ma meglio se già prima). E in questa ottica mi appare sbagliata e controproducente la strategia (o mancanza di strategia) sinora perseguita dall’opposizione. Chi negozia resta coinvolto; e chi risulta coinvolto non è più in grado di combattere una battaglia frontale. Che invece è necessaria. Perché ci viene proposta una Costituzione viziata nell’impianto, viziata ab imis.

Come dicevo, le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto il criterio per approvare o disapprovare una riforma costituzionale non deve essere di appartenenza ideologica. Se lo sarà, peccato. E sarà un danno per tutti.

Il 1° dicembre 2004, giorno in cui il Parlamento, ma forse sarebbe meglio dire la maggioranza di centrodestra ha approvato, in via definitiva, la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, segna una svolta, non certo positiva nella vita democratica del nostro paese.

L’approvazione dell’ordinamento giudiziario, infatti, non è che l’ultimo atto della politica giudiziaria posta in essere dalla maggioranza di centrodestra.

Detta politica, com'è noto, non è stata indirizzata alla soluzione dei veri problemi della Giustizia quale quello dei tempi assolutamente inaccettabili della definizione dei processi sia penali che civili, ma è stata invece indirizzata verso il tentativo di risolvere, per via legislativa i problemi giudiziari del Presidente del Consiglio.

Il primo tentativo fu posto in essere con la legge sulle rogatorie, che avrebbero dovuto rendere inutilizzabile l'intero quadro probatorio dei noti procedimenti pendenti a Milano a carico dello stesso Presidente del consiglio e dell'on. Previti, la cui prova era fondata quasi esclusivamente su documenti acquisiti per rogatoria internazionale.

Il secondo tentativo fu posto in essere con la legge sul falso in bilancio che con la diminuzione delle pene ed il conseguente dimezzamento dei termini di prescrizione avrebbe dovuto far dichiarare estinti per prescrizione tutti i relativi reati ascritti al Presidente del Consiglio.

Il terzo, quando questi primi due tentativi fallirono, fu posto in essere con l'approvazione della legge Cirami, quella sulla remissione dei processi per legittimo sospetto. Quando anche questo tentativo fallì, perché le Sezioni Unite della Cassazione respinsero le istanze presentate da Berlusconi e Previti al fine di ottenere che i processi a loro carico, per legittimo sospetto, venissero trasferiti da Milano a Brescia, venne dato il via all'approvazione del disegno di legge delega per la riforma dell'ordinamento giudiziario.

Non credo quindi si possa fare a meno di sospettare che, con la riforma dell'ordinamento giudiziario, si volesse dare sfogo ad un desiderio, più o meno conscio di controllare, in un qualche modo, la magistratura.

Significativo a tal proposito è il contenuto del maxiemendamento messo a punto nella seduta fiume del Consiglio dei Ministri, tenutasi appena un mese dopo la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite.

Con detto emendamento non solo si gettavano i presupposti per la separazione delle carriere ma si poneva una seria ipoteca sull'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Si prevedeva, infatti, che per accedere al concorso in Magistratura gli aspiranti avessero l'obbligo di indicare nella domanda se intendevano accedere alla funzione giudicante o a quella requirente del Pubblico Ministero, che le prove d'esame fossero distinte e diverse a seconda che si fosse chiesto l'accesso ad una o all'altra delle funzioni e che per passare da una funzione all'altra il magistrato dovesse attendere cinque anni e dovesse trasferirsi in una diversa sede di Corte d'appello.

Si prevedeva poi che il Procuratore Capo divenisse unico responsabile dell'ufficio di Procura; potesse delegare ai sostituti singoli atti o l'intera indagine, rimanendo sempre responsabile di tutti gli atti da questi compiuti.

Si prevedeva ancora che l'interpretazione del giudice che si discostava nettamente dalla lettera della legge e dalla volontà del legislatore costituisse illecito disciplinare (il riferimento alla interpretazione data dai pubblici ministeri e dai giudici in occasione della nuova legge sulle rogatorie era sin troppo evidente, posto che pubblici ministeri prima, e giudici dopo, erano stati, senza perifrasi, accusati di rifiutarsi di applicare quella legge contro il volere del Parlamento).

Com'è facile intuire la diversità delle prove d'esame, i numerosi ostacoli da superare per passare dall'una all'altra funzione, la previsione di complessi meccanismi che rendevano praticamente impossibile dopo cinque anni il passaggio da una all'altra funzione, avrebbero comportato, almeno di fatto, la separazione delle carriere. E ciò nonostante che la Comunità Europea, il 2 ottobre 2000 avesse raccomandato agli stati membri di adoperarsi perché venisse assicurata non solo l'indipendenza del Pubblico Ministero, ma anche l'interscambiabilità dei due ruoli: quelli di giudice e di Pubblico Ministero. Nonostante che gli Stati della Comunità a noi più vicini per tradizioni giuridiche, Spagna, Francia e Germania, quella interscambiabilità avessero sempre avuta e neppure lontanamente si fosse mai discusso di abolirla.

Quelle norme quindi, avrebbero potuto costituire il primo passo per sottoporre di nuovo il P.M. all'esecutivo, come richiesto d'altra parte, esplicitamente, da autorevoli esponenti di partiti del centro destra e dagli stessi rappresentanti dell'avvocatura.

È sin troppo facile rilevare che l'Italia, aveva già vissuto l'esperienza della subordinazione del P.M. all'esecutivo durante il ventennio della dittatura fascista e proprio per quelle esperienze, certamente non positive, per tutelare i principi fondamentali della democrazia appena nata, i nostri padri costituenti si preoccuparono di fissare, nella Costituzione, il principio dell'indipendenza dell'intera magistratura, del P.M. oltre che della giudicante, da ogni altro potere e di creare, per il governo della stessa magistratura, un organo di rango costituzionale: il Consiglio Superiore della Magistratura.

Ciò nonostante, c'erano voluti decenni perché alcuni Capi degli uffici di Procura si scrollassero di dosso i condizionamenti nei confronti dell'esecutivo.

Non a caso le sedi più importanti delle Procure, per essere gestite da Capi di ufficio in perfetta sintonia con il potere, erano state definite “porti delle nebbie”.

La sottoposizione del P.M. all'esecutivo, poi, avrebbe reso superflua la tutela dell'indipendenza del giudice.

A che sarebbe servito, infatti, un giudice indipendente, se il Pubblico Ministero, che è l'organo promotore dell'azione penale, seguendo i desiderata dell'esecutivo, non gli avesse sottoposto i casi in cui l'indipendenza avrebbe dovuto essere esercitata? Se le notizie di reato fossero state trattenute nel cassetto dal P.M., anziché trasmesse al GIP per l'archiviazione o, peggio ancora, archiviate con la corrispondenza ordinaria “al protocollo”, sul quale esercitano il controllo solo funzionari dello stesso Ministro di Giustizia, com'era avvenuto in passato ?

I rilievi mossi al testo del disegno di legge delega, ed al testo del maxiemendamento in particolare, da parte della Magistratura Associata, dalle forze dell'opposizione in parlamento, da autorevoli esponenti del mondo universitario e da eminenti costituzionalisti, alcuni dei quali avevano anche ricoperto la carica di Presidente della Corte Costituzionale, indussero la maggioranza a modificare, prima della approvazione del testo definitivo da parte dei due rami del parlamento, i punti maggiormente presi di mira.

Le modifiche non hanno però riguardato l'organizzazione verticistica, organizzazione che, comportando la possibilità per il Procuratore della Repubblica di gestire in prima persona tutte le notizie di reato e di imporre la sua volontà ai sostituti, anche con la revoca della delega, suscita non solo perplessità, ma desta serie preoccupazioni.

Né è stata abolita la progressione anticipata in carriera, per concorso per esami e titoli, progressione che crea i presupposti perché i magistrati che si dedicano ai concorsi siano predestinati a diventare i capi degli uffici. E ciò è particolarmente pericoloso posto che l'esperienza insegna che proprio coloro che privilegiano la carriera sono più sensibili alle lusinghe o alle pressioni dell'esecutivo.

Con i concorsi poi, si rischia non solo di spostare preziose energie dall'amministrazione della Giustizia di primo grado, la più importante certamente, in quanto una sentenza sbagliata allunga i tempi di definizione dei processi, ma anche di incentivare i magistrati a preoccuparsi più della carriera che del valore intrinseco delle proprie decisioni, inducendoli ad appiattirsi sulle interpretazioni della legge che sono state esplicitamente gradite dal governo e dalla maggioranza.

Con questo non voglio dire che l'ordinamento giudiziario non dovesse subire alcuna modifica. Ci mancherebbe altro. Quando nella precedente legislatura fu avanzata dal centro sinistra una prima proposta di modifica dell'Ordinamento Giudiziario che prevedeva, tra l'altro, una netta separazione delle funzioni, fui il primo a dichiararmi favorevole. Come condivido molti punti della nuova legge delega quali, l'istituzione della scuola superiore della Magistratura, la nuova composizione dei Consigli Giudiziari, la temporaneità degli incarichi direttivi, il controllo periodico della quantità e della qualità del lavoro svolto dai magistrati.

Intendo solo dire che una riforma così importante non doveva essere approvata, ignorando non tanto le osservazioni della magistratura, ma quelle dell'opposizione, alla quale o si è impedito di proporre ulteriori riforme all'originario disegno di legge, ricorrendo alla fiducia, com'è avvenuto alla Camera nel giugno 2004 o assegnando tempi di discussione ristrettissimi, come è avvenuto al Senato nel novembre successivo e di nuovo alla Camera da ultimo.

Non si può, insomma, procedere a colpi di fiducia quando una riforma deve essere fatta, e non può non essere fatta, nell'interesse di tutti i cittadini, perchè sia loro assicurata una una giustizia molto più rapida e giusta. Ed in tale direzione sarebbe stato certamente utile prevedere la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, dettando i criteri direttivi per individuare le dimensioni minime a renderli funzionali in relazione alla struttura accusatoria del processo. Sarebbe stato utile affidare le funzioni monocratiche, il potere cioè di decidere da soli, non ai magistrati di prima nomina come è stato fatto, ma a magistrati che avessero svolto per almeno tre anni funzioni collegiali, dando prova di professionalità, equilibrio e rispetto delle idee degli altri e delle funzione delle altre parti del processo.

Questo atteggiamento della maggioranza ci rende naturalmente diffidenti sulla volontà di destinare maggiori risorse ed attenzioni alla Giustizia e ci induce a ritenere che saranno ancora approvate ulteriori disposizioni legislative ad personam, quale la riduzione dei termini di prescrizione.

Carlo Petrini, inventore dello "slow food", è stato eletto da Time tra gli eroi d'Europa. Rivolta contro l'imperialismo della polpetta McDonald's, s'è detto. Desiderio di nutrimento che non sia soltanto bruta necessità biologica. Voglia di recuperare sapori e saperi di antiche cucine cancellate dal cibo di plastica dell'era global. Non c'è dubbio. Il fatto, che non a caso ha suscitato ampio scalpore, dice tutto questo. Ed è un segnale non da poco, tanto più che la nomination avviene col voto di tutti i lettori. Ma forse la lentezza invocata per i nostri pasti dice anche altro. In una società in cui - a sentire i sondaggi - la gente lamenta la mancanza di tempo più che di ogni altra cosa, compreso il danaro, forse si affaccia il rifiuto di vite costrette a ritmi sempre più affannati. Forse insieme al gusto di "slow food" sta nascendo la voglia di "slow life". E questo non può non significare critica radicale, anche se non chiaramente esplicitata, di una forma produttiva come quella dominante, e di quel drastico mutamento nell'organizzazione del tempo, nella sua percezione, nel suo uso, che (come mirabilmente Le Goff ci ha detto) il mondo industriale capitalistico ha imposto al mondo, e che tuttora dura, trovando anzi un andamento via via più celere. E' stata una netta cesura tra la lentezza delle società contadine, scandite dagli eterni ritorni di un tempo fisico, misurato sui processi biologici naturali, sulla ciclicità delle stagioni, sulla parabola vitale del corpo, e l'improvvisa accelerazione della storia e del vivere umano, obbligata dalla crescente velocità del macchinismo e dalla vincente filosofia del progresso. Un brusco passaggio da un tempo circolare, sempre uguale a se stesso, quasi un non-tempo, a un tempo evolutivo, lineare, astratto, teso a bruciare l'istante, proiettato verso il futuro. Tempo che - soprattutto - si scopre come qualcosa da potersi spendere e monetizzare, da potersi oculatamente impiegare e amministrare e mettere a frutto, secondo un preciso calcolo di profitti e perdite. Qualcosa che può essere venduto e comprato.

E' il tempo-danaro, che si impone con l'inevitabilità di una categoria universale quando il rapporto di lavoro salariato apre, accanto al mercato dei prodotti, il mercato dei produttori, dove di fatto si vende e compra tempo umano trasformato in merce, scambiabile alla pari di ogni altra. E diventa norma comune parlare e scrivere di "mercato del lavoro", nulla più che una variable economica. Da quel momento i tempi del lavoro comandano anche i tempi della vita. Il lavoro si afferma come regolatore dell'esistenza di tutti, anche di quanti non vi sono direttamente addetti, a scandirne gli orari, a predisporne l'impiego, a delimitare gli spazi di riposo e di svago. E se via via l'aumento di produttività consente la riduzione delle mostruose giornate di quindici, dodici, dieci ore, la giornata lavorativa va però dilatandosi assai oltre la sua durata contrattualmente prevista, negli spostamenti che l'urbanizzazione crescente comporta. Mentre lo stesso tempo libero sempre più massicciamente ridotto a consumo, si trasforma anch'esso in tempo di produzione, governato dalle stesse leggi. E' così che tutti si trovano a dover onorare la frenesia di programmi quotidiani, che prevedono il rispetto degli orari di lavoro e la lotta con il traffico bloccato e i ritardi dei mezzi pubblici, i bambini da accompagnare a scuola e poi a lezione di nuoto, inglese, danza classica, judo, la grossa spesa settimanale e le infinite commmissioni minori quotidiane, le mille operazioni burocratiche da soddisfare, le bollette le tasse le multe da pagare, qualcuna delle tante macchine e macchinette domestiche da riparare, il guardaroba da rinnovare, ecc. ecc. Il tutto da sommare, per lei, alla dura fatica di curare una famiglia e, per lui, agli straordinari spesso obbligati, ma anche ai piccoli e meno piccoli secondi lavori, e al weekend da non mancare, le vacanze da organizzare, i compleanni da non dimenticare, ecc. ecc. Il tutto all'insegna della velocità, della nostra civiltà simbolo e vanto, che sempre più prodigiose tecnologie vanno spingendo oltre l'immaginabile, e di cui ognuno doverosamente ma anche orgogliosamente si sente partecipe. All'interno di un impianto esistenziale, in cui far quadrare i tempi quotidiani diventa spesso più difficile che far quadrare i conti mensili, e di cui il "fast food" non è che una delle tante aberrazioni cui tutti si adeguano.

E' l'inevitabile portato di un modello produttivo che da sempre va assimilando a sé, in piena coerenza di modelli e segni, ogni aspetto della realtà antropologica in cui agisce, fino all'identificazione della razionalità sociale con la razionalità economica. Così, mentre per un lungo periodo il capitalismo industriale (sia pure con tutte le iniquità e gli sfruttamenti tremendi che sappiamo) andava oggettivamente migliorando le condizioni di vita dei lavoratori, al contempo si diffondeva e metteva radici un'ideologia che concepisce progresso e benessere solo in base alla quantità di merci prodotte, e all'incremento del reddito che ne consenta il consumo. I doveri dell'efficienza e del rendimento, i valori dell' utilitarismo, del carrierismo, del successo, della competitività, dilagavano assai oltre i territori dell'operare economico, in un processo al quale masse appena emerse dalla peggiore miseria non potevano che opporre debolissime resistenze, e le stesse organizzazioni dei lavoratori andavano via via adeguandosi. Di fatto accettando che il tempo industriale, così come va ritmando materie e corpi all'interno dell'universo produttivo, riduca alla propria misura l'esistenza di ognuno, prima come tempo-lavoro, poi come tempo-consumo. Fino a che la giornata - la vita - non basta più. E un tramezzino o un sacchetto di patatine trangugiati all'in piedi è quanto ci si può far entrare prima di ricominciare a correre.

Non so a che epoca risalga la popolare massima "Il tempo è danaro", ma certo è stato il capitalismo industriale a deciderne la fortuna, impossessandosi delle nostre vite. Perché dopotutto che altro è la nostra vita se non una certa quantità di tempo, un certo numero di anni mesi giorni ore minuti che ci è dato trascorrere su questo pianeta? E davvero merita considerare la nostra vita solo danaro, e venderla in toto alla produzione (o al consumo, che è lo stesso) accettandone senza discutere i modelli, gli imperativi, il senso e i ritmi? Non sarebbe il caso di provare a ritagliarci qualche pezzo di tempo (di vita) per il nostro uso, da impiegare liberamente al di fuori di ogni utilitaristica finalità, semplicemente da vivere? Oggi, è vero, interrogativi del genere incominciano a circolare, e a trovare spazio e ascolto più che non appaia. E forse anche il premio allo "slow food" significa più di quanto non dica letteralmente. Forse, appunto, è voglia di "slow life".

Una postilla: La qualità del tempo

Riconquistare il valore del tempo come durata, il tempo come vita, pone un altro problema, che da tempo (pardon) mi intriga: la qualità del tempo. Senza dilungarmi troppo in una considerazione abbastanza ovvia, sostengo che, ad esempio, passare dieci minuti sballottati in un autobus urbano o chiusi nel buco di una metropolitana è molto molto peggio che trascorrere mezz’ora o più in un vaporetto che solca i canali di Venezia. Questa è una delle ragioni per le quali sono nettamente contrario alla proposta (tenacemente caldeggiata dal sindaco Paolo Costa, uno dei peggiori che la città abbia avuto) di realizzare una metropolitana sublagunare per portare più rapidamente i turisti nella città storica. E questa è una delle ragioni per le quali penso che l’urbanistica sia una dimensione importante della società; essa puà consentire infatti (se orientata verso questi obiettivi) a organizzare la città in modo che la distribuzione delle funzioni e lo studio delle modalità di connessione tra loro renda i percorsi il più piacevole possibile. (es)

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"Abbiamo vinto", ha annunciato il comando americano da Falluja. Davvero? Migliaia di case distrutte, centinaia di migliaia di cittadini in fuga, un rapporto di 40 a uno dei morti iracheni rispetto agli americani e i conti finali non sono ancora stati fatti. Una vittoria o un massacro che danno una nuova feroce svolta alla guerra nel Medio Oriente?

Di certo Falluja rappresenta una svolta nella propaganda e nella retorica di questa guerra. Scompare uno dei grandi temi dell'intervento: la ricostruzione. Già difficile da capire alla vigilia della guerra, già paradossale, prometteva la ricostruzione di distruzioni che i ricostruttori si accingevano a compiere. E cercava di coprire i buoni affari che le ditte americane si ripromettevano di fare appaltando lavori. Lucrosi secondo le direttive degli esperti economici che seguivano l'armata.

La distruzione di Falluja, pare 50 mila edifici distrutti o danneggiati dai bombardamenti aerei e terrestri, dimostra che agli occhi del comando militare la distruzione è più importante della ricostruzione, dimostra che il futuro di una città di 300 mila abitanti conta meno che la lezione del terrore.

Questa svolta sul campo di battaglia apre interrogativi sul rapporto negli Stati Uniti fra politica ed esercito, fra la Casa Bianca e il Pentagono, che forse spiegano le dimissioni di Colin Powell, il generale che non amava la guerra. Ci si chiede se il massacro e la distruzione di Falluja siano stati imposti dal comando militare contro il parere del governo o se ormai il vero governo sia il gigantesco apparato di guerra che non sopporta di essere colpito e umiliato dalla ribellione.

Il no alla ricostruzione significa anche il no alla favola della democrazia che la virtuosa America voleva donare all'Iraq. Non è certo una tale barbara presentazione che può invogliare gli iracheni e in genere i popoli del Medio Oriente ad accettare un sistema politico e civile che gli è sconosciuto, ma che ostenta un totale disinteresse per le vite umane.

Falluja conferma agli occhi degli arabi e dell'Islam che i 'cristiani' d'America concepiscono la pace come una conquista, l'occupazione come un protettorato in cui l'occupante ha diritto di vita e di morte. Il primo ministro collaborazionista Ayad Allawi è andato oltre il comando militare americano nel giustificare il massacro, ha detto che a Falluja è stato ristabilito l'ordine mentre continua l'eliminazione dei superstiti sospetti di terrorismo, cioè di chi capita capita, cadaveri lasciati nelle strade perché su chi si avvicina sparano i cecchini con i fucili di alta precisione.

Falluja lascia il suo segno pesante anche sulla scelta politica del governo Bush appena rieletto e sui suoi rapporti con l'Europa. L'attacco a Falluja a lungo rinviato è scattato a rielezione avvenuta, segno che il potere politico si è allineato con quello militare per la continuazione di una politica aggressiva ed espansionista.

Lo conferma il rimpasto del governo da cui escono colombe come Powell e in cui entra un superfalco come Paul Wolfowitz e cresce la Condoleezza Rice, quella che alle obiezioni dei moderati risponde "me ne frego e tiro diritto". Una scelta che aumenta la distanza fra gli Stati Uniti e l'Europa, come dimostra il no parlamentare degli ungheresi al mantenimento del loro contingente.

Che dire di questa scelta che appare contraria a ogni ragione e che potrebbe aprire la strada a una catastrofe dell'umanità? Che la ragione non ha mai trattenuto gli aspiranti al dominio mondiale, non ha impedito a Napoleone di cacciarsi con la sua grande armata nei pantani spagnolo o russo, o l'imbianchino di Monaco di sfidare tutte le grandi potenze o al nostro Mussolini di entrare in guerra senza i soldati e i mezzi per farle. E non impedisce agli Usa di ripetere, a Falluja una pagina vergognosa.

Bianchi Bandinelli e la morte di Gentile

Luciano Canfora

la Repubblica del 12 agosto 2004

Caro Direttore, l´estate è sempre stata favorevole ai tormentoni parastoriografici. A volte ritornano gli stessi episodi, forse perché stimati più sapidi. La morte di Giovanni Gentile è uno dei preferiti. Così quest´anno abbiamo appreso (Corriere della sera dal 6 al 10 agosto) che Ranuccio Bianchi Bandinelli avrebbe da semplice «simpatizzante» del PCI, il 15 aprile del 1944, mandato nientemeno che un commando gappista, la più segreta delle organizzazioni militari comuniste nella Resistenza, ad ammazzare Gentile. (Solo vari mesi più tardi, il 7 settembre, Bianchi Bandinelli si candidò ad essere accettato nel partito). Che qualcosa del genere potesse accadere lo può credere chi sia del tutto ignaro della storia di quei mesi.

Quando Gentile fu ucciso, appunto il 15 aprile del ´44, tre professori furono presi in ostaggio «per rappresaglia»: Calasso (il padre dell´editore), Codignola e Bianchi Bandinelli. Furono rilasciati dopo circa un mese per intervento fermo ed efficace della famiglia Gentile. Il 10 maggio Bianchi Bandinelli, che era legato loro da antica data, scrisse a Federico Gentile questa lettera che solo un dietrologo alquanto banale può ritenere frutto dell´ipocrisia di un criminale incallito: «Caro Federico, nella tragedia acerbissima che si è abbattuta sulla vostra famiglia (e che posso ben valutare conoscendo quanto uniti tutti voi foste sempre a Vostro padre e quanto Egli vi dava di se stesso) unica notizia di qualche consolazione fu quella del tuo ritorno». (L´ha pubblicata, in un eccellente saggio sul grande archeologo, Marcello Barbanera, Skira, Milano, 2003, pag. 170: in fondo i libri è meglio leggerli).

Suisola, uno dei componenti il commando, dichiarò il 12 maggio 1981 al Giornale di Montanelli: «L´ordine di colpire Gentile ci venne via Radio dal comando alleato». Benedetto Gentile, figlio del filosofo, nel 1951 pubblicò un importante saggio sulla fine di suo padre, pieno di dignità e di concretezza, dove si legge (pag. 55): «Avvenuto per mano dei gappisti fiorentini, il fatto ha naturalmente radici più lontane. Notizie attendibili pervenute dopo l´arrivo delle truppe ?alleate´ in Firenze accennarono a istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento presso il Servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia ai centri della Resistenza in Toscana». Non c´è nulla di più inedito dell´edito.

Chi si schierava, rischiava la morte" Simona Poli intervista Claudio Pavone

la Repubblica dell’11 agosto 2004, edizione di Firenze



Non era a Firenze durante i giorni della Liberazione. Il partigiano Claudio Pavone, classe 1920, in quell´agosto di lotta si trovava nel carcere di Castelfranco in Emilia, tra Bologna e Modena, poco distante dalla linea del fronte. Studioso del periodo bellico, autore di saggi e libri sulla Resistenza, già docente di Storia contemporanea all´università di Pisa, Pavone ricorda oggi che cosa significò per lui, chiuso in prigione, la notizia della liberazione di Firenze.

Quell´11 agosto pensò che la fine della guerra fosse più vicina?

«Sì, fu un passaggio importante perché Firenze poteva segnare una delle tappe finali dell´offensiva estiva che si doveva concludere nella valle Padana. Poi invece seguì la grande delusione, ci aspettavano altri mesi difficili. Alla fine di agosto riuscii ad uscire dal carcere e andai a Milano, quindi vissi quella fase altalenante tra speranze e disillusioni un po´ più da lontano».

Nei suoi scritti lei ha spesso sottolineato come la lettura degli eventi storici si arricchisca sempre di elementi diversi, di nuove interpretazioni. Come trasmettere allora la memoria di quei fatti senza tradire lo spirito che vi animava allora?

«E´ normale ed è anche giusto, direi, che l´interpretazione che si dà di grandi fatti storici cambi via via che ci si allontana da quegli eventi. I passaggi importanti sono quelli generazionali. Noi, testimoni e protagonisti della Resistenza, siamo ormai i nonni e quindi sarebbe assurdo pensare che le domande che ancora pone a noi la nostra memoria fossero le stesse di quelle che si pongono i giovani».

Rileggere la storia non sempre è un´operazione neutra.

«Certamente. Come esiste il rischio della mummificazione così esiste anche quello della revisione, realizzata non studiando i fatti ma capovolgendo i giudizi che sono stati dati. E´ bene mettere in luce episodi che erano stati taciuti ma senza per questo indurre a credere che in fondo le parti in lotta si equivalessero, quasi che ci fossero in campo due minoranze di faziosi che si combatteveno per le loro fedi. I morti vanno rispettati tutti ma da morti. Da vivi erano su fronti opposti».

Come nel resto d´Italia anche a Firenze la Resistenza fu vissuta, fiancheggiata, partecipata dalla gente.

«Questo è un aspetto importante, che è stato travisato e strumentalizzato. Non è vero che "la gente non stava da nessuna parte", che "il buon popolo italiano" non parteggiava né per i fascisti né per i partigiani. Si trattava di stare dalla parte della libertà, non esisteva solo la Resistenza armata di chi imbracciava il fucile. Non si può dimenticare quanti rischiarono la vita offrendo il loro aiuto e la loro opera senza armi in pugno. Questa sorta di "indifferenza della gente" è un modo offensivo di raccontare il popolo italiano, mentre in tutta l´Europa è stato valorizzato il concetto di Resistenza civile. Da resistente ho vissuto quella sensazione, sapevo che le probabilità di incontrare persone che non mi avrebbero denunciato era superiore a quella contraria».

Fascismo e comunismo sono due parole che non hanno più riferimenti concreti nell´attualità. Sarà più difficile per i ragazzi di domani capire cosa accadde in quegli anni?

«Forse sì, se si continua a pretendere di raccontare la storia di un popolo tutto in armi. Ma non se si farà comprendere la tragicità della situazione e le scelte dolorose di fronte a cui si trovarono gli italiani. Lasciando intatte nella ricostruzione tutte le sfumature di quel periodo, evitando di affondare in una gelatinosa uguaglianza sotto cui si introduce una rivalutazione della Repubblica Sociale. Ovviamente c´era una vasta varietà di atteggiamenti, molta gente non si esponeva e tirava a campare, anche questo scenario va rappresentato. Ma una domanda che i giovani potrebbero fare è: che cosa distingue la violenza dei fascisti dalla violenza partigiana? Bisognerà rispondere spiegando che da una parte c´era la libertà, dall´altra il nazifascismo. Nessuna pretesa di buona fede può essere tirata in ballo per chi si schierava a fianco di Hitler e Mussolini».

Eppure la decisione del Comune di Firenze di intitolare una strada a Bruno Fanciullacci, il partigiano che uccise il filosofo Gentile, ha suscitato molte proteste da parte di An.

«In una guerra civile - anche se questa definizione è stata bandita dalla sinistra -nessuno che si schieri con grande nettezza è immune dal rischio di essere ammazzato. Personalmente provo ripugnanza a credere che se si uccide un grande intellettuale si fa qualcosa di male mentre invece se si ammazza un qualsiasi ragazzo di diciotto anni non è così. Gentile si è schierato ed è morto di morte violenta come tanti altri. Ha torto chi condanna quell´uccisione».

L´Italia che nacque dalla Resistenza fu quella che aveva sognato?

«Chi aveva visto la Resistenza come un´utopia è sicuramente andato incontro a molte delusioni, ma non tutta la Resistenza è stata tradita, anche i moderati hanno combattuto e vinto. La scelta della Repubblica e la Costituente furono due conquiste gigantesche. Allora della nostra Costituzione ero incline a vedere i difetti, adesso che vogliono stravolgerla ne apprezzo tutti i pregi. Teniamocela cara quella Carta».

L´indicibile orrore della strage di bambini nella scuola di Beslan provoca tre diversi tipi di reazione: la rassegnazione, l´anatema e la chiamata alle armi, l´analisi dei fatti.

Prima di entrare nel merito di quanto è accaduto, del come e del perché dell´orrore e anche del che fare esattamente tre anni dopo l´11 settembre 2001, voglio esaminare quelle tre diverse reazioni che agitano l´animo di ciascuno e di tutti gli uomini e le donne che abitano il pianeta e che hanno il privilegio di poter sollevare la testa dalle ciotole di riso e dalla brocca d´acqua inquinata che sostentano la loro breve e devastata esistenza. Perché per quei due miliardi di dannati non c´è orrore che possa scuoterli dall´incombente agonia che grava su di loro e sui loro già condannati bambini.

La rassegnazione. E l´assuefazione. Chi vi dice che porteremo per sempre negli occhi le immagini di quei bambini seminudi, sporchi di sangue, con la morte negli occhi o già scomposti cadaveri ammucchiati l´uno sull´altro o feriti e gettati sui camion in corsa verso inesistenti ospedali come gli appestati buttati sulle carrette dei monatti; chi vi dice che non saranno mai dimenticati e che serviranno almeno da monito affinché i fatti orribili non si ripetano, mente e sa di mentire.

Anche l´orrore si cancella, anzi soprattutto l´orrore. Per sopravvivere la gente lo rimuove. Lo elabora. Lo digerisce. Lo dimentica. O ci si abitua.

Impara a conviverci. Chi pensa ancora ai morti di Hiroshima e Nagasaki? Chi ai lager staliniani? Chi ai forni dell´olocausto? La sera di venerdì, dopo le raccapriccianti immagini della strage dei bambini, le televisioni di tutto il mondo hanno cambiato registro e noi con esse. Varietà, serate estive al suono di cariocas o di languide canzoni. Da noi si discettava su questa o quella attricetta in transito a Venezia e Amadeus riproponeva con diligenza i suoi quiz demenziali.

L´orrore? Certo, ma a dosi omeopatiche. Se è fatale conviverci rassegniamoci perché contro la fatalità non c´è che opporre la rassegnazione.

Israele insegna. I palestinesi di Gaza insegnano. I superstiti di tutte le guerre insegnano. Dopo il mattatoio delle trincee esplode l´età del jazz. Così va il mondo. Bisogna pur sopravvivere, non è vero? L´anatema e la chiamata alle armi. Tutti insieme contro l´immonda, diabolica, disumana genia terrorista. «Li inseguiremo anche nei cessi e li stermineremo» ha detto Putin quando lanciò la seconda guerra cecena cinque anni fa. «Questa è la quarta guerra mondiale, durerà più delle altre, ma vinceremo anche questa» ha detto Bush alla sua folla plaudente. Le cose non stanno andando così, ma sono passati solo tre anni, siamo ancora al preludio, l´orchestra suona, i lutti e le stragi si moltiplicano, ma il sipario non si è ancora aperto. Dalle montagne afgane la metastasi del terrore globale si è diffusa in tutto l´universo musulmano. Può darsi che qualche errore sia stato commesso, ma ora bisogna guardare al futuro e chi non salta terrorista è. Si vuole forse cambiare il timoniere mentre infuria la tempesta? Noo. Più forte, non ho sentito. Noooo. Dunque avanti e senza quartiere. Verso dove? Non si sa.

Contro quale quartiere? Non si sa. È una guerra senza frontiere. Appunto.

Senza eserciti tranne quello attaccante. Appunto. Globale. Appunto. Il nemico può essere il tuo vicino di casa. Ma «non c´è uomo più capace di proteggerci tutti di mio marito»: parole di Laura Bush. Lei sì che se ne intende.

L´analisi dei fatti. Si può ancora avventurarsi su questo periglioso sentiero sempre più stretto? Si può ancora distinguere? Personalmente non sono mai stato favorevole al «senza se e senza ma» e neppure al punto di indifferenza del «né con questo né con quello». Mi piace sapere dove sto e con chi. E sto con la democrazia, con la libertà, con lo spirito critico. E sto per mia fortuna in buonissima compagnia. Sto con la ragione, perciò distinguo.

A Milano quando si vuol dare del matto a qualcuno si dice che la sua testa è andata insieme, cioè ha perso la capacità di distinguere.

Questo è lo spirito critico, liberale e democratico, da Montaigne a Voltaire, da Kant a Bertrand Russell. Una buona compagnia, non vi pare?

* * *

Il terrorismo nazionalistico è cosa diversa dal terrorismo ideologico e globale. Ha un obiettivo preciso e lotta per realizzarlo. Si deve presumere che se vi riuscisse si placherebbe. Le prove ci sono. In Algeria si placò quando la Francia si ritirò da quella terra che nel frattempo era diventata un dipartimento francese. In Irlanda si è placato, salvo reviviscenze sporadiche alimentate da fanatismo religioso e di clan. Nei paesi baschi forse si placherà se Zapatero riuscirà ad attuare il suo programma federale.

In Palestina non ci si è mai provato seriamente, non si è mai riusciti a vincere le resistenze dell´estrema destra israeliana e dei gruppi radicali palestinesi. L´ultimo tentativo fu quello della «roadmap» proposta da Usa, Europa, Onu. Ricordate Bush e Blair l´indomani dell´11 settembre? Spegnere l´incendio in Medio Oriente è la priorità numero uno dissero; prima ancora di dare inizio concreto alla guerra contro il terrorismo quella sarà la nostra prima preoccupazione.

Parole sagge, alle quali tutti consentirono con rinnovato entusiasmo e speranze. Parole che rimasero parole. La guerra scoppiò in Afghanistan e il governo talebano fu smantellato in un mese. Troppo poco e troppo debole militarmente il nemico per soddisfare il legittimo (?) desiderio di vendetta del popolo americano. Troppo poco politicamente per dare base duratura al consenso di massa conquistato da Bush sul cratere di Ground Zero.

Ci voleva una guerra vera, una guerra seria, anche se preventiva. Anzi, meglio se preventiva purché motivata da buone ragioni (che purtroppo si rivelarono inesistenti). E meglio se solitaria, insieme a qualche ascaro volenteroso, per dimostrare che l´Onu era un arnese arrugginito e inutile e che la vecchia Europa era un salotto pieno di tarli e di pretenziosi professori che spaccano il capello in quattro pur di non mettersi in riga e non battersi agli ordini del Presidente. Sissignore, signore.

Così ci fu la guerra irachena, che durò addirittura meno di quella afgana.

Miracolo. Ma anche guaio. Venti giorni di battaglia contro il nulla che guerra è? Con un paio di dozzine di morti tra le truppe americane e altrettanti uccisi da «fuoco amico». In compenso le perdite tra i civili iracheni furono qualche migliaio e tra loro parecchi bambini. I bombardamenti erano mirati ma qualche volta la mira era sbagliata. In compenso il comando americano chiedeva scusa. Non basta?

Il fatto non previsto fu una notevole ribellione diffusa nella popolazione.

Ringraziavano di essere stati liberati dal tiranno, ma non volevano essere terra d´occupazione. Volevano ricostruzione e sviluppo ma non i «Marines» tra i piedi. Invece ebbero i Marines ma pochissima ricostruzione e niente sviluppo. Qualcuno cominciò a innervosirsi, qualcun altro mise mano ai fucili (ce n´erano in abbondanza) alle mine, alle bombe.

I Marines fecero il loro mestiere che non è propriamente quello delle suore di San Vincenzo. Ma come sempre accade in simili frangenti, per ogni facinoroso ribelle ucciso ne sorgevano altri dieci. Si infiammò il problema sunnita. Si lacerò il fronte sciita. Apparvero bande di tagliaborse e di tagliagola.

Dalle frontiere colpevolmente incustodite arrivò un fiume di uomini di mano e di coltello e tra loro - oh, sorpresa - gli adepti di Bin Laden. Il resto è cronaca attuale. Signori della guerra in Afghanistan, signori della guerra in Iraq. Terrorismo globale intrecciato con terrorismo locale. Tirannia e ordine con Saddam, libertà (?) e disordine sotto Bremer, proconsole di Bush.

Governi-fantoccio a Kabul e a Bagdad. Due dopoguerra catastrofali. Scrivemmo allora: hanno scoperchiato il vaso di Pandora, hanno liberato i venti devastanti di Eolo.

Questo è accaduto e questo perdura. Uniamoci tutti, siamo tutti sulla stessa barca. Ma si vorrebbe anche sapere chi deve stare ai remi e chi al timone. «Non daremo deleghe per la sicurezza dell´America» parola di Bush.

Appunto. Kofi Annan l´ha capito subito, infatti da Bagdad se n´è andato e non mostra di volerci tornare. Per fare che cosa?

* * *

Il terrorismo di tipo Al Qaeda non ha ancora conquistato l´Iraq e non lo conquisterà perché gli iracheni sono orgogliosi come tutti gli arabi. Per di più sono in maggioranza sciiti, come gli iraniani, mentre Al Qaeda insegue il sogno del califfato sunnita e wahabita.

Però Al Qaeda è riuscita a costruire una sua piattaforma operativa in Iraq dalla quale condiziona non poco le vicende irachene. Allawi, il presidente del governo-fantoccio, fa il resto. Deve essere l´uomo forte per conto dell´America. Portare il paese alla democrazia entro due anni. Con la mano di ferro.

Dieci giorni fa ha toccato con mano che Al Sistani, la guida spirituale sciita, conta molto più di lui. E che Al Sadr, il ribelle da quattro soldi che l´ha tenuto in mano per settimane, ora vuole «scendere» in politica. In una democrazia «religiosa» non c´è posto per Allawi.

Bernardo Valli ha spiegato ieri perché i prigionieri francesi non sono ancora stati liberati. Perché Allawi non schiera la sua truppa per render sicura la strada che da Falluja porta all´aeroporto di Bagdad. Perché i soldati Usa stanno combattendo l´ennesima battaglia contro il fortilizio sunnita di Falluja. La Francia, appoggiata da tutta la sua comunità islamica, da tutti i governi moderati della regione, ma perfino dalle organizzazioni terroristiche palestinesi che non si vogliono confondere con Al Qaeda, perfino dai Fratelli musulmani egiziani e dagli Hezbollah libanesi, ha dimostrato di quale prestigio goda nel mondo arabo. La Francia non ha seguito gli Usa sul terreno iracheno, ma non ha ceduto di un palmo alle richieste ultimative dei sequestratori.

Perché mai Allawi dovrebbe facilitare il rilascio degli ostaggi francesi? Per lui sarebbe un´altra sconfitta. Risulterebbe che esiste un altro modo per combattere il terrorismo e non cedere ai suoi ricatti. Allawi non ha interesse a far risultare che esiste un altro modo. Neanche Bush ha interesse. E Putin?

* * *

Putin è un´altra cosa ancora. L´ha spiegato molto bene ieri su queste pagine Sandro Viola.

Putin ha legato la sua fortuna politica alla normalizzazione della Cecenia.

In una Russia democraticamente inesistente il potere di Putin si basa sul segreto irresponsabile. Di quel che fa non risponde a nessuno. I morti del teatro Dubrovka, i morti del sommergibile atomico nello stretto di Bering, i morti dei Tupolev fatti esplodere da due kamikaze cecene che avevano occultato l´esplosivo nelle vagine. Crimini orrendi dei terroristi. Insufficienza totale e disprezzo della vita degli ostaggi da parte delle squadre speciali Alfa e Beta.

Putin non parla, nessuno glielo impone né in Russia né nel mondo democratico. Bush solidarizza con lui e lo assolve da ogni errore e peccato.

Berlusconi segue a ruota. La Cecenia è un cimitero? Grozny è un ammasso di rovine? La tortura è prassi abituale delle truppe russe? La disoccupazione al 90 per cento?

Poco importa. Trecentoventi ostaggi ammazzati, di cui la metà ragazzi e bambini. «Li inseguiremo nei cessi».

Oggi Putin ha interesse ad accreditare la tesi che nella scuola di Beslan c´erano anche terroristi di Al Qaeda. Prove non ci sono, ma Bush gli crede sulla parola e rilancia. Se è Al Qaeda a perpetrare la strage dei bambini non si tratta più di Cecenia. La questione cecena viene cancellata dall´agenda.

Come accadrebbe se al posto di Hamas in Palestina ci fosse Bin Laden.

Putin vuole internazionalizzare la questione cecena ma riservare esclusivamente a sé il ruolo di timoniere. In Iraq non ci vuole andare neanche lui, ma è un assente giustificato. Infatti ha altro da fare.

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