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The Submarine, 29 gennaio 2018. L'Italia è un paese che sta andando a pezzi, a partire dal a struttura geologica che ne è la base naturale. Lo si Sto arrivando! da secoli, ma non si fa nulla: le risorse servono ad altro. Con postilla

Lo scorso 7 ottobre sulla SP 75 che collega, in Piemonte, la valle Cannobina al Lago Maggiore si è abbattuta una frana che ha invaso completamente la carreggiata rendendo impraticabile la provinciale e spezzando di fatto la valle Cannobina in due tronconi.

I dati resi pubblici dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) dovrebbero ricordarci la vulnerabilità dell’Italia in materia di fenomeni franosi. Il 7,5% del territorio nazionale, con indici di franosità più o meno allarmanti, è potenzialmente soggetto a frane e smottamenti. Le sempre più frequenti calamità naturali, i fenomeni climatici estremi intensificatisi (specie in autunno) negli ultimi anni uniti alla scarsa cura del territorio e alla manutenzione non adeguata delle infrastrutture pubbliche, alimentano sempre di più nei cittadini (e tra le più alte cariche dello Stato) la consapevolezza del problema ambientale.
A livello amministrativo, spesso, le cose non sembrano andare invece per il verso giusto. Le province — mai realmente scomparse — lamentano l’inopportunità del decreto Delrio, quando possono chiamano in causa le regioni e nel complesso annaspano di fronte ai tagli statali alle risorse economiche locali. Non avendo i mezzi per fare prevenzione agiscono il più delle volte in ritardo, a cose fatte — a frana caduta. È questo il caso della valle Cannobina, enclave della Provincia del Verbano Cusio Ossola e simbolo, tra le centinaia di casi che ogni anno interessano il nostro paese, di un’Italia passiva, inerme e totalmente impreparata di fronte alla piaga del rischio idrogeologico
postilla
Non ci sono risorse per intervenire. Ma le spese militari portano via 23 miliardi di euro all'anno (64 milioni al giorno), di cui 15 milioni al giorno per armamenti. Non parliamo delle forza lavoro che fugge dagli inferni del 3° mondo
pagina tratta da "The Submarine", qui raggiungibile

». il manifesto, 4 aprile 2017 (c.m.c.)

La sala convegni del Parco Regionale di Colfiorito è strapiena e contiene a malapena le circa 70 persone accorse all’incontro «Gasdotto e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio». Ciascuno in rappresentanza di movimenti, comitati, associazioni e realtà che a vario titolo combattono una battaglia contro un nemico comune: il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio. Sono tutti qui per la costituzione del Coordinamento nazionale No Tubo.

Il progetto di metanodotto proposto nel 2004 dalla società Snam Rete Gas, classificato come «strategico» e inserito nei Progetti di Interesse Comunitario nel 2013 dalla Commissione europea, incontra infatti fin dal principio la fiera opposizione di tante realtà che con questo primo incontro nazionale hanno deciso di unire tutte le battaglie. «Perché – dice a il manifesto Cristina Garofalo, dell’associazione Mountain Wilderness, tra i principali organizzatori dell’evento – Grande Opera, Grande Vertenza».

La necessità di fare rete è la grande protagonista dell’evento, evocata da quasi tutti i partecipanti tra cui il rappresentante del collettivo Altreventi, della Valle Peligna: «Dopo più di un anno che seguo questa lotta solo oggi ho conosciuto i compagni dell’Umbria che fanno il mio stesso lavoro», spiega. Ma se un simile tavolo è stato convocato solo oggi, dopo oltre un decennio di vertenze locali e isolate, è soprattutto perché ora è chiaro a tutti che gasdotto ed eventi sismici costituiscono un binomio che rischia di essere devastante. E il progetto del gasdotto Snam, di 687 km, interessa praticamente l’intero sistema di faglie attive dell’Appennino Centrale.

Arcangelo, del comitato civico Norcia per l’Ambiente, ricorda :«Ci accorgemmo fin da subito che il progetto attraversava il 60% di aree protette Sic e Zps, passando su zone sismiche. Snam ci rispose che in caso di terremoto, la fuoriuscita di gas sarebbe stato il nostro ultimo problema. Ci dissero che non c’era pericolo, ma la galleria in cemento armato di Forca Canapine (sopra a Norcia, ndr) si è spostata di 70 cm. Una galleria si sposta e i tubi del gas no? Eppure entrambi starebbero sulla stessa faglia».

Ad approfondire i rischi derivanti dalla costruzione del metanodotto Snam in queste zone provvede il geologo Francesco Aucone, esperto di effetti di vibrazioni del terreno e conseguenze di eventi sismici, che esponendo il suo studio condotto sul tratto di gasdotto tra Foligno e Sestino, afferma: «Snam sostiene che una struttura interrata come i tubi del gas subisce meno vibrazioni, ed è vero, ma è anche vero che non tutti i terremoti sono uguali.

Ad Amatrice ad esempio è rimasta in piedi la torre civica di 25 metri, mentre a subire più danni sono stati gli edifici più bassi. Inoltre – aggiunge – una simile opera, rigidamente ancorata al terreno, è più sensibile alla fagliazione, e non c’è struttura umana in grado di sopportare lo sforzo tettonico: miliardi di miliardi di tonnellate in movimento. Siamo di fronte a un’opera strategica e andrebbe fatto uno studio di risposta sismica locale, che manca. Al suo posto – spiega ancora Aucone – è stato usato l’approccio semplificato, basato su dati bibliografici, con pochissime indagini fatte, una sottostima della vulnerabilità sismica del territorio, un’insufficienza di indagini geomeccaniche e geochimiche e nessuna indagine sugli effetti della fagliazione».

Nel seguire i tracciato del metanodotto si incontrano alcune delle località più colpite dal recente sisma, come Norcia, Visso, Cascia, Preci, L’Aquila. Ma non solo. A Sulmona è prevista una centrale di compressione del gasdotto. Il sito prescelto è a soli 2 chilometri dalla faglia del monte Morrone, silente da oltre 1900 anni.

A Norcia, tra due mesi, ci sarà il prossimo appuntamento del neonato Coordinamento Nazionale No Tubo, con la precisa volontà di arginare lo spopolamento dell’Appennino dopo il sisma. Un fenomeno – spiegano – che bisogna arginare in ogni modo anche perché indebolisce la resistenza al progetto Snam.

Rotta la tregua, ricomincia all’alba l’espianto degli alberi nell’area del microtunnel per il gasdotto. Alta tensione tra il movimento No Tap» e l’ingente schieramento di poliziotti». il manifesto, 2 aprile 2017 (c.m.c.)

il manifesto
DALLA PARTE DEGLI ULIVI ,
LA RIVOLTA DI MELENDUGNO
di Patrizio Gonnella

L’ennesima giornata di passione vissuta a Melendugno inizia alle prime luci del giorno. Quando un imponente spiegamento di forze dell’ordine arriva al cantiere dei lavori, sospesi per due giorni, scortando i camion della ditta incaricata dal consorzio Tat di espiantare i 211 ulivi nell’area in cui dovrà arrivare il microtunnel del gasdotto (sino ad ora sono già 183 quelli sradicati), una conduttura sotterranea lunga circa un chilometro e mezzo, destinata a connettersi con il tratto sottomarino del tubo ad una distanza di circa 800 metri dalla costa.

Una ripresa dei lavori di cui la società aveva avvisato la prefettura di Lecce soltanto nella tarda serata di venerdì, ottenendo il via libera dalla questura, cogliendo di sorpresa i manifestanti, in presidio continuo all’esterno del cantiere. Una rottura di una tregua che secondo gli umori degli ultimi giorni sarebbe dovuta durare almeno sino a domani.

Così, alle 9 del mattino, con i lavori iniziati da alcune ore e altri 30 ulivi espiantati (diciannove piante cui se ne aggiungono altre undici parcheggiate negli spazi della società di vigilanza Almaroma), in centinaia arrivano dalla campagna per bloccare l’uscita del cantiere e al tempo stesso per impedire ad alcuni camion già usciti su strada, di raggiungere l’area della Masseria del Capitano, ceduta da un privato alla società Tap, dove le piante vengono messe in mora e custodite in attesa di essere reimpiantate nell’area del cantiere a lavori ultimati. Il blocco maggiore viene effettuato proprio all’esterno dell’area dove vengono parcheggiati» gli ulivi. La tensione è altissima: anche perché questa volta il blocco di persone che si frappone ai camion è costituito soprattutto da donne, bambini, anziani. Gente di Melendugno e dei paesi limitrofi accorsi per dar manforte ai manifestanti e ai tanti sindaci presenti sul luogo e in prima fila, in tutto una quindicina, primo tra tutti Marco Potì, primo cittadino di Melendugno.

A quel punto, l'obiettivo diventa quello di trovare una mediazione evitando altre tensioni: inizia così un lungo dialogo telefonico tra il sindaco di Melendugno, il prefetto di Lecce Claudio Palomba, la questura e il ministero degli interni. Dopo un paio di ore, viene deciso che i quattro camion rimasti bloccati su strada, faranno ritorno con il loro carico di ulivi all’interno del cantiere: altri sei camion pronti a partire a quel punto sono rimasti fermi. Al netto di quelli già espiantati e ancora da portare alla Masseria del Capitano (in tutto 25 piante) sono soltanto 18 gli ulivi ancora da sradicare per rendere operativo il progetto. Una decisione salutata con giubilo dai manifestanti, che però appare più una vittoria simbolica che altro. Non fosse altro perché l’accordo raggiunto tra le istituzioni, garantiva una tregua valida soltanto per la giornata di sabato. Già da questa mattina infatti, o al più tardi lunedì, i lavori potrebbero ripartire.

Intanto, in attesa di capire quel che accadrà, i sindaci del territorio salentino hanno realizzato un appello da far sottoscrivere a tutti i cittadini, indirizzato al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio ed al governatore Michele Emiliano. Nell’appello, oltre ad evidenziare ancora una volta la totale contrarietà al progetto che se realizzato determinerà una violenta ed irreversibile ferita ad un territorio unico», si chiede la convocazione urgente di un incontro tecnico-politico propedeutico all’avvio di un’attività di ricerca di soluzioni più avanzate». In attesa dell’assemblea pubblica di questa sera nella centralissima piazza Sant’Oronzo a Lecce.

il manifesto
È STATO UN VERO BLITZ,
MA I CITTADINI HANNO RISPOSTO
COMPATTI E PACIFICI»
di Giammario Leone

Intervista. Parla il sindaco di Melendugno, Marco Potì, in prima linea insieme ai cittadini contro il gasdotto Tapl sindaco di Melendugno Marco Potì è in prima linea a difendere il suo territorio, fianco a fianco ai manifestanti, sin dal primo giorno.

Sindaco, è stata un’altra giornata vissuta sul filo della tensione. Non ve l’aspettavate.
Quello di questa mattina (ieri per chi legge, ndr) è stato un vero e proprio blitz. Nessuno, né la società Tap, né la prefettura e la questura, ci aveva avvertito che questa mattina sarebbero ripresi i lavori. La polizia è arrivata ancora una volta in un numero spropositato ancor prima dell’alba, scortando i mezzi e gli operai delle ditte addette ai lavori per conto di Tap e attuando blocchi al transito veicolare e pedonale di tutta l’area.

Lei anche nei giorni scorsi ha sottolineato l’ingente dispiegamento di forze dell’ordine, che di certo non contribuisce a rasserenare gli animi.
Assolutamente sì. Tra l’altro, lo ribadisco ancora una volta, siamo ancora alla fase zero di un progetto che dopo l’espianto degli ulivi dovrà fermarsi, in quanto per la realizzazione del microtunnel è stato riaperto il procedimento e quindi i lavori non possono partire: la militarizzazione del territorio e l’uso della forza nei confronti degli abitanti di questo territorio e di chi lo rappresenta, come il sottoscritto, la trovo davvero spropositata e inutile. Così come il blocco totale delle strade limitrofe al cantiere, che impediscono la libera circolazione dei cittadini.

La giornata di ieri si è conclusa con una vittoria simbolica dei manifestanti: questo anche grazie alla mediazione da lei attuata insieme a questura, prefettura e ministero degli Interni.
Voglio sottolineare innanzitutto che quella di oggi (ieri, per chi legge, ndr), a differenza degli altri giorni, è stata una manifestazione del tutto spontanea. Sono arrivate donne, bambini, anziani, semplici cittadini che ogni giorno incontro in piazza o al bar a Melendugno. I manifestanti hanno deciso di andare a presidiare il luogo dove vengono messi in mora gli ulivi espiantati, che dista 8 km dal cantiere. La partecipazione alla manifestazione è cresciuta di numero con il passare delle ore. Insieme a me c’erano altri 15 sindaci: a quel punto la priorità era garantire l’incolumità di tutti quei cittadini. E, d’accordo con le istituzioni e la società Tap, per fortuna ci siamo riusciti, riportando i camion all’interno del cantiere e sospendendo i lavori in corso.

La tregua, però, rischia di durare sino alle prossime 24 ore. Così come l’abbassamento della tensione generale anche tra i manifestanti.
L’accordo che abbiamo raggiunto riguarda soltanto la giornata odierna (ieri per chi legge, ndr). Da domani potremmo essere di nuovo punto e a capo. Vorrei però sottolineare che sino ad oggi le proteste sono state più che pacifiche. Basti pensare che molti manifestanti hanno aiutato gli autisti dei camion bloccati sulla strada, a dissetarsi visto il gran caldo. Siamo sempre riusciti ad isolare e ad evitare comportamenti violenti, anche se è chiaro che la tensione tra i cittadini salentini è altissima (sono in corso indagini da parte della questura per appurare l’origine delle due bombe carta esplose la scorsa notte all’esterno dell’hotel Tiziano di Lecce che ospita le forze dell’ordine impiegate al cantiere, ndr).

Cosa pensa della posizione di Emiliano che vuole spostare l’approdo in provincia di Brindisi?
L’approccio del governatore è sicuramente diverso da quello del suo predecessore Vendola. Emiliano vuole ottenere compensazioni ambientali, non economiche, dalla grandi aziende per risanare le ferite della Puglia in campo ambientale e sanitario: non so se ci riuscirà.

L’obiettivo, comunque, resta lo stop definitivo ai lavori?
Saremo sempre contro la realizzazione di quest’opera, che per noi non è né utile né strategica. Forse lo poteva essere quando fu presentata nel 2003, non più oggi. Abbiamo scritto un appello da far sottoscrivere ai cittadini, perché la nostra battaglia per la difesa del nostro territorio non si fermerà.

Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017

Una bozza di decreto che, nel tentativo di adeguare l’iter per la valutazione d’impatto ambientale alle direttive europee, favorisce e facilita in realtà la vita di petrolieri, imprenditori e costruttori: è all’esame delle commissioni Ambiente, Politiche Ue e Bilancio della Camera (che dovranno esprimersi entro il 25 aprile) e rende molto più semplice e veloce ottenere permessi per ricercare idrocarburi, trivellare o costruire. La Via. In pratica, tutto ciò che riguarda attività che hanno un impatto sull’ambiente deve ricevere la Via, la valutazione di impatto ambientale. È una sorta di autorizzazione a operare. Si vuole sondare il sottosuolo per scoprire se c’è il petrolio? Bisogna ottenere la Via. Si vuole fare un pozzo? Bisogna fare la Via. Si vuole costruire una centrale idroelettrica? Bisogna ottenere la Via. È, insomma, una procedura tecnico-amministrativa che ha lo scopo di individuare e valutare preventivamente gli effetti delle opere sull’ambiente e sulla salute, nonché di identificare le misure per prevenire, eliminare o renderne minimo l’impatto. Studi, progetti preliminari, pareri, previsioni di tutela ambientale e confronto con la popolazione: solo dopo essersi accertati che tutto questo sia in regola, si può procedere.

Il favore. -Se però fino ad oggi alla Via doveva essere sottoposta gran parte dei progetti che hanno un impatto sull’ambiente, il decreto fa saltare diversi vincoli: in molti casi basterà infatti richiedere la cosiddetta “verifica di assoggettabilità alla Via”. Si potrà decidere se un progetto debba o meno richiedere la via. E in caso negativo, l’opera potrebbe iniziare con la sola assoggettabilità. Non sono più necessari quindi tutti i vincoli e i controlli ambientali richiesti dall’iter completo. “Ad esempio, viene prevista la sola verifica di assoggettabilità per tutte le prospezioni in mare con airgun (metodo controverso che utilizza potenti getti d’aria, ndr) o con gli esplosivi – spiegano dai Comitati no triv e dai Movimenti per l’acqua – E anche per progetti petroliferi di coltivazione di giacimenti con produzione fino a 182.500 tonnellate di petrolio o 182 milioni di Mc di gas: in sostanza, la gran parte di quelli del Paese”. Se con la Via obbligatoria bisognava poi depositare i documenti del progetto preliminare e uno studio preliminare ambientale (una decina di pagine generiche), seguiti da una fase di 45 giorni per le osservazioni del pubblico, con il nuovo decreto basterà solo lo studio preliminare. Inoltre è prevista una sorta di sanatoria per le opere iniziate senza aver chiesto la Via: le società scoperte in fallo avranno il tempo per mettersi in regola. Ma intanto potrebbero già aver provocato danni all’ambiente. E a supervisionare? Una commissione tecnica di 40 membri nominata senza concorso pubblico, con poltrone assegnate dal ministero dell’Ambiente.

Eccezioni. - Un altro punto riguarda invece la possibilità del ministero dell’Ambiente, in casi eccezionali, di esentare un progetto dalla valutazione di impatto ambientale qualora questa ostacoli il progetto stesso. “Purtroppo si tratta di un ‘potere’ di non poco conto – spiega Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale a Teramo ed estensore dei quesiti del referendum no Triv – in questo modo si accorda al ministero un potere pressoché discrezionale, che si riassume nel far prevalere le ragioni delle finalità dei progetti sulle ragioni della tutela ambientale”. La possibilità è certo prevista dalla direttiva europea. “Ma si tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo – spiega Di Salvatore – Il decreto del governo deve, inoltre, rispettare i principi e i criteri fissati dalla legge delega del Parlamento (la 114/2015), tra i quali c’è il ‘rafforzamento della qualità della procedura di valutazione di impatto ambientale’. E l’attribuzione di un potere discrezionale di quel tipo finisce, a mio avviso, per vanificare la volontà del Parlamento”. Piattaforme. Altro elemento scivoloso è nell’articolo 25. Nelle disposizioni per smontare le piattaforme petrolifere giunte a fine produzione – nonché gasdotti o oleodotti – si parla di un decreto con il quale si dovranno stabilire le linee guida per la cosiddetta dismissione mineraria. Ma c’è anche l’ipotesi di una “destinazione ad altri usi” di quelle stesse piattaforme abbandonate in mare. “Già immaginiamo i mille e fantasiosi usi che verranno proposti per queste strutture – spiegano i comitati –. In realtà è un vantaggio di centinaia di milioni di euro ai petrolieri, visto che ci sono decine di piattaforme da smantellare e centinaia di chilometri di tubazioni posate sul fondo marino da bonificare”. D’altronde, non è un mistero che la promozione governativa dell’astensione al referendum no triv serviva a evitare ai petrolieri anche questo fastidio.

«Quel che è in gioco non è il destino di alberi e spiagge, è il ripristino di una linea di comando. Le comunità, i territori, le autonomie locali non devono più ostacolare le decisioni centrali ma piegarsi e obbedire». il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)

Le radici strappate alla terra sembra vogliano urlare: cresciute scavando e strisciando nel sottosuolo e ora innaturalmente sospese e accatastate. Imponenti, impotenti. E’ un’immagine straziante, che più d’ogni parola o pensiero o ragionamento racconta il massacro in corso in questi giorni sulla spiaggia di San Basilio, località San Foca, Comune di Melendugno.

Stanno espiantando 271 ulivi secolari per far posto a un impianto di raccolta che accoglierà il lunghissimo gasdotto proveniente dal Mar Caspio. Una scelta che con caparbia ostinazione, con malevola ottusità si è deciso che solo su quel placido litorale debba essere realizzata. Non qualche chilometro più a nord, per esempio, tra le centrali e le raffinerie di Brindisi, come proposto dalla Regione Puglia: purtroppo invano.

No, proprio lì, tra la Riserva naturale Le Cesine, dove spuntano le orchidee selvagge e i gigli di mare, e la Grotta del Poeta, dove un Adriatico esausto si riposa tra davanzali rocciosi e piscine naturali. In uno dei luoghi più suggestivi e rarefatti del Salento. Un territorio incompatibile con lo stoccaggio e la distribuzione di idrocarburi. Un territorio sostanzialmente integro, che proprio grazie alla sua meravigliosa natura e alla sua antica cultura è riuscito a valorizzare se stesso e ad avviare ragguardevoli processi di crescita economica.

Si consuma così un altro capitolo della furia devastatrice di un’economia rapace e violenta. Come succede nella vicina Basilicata dove si estrae il petrolio tra pascoli, frutteti e piantagioni. O come succede nella più lontana Val di Susa, dove per l’alta velocità si perforano montagne e vallate. E non si sentono ragioni. Si va avanti con i cantieri e i manganelli, e chissenefrega della gente, dei contadini, dei montanari, dei pescatori. Di chi cerca di spiegare che c’è un altro modo per garantire sviluppo e benessere: senza consumare risorse naturali, senza sciupare l’ambiente, senza violare diritti e mortificare sensibilità. Da giorni proseguono proteste e manifestazioni, brutalmente represse. Con i sindaci e le loro fasce tricolori in prima linea. Ma la razzia continua, le macchine strappano i tronchi, i tir se li caricano e se li portano via.

Ci si dice che sradicare quei pochi ulivi di Melendugno non è un gran danno: in Puglia ce ne saranno milioni; e poi resusciteranno, verranno reimpiantati poco lontano. Ma quel che è in gioco laggiù non è il destino di alberi e spiagge, è il ripristino di una linea di comando. Simbolicamente ed effettivamente. Le comunità, i territori, le autonomie locali non devono più ostacolare le decisioni centrali ma piegarsi e obbedire.

Non era in fondo questo uno degli obiettivi della revisione costituzionale, laddove stabiliva che nei casi di controversie istituzionali sarebbe prevalso l’indirizzo dello stato centrale sulle amministrazioni decentrate? Quella revisione è stata sonoramente bocciata dal referendum di dicembre, ma la si applica ugualmente: con le cariche della polizia.

«Si tratta di una legge che rischia di portare l'Italia indietro di 40 anni e passerà alla storia come la più grave speculazione mai fatta sulle aree verdi italiane». il manifesto, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Ieri nell’aula di Montecitorio, dopo l’approvazione al senato, si è aperto il dibattito sulla riforma della legge 394/91 sui parchi italiani e le aree protette (relatore Enrico Borghi del Pd). Stando alle reazioni stizzite di quasi tutte le associazioni ambientaliste – sostenute da Sinistra italiana – viene da dire che dopo 26 anni di attesa forse il governo poteva sforzarsi di prestare più ascolto.

Solo Legambiente prova a vedere il bicchiere non proprio mezzo vuoto: il testo della legge 4144 sarebbe stato «migliorato» rispetto al passaggio al senato, eppure, dice la presidente Rossella Muroni, «non è la migliore riforma possibile, anzi a dire il vero non si capisce perché è stato necessario riaprire la 239/91 per introdurre queste modifiche». La sua sensazione è che si sia «persa un’occasione importante per aprire un confronto ampio e approfondito su come vada tutelata e gestita la biodiversità in Italia nel 2017». Più netta, invece, la bocciatura di chi sostiene che con questa legge i parchi diventerebbero «terreno di conquista per partiti e potentati» (Dante Caserta, vicepresidente del Wwf).

Tra gli ambientalisti di vecchia data Ermete Realacci (Pd) – oggi presidente della Commissione ambiente e territorio e lavori pubblici alla camera – intervenendo in un’aula deserta ha detto che questa legge è «un passo avanti per l’Italia che guarda al futuro». Sarà. Ma tra gli addetti ai lavori con referenze green sembra l’unico convinto che questa «riforma» renda le aree protette «un modello di sviluppo per l’intero paese, incrociando natura e cultura, coniugando la tutela e la valorizzazione del territorio e delle biodiversità con la buona economia».

Nonostante il giudizio complessivo non proprio esaltante, alcune note positive – non condivise da altri gruppi ambientalisti – vengono sottolineate da Legambiente, la sua ex associazione di cui è ancora presidente onorario.

In sintesi: sarebbe buono il piano nazionale triennale per le aree naturali protette che ripristina un luogo di concertazione tra regioni e governo con 10 milioni l’anno di finanziamenti, così come la destinazione di almeno il 50% delle risorse disponibili alle aree protette regionali e alle aree marine e anche la norma sulla parità di genere nelle nomine (su 23 parchi nazionali sono solo tre le donne con funzioni da direttore); funzionerebbe anche il rafforzamento di alcuni divieti (eliski e attività di estrazione di idrocarburi), il rispetto della normativa sull’uso dei prodotti fitosanitari, il divieto di introdurre cinghiali nel territorio e la proposta di una conferenza nazionale sui parchi da tenersi ogni tre anni.

Il problema dei problemi, secondo tutte le associazioni ambientaliste, Legambiente compresa, riguarda però la governance dei parchi, ovvero chi decide cosa e sulla base di quali priorità e criteri (o pressioni) di tipo economico.

A questo proposito le critiche al governo si fanno pesantissime. «La riforma – sostiene Italia Nostra – passerà alla storia per la più grande e grave speculazione mai fatta sui parchi e le aree verdi italiani. L’ennesimo piatto da spartire per garantire poltrone e favoritismi politici a danno di un patrimonio unico al mondo».

L’associazione, inascoltata al pari di Wwf, ProNatura, Mountain Wilderness, Lipu, Enpa, Cts e Vas, sostiene che «il presidente resta di nomina politica e per la sua designazione non è richiesta nessuna competenza specifica e riconosciuta in materia ambientale e culturale».

Inoltre, la rappresentanza dello stato, dice Italia Nostra, sparisce dal consiglio direttivo per far posto a rappresentanze degli amministratori locali e «degli interessi produttivi»; e in più gli articoli sull’iter per gli interventi edilizi «non sono per niente chiari e rischiano di generare confusione di interpretazione».

E ancora, la legge riconosce royalty una tantum e non annuali quale contributo compensativo per lo sfruttamento delle realtà industriali che operano nei parchi (multinazionali delle acque minerali e petrolieri, per dire dei rapaci più aggressivi).

Il Wwf aggiunge che le aree marine protette saranno governate da un sistema frammentario disomogeneo e «fortemente condizionato dagli interessi locali» e che la gestione della fauna, non essendo ancorata alle direttive comunitarie, aumenta la possibilità di coinvolgere i cacciatori per gli abbattimenti selettivi.

Fulvio Mamone Capria, presidente della Lipu, ne è convinto: «Il cosiddetto controllo faunistico è interamente affidato ai cacciatori».

La presidente del Wwf, Donatella Bianchi, lancia un appello a tutti i deputati – e ai cittadini affinché si appellino ai presidenti di camera e senato – per convincerli ad accogliere modifiche che gli ambientalisti ritengono fondamentali. Per non «stravolgere il sistema delle aree protette e indebolire la natura».

la Repubblica, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Il Consiglio di Stato blinda il progetto del gasdotto Tap, che approderà in Salento, bocciando i ricorsi della Regione Puglia e del Comune di Melendugno e chiudendo il contenzioso amministrativo iniziato nel 2014. Dopo tre anni di ricorsi e controricorsi, la parola fine arriva nel momento in cui a Melendugno una piccola sollevazione popolare ha bloccato i lavori di costruzione dell’opera. L’espianto di 231 ulivi — primo passo per realizzare il gasdotto — è iniziato il 17 marzo e si è fermato il 21, dopo che circa duecento persone hanno posto i propri corpi davanti a camion e ruspe che avrebbero dovuto portare via gli alberi.

La tensione tra forze dell’ordine e manifestanti ha costretto il prefetto di Lecce Claudio Palomba a chiedere una sospensione a Tap e un parere sulla regolarità autorizzativa al ministero dell’Ambiente. La risposta positiva viaggia da Roma verso il Salento e consentirà alla Trans Adriatic Pipeline di ricominciare i lavori, forte anche della sentenza del Consiglio di Stato, che non influenza direttamente la questione relativa agli espianti ma ribadisce, in 68 pagine, la piena regolarità dell’Autorizzazione unica rilasciata dal ministero dello Sviluppo nel maggio 2015 e della Valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente nel settembre 2014.

Non c’è stata alcuna irregolarità — scrivono i giudici di Palazzo Spada — nelle procedure con cui il Consiglio dei ministri ha preso in capo la questione gasdotto, non avendo raggiunto l’intesa con la Regione Puglia su un’opera che era stata dichiarata strategica a livello nazionale e comunitario. Né — aggiunge la sentenza — era necessario applicare al progetto la normativa Seveso o cercare altri approdi, dopo che erano state vagliate 11 soluzioni alternative a Melendugno.

Proprio la scelta di quel punto d’arrivo, in un’area a forte vocazione turistica, ha causato la levata di scudi di numerosi sindaci salentini, che si sono uniti alla crociata del primo cittadino di Melendugno, Marco Potì, alla quale partecipa da lontano anche il governatore pugliese Michele Emiliano, convinto che l’espianto degli ulivi non abbia ricevuto tutte le necessarie autorizzazioni regionali.

Per Tap, invece, le carte sono a posto e, incassata la sentenza del Consiglio di Stato, si attende solo la nota del ministero dell’Ambiente. Poi sarà tempo di espianti, ai quali — hanno fatto sapere gli attivisti che presidiano il cantiere — ci si continuerà ad opporre fermamente. L’appuntamento è all’alba, ad aspettare i mezzi Tap per provare a fermarli di nuovo. Il timore delle forze dell’ordine è che la tensione possa nuovamente salire, fino ad arrivare agli scontri.

Arboreto salvatico. doppiozero online, 26 marzo 2017 (c.m.c.)

Questo, per me, è il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastata al sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; così che alzando la testa dal tavolo e vedendo l’inverno sulle montagne e sui boschi è ancora più piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per scrivere a un amico.

Ho incominciato da ragazzo a “sentire” il faggio come albero felice agli dei, e non lo sapevo. Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigliari e mio padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell’assegnazione d’uso civico. I forti cavalli nell’autunno portavano i pesanti carri verso le case degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i mucchi in bell’ordine. Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le contrade era tutto un fervore, e dove c’erano vedove o vecchi c’era sempre qualcuno che dava una mano a preparare la legna.

Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall’America, anch’io segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere rivolto verso un poggiolo dove c’era una ragazzina che usciva a guardarmi. L’odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi più tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al paese.

Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta, venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli, picconi, scalpelli perché il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta alle mani dell’uomo, e ben lo sapevano i veneziani che saggiamente amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi.

Dove un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva scelto per costruire la slitakufa, slittastorta: dal tronco smussato in punta si ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi si mettevano su un asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso di bosco o di campo. Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe ricavato gli sci.

Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano alti meno di un metro, e siccome è specie che ama l’ombra e l’umidità li ho messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E lì crescono portando i rami verso l’alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell’aspetto rotondiforme che li farà solenni. Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti.

L’anno scorso in autunno, perché questa è la stagione più bella per la foresta di latifoglia, sono andato a visitare forse la più classica faggeta d’Europa. Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e lì tra quelle fustaie eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri ma tra cinquant’anni richiameranno l’attenzione dei passanti.

Il Fagus silvatica L. è albero socievole ed è dotato di facoltà pollonifera, ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto è diritto e regolare, nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi isolati i rami sono più grossi e la chioma è arrotondata. La corteccia è di colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il pedale, da muschi dal verde intenso. I rami più giovani tendono al grigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque–dieci centimetri, ovali e brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella parte superiore, più pallide e un po’ pelose nella pagina inferiore. Quando fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta, nel ricordo di una fame tra le montagne dell’Austria, le mastico e le mangio come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma è nell’autunno, tra l’ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel color giallo rosso squillante che rallegra la selva.

Le radici del faggio sono ben sviluppate e ben “radicate”. Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi, penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il tempo ha fatto l’humus con l’aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi faggi ci danno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi da notte di Natale.

L’albero del faggio è monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti maturano alla fine dell’estate; sono a cupola chiusa, un po’ spinosa, a quattro valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi circa un centimetro e mezzo.

L’areale di questa latifoglia è tipicamente oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al mar Nero e dalle Alpi Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un’area fitoclimatica particolare: il Fagetum che sta tra il più caldo Castagnetum e il più rigido Picetum.

Le foreste possono essere pure ma anche miste con l’abete bianco e altre latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualità di crearsi le condizioni vitali, il terreno della faggeta è uno tra i più fertili. Il faggio si costruisce e conserva la foresta!

la Repubblica, 25 marzo 2017

«È un intervento a gamba tesa della vecchia politica: vogliono trasformare i parchi in un pensionato per notabili a fine carriera. E il sistema è semplice: basta far saltare le competenze tecnico-scientifiche e il gioco è fatto. Fuori i naturalisti, fuori i biologi, fuori gli esperti, dentro chi è pronto a tutto pur di non scontentare i potentati locali». È dura l’accusa di Francesco Mezzatesta, l’ex segretario Lipu che è stato tra i protagonisti della battaglia per la legge quadro sui parchi.

Oggi quella legge, la 394, porta i suoi 26 anni con qualche ruga. I parchi hanno perso un po’ di slancio. Hanno giocato bene in difesa: quando erano assediati dal cemento si sono validamente difesi. Ma adesso bisognerebbe passare all’attacco: fare della natura protetta il motore di un’economia leggera, a basso impatto ambientale. Dunque una riforma sarebbe opportuna, ma quella che lunedì sarà discussa dall’aula di Montecitorio ha suscitato una rivolta nel mondo ecologista. «È una pietra tombale sulla natura italiana», protesta Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf. «I parchi danno fastidio perché costituiscono una barriera contro gli interessi delle lobby locali pronte a dare il via libera a un albergo in zona franosa o a trasformare un sentiero in pista da motocross in cambio di un pugno di voti».

Al centro delle polemiche c’è la governance dei parchi. Le associazioni ambientaliste chiedevano parametri più rigorosi per la nomina dei presidenti. È avvenuto l’opposto. I presidenti continuano a essere di nomina esclusivamente politica e s’indebolisce la figura chiave del direttore: oggi è scelto all’interno di un albo riservato a figure rappresentative della difesa della natura; con la riforma l’obbligo di competenze naturalistiche salterebbe.

«Il direttore verrebbe eletto dal presidente del parco su proposta di una commissione a maggioranza indicata dallo stesso ente parco: sarebbe invece più corretto un concorso con un vincitore secco eletto per titoli», osserva Antonio Nicoletti, responsabile Legambiente per le aree protette. «Quanto al presidente, la riforma prevede di escludere i parchi dalla legge Severino: così potrebbe essere eletto anche un parlamentare in quiescenza, cioè con il vitalizio. Peccato, perché la legge è stata migliorata durante il passaggio in commissione Ambiente».

Se a questi punti aggiungiamo la mancata creazione del parco nazionale del Delta del Po, si ottiene il quadro degli elementi che hanno scatenato la protesta. La valutazione però non è unanime. Federparchi appoggia la norma sottolineando gli aspetti positivi: 10 milioni di risorse finanziarie; un piano triennale che include i parchi regionali e le aree marine protette; il rafforzamento delle sanzioni contro gli abusi; la conferenza triennale sulla Natura dell’Italia.

«Sul profilo ambientale delle persone che assumono la guida dei parchi serve una modifica del testo che spero passerà nel voto in aula», afferma Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente di Montecitorio. «Ma io difendo questa legge. I sindaci non sono per definizione un nemico: bisogna creare un dialogo. Inoltre viene introdotto il divieto di trivellazione e di eliski ed è stato eliminato l’emendamento che aumentava la pressione della caccia nelle aree contigue ai parchi». Resta però irrisolto il nodo della governance. Da lunedì toccherà al Parlamento decidere.

». il manifesto, 22 marzo 2017 (c.m.c.)

Frutto del generale decadimento culturale, stiamo assistendo a una progressiva banalizzazione del ruolo delle aree protette, considerate a volte semplici agenzie di sviluppo locale, a volte nuovi enti intermedi da amministrare secondo le logiche della politica locale.

Si rischia così di annullare il loro autentico ruolo che è quello di esprimere e di tradurre in concreto una visione alta dei problemi che riguardano il territorio e la conservazione della natura.

Il rischio è ormai prossimo. È in corso in un Parlamento distratto, e con un’opinione pubblica ignara, un processo diretto a modificare l’attuale ottima legge-quadro (la 394 del 1991) che rappresenta una vera e propria controriforma. Siamo alle battute finali: in questi giorni la Commissione ambiente della Camera ha votato gli emendamenti a un pessimo disegno di legge approvato a novembre dal Senato e certo non lo ha migliorato; la discussione in Aula è già stata calendarizzata per il 27 marzo; dopo di che la proposta tornerà al Senato per il probabile voto finale.

Fortissima è l’opposizione del movimento ambientalista che in questi mesi proprio su tale questione ha ritrovato l’unità: grazie al “Gruppo dei Trenta”, che è riuscito a interrompere una posizione troppo attendista, e alla determinazione di due donne, le presidenti del WWF e di Legambiente, ben 16 associazioni ambientaliste stanno lottando contro questa controriforma. Sollecitate dall’apparente interesse e dalle richieste del presidente della Commissione Realacci e dal relatore Borghi, hanno anche presentato precise proposte con due rivendicazioni centrali: organi di governo dei parchi nazionali qualificati; pari dignità tra parchi nazionali e aree marine protette, perché queste costituiscono l’anello debole del sistema.

Nessuna delle proposte più significative è stata accolta e per di più il presidente ha impresso una forte accelerazione al processo nell’evidente intento di chiudere ogni discussione, creando oltre tutto grave imbarazzo in quella parte del movimento (Legambiente) che a lui fa riferimento.

Eppure le critiche delle associazioni sono più che fondate. La proposta, pur se contiene alcune misure positive, cancella proprio gli ingredienti che hanno decretato il successo della legge-quadro e che riguardano i parchi nazionali: sapiente dosaggio tra interessi nazionali e interessi locali, significativa presenza della rappresentanza scientifica, effettiva partecipazione delle comunità locali. Ma ciò che appare più grave è proprio l’assoluta dequalificazione degli organi di governo: il presidente è sufficiente che sia un soggetto di generica «comprovata esperienza nelle istituzioni o nelle professioni»; per il consiglio direttivo, fino a oggi composto dai rappresentanti degli interessi generali, si prevede, per un verso, l’ingresso delle organizzazioni professionali degli agricoltori e dei pescatori , cioè degli interessi corporativi, e, per altro verso, l’esclusione del mondo scientifico.

Certo, la proposta prevede il possibile inserimento di un rappresentante delle «associazioni scientifiche maggiormente rappresentative», ma tale previsione tradisce ipocrisia e incultura: infatti quel rappresentante è inserito in alternativa all’Ispra, che istituto scientifico non è; la scelta è frutto non dell’autonoma designazione del mondo scientifico (Accademia dei Lincei.
Università, Cnr), come era stabilito originariamente dalla legge-quadro, ma della diretta indicazione del ministro dell’ambiente; e soprattutto la proposta dimostra scarsa consapevolezza, se non disprezzo, del ruolo della scienza della quale offre, con il riferimento a un’impossibile maggiore rappresentatività, una concezione di tipo “politico-sindacale”. Viene così mortificato quel mondo che ha illustrato la storia oramai secolare dei parchi nazionali italiani e il cui contributo oggi diventa necessario perché i problemi della gestione del territorio e della conservazione della natura esigono sempre di più un approccio autenticamente scientifico, fondato cioè sul principio dell’autonomia.

Completano questo degrado le norme sul direttore, nominato a seguito di selezione pubblica. I titoli sufficienti per partecipare alla selezione sono la laurea in una qualsiasi disciplina nonché una «particolare qualificazione professionale» e una «comprovata esperienza di tipo gestionale», espressioni queste insignificanti; non si richiedono altri titoli né esami. Se poi si considera che viene selezionata una terna e non un vincitore, che la commissione valutatrice è scelta per due terzi dal consiglio direttivo e che la nomina compete al presidente del parco, diventa ovvia la conclusione: se la proposta verrà approvata i Parchi nazionali saranno gestiti esclusivamente in base alle scelte e ai condizionamenti imposti dalla politica locale.

Trapela da queste norme un’aberrante visione confermata dalla soppressione, nascosta nelle pieghe dell’articolato, della Carta della natura: viene così rovesciato il significato delle aree naturali protette, tradita la centralità della natura, alterato il sistema di valori che in tutto il pianeta è alla base della istituzione e della diffusione dei parchi nazionali.

Ha ragione Vittorio Emiliani quando nel suo appello al presidente Gentiloni scrive: «Ciò che non riuscì ad Altero Matteoli e a Stefania Prestigiacomo sta riuscendo al Pd e al governo».

Con il voto della Commissione Ambiente della Camera dei deputati del 9 marzo 2017 deve considerarsi virtualmente conclusa – salvo improbabili miracoli – un’aspra battaglia durata otto anni tra un fronte che ha tenacemente inteso introdurre alcune modifiche di fondo alla legge quadro 394 del 1991 sulle Aree Protette e non ha mai flettuto da questa intenzione e un fronte che a tali modifiche si è opposto in modo generoso e motivato spiegando come esse stravolgessero la legge invece di migliorarla e mettessero a rischio il futuro stesso delle aree protette come istituzioni qualificate di tutela ambientale.

Nonostante ci fosse un’ampia discussione in corso da almeno un anno con la quasi totalità dell’ambientalismo italiano schierato contro le modifiche, nonostante ci fossero state delle mediazioni interessanti e decisamente migliorative, il 7 marzo il presidente della Commissione Ermete Realacci (si: Ermete Realacci) con quello che può essere definito un colpo di mano ha imposto la votazione immediata del testo nella sua versione peggiore in modo tale che entro fine marzo la Camera possa approvare il provvedimento mettendolo al riparo da qualsiasi rischio di calendario.

Il testo che è passato in Commissione conferma tutti i punti “qualificanti” per i quali la maggioranza bipartisan Forza Italia-Pd ha cominciato a battersi sin dal 2009 con l’entusiastico sostegno della dirigenza di Federparchi e il particolare del suo presidente Giampiero Sammuri. Su tutto questo si è dibattuto a lungo e approfonditamente in questi anni per cui non è necessario tornare nel dettaglio su tutti i passaggi e su tutti i particolari. Basti ricordare che mentre le aree protette italiane languono in una situazione di sottofinanziamento cronico, di dotazioni di organico disperatamente inadeguate, strangolate da modalità burocratiche che le paralizzano, la “riforma” si è concentrata soprattutto su alcuni indirizzi che non hanno possibilità alcuna di incidere su questi nodi ma che tuttavia sono in grado di cambiare in profondità la fisionomia delle aree protette italiane così come era stata immaginata dalle molteplici forze che avevano voluto e fatto approvare la 394. Questi indirizzi si dicono in breve: presidente dei parchi di nomina partitica, direttore di nomina presidenziale senza più alcuna necessità di competenze naturalistiche, consigli direttivi spogliati della componente scientifica ma in compenso “arricchiti” di lobbies come quella degli agricoltori, possibilità di svolgere attività impattanti nei parchi mediante compensazione monetaria. Le aree protette italiane, in nome di interessi di bottega e di una visione schiettamente neoliberista dell’economia e della società, sono insomma messe nelle mani di apparati partitici - ora, a differenza che in passato, in modo pienamente legittimo - e di portatori di interessi che una volta in maggioranza faranno prevedibilmente passare la conservazione della Natura in secondo piano o la elimineranno di fatto dalle priorità istituzionali dei parchi.

E’ questa un’altra pagina oscura della storia delle politiche ambientali degli ultimissimi anni, l’ultima di un rosario che si è sgranato clamorosamente con la fine - di fatto - del Parco nazionale dello Stelvio e con l’eliminazione dell’autonomia e della specificità del Corpo Forestale dello Stato. Ed è letteralmente sconvolgente che questa deriva sia regolarmente sotto l’egida di figure che considerate da sempre come “fondatrici” dell’ambientalismo italiano e nella pressoché totale vacanza del Ministero dell’Ambiente.

E’ facile prevedere che queste norme faranno sentire presto i suoi effetti nefasti sul corpo delle aree protette italiane che già versano in pessime acque. La resistenza alla riforma è stata tuttavia forte, tenace, articolata e ricca di intelligenze: ci si può solo augurare – ci si deve augurare – che da qui riparta un ambientalismo che sappia mettere un argine al degrado e aprire prospettive diverse alla protezione della natura in Italia.

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