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La proposta di ricostruire il gigantesco viadotto sulla val Polcevera rivela la miopia di una classe dirigente che continua a trovare nella cementificazione il suo alimento preferito.

La commemorazione del crollo del cosiddetto ponte Morandi ha costituito una volta ancora l’occasione per rilanciare una gigantesca opera inutile figlia di tempi lontani ormai completamente superati che hanno devastato l’assetto territoriale dell’Italia.

Ci riferiamo all’epoca nella quale la motorizzazione privata era uno degli irrinunciabili obiettivi dello sviluppo economico nonché l’insegna della raggiunta “modernità” dell’italietta postbellica. L’abbandono dell’attenzione alle reti per la mobilità locale, a quella collettiva e alle reti alternative della mobilità dolce era la moda di quegli anni nei quali l’egemonia culturale ed economica delle grandi fabbriche di automobili dominava incontrastata. A quegli anni seguirono immediatamente quelli della privatizzazione delle reti e dei servizi della mobilità di persone e merci, dell’abbandono di ogni “laccio e lacciolo” alla galoppante speculazione urbanistica ed edilizia, all’incentivazione delle grandi opere inutili e spesso dannose come volano di uno sviluppo basato su mattone e cemento.

Sono state avanzate due proposte, differenti per le modalità tecniche: entrambe si propongono di ricostituire l’opera dov’era ma una nella sua versione cementizia, l’altra utilizzando le modalità, le forme e i materiali dell’acciaio.

Prima di proporsi di ricostruire semplicemente quello che era sembrato necessario in anni assai lontani occorrerebbe domandarsi quali siano le attuali esigenze di mobilità dei flussi di persone e merci. Soprattutto in un’epoca in cui l’obiettivo è risparmiare energia e ridurre l’inquinamento per cercare di minimizzare gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici. Occorrerebbe partire dalla consapevolezza che il territorio è un bene scarso e non riproducibile, che le tradizionali fonti utilizzate per il traporto non sono rinnovabili, e che la domanda giusta da porsi è quella di come organizzare la collocazione delle attività sul territorio in modo da consentirne la più parsimoniosa utilizzazione. Ma questo richiederebbe di restituire alla pianificazione urbanistica e territoriale la priorità che le è stata tolta nell’epoca in cui l’attenzione dei governanti ha abbandonato ogni capacità di ispirare a una visione lungimirante.

Scandalizza oggi in modo particolare il fatto che mentre da un lato non si reperiscano le risorse necessarie per garantire la stabilità del territorio, la sicurezza contro gli effetti rovinosi dei terremoti, l’esigenza di utilizzare spazi per la rigenerazione delle capacità naturali del territorio non cementificato, dall’altro lato si incoraggi a cuor leggero la spesa di ingenti risorse finanziarie pubbliche per un’ennesima opera inutile.

Abbiamo affrontato altre volte questo argomento e rimandiamo in proposito all’articolo di Guido Viale, che già un anno fa affrontava il tema con parole ancora oggi pienamente condivisibili: “Troppe grandi opere e zero competenze logistiche”.

Come a continuare a distruggere risorse finanziarie, ambientali e sociali. Il primo ministro Conte annuncia il completamento della Tav Torino-Lione, applausi della Lega e del PD. I grillini trasformano il loro virtuale potere di reale contrasto alla decisione del governo in una serie di lamentele, delegando il parlamento, già schierato a favore dell'opera, ad assumersi la responsabilità. La resistenza continua in Val di Susa, domani si apre il Festival dell'Alta Felicità, sabato 27 luglio la manifestazione.

La sentenza del TAR toscano che blocca l’iter amministrativo dell’aeroporto di Firenze assume un valore esemplare e apre nuove prospettive per tutte le lotte territoriali e le altre vertenze contro le grandi opere inutili aperte nel paese. (i.b.)
Dal sito della rivista «La città invisibile» l'articolo che spiega non solo le ragioni del giusto provvedimento del Tar, che mette in evidenza quanto molte volte ribadito da comitati ed esperti indipendenti che è necessario sottoporre alla VIA progetti definiti e non generici masterplan, ma anche come questa sentenza possa diventare un precedente e un esempio utile con il quale bloccare molti altri progetti di grandi opere inutili.
Qui il link anche all'articolo di Luca Aterini «Troppe prescrizioni per l'aeroporto di Firenze, il TAR boccia la VIA» già ripreso da eddyburg.

Greenreport.it Il decreto con cui è stata approvata la compatibilità ambientale della nuova pista aeroportuale di Firenze è illegittimo. Il TAR ha accolto i ricorsi presentati dalle associazioni e da ben sette comuni, vanificando la palese forzatura operata dai ministri del governo Renzi. (m.b.).

Nuove incertezze tornano a pesare sull’aeroporto di Firenze: il Tribunale amministrativo regionale (Tar) per la Toscana ha pubblicato oggi una sfilza di cinque sentenze – le n. 789/2019, 790/2019, 791/2019, 792/2019 e 793/2019, integralmente consultabili su greenreport – accogliendo i ricorsi presentati contro l’ammodernamento dello scalo aeroportuale presentati da numerosi comitati e Comuni della Piana fiorentina.
I ricorsi si incentravano sulla richiesta d’annullamento del decreto del ministro dell’Ambiente n. 377 del 28.12.2017, con cui è stata decretata “la compatibilità ambientale del “Master Plan 2014-2029” dell’aeroporto di Firenze, ovvero il giudizio favorevole alla Valutazione d’impatto ambientale (Via) del progetto, ottenuto al termine di complesso e lunghissimo iter autorizzativo. Ma per i giudici «l’assenza dell’esperimento di una corretta fase istruttoria risulta dimostrata dal fatto che il decreto sopra citato contiene un numero di prescrizioni (pari a circa 70) che, per le loro caratteristiche, hanno l’effetto di condizionare la valutazione di compatibilità ambientale contenuta nel provvedimento impugnato»; la compatibilità ambientale dell’opera sarebbe dunque legata «ad una serie di prescrizioni che risulterebbero sproporzionate come numero, poco chiare, di difficile interpretazione, di incerta realizzazione». Da qui la decisione del Tar di accogliere i ricorsi presentati contro l’aeroporto di Firenze, anziché attendere l’effettiva applicazione (o meno) di quanto previsto dalle prescrizioni che avrebbero dovuto sancire la compatibilità ambientale dell’opera.
Come sintetizzano dal Comune di Sesto Fiorentino i giudici “hanno accolto pienamente il ricorso, giudicando illegittimo il decreto di Via poiché non ha compiutamente valutato l’impatto ambientale del progetto, prevedendo un elevato numero di prescrizioni che per tenore di fatto hanno posticipato la valutazione dell’impatto ambientale alla effettiva realizzazione del progetto”.
«Il Tar ha riconosciuto la validità delle ragioni dei Comuni, delle associazioni, dei comitati contro un’opera che noi riteniamo sbagliata – commenta il sindaco di Sesto Fiorentino Lorenzo Falchi – Si tratta di una grande vittoria, che dovremo senz’altro approfondire, ma che nella sostanza è chiara: il decreto di Via è illegittimo e cade, pertanto, tutto il castello giuridico e amministrativo messo su anche con alcune forzature per arrivare a realizzare a tutti i costi una pista incompatibile col nostro territorio e illegittima dal punto di vista giuridico». Concorda Edoardo Prestanti, sindaco di Carmignano: «Siamo riusciti in un’impresa che sembrava impensabile, ossia bloccare una delle opere più sbagliate e pericolose sia per l’ambiente che per la salute di tutti i cittadini. Adesso approfondiremo meglio le motivazioni, ma la sentenza è chiara, il decreto di Via è illegittimo». Da Toscana Aeroporti per il momento non è invece arrivato nessun commento.

Firenze, 14 marzo 2019. Analisi del modello contrattuale realizzato per costruire una macchina che trasforma le risorse pubbliche in affari privati, presentato al ciclo di conferenze «La favola delle Grandi Opere» organizzato da PerunAltracittà. (e.s.)

Le grandi opere inutilie dannose sono strumentali al funzionamento dell’impresa post-fordista, cheprospera attingendo ai beni e alle risorse pubbliche, che grazie alla messa apunto di un modello finanziario-contrattuale ad hoc permette il trasferimentodi fondi pubblici ai privati.
L’impresapostfordista, come afferma Ivan Cicconi è «una grande impresa virtuale cheinevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, lacompetizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, unacompetizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio,precario, atipico»[1].
Questo modello per l’implementazione di grandi opere pubblichesi basa sulla privatizzazione della committenza pubblica. Attraverso uncontratto di concessione, si affida la progettazione, la costruzione e talvoltaanche la gestione dell’opera pubblica, ad una società di diritto privato (Spa),ma il capitale è tutto pubblico, così come il rischio del recuperodell’investimento. Le società coinvolte, appalti, subappalti, consulenzevengono così a operare in un regime di diritto privato fuori dalle regole e dalcontrollo della contabilità pubblica, spesso in un regime di monopolio ooligopolio collusivo. Le «attività economiche, controllate, determinate egestite da Consigli di Amministrazione delle Spa nominati dai partiti, in cuiil ruolo ed i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori, si confondono ediventano sempre più intercambiabili e intercambiati»[2]. Si forma così un modello che permette, alla luce del sole, dipilotare la spesa pubblica in direzione di interessi privati (e nondell’interesse collettivo). Per estorcere denaro pubblico a fini privati non èpiù necessario ricorrere a transazioni occulte: il favoreggiamento di aziendeamiche da far lavorare e prosperare diventa lecito.
La rete illegale messa in evidenza da tangentopoli viene«ampiamente sostituita da un sistema di relazioni e di convenienze piùimmediato e più complesso, nel quale gli illeciti sono molto più difficilmentecontrastabili»[3].
Come tutti i modelli che si rispettano, c’è sempre una ‘fase di ideazione’,che nel nostro caso specifico ha consistito nell’introdurre la concessione.Segue la ‘fase di
sperimentazione’ con cui verificare l’idea in altri ambiti e contesti.Segue infine una ‘fase di messa a punto e collaudo’ del prototipo, che vienepoi ‘codificato’ e ‘applicato su grande scala’.
Fase di ideazione
Vale la pena difare un salto indietro nel tempo a quando si è introdotta l’idea dellaconcessione, ricordando quella che fu la prima “grande opera" italiana: larete delle autostrade. Fu costruita in Italia all’indomani della seconda guerramondiale, formalizzata con la legge Romita (L.463/1955),che ne disegnò l'impianto.
L’autostrada delSole tra Milano e Napoli, dà il via all’opera, realizzata attraverso unaconvenzione, firmata nel 1956, tra Anas e Società Autostrade Spa (SocietàAutostrade Concessioni e Costruzioni Spa). Siamo nella situazione in cui dei beni publici,la rete autostradale nella fattispecie, sono gestiti da società “concessionarie”che ne raccolgono i profitti pagando in cambio un canone allo stato. Fino alla fine deagli anni ’90 del secoloscorso queste società rimarranno pubbliche, proprietà di enti locali oppure statali,come nel caso della Società Autostrade che appartiene all’IRI (Istituto per laRicostruzione Industriale). Il concorso finanziario per l’autostrada del Sole prevedevadue agenti: lo Stato (circa 36%) e dall’altra parte la Società Autostrade Spache avrebbe emesso obbligazioni trentennali garantite da ipoteca sui lavorieseguiti con le quali si copriva il resto delle spese.
L’ introduzionedel sistema delle concessioni nella realizzazione della rete autostradale e grandiinterventi pubblici in generale preoccupava fin dall’inizio il grande ingegneredei trasporti Guglielmo Zambrini (ordinario di Infrastrutture e Pianificazionedei Trasporti presso la scuola di Urbanistica dello Iuav). La dura critica di Zambrini alle concessioniviene ricondara da Barp e Vittadini nell’ introduzione di un libro cheraccoglie alcuni dei suoi scritti. «La critica stringente di Zambrini sullaquestione autostradale e sulle distorsione delle priorità che deriva dalmeccanismo della concessione ha fornito un contributo, ancor oggi moltoimportante di analisi tecnica e consapevolezza politica. In teoria leautostrade in concessione avrebbero dovuto ripagarsi almeno per circa ¾ con pedaggi e ¼ con denari pubblici a fondoperduto. Succedeva invece che i costi d’ investimento assai superiori alprevisto (o entrambe le cose) [l'assenza di domanda adeguata - ndr] rendesseroi pedaggi largamente insufficienti acoprire i costi»[4]. Essendosocietà pubbliche, lo stato elargiva generosamente risorse pubbliche alleconcessionarie insolventi sottraendole ad altri investimenti. «La garanziadello Stato, la mancata riforma e il successivo prolungamento sistematico delleconcessioni giustificheranno la caustica definizione delle concessionarie come‘società a irresponsabilità illimitata’ in »Autostrade all’attaccoprogrammazione alle corde” che raccoglie gli editoriali di “S&T! [Strade eTraffico – ndr] dei primi anni settanta»[5].
L’articolo di Casabellan. 496 del 1983 «Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti» rende benecome già allora Zambrini vedesse nelle grandi opere infrastrutturali latendenza ad essere inutili (buchi nei monti) , dispensiose oltre misura (buchinei conti) e a scapito di opere indispensabili come l’approvigionamento idrico(buchi nei tubi)[6].
Fase di sperimentazione
Un’ ulterioreelaborazione del modello della concessione avviene con il MoSE (Modulosperimentale elettromeccanico) spacciato per essere un sistema di alta tecnologiacapace di salvare Venezia. Con il Mosesi introduce il modello della ‘concessione unica’. Si rimanda all’eddytoriale174[7] perconoscere i dettagli dell’operazione, ma è opportuno ripercorrere due episodi.
Nel 1982, mentreil Comune di Venezia lavorava alacramente per affrontare il riequlibrio complessivodell’ecosistema lagunare, si costituisce il Consorzio Venezia Nuova (CVN).Quattro imprese, diversamente legate al mondo del cemento armato, ne fannoparte: Italstrade, Grandi Lavori Fincosit, Società italiana per Condotted'Acqua e Mazzi Impresa Generale di Costruzioni. Due anni dopo, mentre ilParlamento discuteva ancora sulle modalità con qui affrontare il problema dellasalvaguardia della Laguna, per decisione del ministro Franco Nicolazzi (governoCraxi) il Magistrato alle Acque di Venezia (Ministero dei Trasporti) affidatutte le opere e gli interventi necessari alla difesa della Laguna al ConsorzioVenezia Nuova.
La concessione unicaè un affidamento esclusivo e omnicomprensivo, che ha consentito a un solooperatore privato, il Consorzio Venezia Nuova, di disporre di tutte le risorseche lo Stato trasferiva per la salvaguardia di Venezia. Un consorzio che decideautonomamente la progettazione del sistema e le soluzioni tecnologiche dautilizzare. Rispetto alla concessione delle autostrade il concessionario ora éinteramente privato.
Il sistema Mose èstata una vera e propria sperimentazione in cui sono stati coinvolti, dirigentiregionali e ministeriali, finanzieri, centri di ricerca, università. Attraverso consulenze, collaudi, direzionelavori si sono co-optate moltissime persone, inclusi ricercatori e intellettuali,enti pubblici e privati. Attraverso incarichi e relativi compensi il Mose si ècomprato il consenso di un ampia fetta della società veneziana.
Con il Mose ilmodello non è ancora del tutto a punto e non sono ancora codificate le regoleper disciplinare i rapporti tra stato e impresa. Tanto è vero che perraggiungere gli obiettivi affaristici è ancora necessario ricorrere allostrumento della corruzione. Nel frattempo la magistratura reagisce e il 4 giugno2014 avvengono numerosi arresti per tangenti.
Due elementi, chediventeranno delle costanti delle grandi opere inutili, emergono con evidenzadall’operazione Mose:
lievitazionedei costi (dalla previsione iniziale di un costo pari a€1.600 milioni alconsuntivo al 2018 pari a €5.493)
prolungamentoall’infinito dei lavori (e ulteriore aumento dei costi)
sottrazionedi risorse per le grandi opere realmente necessarie.
La fase di collaudo
Il 7 agosto 1991veniva presentata in pompa magna l’Altavelocità ferroviaria, che prevedeva la realizzazione di sette nuove tratte(Milano-Bologna, Bologna-Firenze, Roma-Napoli, Torino-Milano, Milano-Verona,Verona-Venezia, Genova-Milano) dedicate al trasporto passeggeri. I contrattiiniziali prevedevano un costo complessivo pari a 14 miliardi dieuro e si prometteva la realizzazione in 7 anni.
A Paolo Cirino Pomicino va dato il “merito” di avere postoun’altra pietra miliare dell’architettura contrattuale delle grandi opere!
Le Ferrovie, attraverso la Tav Spa (una società delGruppo Ferrovie dello Stato fondata appositamente per la pianificazione e laprogettazione della Tav) danno incaricodi costruire le line ferroviarie a un general contractor, che poi appalterà ilavori a terzi (consorzi e aziende), che si spartiranno le commesse senza veregare d’appalto. Il general contractor, privato, non ha alcuna responsabilitànella gestione finanziaria: non mette soldi, non gestirà l'opera, non rischiasul rapporto costi-guadagni. In meritoalla Tav ricordiamo due favole:
1. Si giustificaval’affidamento a un general contractor della Tav per dimezzare i tempi direalizzazione. In realtà tutte le tratte hanno subito ritardi; per esempio latratta Tav Bologna-Firenze ha più che raddoppiato i tempi e quadruplicato icosti!
2. Con l’affidamentoa un general contractor privato si voleva fa credere che il sistema Tavitaliano fosse frutto di investimenti pubblici e privati, ma di investimentoprivato non c’è mai stata l’ ombra perchè l’unico azionista è lo stato[8].
Al “collaudo” ilmodello non passa: criticato dall’Antitrust il ministro Bersani azzera icontratti, elimina questo strumento e torna alle gare per i lavori ancora nonavviati. Ma la sosta del sistema affaristico dura poco: arrivano i governiBerlusconi che codificheranno il metodo, legalizzandolo e rendendolopraticamente infallibile.
La fase di codifica: tre leggi
Nel 2001 siapprova la Legge Obiettivo n.443/2001 per le cosiddette grandi operestrategiche volute da Berlusconi, con la quale si perfeziona il general contractor. Nel mondoanglosassone il general contractor (persona fisica o società giuridica) siassume la responsabilità integrale in merito alla realizzazione di un’opera,avvalendosi sia di competenze interne, sia di subappaltatori specializzatireperibili sul mercato e si accolla ilrischio del lavoro.
Il general contractor all’italiana invece può facilmente ricorrerealle varianti (relative a costi e tempi) per mantenere in positivo il suomargine o per aumentarlo, non si assume rischi e ha interesse a dilatare tempie andare avanti all’infinito.
Rispetto almodello concessionario originario il modello successivo con il generalcontractor agisce in regime privatistico e potrà affidare i lavori a chi vorrà,anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia sarà difficilmenteperseguibile per corruzione: le eventuali tangenti diventano soltantoprovvigioni!. L’allora dirigente del Ministero delle Infrastrutture ErcoleIncalza condiziona così i lavori pubblici di autostrade, porti e alta velocitàper 25 miliardi di euro e la ditta di Ingegneria SPM (Stefano Perotti) siassicura sempre una fetta significativa dei fondi, che a forza di variantifanno lievitare i costi spropositatamente.
Nella sua «Indagine relativa agli interventi gestiti da TAV S.p.A.», l’Autorità per laVigilanza sui Contratti Pubblici attestava che questi risultano caratterizzatida “gravi infrazioni ai principi della libera concorrenza e della nondiscriminazione” e che “hanno subìto, in corso di esecuzione, notevoliincrementi di costo e del tempo di realizzazione[9].
Nel frattempovengono trasformate anche quelle operazioni di vecchia data, infatti nel 1999,la stessa Società Autostrade viene privatizzata e subentra all’IRI
un nucleo stabiledi azionisti costituito da una cordata guidata da Edizione (controllata dallafamiglia Benetton). La società, che dal 2007 si chiama Atlantia Spa controllaoltre 3.000 chilometri di autostrade italiane.
Nel 2002 siapprova anche la Legge Salva-deficit n.112/15 giugno 2002 – detta anche LeggeTremonti. Una normativa prettamente economica che istituisce dal nulla,rispettivamente agli articoli 7 e 8, due società di capitale pubblico ma didiritto privato: la “Patrimonio dello Stato Spa” e la “Infrastrutture Spa”.
La “PatrimonioSpa” ha la funzione di «valorizzare, gestire e alienare il patrimonio delloStato», nonché di finanziare la “Infrastrutture Spa”. Quest’ultima è una società pubblico-privato,inizialmente partecipata solo dal Ministero dell’Economia e istituita dallaCassa Depositi e Prestiti che – con il beneplacito del ministro – può cedere almercato proprie azioni fino al 50 per cento. La Infrastrutture Spa adempiendoalle sue funzioni di finanziamento e garanzia delle grandi opere può aumentarela sua capacità di indebitamento tramite la svendita o l’emissione di titoli subeni di fondamentale valore culturale e paesaggistico. Cioè questi benientrando a far parte del patrimonio di una società a maggioranza privata, sonoesposti ad eventuali procedure fallimentari nel caso di insolvenza dellasocietà medesima. Il rischio è che ci pagheremo le grandi opere Inutili con ilnostro patrimonio pubblico ambientale, culturale e artistico.
Con la leggedelega sulle infrastrutture n.166/2002, (idea di Pietro Lunardi) si stravolgela precedente legge Merloni sui lavori pubblici e il project financing risalential 1994.
Il project financing è una complessa operazione economico-finanziaria rivolta ad uninvestimento specifico per la realizzazione di un’opera e/o la gestione di unservizio, che presuppone il coinvolgimento di soggetti e finanziatori privati.
Nelle proclamateintenzioni il finanziamento dell'iniziativa è basato soprattutto sulla validitàeconomica e finanziaria del progetto che deve essere potenzialmente in grado digenerare flussi di cassa positivi, sufficienti a ripagare i prestiti ottenutiper il finanziamento del progetto stesso e a garantire un'adeguataremunerazione del capitale investito, che deve essere coerente con il grado dirischio implicito nel progetto stesso.
Uno degli esempi di project financing all’italiana è laPedemontana Veneta, un infrastruttura stradale che nasce come superstrada apedaggio[10] [9].Ricordiamo qui solo alcuni passaggi della vicenda assai complicata di questaopera che subordina gli interessi sociali, economici edambientali della collettività alle logiche affaristiche. Nel 1995, nel contesto di un drastico taglio dellaspesa pubblica il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre direalizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per loStato”. La proposta sembra allettante. ANAS, senza aspettare alcuna valutazionepreventiva, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivodell’autostrada, che viene vinto nel gennaio del 2000 dalla società diprogettazione Bonifica Spa. Per comprendere la mossa apparentemente azzardatadella Autostrada A4 Serenissima e dell’ANAS bisogna sapere che nelle leggifinanziarie di fine anni ’90 si stanziavano denari per la realizzazione dellaPedemontana, sebbene questa si sarebbe dovuta costruire “senza oneri per loStato”. Dal 2001, la Pedemontana è una delle opere presenti nella leggeobiettivo e oggetto di trasferimento dicompetenza alla regione. Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa presentail progetto di project financing. A 10 anni dall’approvazione, l’avanzamentodell’infrastruttura pone grossi problemi: viene meno completamente il rischiodel concessionario e si presentano problemi ambientali e idraulici notevoli, checontinuano a far lievitare i costi. La pedemontana è emblematica di comenelle grandi opere le mancanze progettuali e gli errori del concessionario sonoa spese dello stato.
Conclusioni
Con l’uso diquesti nuovi istituti contrattuali, tra cui la concessione e il generalcontractor, si è costruita una macchina infernale che trasferisce soldipubblici ai privati attraverso la creazione di grandi opere inutili e dannose.
Le grandi operenon sono ideate e fortemente volute dai governi perché soddisfano rilevantibisogni sociali. La Tav, la Pedemontana Veneta, il Mose hanno dimostrato in tuttiquesti anni di denuncie, critiche e puntuali analisi scientifiche di non essereprogetti indispensabili per il miglior funzionamento del paese. Altre opere, apartire dalla manutenzione della rete ferroviaria esistente, sarebbero statepiù necessarie. Il confronto tra i benefici che una data opera porta a unacomunità e i costi, compresi quelli ambientali, che essa deve sopportare hadimostrato che queste opere non si sarebbero dovute fare.
Si continuano aportare avanti perché servono a chi le costruisce. Le imprese, le ditte, iconsulenti, gli studi di progettazione ottengono lavori lautamente remunerati. Siccome i rischi e i finanziamenti sonopubblici, ovvero a carico dei contribuenti, i concessionari hanno interesse adilatare i tempi, aumentare le opera da realizzare, fare errori che comportanoulteriori variazioni ai progetti, creare problemi, anche ambientali, producendocosì altre occasioni di affari.
Queste opere offrono opportunità straordinarie anche a queisoggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza diriciclare capitali di provenienza illecita. La filiera dei subappalti siallunga e rende più difficile il contrasto alla mafia e alla corruzione,perché le misure elaborate per combattere gli illeciti erano state concepiteper un sistema degli appalti ormai completamente sostituito dal meccanismocriminoso che si è appena descritto.
Questo immane impiego di risorse per opere sbagliate eliminala possibilità di investire risorse e lavoro in interventi necessari nei campidella difesa del suolo, della salute, della formazione e via dicendo, cioè inopera socialmente utili.
Di fronte alle critiche e analisi che comprovano l’inutilitàdelle grandi opere in atto ritorna una propaganda vecchia e bieca, che misuralo sviluppo in termini di infrastrutture fisiche. Una propaganda che ricorreanche all’alibi dei posti di lavoro che si perderebbero con l’annullamentodell’opera. Ma come detto poc’anzi non si tratta di perdere lavoro – tral’altro basato sullo sfruttamento,sul nero, sul precario – ma ri-indirizzarlo verso impieghi socialmente eambientalmente utili.

Note


[1] IvanCiccone, Alta Velocità: grandi opere e capitalismo, in «Il granello di sabbia»,n.11 aprile 2014, raggiungibile su eddyburg.
[2]ibidem.
[3] Ibidem.
[4] A. Barp, M. R.Vittadini «Introduzione» in Guglielmo Zambrini «Questioni ditrasporti e di infrastrutture. Teorie, concetti e ragionamenti per una buonapolitica dei trasporti», Marsiglio, 2011.
[5]Ibidem.
[6] SullaTav si legga l’articolo di Anna Donati e Maria Rosa Vittadini “Ancora sullaTorino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti” consultabile su eddyburg.
[8] Persapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l'articolo diAttilio Giordano (2006) "Chesiate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga" nelquale si chiarisce che c'è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà ilrisultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento).
[9] Sugli alti costi della Tav, gonfiati daicosti di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga "Treni etangenti, quanto ci costa l'alta velocità" (2015) diGloria Riva e Michele Sasso.
[10] Sulla pedemontana Veneta si leggal’articolo di Maria Rosa Vittadini «La Pedemontana veneta: un caso da cui trarreinsegnamento», consultabile su eddyburg.
Questo articolo é il completamento e lo sviluppodi una relazione tenuta a Firenze il 14 marzo, giornata di studio dedicata a«Decisori o impostori. Decostruire il modello decisionale» nell’ambito delciclo di conferenze su «La favola delle Grandi Opere» organizzato da PerunAltraCittà di Firenze.

Tra le grandi opere inutili e dannose gli aeroporti occupano un posto particolare per il loro devastante impatto ecologico e sociale. Firenze è un esempio eclatante. Un introduzione al problema generale e le ragioni del no dei comitati toscani in manifestazione il 30 marzo.

Gli aeroporti sono, nella stragrande maggioranza dei casi, delle gradi opere inutili e dannose. Esiste oramai un ampia letteratura riguardante l'espansione degli aeroporti, che sta avvenendo in tutto il mondo. Da una parte i governi favoriscono la costruzione di nuovi aeroporti o l'allargamento di quelli esistenti perché queste infrastrutture sono viste come strumenti economici per collegare il paese ad altre parti del mondo e quindi come mezzo per far parte dell'economia globale. Dall'altra un numero crescente di abitanti si oppone a questi interventi perché queste gigantesche opere hanno un devastante impatto in termini di emissioni, inquinamento, consumo di suolo e trasformazioni territoriali che in molti casi implicano anche espulsioni di comunità intere.
Una parte della letteratura scientifica a sostegno dell'opposizione a queste infrastrutture si concentra proprio sull'impatto dell'inquinamento (dal rumore alla qualità dell'aria) e sulle ripercussioni dell'aviazione sulle emissioni di biossido di carbonio e quindi dell'impatto negativo di questo mezzo di trasporto sui cambiamenti climatici.
Il conflitto tra l'aviazione, come strumento di espansione economica, e la necessità di proteggere l'ambiente naturale e sociale dal deleterio impatto dell'inquinamento, delle emissioni e delle distruzioni di abitazioni, edifici storici, comunità e villaggi locali, sembra diventare un elemento caratterizzante delle principali città industrializzate. Gli esempi degli aeroporti di Roissy-Charles de Gaulle, Nantes, Frankfurt, Narita, e Shiphol sono forse i più noti in Europa. Gli aeroporti sono gigantesche e costosissime opere che richiedono ampie superfici, complesse infrastrutture che si espandono molto al di là degli edifici e dei servizi strettamente legati al trasporto aereo, sia all'interno che all'esterno degli aeroporti. Pensiamo alla quantità di spazio destinata ai negozi dentro gli aeroporti; all'infrastruttura stradale e ferroviaria che viene ampliata per collegare l'aeroporto; al commercio, logistica e terziario in generale che viene sviluppato nell'intorno degli aeroporti per rendere economicamente sostenibile l'investimento. Gli aeroporti diventano città dentro le città.
L'ampliamento dell'aeroporto di Heathrow e quello di Manchester in Inghilterra hanno sollevato moltissime obiezioni di cittadini e stimolato anche importanti studi scientifici per articolare il dibattito e gestire il conflitto. Non ci sono dubbi né sull'inquinamento acustico, il primo problema che di solito mobilita i cittadini, né l'inquinamento atmosferico; Hume e Watson (The human health impacts of aviation in Upham, P, Maughan, J, Raper, D, Thomas, C. Towards Sustainable Aviation, Earthscan Publications, 2003) spiegano che i principali inquinanti che si presentano sono il biossido di azoto, il particolato e i composti organici atmosferici che includono benzene, idrocarburi poliaromatici, cherosene, gasolio e glicole etilenico e che gli esami sanitari delle popolazioni esposte alle emissioni degli aerei dovrebbero essere condotte in maniera sistematica e paragonate a quelle delle popolazioni non esposte. Dai primi anni 2000, si è affiancato un ulteriore motivo che rende l'espansione degli aeroporti controproducente. L'Associazione Internazionale per il Trasporto Aereo informa che gli aerei sono responsabili per il 2% delle emissioni di biossido di carbonio prodotte dall'uomo nel 2017, anche se alcuni scienziati sostengono che è più alta. E' vero che auto, centrali elettriche e fabbriche fanno più danni. Ma il contributo dell'aviazione ai cambiamenti climatici diventa più grande di anno in anno. Per due motivi: primo, perché i viaggi aerei stanno crescendo a un ritmo sorprendente; secondo perché l'aviazione non sta facendo nessun progresso per ridurre le emissioni: la possibilità di avere aerei elettrici è ben lontana da venire. Quindi la dipendenza dal petrolio è assicurata!
Il caso dell'aeroporto di Firenze: per comprendere le principali ragioni che rendono illegittimo e non vantaggioso (se non per Toscana Aeroporti!) il nuovo aeroporto si legga «L'aeroporto di Firenze e il mito dello sviluppo» di Paolo Baldeschi. Dello stesso autore si legga «Oscure manovre attorno all’aeroporto di Firenze», sulla Commissione tecnica Via ha “approvato” il progetto del nuovo aeroporto di Firenze con 142 prescrizioni cui i proponenti Enac e Toscana Aeroporti dovrebbero ottemperare e «Il nuovo aeroporto di Firenze e il sistema di aggiramento delle regole». Articoli che spiegano come le autorità competenti stanno aggirando gli strumenti che dovrebbero garantire democrazia nei processi delle decisioni. Rimandiamo al sito di per un altra città per ulteriori articoli.
Infine riportiamo qui il comunicato dei comitati, movimenti e sindaci che manifesteranno il 30 marzo contro l'aeroporto per la difesa della Piana e della salute degli abitanti di Firenze, Prato e Pistoia. (i.b.)

Basta nocività! NO al nuovo aeroporto di Firenze – SI’ al Parco Agricolo della Piana per tutte/i!

Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze altera in modo irreversibile l’equilibrio dell'ecosistema della Piana e minaccia la salute di tutte le popolazioni da Firenze a Prato a Pistoia.

È incompatibile con il Parco Agricolo della Piana, con le attività del Polo Scientifico di Sesto Fiorentino e della Scuola Marescialli. In un territorio già saturo di funzioni urbanistiche e di fonti inquinanti, non c'è più lo spazio per realizzare in sicurezza una struttura aeroportuale da 5 milioni di passeggeri/anno con il suo pesante impatto sull'ambiente (emissioni, rumori, polveri, rischio idrogeologico e consumo di altri 380 ettari di suolo).

La truffa delle "compensazioni ambientali" imposte dalla nuova pista non è accettabile: la deviazione dei fossi, la cancellazione delle zone umide aumentano il rischio idraulico. Lo spostamento del Lago di Peretola a Signa è stato scambiato con la nuova viabilità dalle Signe a Indicatore, un intervento necessario atteso dalle popolazioni da 50 anni e ancora tutto da realizzare.

Denunciamo l'imbroglio sull'occupazione, con la fumosa promessa di nuovi posti di lavoro, mentre già da tempo negli aeroporti della Toscana assistiamo alla riduzione ed alla precarizzazione del lavoro.

Rendere compatibili gli aeroporti con le popolazioni, e non viceversa!

L'attuale scalo di Peretola, cresciuto senza controlli ed autorizzazioni ambientali oltre i 2,5 milioni di passeggeri/anno, da troppo tempo non è più sostenibile dagli abitanti di Brozzi, Quaracchi, Piagge e Peretola. Chi per decenni ha ignorato questo disagio (vedi non attuazione delle stesse prescrizioni 2003), tenta ora di strumentalizzarlo per imporre la nuova pista. Per questo chiediamo un piano di drastica riduzione del traffico aereo, la tutela dell'occupazione ed il reimpiego dei lavoratori, collegamenti ferroviari efficienti con gli aeroporti vicini, nel rispetto delle caratteristiche e dei limiti di queste strutture.

Il Parco della Piana rappresenta uno strumento irrinunciabile per dare un futuro al nostro territorio e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni: salvaguardia delle aree verdi, umide e archeologiche, nuova agricoltura di filiera corta, tutela della salute, basta cementificazione, strategia rifiuti zero e stop incenerimento rifiuti, creazione di lavoro stabile e sicuro, mobilità sostenibile basata sul trasporto pubblico e sulla riduzione del traffico privato, diritti e servizi sociali per tutti e tutte senza discriminazioni.

La partecipazione diretta degli abitanti, dei Comitati e dei Sindaci contrari all'opera è essenziale per battere i potenti interessi economici e politici che sostengono il nuovo aeroporto (Toscana Aeroporti spa, Confindustria, Camera di Commercio, Rossi, Nardella, Governo e ENAC). La vicenda dell'inceneritore di Firenze-Case Passerini ci dimostra che la tenacia popolare, i ricorsi di Sindaci e Comitati possono vincere anche dopo il via libera della Conferenza dei Servizi.

Abbiamo il diritto di decidere del nostro futuro, attivando un reale processo partecipativo. L'uso delle risorse basato sul profitto e non su finalità sociali sta distruggendo la biodiversità, il clima ed il pianeta: alla logica del breve periodo che comanda gli affari e la mercificazione turistica di Firenze contrapponiamo una visione lungimirante che conservi i beni comuni per oggi e per le generazioni future.

La Piana non si arrende al potere del denaro! Riprendiamoci salute, lavoro e territorio.

Manifestazione No Aeroporto!
Ritrovo ore 14,30 Polo Scientifico di Sesto Fiorentino.
Sono stati invitati a partecipare i sindaci che si sono espressi contro l'Aeroporto anche con ricorso al TAR:.
-Sindaco di Sesto Fiorentino: Lorenzo Falchi
-Sindaco di Carmignano: Edoardo Prestanti
-Sindaco di Calenzano : Alessio Biagioli
-Sindaco di Poggio a Caiano : Francesco Puggelli
-Sindaco di Campi Bisenzio: Emiliano Fossi
-Sindaco di Prato: Matteo Biffoni

Promossa da Movimenti, Comitati e Associazioni per la tutela della Piana Firenze – Prato - Pistoia.

Per aderire e partecipare, ulteriori info e percorso > Evento Facebook "Manifestazione No Aeroporto Si Parco!"

Una gigantesca infrastruttura, sia fisica che economica, proposta dalla Cina per avvicinare i mercati euroasiatici, sta diventando sempre più concreta. L'Italia vi partecipa già con 2,5 miliardi di euro. (segue) (a.b.)

Una gigantesca infrastruttura, sia fisica che economica, proposta dalla Cina per avvicinare i mercati euroasiatici, sta diventando sempre più concreta. L'Italia vi partecipa già con 2,5 miliardi di euro. Il progetto include una fittissima rete di comunicazioni che si tradurranno in porti, stazioni, superstrade che sventreranno mari, valli e montagne da Pechino ad Amburgo. Su queste vie si prevedono nuove città e piattaforme logistiche. Una follia urbanocentrica che acquista dimensioni planetarie e planetarie saranno le conseguenze ambientali e sociali e politiche.Qui un breve video e alcuni dettagli sul progetto. (a.b.)

inarchpiemonte.it, 18 febbraio 2019. Dieci domande che un cittadino probabilmente si pone e che non trovano risposta nei principali media e le risposte, che dimostrano l'inattendibilità e controsenso di chi ancora sostiene quest'opera. (i.b.)
L'articolo è raggiungibile a questo link. Su eddyburg sono disponibili molti interventi che analizzano le contraddizioni, i trucchi e le bugie dette per giustificare la costruzione della TAV. Qui una rassegna bibliografica. (i.b.)

Sbilanciamoci.info, 6 marzo 2019. Non ad ogni costo, non per pregiudizio o ideologia, non solo per la ferrovia Torino-Lione. Si deve e si può decidere con giudizio, come spiega Maria Rosa Vittadini. (m.b.)

Su eddyburg sono disponibili molti interventi che illustrano le storture del progetto TAV e le ragioni di un dissenso motivato. Qui una rassegna bibliografica curata da Ilaria Boniburini e l'articolo
«Ancora sulla Torino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti» di Vittadini e Donati contenete un'analisi della Tav nel contesto delle politiche nazionali dei trasporti con proposte su come affrontare trasporti e infrastrutture per non continuare a mettere in campo grandi opere inutili. (m.b.)

L’analisi costi-benefici (ABC) del nuovo collegamento ferroviario Torino Lione è difficile da leggere, solleva dubbi che non trovano risposta, e porta a risultati apparentemente paradossali. Di primo acchito suggerisce infatti ai lettori non esperti di ABC che più la linea ferroviaria sottrarrà traffico alla strada più i costi saranno superiori ai benefici: dunque meglio non realizzare mai nessuna ferrovia. Anche dal punto di vista di chi ha sempre nutrito profondi dubbi sulla utilità della nuova linea, queste paradossali conclusioni appaiono inaccettabili, richiedono un adeguato approfondimento tecnico e adeguate risposte politiche.
D’altra parte c’è da restar stupefatti per l’atteggiamento pro TAV “senza se e senza ma” di larga parte del mondo imprenditoriale, anche al di là degli ovvi interessi delle imprese coinvolte. Quale imprenditore nella gestione della sua azienda si imbarcherebbe in investimenti che invece di migliorare i bilanci fanno buttare soldi dalla finestra? Da troppo tempo lo spreco di denaro pubblico nel nostro Paese è piuttosto una regola che una eccezione. Ma proprio per combattere questa stortura serve l’analisi costi-benefici. Le scomposte reazioni in atto sono un buon indicatore sia della strumentalizzazione puramente politica della questione TAV sia di quanto sia amara la medicina per curare il consueto andazzo di spreco.
Invece capire che cosa l’ABC realmente dice, rendere chiari i suoi limiti, contestare a ragion veduta gli aspetti contestabili è l’unica condizione capace di fare in modo che essa possa svolgere il suo compito, che è quello di aiutare il decisore politico ad assumere buone decisioni e i cittadini a capire, al di là delle esternazioni strumentali, di cosa realmente si tratta. In tanta confusione il rischio evidente è che tutto il lavoro fatto venga sveltamente buttato via, sepolto per il prevalere di posizioni ideologiche e irresponsabili, tipo quelle che si richiamano alla firma di accordi pregressi. Come se quella firma non fosse responsabilità precisa dei promotori e di precisi governi passati che dovrebbero trovare anche nell’ABC il significato della loro responsabilità.
Oggi, per evidenti interessi elettorali, sembra che la decisione debba essere rimandata a dopo le elezioni europee. Non tutto il male vien per nuocere. Il tempo così disponibile potrebbe permettere di fare della discussione pubblica sull’ABC, i suoi limiti metodologici, le sue assunzioni un contributo realmente democratico alla decisione. Nel caso specifico della Torino-Lione più democratico di qualunque referendum, che allargando il perimetro della consultazione indebolisce il livello di informazione sui problemi e marginalizza le ragioni di vita delle collettività locali interessate a favore delle ragioni di mercato di collettività che usufruiscono solo dei vantaggi.
La discussione pubblica è il migliore strumento per dare adeguate risposte alle domande e per chiarire gli aspetti controversi. Non solo e non tanto ad uso degli addetti ai lavori, ma per mettere i cittadini, e probabilmente anche molti politici, in grado di capire e il Governo in grado di assumere una decisione appropriata all’importanza della questione. Senza voler entrare nel già ben confuso dibattito metodologico, alcune questioni appaiono assolutamente dirimenti.

Questione prima: l’inclusione tra i costi delle minori accise sui carburanti incassate dallo Stato e dei minori pedaggi incassati dai concessionari autostradali
E’ una delle questioni sollevate più di frequente dai critici del lavoro presentato al Ministro Toninelli. E’ vero che l’ABC dovrebbe misurare i guadagni e le perdite per tutti i soggetti coinvolti, dunque anche per lo Stato e per i concessionari. Ma l’inclusione nelle perdite di queste componenti si presta a più di una contestazione e i manuali di ABC forniscono in proposito indicazioni non univoche. In ogni caso la raccolta di accise deriva dalla politica fiscale e come tale può essere opportunamente modificata, mentre le perdite dei concessionari autostradali possono essere considerate un irrilevante effetto collaterale ai fini del benessere della società. Beninteso in una concezione del benessere diversa da quella, esclusivamente economica. misurata dall’ABC. Un benessere da misurare affiancando all’ABC opportune analisi multi-criteri, capaci di dar conto del raggiungimento di obiettivi non solo di carattere trasportistico, ma relativi alla qualità della vita, alle condizioni dell’economia o e alla capacità della distribuzione dei costi e dei benefici di collaborare all’aumento della coesione sociale. Dunque un insieme di metodi di valutazione, comprese le valutazioni dell’impatto ambientale delle opere e del loro processo di realizzazione, di cui l’ABC non dà minimamente conto. In ogni caso i numeri forniti dall’ABC non sembrano lasciare dubbi: con o senza accise e pedaggi i costi superano i benefici e il motivo principale sta nella modesta quantità di traffico ferroviario prevedibile.

Questione seconda: le possibili alternative
La stima di tale traffico è condotta attraverso una convincente critica delle precedenti stime del traffico stradale e del traffico ferroviario e il confronto tra quelle stime e l’andamento reale dei traffici a partire dal 2000. La sovrastima del traffico futuro è praticamente una costante nei progetti infrastrutturali, ma nel caso della Torino-Lione il lungo tempo trascorso ha permesso di verificare l’andamento reale dei traffici. Un andamento così inferiore alle previsioni iniziali da lasciar ben poco spazio a prospettive più rosee.
In questa situazione di oggettiva debolezza dei flussi di traffico correva l’obbligo che l’ABC confrontasse i costi e i benefici delle tre alternative possibili: l’alternativa 0, l’alternativa TAV e l’alternativa costituita dal miglioramento della linea esistente. Una linea che FS e SNCF nel 2002 ritenevano in grado di portare circa 22 milioni di tonn/anno: ovvero più o meno lo stesso traffico ferroviario previsto dal progetto TAV al 2050. Certo anche migliorata la linea esistente avrebbe prestazioni più basse di quelle previste in sede comunitaria per le nuove linee. Ma comunque, tariffando e regolamentando opportunamente traffico stradale e traffico ferroviario, un uso accorto delle linea vecchia consentirebbe di spostare traffico dalla strada alla ferrovia e di indicare, attraverso i reali ritmi di crescita, se e quando una nuova linea dovesse divenire necessaria. E’ appena il caso di ricordare che il traffico di transito svizzero si svolgeva per il 70% per ferrovia anche quando i valichi del Lötschberg e del S.Gottardo avevano prestazioni non tanto diverse da quelle dell’attuale linea Torino Lione.

Questione terza: il problema della rete
Non è ben chiaro quale sia il “perimetro” del progetto valutato nell’ABC: se si valuta la tratta internazionale, se si valuta la tratta internazionale più le due tratte nazionali, se si valuta la tratta internazionale più la sola tratta nazionale italiana.
In ogni caso trattandosi del miglioramento delle prestazioni di un breve tratto si pone il problema delle caratteristiche delle tratte a monte e a valle dell’intervento e il problema della rete che l’intervento dovrebbe potenziare. Infatti che senso ha spendere ingenti risorse per spingere al massimo le prestazioni di un breve tratto se poi gli itinerari che dovrebbero sostenere i nuovi traffici hanno prestazioni nettamente inferiori? Non sanno (o fingono di non sapere), gli incauti politici che si stanno spendendo pro-Tav, che Slovenia e gli altri paesi dell’est fino a Kiev hanno esplicitamente dichiarato la loro indisponibilità ad investire per l’AV? Una delle ragioni di debolezza estrema del progetto Torino-Lione sta proprio nell’assenza di un disegno di rete che ne giustifichi il senso strategico.
Manca drammaticamente, in altre parole, un Piano nazionale dei trasporti, come quelle promesso (ma neppure iniziato) dal ministro Delrio. Un piano capace di definire, anche attraverso valutazioni economiche, le opere prioritarie perché più utili di altre alla qualità della vita dei cittadini e alle esigenze delle imprese produttive. E’ molto probabile che in questo quadro strategico la Torino Lione non si collochi affatto tra le priorità. Per restare nel campo ferroviario per le merci vengono probabilmente prima il potenziamento delle linee di valico verso nord o gli interventi per portare l’Adriatica e la Tirrenica almeno ad un livello di decenza. Oppure. per l’ampiezza della ricaduta sul benessere dei cittadini, vengono prima i servizi ferroviari nelle aree metropolitane, su cui siamo abissalmente in ritardo rispetto ad altri paesi europei
La ripresa della programmazione in fatto di infrastrutture e l’avvio di un vero Piano nazionale dei trasporti, costruito attraverso l’ascolto e la partecipazione attiva delle Regioni e delle collettività interessate, rappresenta la via maestra per dar senso alle cose e per uscire da situazioni di impasse come quella che oggi interessa la Torino Lione. Una situazione conflittuale destinata a ripresentarsi puntuale per tutti i grandi progetti in campo, sistematicamente sganciati da ogni logica di sistema. La discussione pubblica sull’ABC potrebbe consapevolmente divenire il primo passo per l’avvio di un tale nuovo Piano dei trasporti: una concreta prova della serietà del Governo e un evidente vantaggio per il futuro del Paese.

Un analisi della TAV, delle politiche nazionali dei trasporti, delle posizioni comunitarie e il paragone con la Svizzera. Infine considerazioni su come affrontare trasporti e infrastrutture per non continuare a mettere in campo grandi opere inutili. (i.b.)

Nel 1983, scrivendo su Casabella, Guglielmo Zambrini intitolava Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti un suo famoso articolo in cui commentava lo stretto legame tra le politiche di rilancio di grandi infrastrutture (allora autostradali) e la formazione dell’ ”altro disavanzo”, incorporato nel patrimonio nazionale naturale e costruito. Un disavanzo sommerso, fatto di abusivismo, mancanza di manutenzione, ammaloramento degli acquedotti, distruzione di risorse agricole: un quadro non tanto diverso da quello attuale.

Se questo è lo sfondo, queste note nascono dal desiderio di riprendere le fila sulla questione TAV alla luce del dibattito attuale e delle trasformazioni che hanno segnato i trent’anni che ormai ci separano dall’inizio della vicenda, intorno al 1990. Le osservazioni che seguono a proposito della TAV derivano principalmente da documenti ufficiali: un primo luogo i recentissimi Verifica del modello di esercizio (2017) e Quaderno n. 11 dell’Osservatorio (2018). Ma derivano anche dalla considerazione, per quanto possibile oggettiva, delle politiche nazionali in materia di trasporti, delle posizioni comunitarie e dell’esperienza di altri paesi, come la Svizzera o l’Austria e la Germania che hanno intrapreso una concreta politica ferroviaria molto prima e molto più efficacemente dell’Italia.

Tutti questi documenti, e in particolare quelli specificamente dedicati alla TAV elaborati dall’Osservatorio, contengono una ampia raccolta di numeri sulle dinamiche del traffico merci attraverso le Alpi (rilevazioni, fonti statistiche diverse puntualmente indicate, ecc). Se la serietà della raccolta non è in discussione merita invece di essere discussa l’interpretazione che ne viene data. La tesi di fondo dei documenti TAV, semplificando molto, suona pressappoco così: negli anni 2000 gli oppositori alla nuova linea potevano avere qualche ragione; oggi, vent’anni dopo, alla luce della crescita del traffico merci, dell’innovazione tecnologica e del consolidamento delle politiche europee a favore della ferrovia, la Torino-Lione è l’indispensabile tassello di una nuova grande rete europea capace di reggere con successo la concorrenza del trasporto stradale. Con tutti i vantaggi ambientali, sociali ed economici che ne derivano.

Sarebbe bello condividere una tale tesi ed entusiasmarsi per le novità politiche e tecniche che essa sottende. Ma una più attenta lettura dell’opera e del suo contesto mette in luce il peso delle molte incongruenze e delle molte questioni non risolte, compresa la ben collaudata (e mai smentita) subordinazione della politica nazionale dei trasporti ad interessi stradali e autostradali oggettivamente contrari a questa prospettiva. Tutti fattori che, allo stato delle cose, portano a considerare marginale la realizzazione dell’opera ai fini dell’obiettivo dichiarato e altissima la probabilità che l’ingente impegno di risorse e il danno ai territori interessati si risolva nell’ennesimo episodio di cattiva politica e dilapidazione di risorse pubbliche. A meno di un cambio profondissimo nella politica nazionale dei trasporti, di cui oggi non si vedono le condizioni.

La linea Torino Lione: lo stato delle cose

Il Quaderno n. 11 dell’Osservatorio fornisce un quadro drammatico della linea esistente e del suo funzionamento. Non solo il traffico non ha cessato di diminuire nel tempo, ma sono diminuiti prestazioni e tempi di percorrenza. Oggi la capacità della linea per le merci è stimata essere di 38 treni merci/giorno. E comunque neppure tutti tali treni vengono in realtà effettuati, così che la linea porta, con non pochi problemi di costo e di sicurezza, circa 3 milioni di tonn/anno: una quantità ridicola.

Per quelli che hanno seguito la vicenda dal suo inizio questa descrizione solleva un mix di stupore e di indignazione. Nel 2000, sotto la spinta del conflitto territoriale e sociale ormai evidente, le due compagnie ferroviarie (SNCF e FS) avevano prodotto un rilevante studio tecnico di “modernizzazione” della linea, con il quale dimostravano che attraverso fattibili modifiche di sagoma, il potenziamento dell’alimentazione elettrica, miglioramenti del segnalamento, l’adozione di motrici bicorrente, e altre misure tecniche e organizzative la linea era in grado di portare 150 treni merci/giorno pari a 20-21 milioni di tonn/anno. Ovvero il doppio del traffico di merci registrato in quegli anni, pari a poco meno di 10 milioni di tonn/anno. Certo non ad alta velocità, ma comunque a velocità più che accettabili se solo si considera che la velocità media dei treni merci si aggirava allora intorno ai 16 km/h. Proprio da quello studio “ufficiale” nasceva la ragionevole posizione del Governo italiano: la nuova linea si farà “quando la linea esistente mostrerà segni di saturazione”. Che, detto in altre parole, significava: “quando una profonda riforma della politica italiana dei trasporti a favore del riequilibrio modale comincerà a dare i suoi frutti e a dimostrare la necessità dell’opera”.

Ma quando si tratta di spesa pubblica la ragionevolezza non è di casa. Delle riforme necessarie ad una politica di riequilibrio modale nel trasporto merci non c’è traccia. Mentre proseguiva con terze corsie e nuove tratte, spesso sovvenzionate con risorse pubbliche, l’aumento della capacità autostradale, gli investimenti sulla ferrovia, concentrati esclusivamente sull’alta velocità per i passeggeri, confinavano le merci sulle linee storiche, in una difficile convivenza con i servizi per i pendolari e con i problemi ambientali degli attraversamenti urbani. In questo quadro invece di tendere ai 20 milioni di tonn/anno, gli interventi sulla linea esistente, disomogenei tra la parte italiana e la parte francese, discontinui e incerti nel tempo e nei risultati, hanno prodotto il paradossale risultato di ridurre il traffico ai 3 milioni di tonn/anno prima ricordati. Togliere di mezzo l’unica concreta possibile alternativa è stato certo un bel regalo ai promotori della linea nuova. Anche senza dietrologia varrebbe la pena di inviare la storia degli interventi di “miglioramento” della linea esistente alla Corte dei Conti e alla Magistratura.

Senza dimenticare che l’autostrada del Frejus tra Torino e la Francia, che attraversa la Val di Susa, è stata oggetto di un potenziamento: nato e progettato come una galleria di servizio per aumentare la sicurezza in caso di incidente, si è poi trasformato nel 2012, con specifica autorizzazione della Commissione Intergovernativa Italia-Francia, in una seconda canna dedicata alla circolazione dei veicoli. In questo modo si è trasformato in un incremento reale di capacità di transito per l’autotrasporto e i veicoli passeggeri, senza che nessun contingentamento sia stato deciso per i TIR o sia stata introdotta una tassa di transito modello svizzero per contenere il trasporto su strada, come richiederebbe anche la Convenzione di protezione delle Alpi recepita anche dal nostro paese. Ed è paradossale che siano le stesse forze politiche, imprese ed associazioni di categoria che vanno in piazza a Torino per il Sì-TAV, che si oppongono con decisione ad ogni politica di disincentivo del trasporto stradale, arrivando a contestare le scelte di Austria e Svizzera sui valichi. Contingentamento e tassazione che certo farebbero crescere il traffico ferroviario tra Italia e Francia.

Tutto cambia, tranne la sezione internazionale

Fatto sta che l’inadeguatezza della linea vecchia è oggi uno dei punti di forza dei promotori della linea nuova che dovrà, ovviamente, rispondere ai più attuali criteri di geometria e di prestazione e comportare, ovviamente, elevati costi di costruzione. Negli ultimi dieci anni il progetto è stato oggetto di numerose proposte di modifica, riprese in modo organico nella Revisione Progettuale del 2017 condotta dal MIT nell’ambito della revisione dei progetti inseriti nella Legge Obiettivo. Il sito del Ministero dei trasporti così descrive i risultati della revisione progettuale:

«I costi sono scesi da 9 miliardi di euro del progetto originale a 4,5 miliardi del nuovo scenario. La project review portata avanti dalla Struttura Tecnica di Missione del Ministero, dall’Osservatorio sulla Torino Lione, cui partecipano Sindaci, Governo ed esecutori dell’opera, ha scelto di revisionare il tracciato della Torino-Lione, riducendo i tratti di nuova linea da 82 a 32 chilometri, cancellando quindi 50 chilometri di nuova linea grazie alla scelta di utilizzare in gran parte la linea storica………. Gli interventi previsti garantiranno comunque il transito di 180 treni al giorno, di cui 162 merci e 18 passeggeri, per un totale di 25 milioni di tonnellate trasportabili l’anno e 3 milioni di passeggeri.»

Dunque la sezione internazionale non si tocca, e il problema si sposta sulla capacità della linea storica di sopportare i nuovi carichi. Secondo il rapporto di Verifica, redatto nel 2017 e destinato al Governo Gentiloni, quasi dovunque i previsti interventi di allungamento dei moduli stazione, l’aumento dei carichi per asse, il potenziamento dell’alimentazione elettrica e la modernizzazione del segnalamento mettono in grado la linea di sopportare le soglie di traffico indicate. Colpisce, in questa descrizione, la mancanza di qualunque cenno al problema degli attraversamenti dei centri, soprattutto nel tratto tra Bussoleno e Avigliana, dove gli impatti della cantierizzazione, i livelli di rumore a regime e i rischi connessi al trasporto di merci pericolose non miglioreranno certo la convivenza con gli abitanti.

Il rapporto Verifica del modello di esercizio presenta in termini descrittivi le tappe di questa evoluzione e la cosiddetta “fasizzazione” ovvero la definizione delle opere da realizzare nella Fase 1-2030. Nella figura seguente è rappresentato il contenuto di questa prima fase. Altre opere, come la gronda merci di Torino,o il tunnel dell’Orsiera tra Susa e la Chiusa di S. Michele, sono rimandate a dopo il 2035 e comunque solo se la saturazione delle linee in esercizio le renderà necessarie. Il rapporto Verifica del modello di esercizio è un documento consapevole, dal punto di vista tecnico, che la realizzazione della Torino Lione ha senso solo in una prospettiva di potenziamento della rete ferroviaria destinata alle merci e indica una serie di interventi di potenziamento, adeguamento, raccordo con le altre linee in fase di realizzazione, in primo luogo il Terzo valico dei Giovi e da lì il collegamento con la portualità genovese.

Il rapporto racconta che tali opere sono state inserite nel Contratto di programma 2017- 2021 tra il MIT e RFI. Tuttavia occorre ricordare che il Governo Gentiloni non ha presentato la proposta di Contratto di programma alle Commissioni parlamentari prima della scadenza della legislatura. Così che lo schema originario è stato rivisto dalle nuove Commissioni, ancora non è stato sottoposto alla approvazione del CIPE e ancora non è stato emanato il Decreto di approvazione.

Ciononostante alcuni fatti sono fin d’ora molto chiari: sono cadute sostanzialmente nel vuoto le raccomandazioni del CIPE e dell’Antitrust perché il nuovo Contratto di programma 2017-2021 rispondesse alle regole fissate dal Codice dei contratti pubblici. Regole che prevedono una forte ripresa della programmazione dei trasporti attraverso due strumenti chiave: il Piano Generale dei trasporti e della logistica (PGTL) con orizzonte almeno decennale e il Documento Poliennale di Pianificazione (DPP) , che deve contenere, in coerenza con il PGTL, gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento.
Nel 2016 il documento strategico Connettere l’Italia indicava gli orientamenti da seguire per il nuovo PGTL, ma oggi il Piano vero e proprio non è stato neppure avviato, e nessun DPP che dovrebbe contenere la revisione delle opere in Legge Obiettivo è stato approvato. Il Contratto di programma 2017-2021 dichiara che la prospettiva decennale di investimenti ferroviari è stata elaborata da RFI piuttosto che dal MIT: cosa che costituisce una sconcertante inversione dei ruoli. Infine la discussione nelle Commissioni parlamentari non fa neppur cenno alla necessità di riprendere la programmazione e sembra piuttosto ricalcare un vecchio schema ben consolidato nella tradizione italiana: la rivendicazione puntuale di opere di interesse di questo o quel territorio sponsorizzate da questo o quel parlamentare. Insomma: si naviga a vista. Come stupirsi della fragilità delle decisioni e come aver fiducia nella esistenza di una strategia di rete capace di dar senso anche alla Torino Lione?

Pensare per reti, non per corridoi

Il Quaderno n. 11 dell’Osservatorio traccia il quadro dei valichi ferroviari di tutto l’arco alpino e sottolinea che i valichi ferroviari dell’arco alpino di ovest, quelli che interessano il confine italo-francese, sono caratterizzati da una quota modale della ferrovia nettamente inferiore a quella dei valichi dell’area centrale e dell’ala est. La differenza è davvero molto rilevante.

Nella figura seguente, tratta dal Quaderno n.11 se ne dà una efficace rappresentazione.

La ferrovia copre meno dell’8% nei valichi tra Francia e Italia, mentre copre quasi il 30% nei valichi tra Austria e Italia che servono i traffici scambiati con la Germania e il nord Europa. Per tacer della Svizzera dove la quota ferroviaria del traffico di attraversamento alpino oscilla intorno al 70%. Secondo il Quaderno questo squilibrio sarebbe dovuto proprio alla mancanza di una efficiente infrastruttura ferroviaria di valico in grado di accogliere la domanda crescente. Dunque basterebbe costruire la nuova infrastruttura per rispondere ad una domanda che c’è e che solo la mancanza di una infrastruttura adeguata costringe all’uso della strada. La ricetta è accattivante, ma non realistica. Con evidenza infatti la differenza sostanziale è spiegata non tanto dalle prestazioni delle linee di valico quanto dal ruolo e dall’efficienza della ferrovia nel sistema dei trasporti dei paesi di origine e destinazione degli scambi.

Una modernissima linea di valico che si innesta su una rete ferroviaria nazionale inadeguata per il trasporto delle merci, con vincoli di peso, di sagoma, di lunghezza dei convogli, con problemi ambientali e di sicurezza, con terminali inefficienti ha un solo effettivo risultato: i mezzi stradali e i semirimorchi che, anche grazie a sostanziosi incentivi, attraversano le Alpi caricati sulla ferrovia trovano conveniente scendere quanto prima dalla ferrovia medesima e completare il viaggio via strada, mentre containers e merci pregiate scelgono direttamente il tutto strada. Tanto più se in quel paese la rete autostradale è invece assai sviluppata e il suo uso per il trasporto merci incentivato in vario modo, compresa la restituzione agli autotrasportatori di gran parte dei pedaggi autostradali. Come in Italia.

Il ruolo della ferrovia è una componente essenziale del’intero sistema dei trasporti e si gioca in primo luogo sui traffici interni. Basta dare un’occhiata alle statistiche di Eurostat sulla ripartizione modale del traffico merci dei paesi membri. Nella figura, tratta dall’edizione 2018 del rapporto annuale Energy, transport ad environment indicators, è rappresentata la ripartizione modale percentuale, misurata in tonn-km, del traffico interno paese per paese. E’ evidente che i paesi che dovrebbero alimentare il flusso di merci ferroviarie sulla Torino-Lione, ovvero Francia, Spagna e Portogallo sono anche quelli nei quali la ferrovia svolge un ruolo minore: 11% in Francia, 5,3% in Spagna, 14,5% in Portogallo, come del resto in Italia [1]. Contro il 31,5% dell’Austria e il 19% della Germania. I traffici internazionali, pur essendo le distanze più lunghe più favorevoli al trasporto ferroviario, sono solo l’altra complementare componente di un medesimo sistema dei trasporti: modesta la prima modesta la seconda.

La lezione della Svizzera

Come si è visto i valichi svizzeri sono l’unico caso dell’arco alpino dove la ferrovia, con una quota modale intorno al 70%, vince alla grande la concorrenza con il trasporto stradale. Vale la pena di riprendere sinteticamente le ragioni di tanto successo e soprattutto di trarre dall’esperienza svizzera indicazioni utili anche per la Torino-Lione.

La storia svizzera di potenziamento della ferrovia, che si è svolta in contemporanea con la vicenda dell’Alta Velocità italiana, ha seguito una impostazione politica e ha dato risultati del tutto diversi. Anche in Svizzera, come in Italia, il modello francese di innovazione aperto dall’Alta Velocità Parigi-Lione aveva portato alla proposta di un attraversamento “forte” AV est-ovest tra Berna, Olten e Zurigo: la Neue Haupt Transversale (NHT). Tale progetto, anche a seguito di accese contestazioni territoriali, fu modificato sostanzialmente a favore di Bahn 2000, un progetto per il traffico passeggeri basato su criteri di equi-accessibilità, approvato attraverso referendum nel 1982. Bahn 2000 è la copertura dell’intero paese con uno schema di rete che permette un orario cadenzato, nel quale le città, a seconda dell’importanza, sono collegate con tempi dell’ordine dell’ora o della mezzora. I treni arrivano contemporaneamente ai nodi stazione poco prima dell’ora (o della mezz’ora) e ne ripartono, sempre contemporaneamente, poco dopo. Il sistema rende l’interscambio tra le diverse linee facile e senza perdite di tempo, assicura un omogeneo ed elevato livello di servizio a tutto il territorio svizzero, e produce un effetto di equa copertura territoriale, opposto al prevedibile effetto della linea veloce. Questa avrebbe sì velocizzato una relazione importante, ma avrebbe al tempo stesso reso periferiche tutte le altre. Come è successo per l’AV italiana.

Occorre notare che la Svizzera non rinunciava affatto a puntali interventi di Alta Velocità: da realizzare solo dove fossero stati necessari a garantire il cadenzamento all’ora o alla mezz’ora. Bahn 2000 inoltre era accompagnato dalla piena integrazione del servizio ferroviario con i servizi di trasporto pubblico urbani ed extraurbani, anch’essi convergenti all’ora o alla mezzora nei nodi stazione. I numerosissimi interventi di miglioramento della rete ai fini del cadenzamento fornivano contemporaneamente nuova capacità, sulle stesse linee, per il trasporto ferroviario delle merci, senza alcuna separazione tra i due servizi. La ferrovia diveniva così l’asse portante dell’intero sistema dei trasporti. Esattamente il contrario di quanto avvenuto in Italia dove il rilevantissimo investimento ferroviario per le linee alta velocità per i passeggeri ha di fatto estromesso da quelle linee il trasporto delle merci, confinandolo all’uso delle linee storiche, alla problematica convivenza con i servizi pendolari e metropolitani e con i problemi ambientali e di sicurezza degli attraversamenti urbani.

In Svizzera l’idea dell’attraversamento veloce, questa volta in direzione nord-sud, è stata ripresa negli anni ’90 con il progetto Alptransit, incluso nei complessi negoziati con la Comunità europea interessata ad aprire il percorso stradale svizzero ai mezzi pesanti, fino a quel momento esclusi per via del limite di peso dei veicoli merci a 28 tonn. Un tale limite scaricava oggettivamente sui valichi ad est e ad ovest della Svizzera gran parte del traffico pesante, con allungamenti di percorso e aumento dei costi. A seguito delle trattative la Svizzera, in varie fasi, ha accettato di portare a 40 tonn il peso dei veicoli stradali ammessi sulla rete nazionale, ma insieme ha imposto una pesante tassa sul loro passaggio. La TTPCP, ovvero la tassa commisurata alle prestazioni, è uno strumento di regolazione del mercato ma al tempo stesso è uno strumento di internalizzazione dei costi ambientali esternalizzati. Il suo livello è stabilito in base al peso dei veicoli, ai km percorsi in territorio svizzero e alle prestazioni ambientali (inquinamento e rumore) dei veicoli stessi.

Le motivazioni ambientali hanno avuto un grandissimo peso nel determinare le politiche di trasferimento del traffico stradale alla ferrovia. Il trasferimento è stabilito dalla Costituzione svizzera nell’ambito delle politiche per la protezione delle Alpi e deve raggiungere l’obiettivo vincolante di ridurre a 650.000 i transiti di mezzi pesanti ai valichi svizzeri. Se si considera che solo nel 2016 si è raggiunto l’obiettivo di ridurre tali transiti a meno di 1 milione (obiettivo che doveva essere raggiunto già dal 2011) si ha la misura della difficoltà del compito. La morfologia montagnosa rende l’intero territorio svizzero particolarmente vulnerabile all’inquinamento e al rumore del traffico stradale pesante: come fosse una grandissima Val di Susa. Da qui l’attenzione e l’importanza delle politiche ambientali.

Ai fini delle indicazioni per il caso italiano occorre osservare la sequenza dei tempi. La legge sul trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia risale al 1999 e la tassa commisurata alle prestazioni è applicata dal 2001, con tariffe gradualmente crescenti negli anni. A queste misure sono associate misure di sostegno agli operatori per il trasporto combinato, compresa la strada viaggiante, e per il potenziamento dei terminali. La liberalizzazione degli accessi alla rete (1999) ha consentito, soprattutto sull’asse nord-sud, l’entrata in gioco di una pluralità di imprese ferroviarie tra loro in concorrenza, capaci di rispondere efficacemente alle esigenze della domanda. Tutto questo è stato concretamente avviato ben prima della realizzazione delle nuove gallerie di base. La Svizzera, in altre parole, non ha aspettato la realizzazione di nuove infrastrutture per far politica di trasferimento del trasporto merci, ma al contrario ha messo in atto efficaci politiche di trasferimento che hanno giustificato nel tempo il potenziamento delle infrastrutture ferroviarie. Per la Torino Lione è una indicazione importante: non è l’infrastruttura che genera il trasferimento, ma sono le politiche per il trasferimento che rendono necessaria l’infrastruttura

I risultati svizzeri sono davvero apprezzabili sia sul lato ferroviario che sul lato stradale: la tassa ha incentivato la modernizzazione del parco di veicoli stradali pesanti e ha ridotto il numero dei loro transiti ai valichi. Le risorse finanziarie provenienti da quella tassa hanno sostenuto potentemente (circa il 55%) la nuova ondata di massicci investimenti ferroviari del progetto Alptransit, che comprende il potenziamento di due fondamentali valichi alpini. la nuova galleria di base del Lötschberg (circa 34,6 km entrata in esercizio sia pure parzialmente nel 2007), la nuova galleria di base del S. Gottardo (57 km, entrata in esercizio nel 2016) seguita poi, lungo l’itinerario veloce, dal nuovo tunnel del Ceneri e dal cosiddetto “corridoio di 4 metri” per il passaggio del trasporto combinato (semirimorchi) di cui era prevista l’ultimazione nel 2020, ma che probabilmente verrà ritardata di qualche anno. Su versante italiano di ingresso all’itinerario veloce non sono ancora stati completati gli interventi di adeguamento dei due itinerari previsti: via Chiasso e via Luino, che pure godono di un co-finanziamento svizzero. Sono lavori che avrebbero meritato un più solerte interessamento italiano, data la rilevanza, anche per l’Italia, del nuovo asse inter-europeo nord-sud.

Occorre notare bene che le nuove infrastrutture svizzere ad alta velocità, compresa la nuovissima galleria di base del S. Gottardo, anche grazie alle pendenze minime (8 per mille in galleria e 12,5 per mille nei tratti all’aperto) fanno correre sullo stesso binario treni merci lunghi e pesanti e treni passeggeri veloci, con un (previsto) modello di esercizio che inserisce un treno passeggeri ogni tre treni merci. Oggi la convivenza è ottenuta riducendo a 200 km/h la velocità dei treni passeggeri, alzando a 120 km/h la velocità dei treni merci e risolvendo adeguatamente i problemi della manutenzione giornaliera. Una bella differenza con la situazione italiana, dove le nuove linee ad Alta velocità, nonostante siano state ribattezzate linee ad Alta Capacità, non portano treni merci ne di giorno ne di notte perché, secondo RFI, danneggerebbero la geometria dei binari e ostacolerebbero la manutenzione notturna. E’ ben vero che oggi qualcosa si muove anche in Italia e che il polo di aziende del gruppo FS Mercitalia [2] si appresta a trasformare qualche ETR 500 in treno merci, ri-organizzando gli spazi interni e facendo viaggiare i treni di notte sulle linee AV. Il trasporto veloce di merci leggere, come dimostra il recente contratto con Amazon, rappresenta un’area interessante di mercato. Tuttavia siamo ancora molto distanti dall’esperienza svizzera.

Il vero scoglio: la mancanza di una programmazione di sistema

Al di la delle oscillazioni delle quantità di traffico da un anno all’altro, ormai molto contenute, se solo si guarda al lungo periodo non è difficile riconoscere una sostanziale stabilizzazione del volume degli scambi merci tra i paesi europei. E’ un fenomeno. che riguarda l’intera Europa. Un interessante rapporto della Corte dei Conti Europea [3] sulla situazione delle ferrovie osserva:

« Negli ultimi anni, il volume di trasporto interno delle merci nell’UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato a circa 2 300 miliardi di tonnellate-chilometro all’anno, di cui il trasporto su strada rappresenta approssimativamente il 75 % del totale».
Negli ultimi anni, il volume di trasporto interno delle merci nell’UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato a circa 2 300 miliardi di tonnellate-chilometro all’anno, di cui il trasporto su strada rappresenta approssimativamente il 75 % del totale.

La tendenziale stabilizzazione delle quantità scambiate è un fatto importante e costituisce un riferimento fondamentale per tutte le politiche infrastrutturali, compresa la Torino-Lione Se le quantità variano solo marginalmente, cambia invece il valore della merce trasportata, che cresce più delle tonnellate trasportate. E’ lecito pensare che le tradizionali merci ferroviare (povere e pesanti) stiano lasciando il posto a merci più leggere, di maggior valore e dunque probabilmente con richiesta di prestazioni più elevate non tanto in termini di carichi per asse o moduli di stazione quanto in termini di accessibilità, velocità, sagoma limite e facilità di integrazione con il modo stradale, cui spetta comunque di far fronte all’”ultimo miglio”.

In questo contesto le nuove infrastrutture non rispondono tanto alla crescita della domanda quanto a strategie di competizione tra i mezzi (stradali, ferroviari, marittimi, ecc.), tra i valichi, tra gli operatori, tra i terminali. Il ruolo dello Stato e della spesa pubblica chiamata a sostenere gli investimenti infrastrutturali non può essere quello di favorire questo o quell’operatore, questa o quella cordata di interessi finanziari e imprenditoriali. Lo Stato deve costruire la sua razionalità su una visione strategica e democraticamente stabilita degli interessi del paese, da cui far discendere le politiche, le misure e gli investimenti infrastrutturali necessari a raggiungere obiettivi condivisi di equità territoriale, di benessere sociale, di qualità ambientale oltre che di sviluppo economico. Occorrono in altre parole, decisioni solide, attendibili, lungimiranti, valutate in modo trasparente sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Tutti requisiti che solo strumenti di programmazione ben costruiti e condivisi possono assicurare.

La capacità di costruire decisioni di questo tipo è proprio quello che nel nostro paese manca da moltissimi anni. E appena il caso di ricordare che il vigente Piano Generale dei trasporti e della Logistica, che risale 2001, teorizzava una ampia serie di riforme, molte delle quali intese a contrastare i monopoli e ad introdurre fattori di concorrenza, il rilancio della ferrovia e un serio riequilibrio modale.

Nessuna di quelle previsioni ha avuto la realizzazione sperata. Anzi nel lunghissimo periodo tra il 2001 e il 2016 la politica infrastrutturale è stata governata dalla Legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi, ma poi mantenuta dal Governo Renzi fino alla sua abolizione con il nuovo codice degli appalti del 2016. La Legge Obiettivo doveva semplificare e velocizzare con procedure “speditive” un limitato numero di opere strategiche “in attesa” da molto tempo. Si è tradotta invece in un incredibile carrozzone dove le opere strategiche, per la gran parte stradali e autostradali, sono diventare oltre 400, i finanziamenti ovviamente non ci sono o derivano da improbabili proposte di finanza di progetto, i tempi sono incerti e soprattutto l’insieme delle opere non segue alcun disegno strategico di livello nazionale e non è accompagnata da nessuna seria valutazione dei costi e dei benefici degli interventi.

Di fronte al dissesto istituzionale e operativo generato dalla Legge Obiettivo e sotto minaccia da parte della Comunità di non assegnare i fondi strutturali in assenza di un Piano approvato e valutato nei suoi aspetti funzionali, economici ed ambientali, il Ministro Delrio, meritoriamente, aveva avviato una ripresa della Pianificazione, a cominciare dalla (difficile) revisione delle opere comprese nella legge Obiettivo. Il Ministro aveva promesso l’elaborazione di un nuovo Piano generale dei trasporti, anticipandone gli orientamenti attraverso l’interessante documento “Connettere l’Italia” nel quale si illustrano le quattro strategie di fondo (figura successiva) su cui deve poggiare una nuova concezione integrata del sistema nazionale dei trasporti capace di superare le inefficienze, gli sprechi, la scarsa trasparenza e l’ostilità sociale endemica verso interventi infrastrutturali decisi fuori da regole di partecipazione e democrazia.

Oggi, come si è detto, del promesso Piano Generale dei Trasporti e della Logistica non si hanno più notizie, mentre il nuovo Governo torna ad occuparsi di infrastrutture caso per caso, al di fuori di ogni logica di sistema. Proprio questa mancanza totale di strategia confina la questione Torino-Lione alla alternativa se fare o non fare il nuovo tunnel: una impostazione ben riduttiva del problema, che a mio avviso nessuna analisi costi-benefici, pure importantissima per decidere bene, può migliorare.

Per uscire dall’impasse: riprendere a pianificare

Oggi la decisione sulla Torino Lione sembra dipendere dal responso dell’analisi costi-benefici e i sostenitori della nuova linea organizzano manifestazioni di piazza dopo aver contestato il gruppo di tecnici, guidato da Marco Ponti, incaricato di elaborare l’analisi. Non si conosce ancora il testo del Rapporto consegnato al Ministro dei trasporti. Ma alcune cose si possono dire fin d’ora. Molti atteggiamenti di critica si motivano solo con la diffusa, e talvolta strumentale, ignoranza sul significato e sul ruolo dell’analisi costi-benefici. Che non è affatto una decisione, ma un oggettivo quadro di informazioni che deve essere ben conosciuto e ben tenuto in conto dal decisore e deve essere ben conosciuto anche dalla popolazione che deve poter conoscere e valutare politicamente le motivazioni, ovviamente non solo economiche, della decisione. Il decisore è sempre politico e, alla luce delle stime dei costi, dei benefici e della loro distribuzione deve assumere le responsabilità della sua decisione, utilizzando proprio i risultati dell’analisi non solo per decidere se fare o non fare, ma per scegliere, ove opportuno, le alternative più favorevoli, per evitare i costi evitabili e riprogettare gli elementi più critici, per ri-calibrare vantaggi e svantaggi dei soggetti coinvolti. Ovvero per elaborare quelle politiche di contesto necessarie, se si vuole, a far fronte alle criticità individuate e a riportare la decisione nella sua giusta prospettiva, che non è l’espressione delle piazze, o comunque non solo l’espressione delle piazze, ma la responsabilità politica di governo dell’intero paese.

Una delle ragioni che impediscono oggi di considerare la Torino Lione un intervento utile e necessario per gli interessi del paese sta proprio nella mancanza di un solido e condiviso disegno di Piano del sistema dei trasporti e del servizio offerto al paese, che dia ragionevole certezza sulle prospettive, sui risultati, sulla permanenza nel tempo, sulle cose da fare e sulla loro fattibilità. Un Piano destinato a ri-posizionare in un quadro di interesse generale le proposte infrastrutturali sul tappeto, compresa la Torino-Lione. Per uscire dal vicolo cieco che accomuna oggi la Torino Lione a molte altre grandi infrastrutture in un quadro di endemica contestazione occorre:

1. Riprendere a Pianificare. Che significa governare l’intero sistema dei trasporti: agendo in maniera integrata e coerente sul comparto stradale e sul comparto ferroviario, sulle misure infrastrutturali e sulle misure regolamentari, sui trasporti per i passeggeri e quelli per le merci, sulle lunghe distanze, compresa la dimensione europea, e sui trasporti metropolitani e locali, ragionando in termini di rete piuttosto che di corridoio. Non è un compito facile; comporta una revisione coraggiosa delle opere in Legge obiettivo e riforme attese da anni, come la riforma delle concessionarie autostradali. Gli obiettivi da raggiungere con il nuovo PGTL e gli interventi necessari devono essere decisi dallo Stato con la partecipazione attiva delle Regioni e delle popolazioni interessate, utilizzando in modo trasparente e scientificamente appropriato gli strumenti di valutazione economica e ambientale, e lo strumento del Dibattito Pubblico. Il raggiungimento degli obiettivi deve essere adeguatamente monitorato nel tempo e il monitoraggio deve guidare la concreta attuazione delle strategie. La fattibilità e la realizzazione di qualunque nuova infrastruttura dovrà essere condizionata al raggiungimento degli obiettivi del nuovo Piano.

2. Mettere mano ad un vero Piano di trasferimento modale per il trasporto merci sul modello svizzero, integrando politiche per il trasporto stradale, la ferrovia, il trasporto marittimo, i terminali e le altre attrezzature per la logistica Non solo dal punto di vista delle infrastrutture ma delle regole per il governo della domanda e del sistema di incentivi/disincentivi, come la tassa commisurata alle prestazioni. Portare a coerenza le politiche di riequilibrio modale anche riformando, ove necessario, le logiche, oggi strettamente “aziendali”, dei promotori e dei gestori delle infrastrutture, in primo luogo quelle stradali e ferroviarie.

3. Decidere sul Piano dei trasporti e sugli interventi infrastrutturali e normativi che ne dovranno seguire solo dopo aver valutato in modo trasparente e partecipato costi e benefici, l’equità sociale della loro distribuzione tra i diversi territori e i diversi soggetti e aver assicurato, attraverso la Valutazione Ambientale Strategica e la VIA, la capacità del Piano e degli interventi previsti di raggiungere gli obiettivi ambientali sottoscritti con gli accordi nazionali e internazionali in materia di riduzione delle emissioni di CO2. di riduzione dell’inquinamento, di protezione della salute umana, di garanzia del buon funzionamento gli ecosistemi e di tutela della biodiversità.

4. Dibattere in modo pubblico e trasparente l’analisi costi-benefici che sarà presentata dal MIT sulla Torino-Lione, come non sta avvenendo sul Terzo Valico Milano-Genova. Ragionare sul metodo utilizzato, sui numeri, sugli scenari di traffico e l’evoluzione della domanda, sui costi, confrontando le alternative, verificando il contesto strategico e gli obiettivi generali. Al fine di coinvolgere cittadini e associazioni nel processo di partecipazione e mettere le istituzioni e i decisori nelle condizioni di assumere una scelta ponderata e trasparente.

Note

[1] Il Polo Mercitalia è composto da sette società. Mercitalia Logistics, Mercitalia Rail, Gruppo TX Logistik, Mercitalia Intermodal, Mercitalia Transport & Services, Mercitalia Shunting &Terminal e TERALP (Terminal AlpTransit).

[2] Cfr Corte dei Conti Europea - Relazione Speciale Il trasporto delle merci su rotaia nell’UE non è ancora sul giusto binario

[1] Ma il Conto nazionale dei trasporti, statistica ufficiale del MIT, indica per il 2016 una quota modale intorno al 12%.

Articolo pubblicato anche in Sbilanciamoci

1 febbraio 2019 - Cronaca dal fronte di Nicoletta Dosio, da oltre 25 anni in prima linea con il Movimento no Tav:

Saliamo verso Chiomonte in un paesaggio che sa di presepio e d’infanzia. Cade la neve a ricoprire le ferite di questa terra martoriata e tutto è silenzio, incanto di luoghi incontaminati, dove anche i ruderi, i cumuli di detriti, sembrano costruzioni fantastiche, segreti di natura.

Ma oltre il ponte, a sbarrare l’accesso ai cancelli della Centrale, ci sono, più anacronistici che mai, gli uomini in arme di sempre.

All’improvviso, evidentemente in omaggio al “ministro col manganello”, partono contro di noi quelle i mass media definiranno con singolare metafora “cariche di alleggerimento”: colpi di scudo e manganellate, calcioni a tradimento.

Il ministro non lo vediamo: è ad almeno due chilometri di distanza, in visita al buco del maxi-sondaggio che egli, spalleggiato dai mass media di regime e dal partito trasversale degli affari, continua a chiamare indebitamente “ inizio del tunnel di base”, per dire che la Grande Opera è cominciata, che “il dado è tratto” e non si tornerà indietro, pena il presunto (e non veritiero) pagamento di salatissime penali.

Dagli smartphone ci giungono discorsi e immagini: a far corona al ministro appaiono berretti gallonati e, al suo fianco, ad illustrare le magnifiche sorti e progressive della Grande Opera, ecco le solite triste figure, i crociati del TAV, i boiardi del Mercato, i Gattopardi del “che tutto cambi perché nulla cambi”, che osano parlare di necessità di tutelare ambiente e salute, mentre portano avanti inquinamento e devastazione.

Quando riprendiamo la via del ritorno, il ministro è ormai lontano.
Intorno a noi gli alberi si piegano sotto il cumulo della neve che continua a cadere fitta.

Poco lontano da qui c’è il confine della Francia verso cui si inerpicano le rotte di chi espatria, i migranti di sempre, in fuga dalla fame e dalla guerra, dietro una speranza di emancipazione. Questa neve, così bella e dolce per noi, può diventare per loro la tomba da cui riemergeranno al disgelo: così, lo scorso anno hanno trovato la morte Mamadou, la dolce Blessing.

Il sistema spietato che, con i suoi governi vecchi e nuovi, condanna i territori a morire di grandi male opere in nome della libera circolazione di capitali, eserciti, merci, è lo che stesso innalza frontiere davanti a chi fugge dalla guerra e dalla fame.

Noi lo sappiamo bene, perciò la nostra lotta non può che essere solidale e complessiva: il vero antidoto al mondo della guerra tra poveri cui vorrebbe ridurci il comune oppressore.
il Manifesto, 6 dicembre 2018. Dire no a una infrastruttura non prioritaria, significa dire sì a un'altra visione dell'Italia del futuro. Un'intervista a Salvatore Settis (m.b.)


Dire no al Tav significa dire molti sì. «Dalla urgente messa in sicurezza di un territorio fragilissimo alla visione, mancante, dell’Italia del futuro, come grande protagonista europea». Lo sostiene Salvatore Settis, storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa, autore di alcuni capisaldi sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, già enunciata dall’articolo 9 della Costituzione. Da Italia S.p.A.: l’assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002) a Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2012).

Professor Settis, in un intervento del 2012, descrisse l’Italia come vittima e ostaggio, da decenni, di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. È ancora così?
Per il solo fatto che non sia cambiata è peggiorata, non vedo indizi del cambiamento di cui si parla tanto. Non dico e mai ho detto che non si debbano fare grandi opere ma bisogna controllarle una a una. E, ripeto, che l’opera cruciale e prioritaria è la messa in sicurezza del territorio, iniziativa che darebbe molto lavoro a imprese e a singoli cittadini.
È giunto il tempo di contestare «la retorica della crescita senza fine»?
È stata contraddetta da eventi cruciali del nostro tempo. L’attuale presidente degli Stati Uniti la predica, riducendo l’estensione dei parchi nazionali, e sostiene che non ci siano cambiamenti climatici; basta vedere il clima di oggi a Roma per contraddirlo. Purtroppo prosegue una logica di rapina nei confronti del territorio. Si dovrebbe ricordare una saggezza comune in molte civiltà che afferma che noi siamo i custodi e non i padroni della Terra. E lo siamo in funzione delle prossime generazioni. Quindi non dovremmo ragionare sul domani ma sull’eredità del mondo che vogliamo lasciare ai figli dei nostri figli.
Perché, alla luce di tutto ciò, pensa che la Torino-Lione sia inutile?
Da cittadino, ho letto una quantità impressionante di documenti di diverso segno. Per prima cosa, rispetto a quanto pensano in molti, si tratta di una linea rivolta alle merci e non ai passeggeri. Inoltre, i calcoli fatti all’epoca risultano, a distanza di anni, fallaci: tutto è cambiato, anche la tecnologia. Recandomi sul posto, in Val di Susa, ho, poi, potuto constatare come ci siano forze dell’esercito che insistano su zone archeologiche con scarso rispetto delle stesse. Questa vicenda è diventata uno scontro ideologico. Dire no al Tav non significa dire no a grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, consacrato da un accordo politico bipartisan quasi quindici anni fa prevede tra le misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica prevede espressamente «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate».
Come mai questi principi non trovano applicazione?
Purtroppo nella tradizione giuridica italiana è capitato di scrivere leggi molto belle ma anche di aggirarle. Il codice fu promosso da Urbani, poi migliorato con Buttiglione e Rutelli e indebolito da alcune piccole correzioni del governo Renzi che hanno tolto pietra a questo edificio di difesa dei beni culturali. Solo tre Regioni hanno elaborato il piano paesaggistico (Toscana, Puglia e, in parte, Piemonte), lo Stato non ha esercitato il potere sostitutivo, anzi le riforme di Franceschini hanno depotenziato le Soprintendenze. Un governo che si definisce del cambiamento dovrebbe dare un segno opposto, il ministro Bonisoli si è dimostrato sensibile all’argomento ma per ora non c’è stato nulla di concreto.
Si aspettava questo atteggiamento ben più che ondivago da parte del M5s al governo nei confronti del tema grandi opere?
Me l’aspettavo da questo governo, essendo un ibrido, un coacervo di due partiti che si sono combattuti in campagna elettorale e che ora insieme nei primi sei mesi hanno prodotto molte meno leggi di tanti altri esecutivi. Non mi aspetto nulla di buono dalla consociazione di entità così diverse: da un lato i Cinque stelle più lontani dai compromessi col passato ma ingenui, dall’altro la Lega al governo con Berlusconi per decenni.
Cosa pensa della levata di scudi pro Tav che protagonista il cosiddetto «partito del Pil», come è stata definita l’assise di imprenditori riunitisi a Torino?
Non conosco queste persone, le loro ragioni possono essere molto diverse. Sono preoccupati di interrompere un processo che coinvolgerebbe tante imprese, ma la vera risposta è dire no a qualcosa e sì a qualcos’altro. Sono stati, infatti, fatti conti su quanto tanto costi allo Stato la mancanza di prevenzione e quanto converrebbe mettere in sicurezza il territorio. Per farlo si potrebbero spendere i soldi per il Tav.
L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Come può venire in appoggio alla mobilitazione No Tav?
La Costituzione afferma che la tutela deve essere identica in qualsiasi centimetro dell’Italia. Dovremmo vergognarci di quanto poco è stata attuata e quanto grave sia che i partiti che sono stati al governo non abbiano fatto dell’articolo 9 la propria bandiera.
Quanto è importante la manifestazione dell’8 dicembre a Torino?
Dipende da come si svolgerà e da quanta gente ci sarà, da come i giornali ne parleranno. Mi stupisce, però, che quel poco che resta della sinistra in Italia non sia riuscito a utilizzare i media e i social per costruire una piattaforma in cui i cittadini, per esempio, di Trapani capiscano che le loro battaglie sono simili a quelle di Mestre. Se no le lotte politiche tenderanno a essere sempre locali. Abbiamo bisogno di afflato nazionale.

Su eddyburg
Informazioni essenziali e una breve bibliografia sulla Torino-Lione, raccolte da Ilaria Boniburini, sono disponibili qui.
Alcuni articoli per informarsi su questa grande inutile opera, che l’establishment affaristico, finanziario e politico, con la complicità di alcuni media, continua a sostenere nonostante i numeri e i fatti dicono che non conviene, economicamente, socialmente e da un punto di vista ambientale. (i.b.)
Sono numerosi gli articoli che spiegano come quest'opera sia un saccheggio nei confronti degli abitanti e delle comunità, perché gli unici che in queste opere traggono beneficio sono le imprese di costruzioni, i produttori di cemento e i politici che in cambio di approvazioni e assensi ricevono favori. Ne riportiamo qui una selezione.
Per sapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l'articolo di Attilio Giordano (2006) "Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga" nel quale si chiarisce che c'è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà il risultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento). Infatti di quel 60% di investimenti di "privato" non c'è ombra: vengono erroneamente considerati privati gli investimenti di una Spa, formalmente privata, le Ferrovie, che tuttavia ha un unico azionista, il Tesoro! Non solo, è lo Stato che si addossa gli interessi sui prestiti fatti alla società e li paga alle banche di anno in anno. Sugli alti costi della Tav, gonfiati dai costi di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga e sul deficit che provocherà si legga "Treni e tangenti, quanto ci costa l'alta velocità" (2015) di Gloria Riva e Michele Sasso.
Sulla repressione e blocco mediatico che da oltre un ventennio oscura la verità, confonde i fatti, divulga falsità si leggano gli articoli di Pierluigi Sullo e Ugo Mattei del pubblicati sul manifesto il 27 gennaio 2012, quello di Giovanni Vighetti "TAV: quello che i media non dicono" (08.11.2018) e infine l'articolo di Guido Viale "Non è un treno" (14.11.2018) che denuncia la complicità della stampa nel sostenere le scelte sbagliate, le giustificazioni insostenibili e la dissennata politica delle grandi opere, inutili e dannose.
Per quanto riguarda la drammatica incapacità della classe dirigente italiana di governare i nostri territori attraverso scelte ambientalmente, socialmente ed economicamente oculate, rispondenti a bisogni concreti - i cosiddetti "costi e benefici" - e non per scambio di favori, retorica della modernità e progresso si possono leggere gli articoli di Luca Clementi "L’analisi costi-benefici boccia la Torino– Lione" (La voceinfo, 2007), Tomaso Montanari "Il Parlamento approva il Tav: non ha capito il trionfo dei No" (29.12.2016). Infine "Verità e bufale sul Tav Torino Lione" (22.10.2018) di Paolo Mattone e Livio Pepino e Angelo Tartaglia che smonta le più ricorrenti giustificazioni adoperate per sostenere questa opera che "non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono".
Sull'impatto ambientale della Tav si legga "Un altro buon motivo per il No: il tunnel danneggerà il clima" di Luca Mercalli (18.11.2018).

Infine segnaliamo un' interessante l'articolo di Marco Aime "No Tav. Fuori dal tunnel" (26.12.2016) sulle ricadute socio-culturali che oltre vent’anni di lotta contro il tunnel hanno provocato in valle di Susa, a partire dal consolidamento di una forte comunità di intenti e di saperi, che ha portato a una profonda riflessione su temi ampi e attuali come il modello di sviluppo, le forme di rappresentanza democratica e i beni comuni.

Per saperne di più, il ricchissimo e sempre aggiornatissimo sito NoTav.info.

Testo integrale dell'articolo uscito su il manifesto, 14 novembre 2018. Sacrosanta denuncia della complicità della stampa con la cieca e dissennata politica delle grandi opere, inutili e dannose. (e.s.)

“Ma è solo un treno!” aveva esclamato Luigi Bersani, già segretario del PD, non riuscendo a capire come intorno alla lotta contro quel “treno” sia cresciuta per trent’anni la più forte, duratura, combattiva, democratica ed ecologica comunità del paese, contrastando il modo sciagurato in cui esso viene governato. E questo, proprio mentre il partito di Bersani (“la ditta”), che in altri tempi era stato un baluardo della democrazia, si stava dissolvendo tra le grinfie di Renzi. In realtà, quello non è “un treno”, ma solo un pezzo di treno. Un binario di 57 chilometri lungo cui merci e passeggeri, che non ci sono e non ci saranno mai, potranno viaggiare ad “alta velocità” dentro una galleria scavata in una montagna piena di uranio e amianto, mentre prima e dopo quella galleria, se è quando sarà stata fatta, quel treno dovrà percorrere le attuali tratte intasate che lo congiungono all’alta velocità Parigi-Lione e Torino-Milano, che non saranno raddoppiate. Perché la realizzazione di quelle tratte, per far credere che il Tav costi meno, è stata rimandata al “dopo”. Quale dopo? Il dopo l’apocalisse, quando tutto il pianeta avrà altro a cui pensare perché i cambiamenti climatici provocati da tante grandi opere come quella saranno diventati irreversibili.

Per esigere la realizzazione immediata di quel non-treno tutto l’arco delle forze anticostituzionali si è mobilitato sabato scorso a Torino mettendo insieme Salvini, PD, Forza Italia, Forza nuova, Casa Pound, industriali, commercianti, professionisti e sindacati vari, preferendo quell’adunata alla partecipazione a una delle cento manifestazioni delle donne contro il disegno di legge Pillon, che introduce il fascismo nelle famiglie, o al corteo di Roma contro il decreto Salvini, che introduce fascismo e razzismo in tutto il paese (dandone peraltro immediato riscontro con il blocco dei bus che portavano a Roma i manifestanti, la loro perquisizione uno a una e la loro schedatura, con annessa fotografia, a futura memoria: quando si tratterà di dar loro la caccia casa per casa). Risultato? Una profezia che si avvera: quarantamila dovevano essere (come al corteo che aveva piegato gli operai della Fiat quarant’anni fa, anche se forse anche allora erano meno) e quarantamila sono stati; senza bisogno di contarli e nemmeno di prender nota delle stime della Questura. Giornali e TV, invece, registrano di sfuggita le cento manifestazioni di nonunadimeno, compiacendosi del fatto che anche lì, come a Torino e Roma, sono state le donne a prendere l’iniziativa, quasi che gli obiettivi fossero paragonabili. E sul corteo antirazzista di Roma, che ha come minimo raddoppiato i numeri di Torino, nemmeno uno strillo nelle prime pagine, se non il silenzio assoluto. E poi ci si stupisce che Grillo, Di Maio e Di Battista diano in escandescenze contro i giornalisti… Il primo premio spetta indubbiamente a questo incipit di Repubblica: “Non l’avrebbe mai immaginata, Mino Giachino da Canale d’Alba, una piazza tanto piena”. Ma come avrebbe mai potuto non immaginarla se da dieci giorni tutti i giornali d’Italia annunciavano che ci sarebbero state in piazza esattamente quarantamila persone, come alla marcia di quarant’anni fa? La Stampa (ai bei tempi detta La Busiarda) fa di meglio: la prima pagina è interamente occupata da una gigantografia dell’adunata (nemmeno la fine di una guerra mondiale aveva meritato tanto) accompagnata da un peana del direttore dedicato a quel non-treno a cui Maurizio Molinari lega indissolubilmente “responsabilità personale, rispetto del prossimo, istituzioni della Repubblica, legame identitario con l’Europa, forza incontenibile della modernità contro ogni tipo di oppressione”. Insomma, la sopravvivenza della civiltà è legata a un filo e quel filo non è l’inversione di rotta per fermare i cambiamenti climatici che stanno distruggendo il paese e il pianeta, ma un pezzo di treno. Non c’è forse esempio più chiaro della miseria in cui ci sta seppellendo la nostra “classe dirigente” (tutta). Sembra fare eccezione ilsole24ore, che in prima pagina affianca a una foto dell’adunata torinese in formato quasi decente un articolo su “Il grande spreco del Mose di Venezia – 15 anni di lavori, 5,5 miliardi di costi”. Poi, se si va a leggere l’articolo, sembra che alla fine tutto fili liscio lo stesso, nonostante sprechi, ruberie, corruzione inefficienza e scarsa probabilità che il Mose entri in funzione. Il fatto è che gli abitanti di Venezia non sono riusciti ad opporsi al Mose (che non salverà Venezia, ma rischia anzi di sommergerla sotto un’onda anomala) o alle grandi navi con la stessa determinazione con cui in val di Susa si sono opposti al Tav, salvando, per ora, sia la valle che parte delle finanze statali: soldi di tutti.

Ben poche delle persone trascinate in piazza a Torino da questa ventata di amore per quel non-treno - con l’unica motivazione che ci avvicinerà all’Europa, e soprattutto alla Francia; proprio quando metà delle forze, neanche tanto occulte, promotrici di quell’adunata strilla tutti i giorni contro Europa e Francia, cause principali della nostra rovina - hanno ritenuto opportuno di informarsi sullo stato di avanzamento dei lavori, sulle ragioni del no, sulle difficoltà tecniche, economiche e soprattutto sociali e ambientali che continueranno a ostacolarne la realizzazione.

Ma lo spirito di quell’adunata, finalizzata soprattutto a far saltare la giunta Appendino (cosa che non restituirebbe la città a Fassino, ma la consegnerebbe a Salvini), era illustrata da alcuni cartelli ben in vista nelle fotografie di quell’evento “storico”: “No alla ZTL”; “Libera circolazione!”, ovviamente, delle auto. A loro di quel treno forse poco importa: vogliono cacciare l’Appendino per tornare ad andare in ufficio e a fare shopping “ in macchina”. E tutto questo mentre metà del paese sta crollando, affogando e scomparendo, travolta da un maltempo che anticipa i futuri disastri dei cambiamenti climatici già in corso. Di cui anche uno scemo dovrebbe rendersi conto; e scendere in piazza perché si cambi immediatamente rotta, invece di gingillarsi con quel non-treno che non si farà mai.

Alcuni aspetti sono ricorrenti nei progetti e nelle vicende delle grandi opere, oltre la loro accertata inutilità e il supporto acritico dei fautori dello sviluppismo infrastrutturale. Segue

Tav Torino- Lione, Pedemontana Lombarda, Pedemontana Veneta, Autostrada di Val Trompia, Autostrada Tirreno-Brennero, Bretella Campogalliano- Sassuolo, Tav Brescia-Verona, Terzo Valico, Tav fiorentina, Autostrada Tirrenica, sono alcune tra le grandi opere più dichiaratamente inutili (come sarà confermato, se si faranno, dalle analisi costi e benefici) e più avversate dalle popolazioni locali, dai comitati e dalle associazioni ambientaliste. Cui si devono aggiungere il Trans Adriatic Pipeline (Tap) e, perché no, il Ponte sullo Stretto di Messina. Di queste due infrastrutture localizzate al Sud, una è ormai irreversibile, grazie ai contratti firmati dal Ministro Calenda, l’altra è un incubo che riappare a ogni tornata elettorale - l’ultimo endorsement è stato quello di Matteo Renzi.

Alcuni aspetti sono ricorrenti nei progetti enelle vicende delle grandi opere, oltre la loro accertata inutilità e ilsupporto acritico dei fautori dello sviluppismo infrastrutturale. Innanzitutto,le grandi opere in questione sono in buona parte localizzate nel Nord Italia,alcune nel Centro, marginalmente in un Sud, che ancora attende il completamentodella Salerno- Reggio Calabria, ancorché ribattezzata Autostrada Mediterranea.Il secondo aspetto è che i costi di progetto (cui si aggiungono i rincari e lecosiddette “riserve”) si aggirano sui 40 milioni di euro al chilometro,indipendentemente dalla morfologia del territorio e dagli ostacoli da superare.Il terzo aspetto è che molte opere che dovrebbero essere realizzate in project financing sono arenate perché iprivati, dopo avere prosciugato gli aiuti statali, non hanno le risorsefinanziarie necessarie, né possono garantire ulteriori crediti bancari.
Il quarto aspetto è ciò che rende cosìappetibile la realizzazione delle grandi opere inutili in project financing: la certezza che, comunque vadano le cose, ilsoggetto attuatore ne uscirà con lauti profitti. Esemplari a questo propositogli accordi relativi alla Pedemontana Veneta, i cui proventi gestionali andrannoalla Regione Veneto in cambio di un canone versato al costruttore di 153milioni di euro l’anno; un’operazione a rischio zero per il consorzio Sis, valea dire Dogliani, e con una lauta rendita garantita; a maggior ragione se siconsidera che i traffici reali saranno ben al di sotto di quelli scientemente sovrastimatinel progetto.
Infine vi è un ulteriore aspetto che fa partedella strategia dei “capitalisti a rischio zero”, promotori delle grandi operestradali e ferroviarie, e che spiega la costituzione di consorzi di imprese prividi adeguate risorse finanziarie. Dal momento che le opere sono divise instralci, l’importante è realizzare un primo lotto. A questo punto l’operadiventa “irreversibile”: per quali ragioni? Basta leggere la stampa amica: “perchéormai non si può tornare indietro”, “perché le decisioni sono state prese”,“perché le penali supererebbero i costi del completamento”, ecc. Anche se glistessi sostenitori dei progetti spesso devono ammettere che i conti non tornanoe che i flussi previsti di merci o veicoli erano sballati, finisce che devepagare il pubblico.
Seguendo questa strategia, alcune delle piùimportanti e impattanti opere inutili hanno un primo tratto realizzato o,almeno, cantieri in corso, appalti assegnati, operai assunti (e licenziabili).Tra tutte la Pedemontana Lombarda (edulcorata come “sistema viabilistico”, mala polpa è quella), la Pedemontana Veneta, il sottoattraversamento di Firenze,la ferrovia Tortona/Novi Ligure-Genova, meglio nota come Terzo Valico; nelfrattempo tutti gli altri concessionari stanno accelerando accordi e procedureper raggiungere l’agognato stato di irreversibilità, facendo talvolta, come sisuole dire, “carte false”. Su questalinea anche il progetto del nuovo aeroporto di Firenze, un caso esemplare diatti illegittimi e di torsione e manipolazione delle leggi. Fannoeccezione le vicende dell’autostrada Tirreno-Brennero, di cui sono staticostruiti 9 chilometri e qui ci si è fermati. Un inghippo utilizzato dal gruppoGavio per superare le contestazioni dell’Unione Europea e ottenere unprolungamento di 34 anni della gestione della Parma- La Spezia, incluso l’aumentodel 7,5% dei pedaggi nel periodo 2011-18. Un ottimo affare per Gavio, pessimoper gli utenti e il territorio.
Riusciranno i 5 Stelle al governo e il Ministro Toninelli a mantenerela promessa di cancellare le grandi opere inutili, dopo averle combattute alivello locale? O si fermeranno alle analisi costi e benefici, senza trarne leconseguenze? Difficile immaginare una Lega che abbandoni tre suoi cavalli dibattaglia, come il Terzo Valico, la Pedemontana Lombarda e la PedemontanaVeneta, quest’ultima fortissimamente voluta dal governatore Zaia e indicata da Matteo Salvini come un modello per tutto il Paese: la sua baseelettorale è sostanzialmente sviluppista, gli industriali e gli imprenditorigrandi o piccoli del Nord si sentirebbero traditi, la destra berlusconianariacquisterebbe vigore.
Perciò se è giusto chiedere a questo governo e,segnatamente, al Movimento 5 Stelle, di mantenere gli impegni elettorali, sarebbesbagliato farvi troppo affidamento. I movimenti e i comitati contro le grandiopere inutili, sanno benissimo che vi sarà un tentativo di accontentarequalcuno, magari dilazionando l’inizio dei lavori, e di andare avanti per laconclamata irreversibilità negli altri casi, cercando di far leva su presunti egoismilocali. Per questo e per trovare unastrategia comune, i movimenti e comitati si sono dati una serie di appuntamentilocali e nazionali. Ben consci che le grandi opere, inutili per i cittadini,sono utilissime a banche, costruttori e a un vasto mondo politico o che faaffari con la politica; e che un contratto (fin che dura) non è un programma digoverno e tanto meno include la necessità di porre l’ambiente, nonostantecatastrofi, morti e danni a ogni ondata di maltempo, al centro delle politichenazionali.

Un opera sbagliata che subordina gli interessi sociali, economici ed ambientali della collettività alle logiche finanziarie. Emblematica di come le grandi opere in Italia vengono gestite male, dove i fondi pubblici servono per coprire mancanze progettuali e salvare le imprese private da qualsiasi rischio. Con dettagliata cronologia.

Premessa
Le vicende della Pedemontana veneta si snodano (o si annodano) da oltre un trentennio e ancora appaiono lontane dall’essere concluse. Allo stato delle cose l’itinerario pedemontano è servito dalla Schiavonesca-Marosticana, strada una volta statale, nel 2001 passata dall’ANAS alla Regione Veneto e da quest’ultima alle Provincie di Vicenza e di Treviso. Sicuramente la Schiavonesca-Marosticana è da molto tempo inadeguata alle funzioni e alla quantità di traffico che la percorre ed è stata oggetto, nel tempo, di varianti e di interventi di potenziamento. Tuttavia la soluzione autostradale in corso di realizzazione, le modalità di finanziamento ad oggi note, gli effetti della riorganizzazione complessiva della mobilità nell’area appaiono del tutto inappropriate rispetto alle ragioni che hanno sostenuto nel tempo la necessità di questo nuovo asse stradale.

In queste note si descrive il momento cruciale che portò alla scelta, potenzialmente molto innovativa, di realizzare la Pedemontana come “Superstrada a pedaggio”, si elencano le tappe attraverso cui quella scelta coraggiosa venne di fatto pervicacemente ridotta alla realizzazione di una autostrada in concessione. Una infrastruttura calata forzosamente in un territorio strutturalmente inadatto, per tipologia degli insediamenti e per quantità di traffico, ad essere servito da un tradizionale asse autostradale.

Oggi i nodi vengono al pettine. Qui si accenna brevemente alle forzature decisionali, alla tormentata vicenda del ricorso al project financing e alle relazioni della Corte dei Conti che sollevano questioni di fondo che non possono essere ignorate e dovrebbero far seriamente riflettere sulla possibilità di trovare qualche via d’uscita meno dannosa di quella dell’andare avanti nonostante tutto con il progetto in corso.

La Pedemontana e la sua storia costituiscono a mio parere un caso emblematico da cui trarre insegnamenti per il più generale problema del processo decisionale delle grandi infrastrutture. Un processo che nel nostro paese ha dimostrato nel tempo di essere profondamente irresponsabile, straordinariamente conflittuale a tutti i livelli, accompagnato da modalità di valutazione inesistenti o totalmente ininfluenti, sistematicamente fondato sul ricorso alla spesa pubblica per far fronte a buchi finanziari e a carenze progettuali.

Ne emerge con molta efficacia la necessità di un cambiamento profondo nel modo di programmare, progettare, realizzare e gestire le infrastrutture necessarie. Un cambiamento oggi potenzialmente avviato attraverso il nuovo Codice degli appalti, l’abolizione della Legge Obiettivo e le nuove regole per la programmazione e la realizzazione delle infrastrutture. Ma la vicenda della Pedemontana dimostra che non basta un cambiamento nelle norme e nelle logiche dell’azione statale: occorrono profondi cambiamenti culturali anche nelle regole per l’azione delle Regioni e degli enti locali, occorre una nuova capacità di sinergia e di vigilanza e occorrono, anche nelle comunità locali, consapevolezze e alleanze ad oggi largamente mancanti.

1. Piccola cronologia dei primi (falliti) tentativi [1]

1990 Il Piano Regionale dei Trasporti
La Pedemontana nasce, come dice il suo nome, come itinerario destinato a raccogliere e distribuire il traffico generato e attratto dai numerosi centri posti allo sbocco delle valli, dove la manifattura ottocentesca e novecentesca basata sullo sfruttamento dei corsi d’acqua aveva concentrato attività, ricchezza, popolazione. Uno sviluppo proseguito poi nella forma peculiare di una diffusione insediativa frammentaria, per lo più ricalcata sui precedenti assetti agricoli, oppure organizzata in fregio filiforme lungo le strade esistenti. La previsione di “potenziamento dell’itinerario pedemontano” è effettivamente contenuta nel Piano Regionale dei Trasporti (PRT) approvato nel 1990, mai aggiornato e tuttora vigente. Quella previsione sottointendeva una realistica gerarchia delle priorità: non una nuova strada ma potenziamenti per tratte, finanziati dall’ANAS, partendo dalle tangenziali a servizio dei centri maggiori. Le caratteristiche omogenee delle tratte e il loro successivo collegamento poteva dare luogo ad un itinerario da subito capace di servire il traffico locale, che costituiva la grandissima maggioranza del traffico. In seguito, una volta completato, l’itinerario avrebbe potuto servire anche il traffico di più lunga percorrenza. Nel 1992 la Regione Veneto sviluppa su questa base un progetto di tipo super stradale [2].

1.1 1995 La Pedemontana: una autostrada senza oneri per lo Stato
Un pregevole dattiloscritto ad opera del partito della Margherita [3] richiama le ragioni dell’abbandono di quella prospettiva e spiega l’entusiasmo diffuso verso un progetto autostradale. Le cause vanno ricercate nella crisi finanziaria dello Stato dei primi anni ‘90, nel drastico taglio della spesa pubblica seguito al Trattato di Maastricht e non da ultimo negli effetti politici della profonda indignazione per gli scandali di Tangentopoli, per lo più maturati proprio sugli appalti delle grandi opere infrastrutturali. Nel 1995, in questo quadro di oggettivo impallidimento della possibilità stessa di realizzare la Pedemontana, attecchisce ancora una volta una vecchia promessa mai mantenuta: il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre di realizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per lo Stato” [4]. Quella che sembra una provvidenziale soluzione raccoglie una ampia adesione da molte Amministrazioni comunali e dalla generalità della popolazione. Non mancano le voci critiche: da quelle che richiamano l’oggettiva falsità di quella promessa a quelle che rivendicano per la nuova strada funzioni locali incompatibili con l’assetto autostradale a quelle che evidenziano i danni ambientali e i danni economici alle colture di pregio delle aree attraversate dal nuovo asse. Appena un paio di anni dopo quello stesso Presidente della Serenissima dirà ad un convegno a Vicenza “Non c’è nessuno in grado di remunerare gli investimenti con i pedaggi”. Ma ormai l’autostrada è divenuta luogo comune. Nella percezione delle Amministrazioni locali e dei cittadini, anche se non è la soluzione migliore, almeno si fa qualcosa.

1.2 1997-1998 finanziare una autostrada, ma con giudizio
La previsione della Pedemontana come asse autostradale, inserita nel 1997 nell’Accordo Quadro sottoscritto da Governo e Giunta regionale faceva della nuova infrastruttura un ramo della maglia autostradale destinata prevalentemente ai traffici di lunga percorrenza e all’alleggerimento della Serenissima. Tale previsione, che relegava di fatto il servizio per il traffico locale al rango di sottoprodotto, suscitava non poche opposizioni da parte di Comuni, associazioni di categoria e associazioni ambientaliste. E anche da parte di forze politiche. Tanto che il riflesso di tali opposizioni era ben evidente nelle leggi di fine anni ‘90, nelle quali si stanziavano denari per la realizzazione della Pedemontana:

Anche restando nell’ambito di una prospettiva autostradale tali leggi rispecchiano bene la ricerca di soluzioni progettuali più attente alla morfologia dei luoghi e al servizio della reale domanda di trasporto, formata per la grandissima maggioranza da traffico locale.
1.3 2000: il progetto autostradale di Bonifica spa
Intanto Anas, senza aspettare alcuna valutazione preventiva, forte del contributo statale fissato dalla L 448/98, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivo dell’autostrada tra Dueville (A31) e Spresiano (A27) vinta, nel gennaio 2000, dalla società di progettazione Bonifica spa, con sede in Roma.
Le proposte tariffarie e di tracciato nonché le stime di traffico del progetto Bonifica per il 2007, anno previsto per l’entrata in esercizio della Pedemontana, risultano per molti versi illuminanti:

Nonostante le “aperture” al traffico locale ora ricordate, l’opposizione al progetto dichiaratamente autostradale di Bonifica è forte e interessa un numero crescente di Amministrazioni locali: per il tracciato, che serve pochissimo ad alleggerire la viabilità locale congestionata, per il ridisegno della viabilità ordinaria orientato principalmente a favorire gli accessi autostradali per la pesante interferenza con le previsioni urbanistiche e i vincoli ambientali. Il passaggio del tracciato lungo i confini comunali, assunto come criterio base, può servire a minimizzare il conflitto con i Comuni ma appare del tutto inadeguato a prendere nella dovuta considerazione la natura dei suoli, la struttura storica degli insediamenti e delle ville, i valori paesaggistici e ambientali, l’impatto sulle aziende agricole e le loro colture di pregio.

1.4 Autostrada o Superstrada?

Proprio dalla intensità di questa opposizione trae origine la legge 388/2000 [6] nella quale si stabilisce che l’infrastruttura:
“puo' essere realizzata anche come superstrada. In tal caso sono applicabili, ai sensi dell'articolo 21, comma 3, della legge 24 novembre 2000, n. 340, il pedaggiamento e la concessione di costruzione e gestione, ferme restando le procedure stabilite dall'articolo 10 della legge 17 maggio 1999, n. 144. Ai fini dell'esercizio dell'opzione di cui al presente comma e della valutazione delle alternative progettuali, finanziarie e gestionali, di sostenibilita' ambientale e di efficienza di servizio al territorio, il Ministero dei lavori pubblici conclude entro il 31 marzo 2001 una conferenza di servizi con il Ministero dell'ambiente, la Regione Veneto, gli enti locali e gli altri enti e soggetti pubblici interessati. Trascorso il termine predetto senza che sia stabilita la realizzazione di una superstrada a pedaggio, riprende la procedura di cui all'articolo 10 della legge 17 maggio 1999, n. 144. "

La Superstrada a pedaggio costituiva una innovazione di grandissimo interesse. Il pedaggio, applicato ai traffici di lunga distanza, avrebbe contribuito a finanziarla e al tempo stesso sarebbe stato coerente con le politiche di trasferimento delle merci dalla strada alla ferrovia. La Superstrada, classificata dal Codice come “Strada extraurbana principale di tipo B” [7], avrebbe potuto ridurre il consumo di suolo, massimizzare il servizio al territorio con l’infittimento delle connessioni alla viabilità ordinaria, consentire un miglior inserimento paesaggistico grazie alle velocità più ridotte e ai conseguenti minori raggi di curvatura necessari. Il massimo riuso dei sedimi stradali esistenti previsto dalla legge poteva assumere un senso ben preciso alla luce della fittissima rete di strade statali e provinciali dell’area.

La gestione “aperta” avrebbe potuto selezionare l’utenza facendo pagare le lunghe percorrenze, esentando le percorrenze brevi e brevissime e dosando opportunamente le situazioni intermedie. Il ricorso al sistema “a barriere” e/o l’applicazione delle tecnologie telematiche di identificazione dei veicoli [8] potevano assicurare la minimizzazione dei costi di gestione anche in presenza di un numero elevato di accessi. Se si avesse avuto coraggio e lungimiranza la superstrada a pedaggio avrebbe potuto addirittura avviare la trasformazione del pedaggio da (inefficiente) strumento di finanziamento dell’infrastruttura a strumento di regolazione dell’uso del sistema delle infrastrutture, con effetti ben più importanti ed efficaci.

La Conferenza dei Servizi prevista dalla legge si svolse effettivamente a Castelfranco Veneto il 31 marzo 2001, dunque nei tempi fissati. Gli Enti locali e i soggetti istituzionali i convenuti optarono a grande maggioranza per la Superstrada, in pieno disaccordo con la Regione Veneto e le due Provincie interessate, che abbandonarono provocatoriamente la riunione [9]. Dal punto di vista della trasparenza e della consapevolezza fu una grande occasione mancata. Non solo perché il progetto Bonifica era stato visto compiutamente solo da pochi comuni e solo in maniera informale, ma perché tutto il complesso lavoro di approfondimento tecnico e modellistico degli advisor previsto dalla L 144/1999, venne distribuito all’ultimo momento e non ci fu tempo per valutare e studiare. E’ appena il caso di ricordare che anche quell’interessante lavoro, che aveva comparato ben dieci ipotesi di livello tariffario e di modalità di riscossione del pedaggio, arrivava infine, attraverso una analisi multicriteri, a raccomandare l’adozione di un sistema “selettivamente” aperto e metteva in guardia circa la fragilità delle ipotesi di finanziamento da pedaggio.

2. Il nuovo scenario post 2001: Legge Obiettivo e project financing

Gli eventi che seguirono la decisione del marzo 2001 segnano una svolta nell’iter decisionale. In primo luogo cambia profondamente il contesto nazionale e in secondo luogo, per la Pedemontana, cambiano radicalmente gli attori in gioco.

A fine del 2001 il nuovo Governo di centro-destra rivoluziona, con la Legge Obiettivo (L 443/2001) le modalità di decisione e realizzazione delle grandi infrastrutture. La Legge Obiettivo avrebbe dovuto riguardare unicamente poche opere strategiche di “preminente interesse nazionale” a cui riservare uno speciale percorso decisionale accelerato e semplificato e la certezza del finanziamento. All’insegna di parole d’ordine come “ semplificazione delle procedure” e “rapidità di attuazione” la maggior parte delle decisioni sulle singole opere doveva essere assunta sul progetto preliminare, comprese le valutazioni economiche e lo svolgimento della procedura di VIA.

Il risultato si rivela ben presto disastroso. L’assenza di programmazione, l’oggettiva insufficienza del progetto preliminare a consentire valutazioni attendibili circa la fattibilità economica ed ambientale delle singole opere, la corsa ad iscrivere opere negli elenchi della Legge, a prescindere dalla loro strategicità (e spesso anche della loro utilità) portano a situazioni paradossali: nel 2015 gli elenchi della Legge Obiettivo registravano oltre 400 opere, molte delle quali con progetti preliminari approssimativi, incerta fattibilità e incerto finanziamento [10]. Oggi, abolita la Legge Obiettivo in nome della ripresa della programmazione e del rigore nelle valutazioni [11], molte di tali opere dovrebbero essere abbandonate o radicalmente riviste, ma vantano diritti acquisiti che costituiscono altrettante remore al disegno di un razionale sistema infrastrutturale e al corretto uso della spesa pubblica.

2.1 Trasferimento alla competenza regionale e project financing

Nella Delibera CIPE 121/2001 che tracciava regione per regione il primo programma delle opere in Legge Obiettivo era compresa, per il Veneto, la Pedemontana Veneta (tratte est e ovest) insieme al Passante di Mestre, alla Tratta Venezia – Ravenna (Nuova Romea E 45 – E 55) , al Raccordo autostradale Verona – Cisa (Ti-Bre) e al Completamento A 27 – Alemagna. A partire da questo momento ci si sarebbe aspettati un periodo di revisione del progetto Bonifica al fine di accelerare la realizzazione e di cogliere appieno gli aspetti positivi della trasformazione in Superstrada. Invece il trasferimento alla competenza regionale e il ricorso al project financing rimettono tutto in discussione. In rapida successione nel 2001 la Legge finanziaria trasferisce i contributi già stanziati per la tratta est-ovest alla Regione Veneto (L 448/2001 art. 73, comma 2), un Accordo tra Presidenza del Consiglio, Ministero dei Trasporti e Regione Veneto trasferisce alla Regione la competenze sulla realizzazione dell’opera; la Regione acquisisce da Anas il progetto Bonifica (non senza qualche resistenza da parte di Anas).

Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa [12], a cui la Regione trasferisce il progetto Bonifica [13]. presenta, come promotore, un progetto in Project Financing per la tratta da Dueville (A31) a Spresiano (A27). Il progetto viene messo in gara, ma un ricorso presentato da alcuni Enti locali e da Legambiente del Veneto viene accolto dal TAR che annulla la gara. Nello stesso anno la tratta Ovest della Pedemontana, di raccordo tra la A4 e la A31 era stata concessa, senza alcuna gara, alla Serenissima: una procedura di infrazione comunitaria per l’assenza di gara porta ad annullare la concessione.

Il 2003 segna il punto fermo dal quale parte la storia recente dell’infrastruttura:

Dal punto di vista della capacità di servire il territorio attraversato il progetto preliminare approvato nel 2006 é sensibilmente peggiorativo rispetto al progetto Bonifica. L’infrastruttura, nonostante la reiterata dichiarazione che si tratta di una “Strada extraurbana principale di tipo B”, in realtà rincorre malamente le dimensioni di una autostrada [14], adotta un sistema di riscossione del pedaggio completamente chiuso e costa 1.991 milioni di euro contro i 1450 previsti del progetto Bonifica.

3. I guai del project financing e la Corte dei Conti

Più di dieci anni sono trascorsi dalla approvazione del progetto da parte del CIPE e l’avanzamento dell’infrastruttura pone ancor oggi molti rilevanti problemi. I lavori sono iniziati [15] ma l’iter decisionale è ancora incerto su temi fondamentali come il rapporto contrattuale tra Regione e Concessionario o la possibilità, per il Concessionario, di arrivare in tempo utile al closing [16], o ancora il regime tariffario per i residenti e le attività dell’area. Inoltre i danni ambientali denunciati sui giornali, le perdite di risorsa idrica nella realizzazione delle gallerie e l’impatto dei cantieri sembrano sopravanzare di molto le valutazioni dello Studio di impatto ambientale.

Nel riquadro di figura 1 si indicano in estrema sintesi, ordinati per data, i fatti più significativi del decennio dal 2006 ad oggi. Qui conviene invece riprendere alcuni macroscopici punti critici, anche sulla scorta delle recenti Relazioni della Corte dei Conti (CdC) relative alla attuazione della Pedemontana Veneta [17].

Figura 1 Cronologia del decennio 2006-2016

3.1 Un project financing a geometria variabile

Un primo aspetto determinante riguarda la scelta regionale di ricorrere al project financing, le modalità con cui tale scelta è stata attuata e le continue modificazioni del rapporto tra Concedente e Concessionario ancora oggi in corso. E’ una vicenda tormentata a partire dalla gara del 2006 per la scelta del concessionario. In quella gara infatti l’offerta più vantaggiosa era stata presentata dall’ATI costituita dal Consorzio Stabile SIS SCpA - Itinere Infraestructuras S.A. (Consorzio SIS). Tuttavia la Regione aveva affidato la concessione al promotore Società Pedemontana Veneta (ATI con capogruppo Impregilo), che aveva esercitato il diritto di prelazione previsto dalle norme italiane (peraltro contestato dalle norme europee). L’ATI Consorzio SIS ricorre contro tale assegnazione e la sentenza conclusiva del Consiglio di Stato obbliga la Regione ad affidare la concessione al Consorzio SIS. Intanto sono passati tre anni: sarà il Commissario a firmare nel 2009 la prima Convenzione tra il Concedente Regione Veneto e il Concessionario Consorzio SIS.

Quella Convenzione suscita non poche perplessità: perché la Regione si impegna [18] a garantire con ogni mezzo l’equilibrio del Piano economico finanziario (ad es. con l’aumento dei contributi, l’allungamento della concessione, la variazione delle tariffe, ecc.) e a versare al Concessionario oltre al contributo in conto capitale di 173,7 milioni di euro, un canone annuale “di disponibilità” pari a 14,5 milioni di euro, aggiornato annualmente in base al tasso di inflazione. Tale canone che garantisce al concessionario un introito annuale basato su stime di traffico riviste al rialzo rispetto a quelle del progetto, potrebbe essere rimodulato a favore della Regione nella improbabile ipotesi che gli introiti da pedaggio risultassero molto superiori a quelli previsti in convenzione. Ovviamente nel caso, assai più probabile, che gli introiti fosse inferiori, la Regione si obbliga a provvedere al ripiano. Viene così meno, oggettivamente, il rischio del Concessionario, al quale tali regole garantiscono la totale copertura dei costi, in aperta contraddizione con la logica di equa ripartizione dei rischio che dovrebbe stare alla base del project financing.

Le regole così cautelative per il Concessionario si rivelano comunque insufficienti a garantire la “bancabilità” dell’opera: nel 2013 un Atto convenzionale aggiuntivo aggiorna i costi dell’intervento da 1,4 miliardi di euro del progetto preliminare del 2003 a 2,258 miliardi di euro, incrementa il contributo pubblico in conto capitale fino a 614,410 milioni di euro, 370 dei quali stanziati dallo Stato e prevede, per il Concessionario, un contributo annuo in conto gestione di 20 milioni di euro a partire dall’entrata in esercizio dell’infrastruttura e per tutta la durata della concessione.

Per la “bancabilità” ancora tutto questo non basta: nel 2016 la Cassa Depositi e Prestiti, coinvolta con altre banche nel finanziamento del Concessionario, giudica l’infrastruttura non finanziabile sulla base di una stima del traffico, appositamente commissionata, che quantifica un TGM di poco superiore a 15.000 veicoli, la Regione Veneto reagisce mettendo a punto una complessa soluzione che comprende un ulteriore contributo pubblico (regionale) di 300 milioni di euro e la riformulazione dei rapporti tra Concedente e Concessionario SIS attraverso un III Atto convenzionale che sostituisce completamente le convenzioni precedenti.

Tale riformulazione modifica radicalmente i termini delle Convenzioni sottoscritte nel 2009 e nel 2013 e viene motivata dall’aumento dei costi del progetto e dalla constatazione che i volumi di traffico saranno prevedibilmente minori di quelli ipotizzati data la crisi economica e i suoi effetti di lungo periodo. Nonostante la sistematica minimizzazione con cui il III Atto convenzionale viene presentato, il cambiamento è davvero radicale. La titolarità dei proventi da pedaggio passa dal Concessionario SIS al Concedente Regione Veneto che si addossa così completamente il rischio di mercato, ovvero l’incertezza circa i volumi di traffico e le conseguenti entrate tariffarie. Il Concessionario, a cui restano i rischi collegati al costo di costruzione e alla disponibilità dell’infrastruttura, rinuncia ad introiti da Concessione per circa 6,7 milioni euro, ma il suo equilibrio di bilancio è garantito da un “canone di disponibilità” annuo aggiornato nel tempo e rivedibile al rialzo qualora necessario.

E’ una modifica non da poco perché mentre il rischio di mercato non dipende dal Concessionario, e in tal senso si tratta realmente di un rischio, le altre due componenti (costo di costruzione e disponibilità legata alla manutenzione e al buon funzionamento dell’infrastruttura) dipendono invece pressoché completamente dalla azione del Concessionario, dalla sua abilità imprenditoriale e dalla sua efficienza tecnica. La prevista copertura totale di tali costi da parte della Regione attraverso il canone annuo di fatto rende il rapporto simile ad un contratto di appalto piuttosto che a un contratto di concessione. La previsione che il canone di “disponibilità dell’infrastruttura” possa essere diminuito (nella quota massima del 15%) in seguito alle eventuali inadempienze del Concessionario non sembra modificare sostanzialmente le cose.
Noterà la Corte dei Conti nella Relazione del 2016:

“Il ricorso al partenariato pubblico-privato non solo non ha portato i vantaggi ritenuti suoi propri, ma ha reso precaria ed incerta la fattibilità dell’opera stessa. Appare evidente, infatti, la difficoltà a far fronte al closing finanziario, ricorrendosi, in contrasto con i principi ispiratori della finanza di progetto, all’intervento di organismi pubblici, al fine di superare le criticità dell’operazione. E’ manifesta la traslazione del rischio di mercato sul concedente, fatto anch’esso in contraddizione con la ratio del ricorso alla finanza di progetto."

L’importo elevato del previsto contributo regionale supera la capacità di indebitamento della Regione. D’altra parte il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti dichiara pubblicamente che “lo Stato non è un bancomat” e che nessuna risorsa aggiuntiva verrà assegnata alla Pedemontana Veneta. Un bel pasticcio: perché recedere dalla Concessione significa interrompere i lavori nei cantieri iniziati, lasciar sospesa la remunerazione degli espropri e comunque subire uno scacco politico di enorme portata. L’idea iniziale della Amministrazione regionale di ricavare i 300 milioni di euro attraverso una addizionale IRPEF del 5xmille sui redditi superiori a 28.000 euro viene rapidamente abbandonata per il clamore e le proteste suscitate. L’articolazione dell’impegnativo contributo regionale in due tranche successive di mutuo trentennale sottoscritto con Cassa Depositi e Prestiti, fa fronte al problema della capacità di indebitamento della Regione. Ma non risolve tutti i problemi: sussiste uno squilibrio troppo accentuato a favore del concessionario? Le modifiche della Convenzione potrebbero dare luogo a ricorsi (già annunciati) da parte dei soggetti “perdenti”? Non sarebbe più conveniente, per l’Amministrazione pubblica, rivedere tutta la questione e procedere ad una regolare gara d’appalto?

Su questi temi si è in attesa delle determinazioni dell’Autorità Nazionale anti-corruzione e degli organismi di vigilanza, compresa la Corte dei Conti ai quali è stata inviata la documentazione relativa al III Atto convenzionale.

3.2 Un abnorme contenzioso

Un secondo aspetto rilevante è costituito dalla ampiezza del contenzioso, che è un buon indicatore della poca chiarezza delle leggi e della incerta legittimità delle decisioni. Il contenzioso interessa conflitti tra Stato e Regione, tra Regione ed Enti Locali, tra Associazioni di vario tipo e istituzioni, tra cordate imprenditoriali, tra privati ed enti pubblici. Gli effetti che ne derivano in termini di allungamento dei tempi, crescita dei costi e oggettiva incertezza delle decisioni sono rilevantissimi. Il commissariamento dell’opera ottenuto nel 2009 rappresenta un maldestro tentativo di risposta a questo problema. Nell’estate del 2009 infatti la Regione ottiene dal Consiglio dei Ministri una dichiarazione di “stato di emergenza” nel settore del traffico e della mobilità nelle provincie di Vicenza e Treviso. E’ evidente l’intenzione di ricalcare in tal modo l’esperienza di commissariamento che aveva portato, non senza problemi, alla realizzazione del Passante di Mestre. Non a caso viene nominato Commissario [19] e dotato di amplissimi poteri straordinari proprio l’ingegnere Vernizzi, alto dirigente regionale e Amministratore delegato di Veneto Strade, reduce in quel periodo dall’aver portato a termine la realizzazione del Passante di Mestre.

Tutta la vicenda del commissariamento e dei suoi esiti saranno considerati assai criticamente dalla Corte dei Conti: per il costo elevato della struttura commissariale, per la sistematica e continuativa deroga alle norme, per l’esproprio di responsabilità dell’istituzione regionale e, paradossalmente, per l’incredibile numero di contestazioni, di ricorsi o di minacce di ricorso che costellano l’elaborazione del progetto definitivo, conclusa nel 2010. La soluzione “commissariamento” peggiora il male che dorrebbe curare. La Corte dei Conti, stigmatizzando proprio l’ampiezza del contenzioso, osserverà che da questa vicenda emerge l’assoluta necessità di approfondire e concordare le soluzioni relative al tracciato e alla integrazione nel territorio nelle fasi preliminari, per evitare il danno erariale che deriva dall’uso strumentale del contenzioso come mezzo per aumentare il proprio potere contrattuale e ottenere vantaggiose modifiche del progetto o anche opere aggiuntive. Uno degli effetti macroscopici della negoziazione tra enti locali e Commissario è l’incremento dei costi: il costo di costruzione aumenta di oltre 300 milioni di euro.
Nella Figura 2 lo schema del tracciato della Pedemontana veneta a seguito dal progetto definitivo del 2010 [20].

Figura 2 Pedemontana schema del tracciato

A chi serve la nuova strada?

Infine al di là degli aspetti finanziari e amministrativi l’aspetto più rilevante di questa storia è la perdita progressiva del significato dell’opera: un significato compromesso alla radice dalla progressiva subordinazione degli interessi sociali, economici ed ambientali delle collettività locali alle logiche finanziarie e agli interessi legati alla realizzazione della grande opera.

Basti considerare la questione delle stime di traffico e la ricerca della massimizzazione degli introiti che le guidano. Nel 2016, in opposizione allo studio di traffico della Cassa Depositi e Prestiti che aveva quantificato un TGM di 15.000, la Regione commissiona a sua volta uno studio di traffico. Tale studio assumendo le tariffe di pedaggio fissate nella convenzione del 2013 stima al 2020, anno di prevista entrata in esercizio dell’infrastruttura, un TGM di circa 20.000 veicoli. Simulando invece tariffe più basse, che rendono conveniente l’uso dell’infrastruttura per una maggior quantità di traffico, il TGM stimato cresce fino a 27.000 veicoli [21]. Queste nuove condizioni sono formalmente assunte nel III Atto convenzionale, che ripropone da parte della Regione la garanzia dell’equilibrio economico finanziario attraverso un contributo in conto “disponibilità dell’infrastruttura” che ancora una volta garantisce la copertura dei costi del Concessionario. Il progetto in via di realizzazione assume, come si è detto, un sistema di gestione chiuso, organizzato con 15 caselli e due barriere in corrispondenza della connessione con le altre autostrade. Dunque tutto il traffico è potenzialmente soggetto al pagamento del pedaggio: le eventuali esenzioni a favore di residenti e attività locali dipendono unicamente dal gestore dell’infrastruttura. La totale sparizione nel III Atto convenzionale di ogni accenno a tali regole di esenzione dal pedaggio per la popolazione e le attività locali, che erano invece dettagliatamente contenute nella Convenzione del 2009 e del 2013, rispecchia perfettamente il problema: la quantità di traffico e le tariffe previste nel III Atto convenzionale sono calibrate per conseguire la massimizzazione degli introiti indispensabile ad assicurare la finanziabilità del progetto. Qualsiasi esenzione, anche qualora possibile in termini contrattuali, potrebbe compromette gli equilibri finanziari previsti, così che la prospettiva più realistica è sicuramente quella dell’azzeramento di ogni ipotesi di esenzione.

Infine occorre osservare la sistematica ambiguità con cui la Pedemontana è presentata come maglia della rete autostradale, cosa che implica l’assunzione di caratteristiche progettuali coerenti con quelle del resto della rete autostradale. La qualifica di “superstrada” resta dunque come fatto puramente formale, mentre le caratteristiche tecniche e il sistema di esazione del pedaggio sono del tutto autostradali. L’autostrada, come tutte le autostrade, risulta di difficile inserimento morfologico e paesaggistico in un territorio diffusamente abitato. Le implicazioni in termini di caratteristiche costruttive e costo di costruzione sono assai rilevanti: su una lunghezza complessiva di km 94,50 circa il 72% del tracciato corre in trincea o in galleria e il restante 28% in rilevato. C’è da scommettere che la piacevolezza del paesaggio potrà essere ben poco colta dai viaggiatori autostradali. Le singolari caratteristiche plano altimetriche certamente hanno a che fare con la preoccupazione di minimizzare la visibilità dell’opera, ma sicuramente scontano anche l’interesse per il profitto ricavabile dalla vendita degli inerti risultanti dagli scavi.

In conclusione ogni passo della storia delle Pedemontana è scandito dalla crescita dei costi di costruzione e dall’aumento del rischio per l’Amministrazione pubblica. Ogni passo rende tuttavia più difficile cambiare e spinge di fatto verso la realizzazione ad ogni costo di un progetto profondamente inadatto rispetto i problemi di mobilità e di congestione della viabilità locale che dovrebbe aiutare a risolvere. Non c’è più nulla da fare? A parte l’attesa per i giudizi di legittimità e le verifiche sul III Atto convenzionale si potrebbe comunque far qualcosa per diminuire il danno? Anche restando all’interno della filosofia del sistema chiuso, capace cioè di intercettare tutto il traffico che percorre la strada, le scelte progettuali della Pedemontana in costruzione appaiono singolarmente arretrate. Quale risparmio di costi di costruzione e di impatto paesaggistico si sarebbe potuto ottenere attraverso l’adozione di sistemi tipo Free Flow Multilane22 oggi già ampiamente utilizzati in altri paesi europei e anche in Italia per la Pedemontana lombarda o previsti per la Livorno-Civitavecchia? E quale flessibilità di gestione e di tariffazione sarebbe

possibile attraverso questo sistema? Dato il modesto avanzamento dei lavori si sarebbe probabilmente ancora a tempo per modificare il sistema di esazione, che vorrebbe dire semplificare enormemente svincoli e connessioni con la viabilità ordinaria, diminuire i costi di costruzione e di gestione e risparmiare risorse da dedicare alle necessarie misure a favore del traffico locale.

In ogni caso le vicissitudini della Pedemontana veneta costituiscono una perfetta dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, della necessità di modificare profondamente il processo decisionale relativo alle grandi infrastrutture. Le riforme avviate con il nuovo Codice degli appalti [23] e l’abolizione della Legge Obiettivo vanno in questa direzione disegnando un itinerario assai diverso da quello fin qui descritto. Nelle nuove regole il progetto preliminare è sostituito da un ben più approfondito e valutato Progetto di fattibilità tecnica economica (PFTE) strutturato attraverso il confronto tra alternative e l’analisi costi-benefici. La elaborazione definitiva del PFTE dovrà essere preceduta da un Dibattito Pubblico capace di far emergere la domanda reale, gli interessi collettivi e i problemi dei territori interessati. La solidità dei progetti ottenuta attraverso tali fasi progettuali dovrebbe essere in grado di ridurre al minimo il contenzioso e l’aumento dei costi, perché il progetto dell’infrastruttura potrà tener conto da subito dei problemi, invece di rincorrere con continue variazioni gli esiti del contenzioso e delle opposizioni locali sui progetti definitivi ed esecutivi. La programmazione integrata di ordine nazionale e locale consentirà di definire lo schema strategico della rete infrastrutturale ai diversi livelli, con le sue sinergie e le sue priorità. Le nuove regole, valide anche per le infrastrutture di interesse regionale, renderanno più facile, almeno si spera, decidere infrastrutture condivise e appropriate al loro ruolo, valutate nei loro effetti economici, sociali ed ambientali rispetto ad altri impieghi delle risorse pubbliche. Infrastrutture realizzate con costi prevedibili, maggiore rapidità e regole meno vulnerabili a fronte degli interessi privati confliggenti. Con vantaggio per l’erario e per le popolazioni interessate.

Note

[1] Tutti gli atti ufficiali richiamano la successione degli atti politici, normativi o in varia forma autorizzativi che hanno fin qui sostanziato l’iter decisionale della Pedemontana. Ad essi si rimanda. In queste note si fa riferimento alle note interpretative di tali atti, redatte da partiti, associazioni, organizzazioni della società civile.
[2] Il progetto del 1992 prevedeva 85% del tracciato di tipo III Anas (m 18,60 a carreggiate separate) e 15% del tracciato di tipo IV Anas (m 10,70 a carreggiata unica).
[3] La Margherita – Insieme per il Veneto Breve storia della Pedemontana Veneta, novembre 2004.
[4] La logica di tali promesse si fondava sull’aspettativa, da parte del Concessionario, di consistenti allungamenti delle Concessioni sulle autostrade già realizzate. Ma già negli anni ’90 le norme europee imponevano l’obbligo di gara ad evidenza pubblica per la realizzazione di nuove opere e vietavano quindi allungamenti di concessione motivati dalla realizzazione di nuove opere da parte del concessionario. Senza contare che la Legge 492/1975 aveva vietato la costruzione di nuove autostrade in concessione proprio a motivo della loro dimostrata impossibilità di remunerare gli investimenti attraverso il pedaggio. Lo Stato, garante dei debiti delle concessionarie, era chiamato a coprire le loro insolvenze presso il sistema bancario, generando così insostenibili impegni di spesa pubblica. Per dare un’idea della dimensione del problema, quando la Legge 531/1982 Piano decennale per la viabilità di grande comunicazione riaprirà la vicenda delle concessionarie, il contributo a fondo perduto chiesto allo Stato per la realizzazione di nuove autostrade in concessione era dell’ordine del 65-70% dell’investimento.

[5] Si prevedono 3 barriere di pagamento di un pedaggio fisso: due collocate alle estremità per il collegamento con le autostrade A31 e A27 e una in posizione centrale, al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Treviso.
[6] Tale previsione è dovuta all’emendamento proposto dal Senatore Giorgio Sarto, dei Verdi.
[7] In realtà il progetto Bonifica adottava una sezione più ampia di quella delle “Strade extraurbane principali di tipo B”: la banchina in destra passava da m1,75 a m 2,50 e la sezione complessiva da m 22 a m 24,50. Se si considera che per le Strade extraurbane di tipo A, ovvero le Autostrade, le norme prevedono una sezione di 25 m è evidente il tentativo di ridurre il passaggio alla Superstrada un fatto meramente nominalistico.
[8] Il Telepass, antesignano del pedaggiamento telematico, è stato introdotto sperimentalmente in Italia nel 1990
[9] Nel mio ruolo di rappresentante del Ministero dell’ambiente, DG del Servizio di Valutazione dell’impatto ambientale, ebbi modo di partecipare a quella riunione e di registrare l’evidente fortissima resistenza della Amministrazione regionale ad immaginare qualcosa di diverso da una tradizionale autostrada in concessione.
[10] Per un efficace quadro critico della attuazione della Legge Obiettivo si vedano i lavori del WWF e in particolare il Dossier Il corto circuito del programma delle infrastrutture strategiche – Controstoria di dieci anni di Legge Obiettivo, 2011.

[11] L’abolizione della Legge Obiettivo e la ripresa della programmazione in materia di infrastrutture è una delle previsioni più qualificanti del nuovo Codice dei contratti Dlgs 50/2016.
[12] La Società Pedemontana Veneta è composta da Autostrade per l'Italia, Autostrada Brescia-Padova, Autovie Venete, Banca Antonveneta, Unicredit e San Paolo.
[13] Un trasferimento accompagnato da molte polemiche: perché la nuova Società può disporre di un progetto già sviluppato? Non si configura in tal modo una ingiusta posizione di privilegio rispetto ad altri possibili concorrenti? Il progetto, che comunque costituisce una proprietà pubblica, è stato trasferito a titolo oneroso o a titolo gratuito?

[14] La sezione adottata per la superstrada è di m 24,50 contro quella di 25 m prevista dal Codice della Strada per le autostrade.
[15] Nel 2017 la Regione Veneto, nell’approvare il III Atto convenzionale stima nel 27% l’avanzamento dei lavori.
[16] Termine utilizzato per indicare la chiusura dell’operazione finanziaria con le banche, che deve avvenire, in base al III Atto convenzionale, entro tempi certi.
[17] In particolare la Relazione del 2015 (Deliberazione 30 dicembre 2015, n. 18/2015/G) ripercorre puntualmente e criticamente tutto l’iter decisionale.
[18] Art. 8 della Convenzione registrata in data 27.10.2009 presso il notaio Gasparotti.
[19] Il commissariamento scade nel 2016. In vista di tale scadenza la Regione Veneto ha provveduto ad istituire nell'ambito della Segreteria Generale della Programmazione una Struttura di Progetto "Superstrada Pedemontana Veneta" che eredita le funzioni del Commissario senza tuttavia averne i poteri derogatori.
[20] L’immagine è tratta dal testo Pedemontana: la via dell’identità descrittivo in tono agiografico delle caratteristiche fisiche dell’opera e degli aspetti paesaggistici e naturalistici del territorio valorizzati dalla nuova strada.
[21] Cfr la Validazione del metodo di calcolo dei flussi veicolari attesi nella superstrada pedemontana veneta, commissionata dalla Regione al prof. Pasetto dell’Università di Padova.

[22] Nel sistema free flow i veicoli che percorrono la strada sono riconosciuti automaticamente attraverso dispositivi posti a bordo dei mezzi e portali collocati lungo i percorsi, Il pedaggio, commisurato al percorso e alla tipologia di utente, è scalato senza rallentamento e senza incanalamento attraverso card prepagate o attraverso altri sistemi di pagamento, compreso il pagamento differito mediante addebito al conto corrente del proprietario del veicolo.

[23] Dlgs 50/2016

Per ricordare questo disastro (9.10.1963) e la perversa logica degli interessi industriali che lo determinò ripresentiamo gli articoli di Paolo Cacciari, Toni De Marchi, Oscar Mancini e della straordinaria giornalista Tina Merlin che denunciò gestori e tecnici, che sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, quindi pericoloso. (i.b.)



Qui anche il link allo spettacolo di Marco Paolini racconta tutta la storia del Vajont costata la vita a 1910 persone, facendo (ri)scoprire al grande pubblico questo disastro ambientale e umano, in quanto poteva essere evitato. Lo spettacolo andò in onda su Rai2 la sera del 9 ottobre del 1997 in diretta dalla diga.

No grandi navi, 29 settembre 2018. Un'inequivocabile dissenso nei confronti del governo da parte di comitati ambientalisti che da anni si battono contro grandi opere, inquinamenti, privatizzazioni di beni comuni e più in generale contro un modello di sviluppo neoliberista e predatorio. Con riferimenti (i.b.)

Parte da Venezia un percorso di mobilitazione contro le grandi opere e contro il governo del cambiamento che, attraverso il coinvolgimento aperto e partecipato di tante istanze territoriali, porterà a una data nazionale.

Ci siamo incontrati in tante e tanti, in centinaia, qui a Venezia. Trovarsi è sempre importante, lo è ancora di più farlo in un momento come questo. Siamo di fatto alla chiusura del primo semestre di vita di questo nuovo governo. Il primo, come amano dire “i vincitori eletti dal popolo”, dopo anni di governi tecnici. Tanti proclami elettorali, tante promesse, tanti slogan. Ad oggi non pare però cambiare molto nella vita delle persone e del paese, lavoro e reddito che mancano, povertà, diritti, salute, ambiente. Si riempiono però i telegiornali di slogan e di decreti, come quello sicurezza, che poco cambiano la vita delle persone. Un governo che gioca più sulle paure che sulla sostanza. Una utile guerra tra poveri per far stare tranquilli i ricchi.

“Abbaiare” contro i migranti è utile a nascondere uno degli aspetti per cui il cosiddetto governo del cambiamento sembra invece allinearsi a tutti quelli che l’hanno preceduto: ci riferiamo alle politiche in tema di modello di sviluppo e grandi opere. Ecco il voltafaccia del Movimento Cinque Stelle che ha promesso lo stop alle grandi opere ed ora si rimangia la parola. Lo fa a partire dalle Grandi Navi e dal Mose a Venezia, le prime avrebbero dovuto scomparire e invece rimangono in Laguna, il secondo avrebbe dovuto essere bloccato e invece pare ormai inarrestabile. Procedono spedite anche le altre grandi opere regionali, tutte benedette dal Presidente Zaia e dalla Lega.

Il TAV avrebbe dovuto essere cancellato, invece si balbetta di costi e benefici (e la stessa cosa vale per il Terzo Valico). Il TAP è stato “blindato” dal Presidente della Repubblica e dal ministro degli Esteri. Taranto è stata tradita sull’ILVA. Le zone terremotate del centro Italia sono di fatto abbandonate a loro stesse. I progetti di trivellazione vanno avanti come se nulla fosse e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

Il tragico crollo del ponte Morandi a Genova è l’emblema del collasso del sistema infrastrutturale italiano, fondato sul cemento, appaltato ai privati, gestito con inumana negligenza.

In questa situazione ci pare chiaro che non esistano governi amici e che tutti i comitati e i movimenti territoriali siano chiamati ad un salto di qualità, cioè alla costruzione di un fronte unito che, da subito, sappia mettersi in movimento, da sud a nord, per ottenere finalmente lo stop alle grandi opere, in nome di una giustizia ambientale che passa per la fine della corruzione e per l’investimento in messa in sicurezza di tutti i territori, e che porti alla costruzione di una manifestazione nazionale a Roma entro l’autunno.

Questo è il nostro impegno. E’ un’assunzione di responsabilità che nasce a partire dalla consapevolezza della nostra forza, della diffusione capillare dei nostri comitati. Noi non manifestiamo “solo” contrarietà a singole opere, non proponiamo “solo” alternative per singoli territori, ma oggi ci riconosciamo come forza collettiva che esprime modelli di convivenza sociale ed ambientale diametralmente opposti a chi ci governa. Alla distruzione del territorio, alla corruzione, alla mancanza di democrazia, al patriarcato ed al razzismo noi contrapponiamo modelli di convivenza che si basino sul rispetto reciproco tra natura umana e non umana, tra provenienze geografiche e generi.

In tutto questo i cambiamenti climatici ci pongono davanti alla sfida urgente di pensare e agire insieme per costruire un modello diametralmente opposto a quello del sistema neoliberista basato sulla crescita infinita e sull’estrattivismo.

Spezzare il meccanismo perverso delle grandi opere non è un’urgenza tra le tante, nemmeno afferisce al solo ambito dell’ambientalismo. Questa è una sfida cruciale per tutte e tutti coloro che vogliono cambiare il clima politico generale di questo paese, per battere Salvini e, al tempo stesso, per non ritornare al passato.

Per questa ragione Venezia ha rappresentato la prima tappa di un percorso che vorremmo portasse ad una grande mobilitazione nazionale dei movimenti contro le grandi opere, per la giustizia ambientale e per i beni comuni. In questa idea non vi è nulla di scontato, ma sappiamo che la prima condizione per il suo successo è quello di dare vita ad un processo aperto e partecipato, in grado di accogliere realmente le tante istanze territoriali e di trasformarle in forza collettiva.

Per questo abbiamo scelto di non lanciare immediatamente una data di mobilitazione, ma di costruire alcuni appuntamenti intermedi, uno dei quali sarà in Val di Susa a breve.

Vogliamo così gettare le basi per un percorso che non si esaurisca in una data di mobilitazione ma sia capace di costruire l’alternativa di cui parliamo.

Nella intensa giornata di assemblea, i comitati veneti hanno espresso la volontà e la necessità, a partire dal movimento No Pfas, di riunire e intrecciare le lotte regionali che si battono in diversa forma per il bene comune, per costruire una giornata di mobilitazione comune da fare a Venezia per puntare il dito contro il sistema che da Galan a Zaia ha permesso la devastazione e il biocidio nel nostro territorio.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Riferimenti

Sull'assemblea si legga anche "Ambiente e democrazia. A Venezia si sono riuniti i movimenti contro le grandi opere per la giustizia climatica" di Riccardo Bottazzo su ecomagazine.

Sul sito Nograndinavi l'appello dell'assemblea di Venezia del 30 settembre con l'elenco dei comitati e movimenti che hanno aderito.
Sul programma e obiettivi dell'assemblea nazionale che si terrà a Firenze il 6-7 ottobre si veda il sito di notavfirenze.
In merito a questo percorso si consiglia l'articolo scritto per eddyburg di Paolo Baldeschi "Politica e grandi opere inutili".

comune-info, 17 settembre 2018. Il più grande aeroporto dell'emisfero occidentale alla 'consultazione popolare', ma che valore ha questo strumento quando non tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione ragionata sono condivise? (i.b.)

"È assai probabile che il nuovo governo di Andrés Manuel López Obrador decida di sottoporre la prosecuzione dei lavori di costruzione del mega-aeroporto di Città del Messico, che avrebbe un impatto devastante sul suolo, l’acqua e l’aria della capitale, a una consultazione nazionale vincolante. Siamo talmente abituati all’arbitrio assoluto di poteri politici ed economici dispotici che la prima reazione di chi legge una notizia del genere non può che essere positiva. Gustavo Esteva ci spiega invece, in modo oltremodo convincente, perché non è così. La democrazia plebiscitaria può provocare disastri se tutti non hanno accesso alle informazioni indispensabili. Si crea l’illusione che la gente prenda nelle proprie mani importanti decisioni di governo, mentre non fa altro che ballare al ritmo di una musica suonata da altri. Avrebbe senso che tutte e tutti i messicani partecipassero a questa consultazione se il quesito venisse posto in termini corrispondenti ai loro interessi e all’informazione di cui dispongono. Si dovrebbe decidere, per esempio, se dedicare considerevoli risorse pubbliche all’aeroporto più fantasioso, più grande e capriccioso del mondo, oppure alle molte altre opere necessarie, come scuole e ospedali"

La settimana comincia male se al lunedì ti impiccano. Oppure ti danno la possibilità di scegliere se essere impiccato lunedì o venerdì.

La consultazione vincolante relativa alla costruzione del Nuovo Aeroporto di Città del Messico potrebbe essere la prima delle grandi decisioni del nuovo governo, che ha cominciato a governare il primo di luglio, con l’intensificarsi dell’abbandono delle funzioni di governo dell’attuale amministrazione, iniziato molto prima. Ma questa sarebbe una delle sue prime decisioni importanti. Così come è impostata, è un pessimo modo per iniziare la gestione.

Raúl Zibechi ha inquadrato correttamente consultazioni e plebisciti (“Plebiscitos y movimientos antisistémicos”, La Jornada, 31/8/18). Sono diventati di moda e possono essere utili strumenti di lotta, nel contesto molto limitato della democrazia rappresentativa, ma sono anche molto rischiosi. Creano l’illusione che la gente prenda nelle proprie mani importanti decisioni di governo, mentre non fa altro che ballare al ritmo di una musica suonata da altri. Tutto dipende da ciò che è sottoposto a consultazione e dal modo in cui la consultazione viene fatta, il che dipende dal governo.

La California e la Svizzera sono i paesi che più utilizzano la procedura. L’esperienza è ambigua. Sembra utile la consultazione che ha permesso agli svizzeri di limitare i salari dei dirigenti delle grandi imprese, ma ormai solo il 40% della popolazione risponde alla chiamata. Anche i votanti della California sono stufi. Nel mese di novembre del 2016 hanno dovuto rispondere a più di 30 domande su questioni locali, regionali e statali. Quelli che l’hanno fatto in maniera responsabile da casa loro, votando per posta, hanno dovuto dedicarvi diverse ore. In molti casi non sapevano che cosa pensare; dovevano decidere su cose che non conoscevano, e quindi reagivano emotivamente, non sulla base di argomentazioni ben fondate. Hanno ormai la sensazione che le consultazioni chiedano loro di assumersi i compiti tecnici per i quali hanno eletto un funzionario.

Dobbiamo discutere seriamente sul valore della consultazione vincolante. I popoli originari devono essere consultati in tutto ciò che li riguarda, specialmente quando sono in gioco i loro territori. In questo caso è importante prestare attenzione alle condizioni in cui si compie la consultazione. Anche in altri casi la consultazione può essere utile. Ma lo strumento deve essere utilizzato con cura. Può essere non solo inutile, ma anche controproducente.

Non è sensato sottoporre a una consultazione nazionale la decisione sull’ubicazione dell’aeroporto; sarebbe impossibile che tutta la gente possa avere accesso alle informazioni che permetterebbero di mettere a confronto in maniera adeguata il progetto in corso con l’ubicazione a Santa Lucía (ndt – Base militare a ovest di Città del Messico). Avrebbe senso che tutte e tutti i messicani partecipassero a questa consultazione se il quesito venisse posto in termini corrispondenti ai loro interessi e all’informazione di cui dispongono, come quelli recentemente proposti dal nuovo titolare del Ministero delle Comunicazioni e dei Trasporti. Si dovrebbe decidere se dedicare considerevoli risorse pubbliche all’aeroporto più fantasioso, più grande e più capriccioso del mondo, oppure ad opere necessarie, come scuole e ospedali (La Jornada, 7/9/18).

Perché la gente si pronunci in base a un’informazione adeguata, dovrebbe risultare chiaramente dal quesito che il nuovo aeroporto avrebbe un impatto devastante sul suolo, l’acqua e l’aria di Città del Messico, sia per la costruzione stessa che per il continuo aumento del traffico aereo, altamente inquinante. Dovrebbe inoltre essere chiaro che si danneggerebbero gravemente i territori e le condizioni di vita di molte comunità della zona. Che ci sarebbe un impatto negativo sulla vita di tutti gli abitanti dell’area metropolitana. Per tutti questi motivi, la consultazione deve offrire la possibilità di dire di no.

La cosa più importante sarebbe presentare con chiarezza le opzioni. Tutti possono capire che invece di continuare a concentrare il traffico aereo in Città del Messico bisogna allontanarlo da lì. È possibile fornire informazioni su come sarebbe facile e a buon mercato far questo, se gli interessi della gente contassero più di quelli delle grandi imprese. Non ha senso che quelli che volano da una città all’altra del paese debbano passare per la capitale, ad esempio che debbano passare di qui quelli che vanno da Oaxaca a Tuxtla. È irrazionale che si mantenga sottoutilizzato il sistema aeroportuale metropolitano, che collega gli aeroporti di Cuernavaca, Puebla, Querétaro e Toluca con la capitale, il cui utilizzo potrebbe ridurre almeno di un quinto i voli attuali per Città del Messico. Per decidere, la gente dovrebbe sapere che a fronte degli ingegneri e delle grandi imprese che si pronunciano a favore del progetto in corso, molti altri esperti lo criticano per fondati motivi. Dovrebbe anche sapere che meno del 2 per cento degli abitanti di Città del Messico usa il trasporto aereo.

Il nuovo governo deve ripensare la sua proposta. Partire con un esercizio ingannevole e ciecamente autoritario è un pessimo modo di iniziare un’avventura che vuole essere democratica. Se ha già deciso di sottoporre la decisione a una consultazione, deve ripensare la sua formulazione.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

I comitati che si oppongono alle opere, grandi, inutili e dannose, si riuniranno prima a Venezia il 29 settembre e poi di seguito a Firenze il 6 e 7 ottobre, per condividere conoscenze e consolidare alleanze. Segue

I comitati che si oppongono alle opere, grandi, inutili e dannose, si riuniranno prima a Venezia il 29 settembre e poi di seguito a Firenze il 6 e 7 ottobre, per condividere conoscenze e consolidare alleanze. E’ scontato che movimenti come quello No Tav della Val di Susa o il Coordinamento dei comitati della piana fiorentina-pratese e molti altri, abbiano già una forte valenza politica, tuttavia, per lo più, locale e individuale; ma ora che la battaglia si sta trasferendo ai “piani alti” del potere, anche a seguito degli impegni elettorali del Movimento 5 Stelle, vi è consapevolezza che le lotte in corso dei tanti gruppi che difendono non solo il loro territorio ma il territorio di tutti, debbano acquisire una dimensione politica più generale.

La lotta contro le grandi opere inutili, tenacemente volute dal Pd e da Fi, rappresentanti degli interessi di banche e imprese costruttrici, prigionieri di una coazione ripetitiva che vuole traffici sovrastimati e costi sottostimati contro ogni evidenza economica e di buon senso, non può avere una valenza soltanto negativa e, di fatto, molte idee in proposito sono state avanzate e talvolta fatte proprie dai movimenti. Prima fra tutte la proposta di una grande opera (questa sì) di risanamento del territorio, a partire dal contenimento del rischio sismico e idrogeologico, all’interno di uno scenario in cui la cura dell’ambiente e del paesaggio prenda il posto di uno sfruttamento miope e distruttivo, che ha l’aggravante di non portare alcun vantaggio economico se non ai suoi promotori.

Questo scenario e la sua realizzabilità è stata più volte argomentata in varie sedi, tra cui eddyburg, e non occorre tornarci sopra, se non per notare che il “Contratto per il governo del cambiamento”, siglato tra Movimento 5S e Lega, prevede “una serie di interventi diffusi in chiave preventiva di manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo, anche come volano di spesa virtuosa e di creazione di lavoro, a partire dalle zone terremotate…” e azioni di prevenzione che comportino interventi diffusi di manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo su aree ad alto rischio, oltre … interventi di mitigazione del rischio idrogeologico. (Contratto, paragrafo 5).

Tuttavia, la manutenzione e la cura del territorio, per quanto possano essere utili, non sono ancora sufficienti a delineare una vera e propria alternativa politica. La vera novità sarebbe porre l’ambiente (e il paesaggio) al centro di un programma che porti l’Italia sulla linea dei paesi che stanno riconvertendo il proprio apparato produttivo verso settori economicamente e socialmente più avanzati, un programma che, tra l’altro, sia all’altezza delle sfide poste dal cambiamento climatico. Qui non si tratta di fuoriuscire dal capitalismo, ma semplicemente di non seguire pedissequamente la vulgata neoliberistica – riforme strutturali intese come compressione dei salari e diritti dei lavoratori, privatizzazione delle risorse pubbliche, deregolamentazione del mercato, attacco al welfare, ecc. – il tutto condito da corruzione e inefficienza.

Ambiente e territorio, come un patrimonio centrale per la qualità della vita, costituiscono perciò il lato materiale di una politica cui deve corrispondere una controparte culturale e sociale all’altezza: l’una componente tiene l’altra e entrambe sono reciprocamente necessarie. La cura del territorio e la centralità dell’ambiente non hanno bisogno solo di strumenti e risorse finanziarie, ma di creatività e imprenditorialità che, a loro volta, richiedono conoscenze specifiche e innovative. Richiedono, perciò, investimenti nella scuola, nell’università, nella ricerca, oltre che una riorganizzazione dell’intero sistema dell’istruzione.

A questo proposito, i dati del rapporto Ocse Education at a glance del 2017 che riguardano il nostro paese sono sconfortanti. In Italia, solo l’1% del Pil è destinato alla formazione di terzo livello, due terzi della media europea; non vi è da stupirsi, perciò, che la percentuale dei nostri laureati sia tra la più bassa dei paesi Ocse (il 18% - peggio di noi fa solo il Messico), contro il 37% di media; e se i giovani (25-34 anni) fanno un po’ meglio con il 26% di titoli universitari, siamo ancora ben lontani dalla media Ocse (43%): Coerentemente (nel peggio), la spesa pubblica dell'Italia per l'istruzione (nel 2014) è stata pari al 7,1% di quella totale, all’ultimo posto tra i paesi Ocse.

La dimensione politica dei movimenti contro le grandi opere, trascende perciò il qui ed ora e la settorialità, anche se le lotte in corso ne costituiscono il propellente e il “nocciolo caldo”. La dimensione politica reclama a sua volta una politica alternativa a livello centrale, qui sta il vero cambiamento e su questo si dovranno misurare i programmi di governo se non vogliono rimanere solamente un flatus vocis di promesse elettorali.

Il programma completo delle mobilitazioni che si terranno a Venezia il 29-30 settembre 2018, organizzate dal Comitato NOGrandiNavi – Laguna Bene Comune.


PROGRAMMA DELLE MOBILITAZIONI
CONTRO LE GRANDI NAVI E LE GRANDI OPERE



Sabato 22 settembre 2018, ore 18.00
Pescheria-Rialto, Venezia
Assemblea pubblica per fare il punto sulle grandi navi e per costruire assieme le giornate di mobilitazione.








Sabato 29 settembre 2018, ore 15.00
S.a.l.e. docks (magazzini del sale), Dorsoduro 265, Venezia
Assemblea nazionale dei comitati e movimenti contro le grandi opere, per la giustizia ambientale
Qui link all'appello.



Domenica 30 settembre 2018, dalle 15.30

Zattere, Venezia
Manifestazione, giochi d’acqua contro le grandi navi da crociera. Una grande festa per il rispetto della nostra laguna e della nostra città.
Partecipazione con ogni tipo d’imbarcazione; barche a motore a remi a vela, canoe, kayak, pedalò, etc.
Per chi viene senza barca appuntamento alle Zattere dalle ore 16 in poi al presidio, dove si trovano vari gazebi con materiali vari e punti di ristoro.
Per chi viene in barca appuntamento di fronte villa heriot giudecca alle ore 15.30.
La parata di barche partirà da villa heriot e raggiungerà il presidio all'altezza delle zattere dove saranno allestiti degli ormeggi galleggianti per garantire momenti di pausa ai vogatori e dei punti di ristoro in acqua.

Qui il testo dell'Appello per l'assemblea nazionale dei comitati contro le grandi opere e per la giustizia ambientale, che si terrà il 29 settembre 2018, ore 15.00 a Venezia. Per difendere i nostri territori da opere inutili e ambientalmente devastanti e da governi irresponsabili, ciechi e mascalzoni.



Invito Assemblea Nazionale

29 settembre 2018, h. 15.00
S.a.L.E. Docks (Magazzini del Sale), Dorsoduro 265, Venezia
Il balbettio sul TAV del nostro Ministro delle infrastrutture secondo cui l'opera andrebbe ora "migliorata" e non più cancellata, la visita in Azerbaijan di Mattarella e Moavero Milanesi per "blindare" il TAP, le recenti dichiarazioni dello stesso Toninelli sulla necessità di mantenere le grandi navi in laguna dimostrano che, in merito a grandi opere e giustizia ambientale, il governo del cambiamento è in realtà il governo della continuità.

Il fatto è ancora più grave se pensiamo a quanto il Movimento 5 Stelle abbia politicamente lucrato, in campagna elettorale, sulla contrarietà di tante e tanti nei confronti di un modello di sviluppo che calpesta i territori, rapace e generatore di malaffare. A proposito, anche sul MOSE (opera obsoleta che è già costata alle nostre tasche oltre 5 miliardi, "bruciandone" uno e mezzo in corruzione) la solfa del Ministro è la solita: "Noi l'opera non l'avremmo fatta, ma adesso che c'è non può essere messa in discussione".

E così la giostra continua a girare, del resto a Genova non è crollato "solo" un ponte, quel fatto ci interroga tragicamente sul crollo di una stagione di sviluppo territoriale neoliberista che trascina con sé anche quei pezzi di paese che sono stati costruiti prima degli anni '70, è il caso del "Ponte Morandi". Una stagione fatta di cementificazione e consorterie, secondo uno schema che si è affermato diventando sistema, al sud come al nord, ad ovest come ad est. Dobbiamo continuare ad insistere: prima di grandi investimenti infrastrutturali, un serio lavoro di messa in sicurezza dei territori è necessario. Ancora una volta, in questa battaglia non ci sono governi amici.

Se ci cimentassimo (come va di moda in questo periodo) in un'analisi costi/benefici dell'azione di governo svolta sinora, diremmo che i benefici sono andati tutti a Salvini, a noi rimangono i costi, non solo in termini di sfacelo ambientale, ma anche in termini di clima sociale che si respira nel paese.

Vorremmo cogliere l'occasione dell'assemblea veneziana per confrontarci anche su questo aspetto. I comitati e i movimenti per la giustizia ambientale sono oggi tra gli esempi migliori di resistenza contro la presa del discorso reazionario, contro il nazionalismo e l'incitamento alla guerra tra poveri, una guerra utilizzata come arma di distrazione di massa, mentre imperterrita continua la rapina dei nostri territori. Una rapina che, guarda caso, in Veneto è proprio a trazione leghista.

Al contrario, i territori dei comitati e dei movimenti per la giustizia ambientale non sono segnati dalla paura, non chiedono la guida dell'uomo forte, rigettano la tentazione identitaria. Le nostre identità le abbiamo costruite nel corso di anni di lotta, rinforzando il legame sociale contro il primato dei rancori individuali, pretendendo democrazia contro il binomio sicurezza/repressione, costruendo con i territori un rapporto di reciproca rigenerazione e non di unilaterale estrazione.

Attorno a questa forza vogliamo aprire un dialogo, senza l'ansia della costruzione di strutture formali, ma con la convinzione di dover rinforzare l'azione comune. Possediamo un patrimonio di forza che dobbiamo ancora esprimere pienamente, abbiamo la possibilità di farlo. Bisogna scegliere se assumersi collettivamente la responsabilità di fare un passo in più rispetto al già importante lavoro che quotidianamente portiamo avanti.

Sullo sfondo dell'attuale situazione politica, il valore dei comitati emerge con ancora maggiore chiarezza, un valore che va ben oltre i confini dei singoli territori. Al tempo stesso il prevedibile voltafaccia del governo dimostra che non si vince la battaglia contro le grandi opere se non dentro la lotta per una radicale e complessiva svolta democratica che investa il piano economico, politico, sociale e culturale.

Ripartiamo da qui! Incontriamoci a Venezia.

Hanno già comunicato la partecipazione:

Movimento NoTav
Movimento NoMuos
Movimento No Tap
No Tav terzo valico Alessandria
Stop Biocidio Napoli
Terre in Moto Marche
No Dal Molin Vicenza
Comunità Salviamo la Val D'Astico - NO A31
Comitato No Pedemontana
Opzione Zero
Ambiente Venezia
Eco-Magazine
COBAS Scuola del Veneto
Assemblea permanente contro il rischio chimico Marghera
Associazione Eddyburg
Movimento Salviamo le Apuane
Medicina Democratica Onlus
Città Plurale - Matera
Trivelle Zero Molise
No Hub del Gas Molise
Fondazione "Lorenzo Milani" Onlus Termoli
Comitato No Tunnel TAV di Firenze
PCI federazione di Venezia e Treviso
Comitato Diritto alla Città di Rovigo
Comitato popolare Lasciateci Respirare Monselice
Comitato Acqua Bene Comune Belluno
Associazione Medici di Famiglia per l'Ambiente di Frosinone e provincia
Associazione Ya Basta Edi Bese
Adl Cobas
Comitato No Terza Corsia A13 Padova – Monselice

Per adesioni scrivere a nobigship@gmail.com

il manifesto, 31 agosto 2018. Il sistema di potere veneto sostenitore delle grandi opere, per nulla scalfito persegue i suoi obiettivi: fare affari sulla pelle dei contribuenti e facendo scempio del territorio. Con riferimenti (m.p.r.)

«Summit leghista. Il ministro rassicura il governatore, anche sulle Grandi navi: "Non si possono mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di indotto proveniente da milioni di turisti che portano ricchezza”»

Scuola Grande di San Rocco blindata per il “summit leghista” fra il governatore Luca Zaia e il vicepremier Matteo Salvini per la Pedemontana Veneta e per «dare un seguito al plebiscito per l’Autonomia». Gli attivisti dei centri sociali hanno srotolato un grande striscione («Salvini Not Welcome») dal ponte di Rialto e occupato il pontile di palazzo Balbi, dichiarandolo «chiuso al razzismo».

In diretta Fb, Zaia incassa la firma collettiva al nuovo Protocollo di legalità con cui anche imprese e sindacati si impegnano a garantire cantieri “trasparenti” per 2,2 miliardi di euro. La Pedemontana, un’altra delle Grandi Opere avversata dal M5S per l’impatto ambientale, attraversa in 94 chilometri e 16 caselli il territorio di 36 Comuni, dal Vicentino alla provincia di Treviso. Il primo tratto Breganze-Marostica potrebbe essere inaugurato già fra due mesi.

«È un accordo di responsabilità in modo da allinearsi alle direttive nazionali e anti-corruzione per una lotta vera all’infiltrazione mafiosa e alla corruzione» afferma il governatore del Veneto, che ha investito 300 milioni nel progetto. «Al concessionario (la spagnola Sis,ndr) non andranno i pedaggi, che saranno invece incamerati dalla Regione, ma un canone di 153 milioni all’anno, sulla base di un flusso stimato in 24mila auto giornaliere».

Il capitano di palazzo Chigi si è, invece, sbilanciato sul futuro di Venezia e delle Grandi Navi. «Come governo ragioneremo sulla possibilità di individuare poteri speciali da assegnare a qualcuno che riassuma le competenze attualmente sparse negli uffici e abbia la responsabilità di tutelare questo gioiello di città» dichiara Salvini, che sembra aver messo nel mirino la legge speciale del 1973 sulla salvaguardia di Venezia, poi aggiornata nel 1992. «Non va messa sotto una teca. Deve restare a disposizione di tutti, tutelando però un patrimonio non solo dei veneziani, ma dell’Italia e del mondo».

Ancor più abbottonato sulle città galleggianti da crociera lungo il Canal Grande [sic]: «È evidente che Venezia va messa in sicurezza, ma anche che non si possono mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di indotto proveniente da milioni di turisti che portano ricchezza. La soluzione si troverà…».

Così Salvini dribbla le ultime dichiarazioni del collega Danilo Toninelli, “corrette” da un comunicato ufficiale del Ministero infrastrutture e trasporti che tuttavia non ha placato le polemiche con Comune e Porto di Venezia. Il 7 settembre in sala San Lorenzo a Castello è in programma l’assemblea del Comitato No Grandi Navi, in vista della manifestazione con “giochi d’acqua” in programma il 30 settembre nel canale della Giudecca.

A Venezia, però, resta tabù il Mose (che costerà 80-100 milioni all’anno di sola manutenzione…). Una cappa di silenzio è calata sul Consorzio Venezia Nuova, commissariato dopo l’inchiesta della Procura e “attenzionato” da Raffaele Cantone. Eppure Comar scarl, che tuttora segue i lavori nelle 78 paratoie mobili, si è già affidata all’ingegner Alberto Borghi: nome connesso con Hmr, società dell’ex direttore Cvn Hermes Redi.

E non basta, perché proprio Borghi – con l’amministratore straordinario Francesco Ossola e il direttore Giovanni Zarotti – a giugno ha perfezionato l’assunzione a tempo indeterminato di Marcello Zanonato, 61 anni, altro ingegnere padovano, come coordinatore della fase di avviamento del Mose. È il fratello di Flavio, padre-padrone del Pci-Pds-Ds padovano, per un ventennio sindaco, poi ministro dello sviluppo economico e attuale europarlamentare LeU. Nel curriculum dell’ingegner Zanonato spiccano i passaggi a Ecoware (società dell’economia green fallita nel 2013) e Milteni, sinonimo dell’inquinamento da Pfas dilagato da Trissino (Vicenza) fino alla pianura fra Verona e la Bassa padovana.

Coincidenze che alimentano l’allarme lanciato dalla petizione con cui si sollecita una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Mose: «Nonostante le condanne dei processi per tangenti e l’intervento di Anac, permangono molte zone d’ombra che il sito ufficiale, che dovrebbe pubblicare tutti gli atti, non chiarisce. Il Consorzio Venezia Nuova pubblica solo 49 bandi di gara per un importo totale di poco più di 310 milioni a fronte dei 6.992.026.413 euro riportati nel bilancio 2017» denuncia l’imprenditore Giuliano Bastianello, che ha ricevuto il premio Giorgio Ambrosoli. È assegnato agli “esempi invisibili” di professionisti che si contraddistinguono nella difesa dello stato di diritto in contesti avversi.

riferimenti

Sulla stima ottimistica della Regione di 24.000 passaggi giornalieri si veda Pedemontana, il perchè delle stime sbagliate di Carlo Giacomini.
I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana raggiungibili facilmente con il "cerca".

il manifesto, 16 maggio 2018. Un riepilogo delle battaglie contro la devastazione del territorio che M5S aveva ingaggiato per difendere la salute e il benessere degli abitanti e che adesso tradisce per un po' di poltrone. Di Maio peggio di Renzi e Berlusconi?

Grandi opere. Dalla Tav in Val Susa al Mose di Venezia, dal Terzo valico ligure fino al Tap pugliese«Dimostriamo che le grandi opere si possono realizzare». Con queste parole Virginia Raggi sabato scorso ha tagliato il nastro della stazione San Giovanni della Linea C della metropolitana di Roma.

La sindaca ha annunciato il cambio di rotta dell’amministrazione capitolina targata Movimento 5 Stelle su quella che viene considerata la grande opera più corrotta della storia della repubblica. Quando era all’opposizione il M5S chiedeva che le talpe sotterranee fermassero i motori. Adesso si apprende che la linea della metropolitana proseguirà come da progetto iniziale fino al lato nordovest della città. Il presidente della commissione mobilità Enrico Stefàno, che solo qualche anno fa aveva firmato la mozione per bloccare i lavori, ha detto di aver «cambiato idea» in seguito ad «approfondimenti e studi». Del resto, i 5 Stelle romani hanno «cambiato idea» anche a proposito della grande opera chiamata eufemisticamente «Stadio della Roma». L’impianto sostenuto dalla giunta sarà accompagnato da una colata di cemento che delinea l’operazione cementi stico-finanziaria che l’ex assessore Paolo Berdini definisce «la più grande speculazione edilizia della storia recente».

Nelle ore in cui gli sherpa grillini erano seduti al tavolo con quelli leghisti per scrivere nero su bianco l’ormai celeberrimo «contratto di governo», Luigi Di Maio ha rilanciato su Facebook le parole di Raggi che sdoganano la grande opera. L’accordo sta incagliandosi proprio sul tema del consumo di territorio, dei cantieri a grande impatto e della difesa dell’ambiente. Ci sono differenze strategiche difficili da superare. Il capitolo in questione è uno di quelli che gli addetti alla trattativa definiscono come «segnati in rosso» perché ancora insoluti. Nodi che si spera di sciogliere alle ultime battute, ancora non si sa bene come. Se ne dovrebbe discutere da questa mattina. A cominciare dalla Tav, che è uno dei temi paradigmatici del M5S: laddove il territorio veniva minacciato da opere considerate dannose e inutili dai cittadini, con la sinistra di governo incapace di mettere in discussione il modello di sviluppo, i pentastellati hanno cominciato a mettere radici.

Beppe Grillo in persona ha sempre sostenuto la lotta dei valsusini contro la linea ad alta velocità, si è preso anche una condanna a 4 mesi per la violazione dei sigilli del cantiere di Chiomonte. Dopo anni, il rapporto tra M5S e No Tav è ancora stretto, anche se i comitati hanno sempre mantenuto la loro autonomia. Non gradendo, ad esempio, la scelta dei 5 Stelle di presentare in Valle liste alle elezioni amministrative, violando di fatto l’accordo non scritto che punta a non dividere le liste No Tav allo scopo di conquistare più sindaci possibili. La sindaca Chiara Appendino ha ritirato l’adesione della città che amministra dall’Osservatorio sulla linea Torino-Lione. Più di recente il M5S, però, ha cambiato idea sul grande evento (con corollario di grandi opere) delle Olimpiadi invernali torinesi. I No Tav, che nel 2006 a Susa bloccarono il passaggio della fiaccola olimpica, non hanno gradito l’inversione di marcia.

Dai comitati contro la Gronda di Ponente, la nuova autostrada che si dipana da Genova, e il Terzo Valico ferroviario, nacque lo zoccolo duro del grillismo ligure. Molti di quegli attivisti storici hanno abbandonato un M5S genovese falcidiato da epurazioni e rotture, ma quelle battaglie sono nel Dna pentastellato. Il fatto che questa come altre opere (come la Valtrompia e la Pedemontana in Lombardia o l’autostrada Tirreno-Brennero) siano cavalli di battaglia delle amministrazioni regionali a trazione leghista del nord rende complicata la mediazione.

Edoardo Rixi è il leghista che è stato assessore alle attività produttive in Regione Liguria e che sta tentando di convincere i potenziali alleati. Operazione impervia: Di Maio nel corso della campagna elettorale è venuto a nordovest per dire che «il Terzo Valico va messo da parte» e per prendere l’impegno di definanziare la Gronda autostradale.
In Veneto, a dividere leghisti e grillini c’è il Mose, il sistema costoso e di dubbia efficacia che dovrebbe arginare l’acqua alta a Venezia che il M5S, assieme ai comitati che da anni vi si oppongono, definisce un «modello di illegalità diffusa».

Più a sud c’è un altro cantiere circondato da filo spinato e assediato da manifestanti: si trova a Melendugno, nel leccese. Serve a costruire il Tap, gasdotto che dovrebbe collegare il Mar Caspio all’Italia. Le denunce del M5S hanno portato al sequestro dell’area per violazione della procedura di Valutazione d’impatto ambientale. Salvini prima delle elezioni aveva l’obiettivo di sfondare la linea gotica e radicarsi al sud, quindi da queste parti si è mostrato più dialogante. Disse qualche mese fa: «Bisogna ascoltare le popolazioni e trovare soluzioni alternative»

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