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Con un documento approvato da una recente assemblea dei soci l’INU (l’Istituto nazionale di urbanistica, una volta autorevole espressione della cultura specialistica) prende le distanze dalla legge Lupi-Mantini e ripropone, con una certa genericità e qualche scivolone, tesi meno devastanti di quelle del quinquennio trascorso. Interessante, invece, il dibattito che prosegue sulle pagine del Giornale dell’Architettura, l’utile mensile diretto da Carlo Olmo. Interviene questa volta (n. 42, luglio-agosto 2005) Bruno Gabrielli, con una tesi articolata in due punti con i quali concordo: 1) non basta predicare la necessità del consumo di suolo; 2) il consumo di suolo si combatte compiutamente solo se contemporaneamente si interviene sulla rendita immobiliare.

Ma è necessario precisare un paio di questioni, sulle quali le rapide argomentazioni di Gabrielli non mi convincono. Ciò servirà anche a ribadire alcuni punti delle proposta ormai denominata “legge di eddyburg” e onorando in tal modo questo sito.

Scrive Gabrielli: “Contenere il consumo di suolo è certamente una priorità. Ma è suffìciente l'enunciazione di principio? Davvero si può risolvere la questione con un divieto generalizzato imposto da una nuova legge urbanistica?” La “enunciazione” non basta certamente, e neppure è sufficiente “un divieto generalizzato”. Perciò nella proposta di legge degli “amici di eddyburg” proponiamo di stabilire un metodo. Di prescrivere cioè che in linea generale e di principio si possano utilizzare, per gli usi urbani, aree attualmente non urbanizzate solo alla condizione che sia previamente dimostrato che le esigenze che lo richiedono non possano essere soddisfatte altrimenti.

Questo principio metodologico sollecita a un modo di pianificare (che spetta alla legislazione regionale di definire, viste le più larghe competenze in materia che sono state attribuite alle regioni dalle modifiche costituzionali del 2001) basato su due pratiche, largamente dimenticate dagli urbanisti e dagli amministratori loro complici. La pratica dell’accurata determinazione dei fabbisogni di trasformazione, e quella della preliminare definizione delle condizioni poste alle trasformazioni dalle caratteristiche proprie dei territori.

Il calcolo del fabbisogno viene oggi considerato, dalla pratica amministrativa e da quella professionale, uno strumento obsoleto. La decisione sulle aree da sottrarre al ciclo naturale, e da conglobare nella “repellente crosta di cemento e asfalto” che Antonio Cederna stigmatizzava, avviene per motivi ben diversi: gli interessi immobiliari, le esigenze di “valorizzazione” di questa o di quell’altra area (appartenente a questo o a quell’altro proprietario), l’incremento dell’occupazione nell’edilizia, l’illusione di agevolare il traffico costruendo nuove arterie, l’arrendevolezza nei confronti delle multinazionali che, devastando aree rurali, scimmiottano la città antica (e la svuotano dal commercio).

Ritornare alla vecchia prassi del calcolo del fabbisogno nei diversi settori della “domanda di spazio”, ossia della preliminare individuazione della quota che è possibile assorbire in trasformazioni delle aree già urbanizzate è la prima conseguenza tecnica del principio della riduzione del consumo di suolo.

Non va sottovalutato che un contributo consistente al consumo di suolo è fornito dalla generalizzazione della “perequazione”, che lo stesso Gabrielli sembra proporre. Altro è estendere a tutte le aree che si è deciso motivatamente (sottolineo motivatamente) di urbanizzare o ri-urbanizzare l’ambito d’applicazione della procedura, introdotta con la legge 765/1967 con i piani di lottizzazione convenzionata, altro è premiare tutte le proprietà “in attesa di edificazione” spalmando sul territorio quote di edificabilità da riconoscere a tutti i proprietari spostandone l’applicazione. È un principio, quello della “spalmatura”, contro il quale Giovanni Astengo scrisse parole di fuoco, e i cui malefici risultati sono perspicuamente espressi dal nuovo PRG di Roma, che rende edificabile grandissima parte dell’Agro romano ancora libero.

Ricondurre la perequazione al ristretto ambito dell’attuazione di scelte di trasformazione definite dalla pianificazione generale, a partire da un rigoroso calcolo del fabbisogno socialmente motivato, eliminare il suo impiego quale strumento per aumentare la dotazione di spazi pubblici e di verde, è dunque una componente importante di una conseguente lotta all’inutile consumo di suolo.

Una ulteriore conseguenza tecnica è quella stimolata dalla legge 431/1985 (la “legge Galasso”), e dalle successive applicazioni in sede amministrativa e professionale (numerose leggi regionali e non poche esperienze di pianificazione) e in sede giurisprudenziale (numerose sentenze costituzionali). Occorre cioè, prima di decidere nel piano urbanistico che “qui si urbanizza per questa necessità, qui per quest’altra, e in questo e quest’altro modo”, individuare quali sono le componenti del territorio connotate da una qualità, da un valore, che richieda non necessariamente la conservazione assoluta di quello che c’è, ma le “regole” che l’esigenza di tutelare quelle qualità, quei valori, pone a ogni intervento dell’uomo.

Tanto per fare un esempio. Se così si procedesse, prima di ragionare se rendere edificabile l’area della famosa lottizzazione berlusconiana (junior) della Cascinazza, si sarebbe deciso che sulle golene dei fiumi, e sulle aree comunque interessate o interessabili dalle sue escursioni e interessate al suo subalveo non si costruisce nulla che non sia immediatamente amovibile.

Se mi è consentita una testimonianza personale, nelle proposte che ho avanzato a partire dal 1984 suggerivo appunto che la componente a tempo indeterminato del piano (quello che oggi viene denominato “piano strutturale”) consistesse, sostanzialmente e in primo luogo, in “una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti” e nell’individuazione, per ciascuna di esse, di quali siano “i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quale e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione” (Convegno nazionale “Luoghi e Logo”, 27-28 nov. 1984, Bologna).

È appunto a questa lettura attenta del territorio e alla conseguente definizione delle regole alle trasformazioni che invita la legge Galasso. Essa è stata assunta dall’INU nel 1994, e fatta propria da numerose leggi regionali. Ma lo è stato in modi così disordinati e pasticcioni, e così intrisi di quella logica di potere nella quale la delega totale ai comuni è integrata dalla più torbida discrezionalità regionale, da fornire risultati molto insoddisfacenti.

È alla logica della legge Galasso, ripresa e ribadita dalle successive edizioni del Codice del paesaggio (una delle poche cose non malvagie fatte dal governo Berlusconi) che la proposta di legge degli “amici di eddyburg” si ispira. Essa infatti propone, riprendendo una proposta di Italia Nostra, di aggiungere il territorio rurale tra le categorie di beni protetti dalla legislazione paesaggistica. Rafforzando in tal modo, e in nome d’un evidente “interesse nazionale”, la difesa dallo sprawl del territorio non urbanizzato.

Gabrielli ritiene che sarebbe necessario incidere su quelle che sono, a suo parere, le tre componenti del consumo di suolo: l’edilizia economica e popolare, i piani di lottizzazione, l’edilizia “spontanea”. Poiché il più contiene il meno, i principi proposti dalla “legge di eddyburg” e la loro corretta applicazione nelle legislazioni regionali soddisfano pienamente questa esigenza. Ma oltre che all’edilizia abitativa (pubblica, privata-programmata o privata “spontanea”) componenti sempre più consistenti sono gli interventi pubblici per le infrastrutture e gli interventi aziendali di grandi dimensioni e di portata territoriale: dalle grandi strutture per il commercio a quelle per la logistica, da quelle per l’intrattenimento a quelle igieniche.

L’unico modo per ricondurre all’ordine anche queste componenti dello sprawl è quello di affermare con forza (non solo con le perorazioni accademiche, ma con precise prescrizioni legislative) che “la pianificazione del territorio è lo strumento fondamentale attraverso cui si realizzano gli obiettivi propri” del governo del territorio: come appunto si afferma nella “legge di eddyburg”.

Pianificazione a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale oltre che comunale. Pianificazione in cui le competenze siano articolate tra i diversi livelli di governo in relazione al livello d’incidenza, “alla scala dei loro effetti”,come stabilisce il principio di sussidiarietà nella sua accezione europea. Pianificazione cui sono subordinati tutti gli interventi di trasformazione del territorio, da chiunque operati. Pianificazione “autoritativa” e pubblica, ben diversa quindi da quella della malfamata legge Lupi-Mantini.

Per combattere lo sprawl, sostiene Gabrielli, occorre affrontare la questione della rendita fondiaria. Giustissimo, a meno che non si tratti di “benaltrismo”,cioè di evasione da un obiettivo raggiungibile perché “la questione è ben altra!”. Per ottenere qualche risultato è necessario fare almeno tre cose, puntualmente presenti nella “legge di eddyburg”.

Occorre in primo luogo invertire la prassi att uale, che vede nella rendita immobiliare il motore della pianificazione,come è stato praticato in decine di comuni italiani e come si voleva generalizzare con la legge Lupi-Mantini. Occorre cioè ripristinare e rafforzare il principio, e la conseguente prassi, per cui la pianificazione del territorio e delle città è esclusiva competenza pubblica: è “autoritativa”, e i soggetti con i quali dialoga sono in primo luogo i cittadini in quanto tali (e non in quanto proprietari di vasti possedimenti o di piccoli lotti), e in secondo luogo le aziende che producono profitti, non rendite.

Occorre poi ribadire il principio che non esistono “diritti edificatori” se non quando è intervenuta una autorizzazione pubblica a costruire o trasformare, concessione edilizia o permesso di costruire che si chiami, conformemente e in attuazione del piano urbanistico, ed entro determinati termini di tempo. Di conseguenza, occorre ribadire (quanti principi sacrosanti sono già presenti nei nostri codici, e sono colpevolmente ignorati da urbanisti e amministratori!) che gli immobili vanno espropriati pagando una indennità che corrisponde al valore derivante dall’uso in atto, e non dalle speranze di “valorizzazione”.

Occorre infine saldare la politica urbanistica con politiche che consentano di incidere sui livelli della rendita, restituendo alla collettività la parte che le spetta. Ciò che è compito sia della politica fiscale, che di quella volta ad assicurare ai cittadini i diritti ai beni essenziali, tra cui primario quello dell’abitazione.

l'immagine è di John S. Pritchett ed è tratta da http://www.pritchettcartoons.com/sprawl.htm

Proviamo a crederci: il 2010 sarà "l’anno delle riforme", come annunciato solennemente dal nostro Presidente del Consiglio. Ma quali? Uscendo dalla crisi più dura del Dopoguerra non si può che pensare prioritariamente all’economia.

Sin qui le uniche misure economiche calendarizzate dall’esecutivo sono quelle rimaste fuori dalla Finanziaria, gli incentivi per i consumi e i bonus per la rottamazione di automobili, elettrodomestici e cucine. Per chiamarle riforme ci vuole, Ninetta mia, tanto, troppo coraggio. Prima della pausa natalizia, il ministro Tremonti ha tuttavia annunciato che «è arrivato il tempo di pensare alla riforma fiscale». Evviva.

Vuol dire che non è più tempo di interventi estemporanei e fra di loro contraddittori sul nostro sistema tributario, è finita l’era in cui si cambiano solo i nomi delle imposte (dall’Irpef all’Ire, dall’Irpeg all’Ires) e in cui le tasse si moltiplicano, di legislatura in legislatura. Nell’attesa di conoscere il progetto del Ministro, vorrei proporre un criterio molto semplice cui ispirare la riforma: bisogna tassare di più i più ricchi e meno chi lavora a bassi salari. È un principio, quello della progressività del sistema fiscale, scolpito nella nostra Costituzione, ma sin qui largamente inapplicato. Non è gradito al Ministro (che nel Libro Bianco del 1994 sosteneva che «la progressività ha effetti negativi sull’offerta di lavoro e causa la propensione ad evadere»). Quindi bene spendere due parole sul perché è giusto farlo e poi interrogarsi sul come farlo.

Negli ultimi trent’anni le disuguaglianze dei redditi in Italia sono aumentate soprattutto ai piani più alti. Si è parlato spesso (sovente a sproposito) di impoverimento, ma il fatto di gran lunga più marcato e rilevante accaduto alla distribuzione dei redditi in Italia è l’esplosione delle disuguaglianze fra la parte più ricca della popolazione. La quota di reddito detenuta dallo 0,1 per cento di persone più ricche è quasi raddoppiata dagli inizi degli anni ‘80 al 2004, l’ultimo anno per cui si hanno informazioni, grazie al paziente lavoro di ricostruzione di fonti sui redditi più elevati svolto da Elena Pisano, che ha appena conseguito un dottorato alla Sapienza.

Soprattutto nel nuovo Millennio la bassa crescita del Paese è stata appannaggio quasi esclusivo dei piani alti della distribuzione: nel 2004 il millesimo di popolazione più ricco, si tratta di circa 4500 persone, guadagnava in media il 20 per cento in più di solo 4 anni prima, circa il tre per cento del reddito nazionale, mentre il resto degli italiani era al palo. Questa crescente concentrazione delle risorse è andata di pari passo a una riduzione delle tasse per i più ricchi: l’aliquota più alta dell’Irpef è scesa dal 72 al 45 per cento negli ultimi trent’anni, il cuneo fiscale complessivo più elevato (tasse più contributi sociali a carico del lavoratore) è diminuito anch’esso di un terzo, dal 91 al 63 per cento, proprio mentre saliva quello dei salari più bassi.

La riduzione delle imposte sui più ricchi non è un fenomeno solo italiano. Al contrario, è comune a tutta l’Europa continentale. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito è addirittura iniziata prima, nella seconda metà degli anni ‘70, sotto Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Come si spiega questo fenomeno generalizzato? Non solo con il crescente potere politico di questa fascia di popolazione. Il fatto è che si temeva, non sempre a torto, che tasse alte per queste fasce di popolazione avrebbero finito per ridurre il gettito fiscale. Per due motivi: primo, queste persone possono trasferirsi altrove; secondo, quando non possono trasferirsi altrove, possono comunque spostare altrove i propri capitali in modo più o meno legale. Un esempio fra tutti. Tra i plurimiliardiari ci sono molti calciatori ed è stato documentato come il regime fiscale di vantaggio istituito in Spagna per attrarre campioni stranieri (la famosa legge Beckham) abbia in effetti indotto una consistente migrazione di star calcistiche verso la penisola iberica. A parte la delusione dei tifosi, questa migrazione ha portato con sé decine (se non centinaia) di milioni di tasse da lì in poi pagate altrove.

Ma oggi la Spagna, il cui disavanzo fiscale è esploso durante la recessione, è stata costretta ad abolire la legge Beckham. E il Regno Unito porterà nel 2010 l’aliquota più alta sui redditi dal 40 al 50 per cento mentre gli Stati Uniti, su cui grava anche il debito futuro, legato alla riforma sanitaria di Obama, non potranno che seguire a ruota passando dal 35 al 50 per cento nel giro di pochi anni. Il clima è cambiato anche per quanto riguarda i paradisi fiscali. La lotta contro di loro è stata un diversivo di governi incapaci di affrontare alla radice i problemi da cui è scaturita la crisi. Ma servirà ora a rendere efficaci tasse più alte per i più ricchi, volte a ridurre l’enorme debito pubblico accumulato nella recessione. Quindi oggi, a differenza anche di soli due anni fa, è possibile tassare di più i più ricchi aumentando il gettito.

Posto che sia giusto, nel senso di equo, tassare di più i più ricchi, come farlo? Al Ministro non piace la progressività delle tasse perché ritiene che riduca l’offerta di lavoro. Si sbaglia perché in un paese come il nostro, dove molti non lavorano, tasse più basse per i poveri e tasse più alte per i ricchi aumentano la quantità di persone che lavorano. Le tasse più alte sui redditi da lavoro dei ricchi possono, tuttavia, ridurre la quantità di ore lavorate da ciascuno di loro. Ma non c’è nessun bisogno di tassare di più il lavoro dei ricchi per tassarli di più. Teniamo pure le aliquote Irpef al 45 per cento, ma aumentiamo la tassazione dei redditi non da lavoro, portandola almeno al livello dell’aliquota Irpef più bassa, vale a dire al 23 per cento.

Quanto raccoglieremmo in questo modo? Purtroppo è impossibile stabilirlo con precisione perché gli unici dati disponibili sui redditi dell’un per cento più ricco della popolazione sono di proprietà esclusiva del Ministro dell’Economia che farebbe molto bene, nell’avviare il confronto, a renderli pubblici. Ma una cosa è certa sin d’ora: l’innalzamento della tassazione delle rendite finanziarie renderebbe il sistema più progressivo perché tasserebbe soprattutto i più ricchi: almeno un terzo dei redditi dichiarati dallo 0,01 per cento più ricco proviene da redditi da capitale (la quota è molto più alta, dato che è possibile solo risalire a quelli dichiarati con l’Irpef nel 2004 che includevano al massimo il 40 per cento dei dividendi). Sappiamo anche che il 90 per cento delle azioni è detenuto in Italia dal 7 per cento più ricco, nelle cui mani si trova quasi un terzo del reddito nazionale.

Quindi aumentando anche solo del 5 per cento il prelievo su questa fascia di popolazione, si farebbe affluire all’erario circa 25 miliardi. Che potrebbero essere utilizzati per aumentare le detrazioni sul lavoro dipendente o fiscalizzare i contributi sociali a carico di chi guadagna appena al di sopra del salario minimo. Una ragione in più per istituire anche da noi una paga oraria al di sotto della quale non si può andare. È un principio quello di tassare di più i più ricchi che dovrebbe prevalere anche nel disegnare il fisco federale, ripristinando l’imposta sulla prima casa, almeno al di sopra di un certo livello di patrimonio, ricordandosi che la distribuzione delle case di proprietà è ancora più diseguale di quella dei redditi. Insomma, ci sono molti dettagli da discutere. Ma prima bisogna accordarsi sui principi. Cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? E cosa ne pensa l´opposizione?

26 luglio 2009

Uscire dalla crisi? No, è il momento di

cambiare il sistema

Uscire dalla crisi. Non c’è soggetto di sinistra - partito, associazione, sindacato - che non affermi la necessità di questo obiettivo. Proprio come le destre, anche se certo con finalità diverse. Nella convinzione che solo rimettendo in moto l’economia, sia possibile (tentare di) salvare l’occupazione, difendere salari e pensioni, aiutare i lavoratori a superare la durezza del momento. Inascoltate, dalle sinistre come dalle destre, le voci sempre più numerose di personaggi peraltro alieni da ogni estremismo (vedi Stiglitz, Krugman, Morin, Guido Rossi, e molti altri) che affermano la necessità, sociale non meno che strutturale, di un diverso ordine economico. Mentre auspicare l’uscita dalla crisi equivale ad accettare il mondo così com’è.

Un mondo ricco, ma in cui esiste un miliardo di affamati, e l'1% della polazione detiene il 50% della ricchezza. Un mondo tecnologicamente in grado di produrre ampiamente il necessario con sempre meno lavoro umano, che invece insiste ad aumentare gli orari fino a proporre l’insensatezza di novanta ore a settimana. Un mondo che per la sua stessa razionalità usa la guerra come risorsa: oggi, in piena crisi mondiale, la produzione delle armi è in ottima salute. Un mondo che ancora tenta di credere all’inesistenza di una seria minaccia ecologica, continua a dilapidare la natura e a piegarne a fini economici i processi, stravolgendone senso e funzioni nella bulimia della crescita. Appropriandosi dello stesso impegno ecologista nella creazione di energie rinnovabili e forme produttive meno inquinanti, per piegarle alla logica della crescita nell’invenzione del “green business”. Davvero le sinistre possono accettare e di fatto - impegnandosi al suo recupero - legittimare questa realtà?

E’ comprensibile, certo, e forse anche utile nell’immediato, la lotta per la sopravvivenza della fabbrica a rischio, per la regolarizzazione di qualche gruppo di precari, per la difesa di categorie destinate al prepensionamento, ecc. Ma può la sinistra limitarsi a questi obiettivi? Non è necessario (nel mentre stesso che per essi ci si batte, e se ne ottiene il possibile) domandarsi se siano una risposta sufficiente oggi, in un mondo in cui precarizzazione, prepensionamenti, delocalizzazioni, sono strumenti obbligati di competitività sul mercato globale, dove l’economia (cioè la forma capitale) impera e la politica ad essa puntualmente s’inchina? Non è doveroso riflettere sulla irripetibilità di quel felice trentennio in cui la crescita produttiva nella forma dell’accumulazione capitalistica era parsa la risposta alla povertà? E ricordare come però negli ultimi decenni, mentre il prodotto continuava a crescere, anche la disoccupazione cresceva, e il precariato diventava regola, e i salari non facevano fronte all’inflazione, e insomma si produceva quella drammatica realtà che Halimi ha chiamato “Il grande balzo all’indietro”? Già allora solidi cervelli critici parlavano di crisi irreversibile del capitale: alcuni di loro, come Wallerstein, indicandone le cause nei limiti del pianeta, che non offre più spazi al connaturato espansionismo del capitale, altri, come Gorz, esplicitamente parlando della crisi ecologica come insuperabile barriera alla continuità del “sistema”.

E in fatto di ambiente sarebbe il caso che le sinistre facessero un sano esame di coscienza. Problema a lungo rifiutato, attribuito a interessi estetizzanti delle classi privilegiate, mentre si ignorava il fatto che a pagare le conseguenze del dissesto ecologico sono sempre i più poveri (operai, contadini, pescatori, profughi da inondazioni, cicloni, tornado). L’accumulazione capitalistica, come causa di distruzione della natura non è mai stata considerata da sinistra, e mai le masse lavoratrici sono state indotte a riflettere sulla materia. Dimenticando che solo su “pezzi” di natura, minerale vegetale animale, il lavoro esercita la propria fatica e la propria intelligenza. E che solo dalla natura la gran macchina dell’industria mondiale ricava la massa di prodotti di cui inonda i mercati. “Le merci sono natura trasformata”, già lo diceva Engels. Dunque se la natura continua ad essere saccheggiata, inquinata, cementificata, è lo stesso mondo di cui il lavoro vive ad essere messo a rischio. Non dovrebbe essere impegno delle sinistre difenderlo?

Un proposito del genere m’era parso di cogliere quando Rifondazione, per la voce dello stesso segretario, ha ripetutamente asserito: “Noi siamo per una società anticapitalista e ambientalista”. In questo abbinamento dei due obiettivi m’era parso di leggere una felice indicazione al programma elettorale, con la consapevolezza che una vera politica ambientale non può non essere anticapitalista, in quanto è il capitalismo il responsabile dello squilibrio del pianeta; e che per salvarlo occorre contenere la produzione, cioè pensare un’altra economia. Ma nel dibattito elettorale questo tema è praticamente sparito. Fatalmente - si sa - in prossimità delle elezioni il discorso politico, concentrato sulla cattura del voto, si rattrappisce, si limita a pochi temi supposti largamente condivisi, evita ogni azzardo.

Ora è nata la Federazione, e si appresta a “un nuovo inizio”. Bene. Non so però se ciò che si propone in prima istanza, cioè “ripartire dal lavoro”, sia il modo più utile di affrontare i problemi che ci sovrastano. Certo, il lavoro è tema sociale di rilevanza primaria, non solo oggetto della più pesante iniquità, ma base imprescindibile di continuità vitale della specie. E però non so se basti assumerlo come materia da cui “ripartire”, senza dichiarare l’esigenza di riflettere a fondo su come, quanto e perché il lavoro è cambiato e continua a cambiare. Vedi appunto la sempre più paurosa crisi ecologica; e la rivoluzione scientifica e tecnologica che ha sconvolto tempi e modi delle comunicazioni di ogni tipo, che ha radicalmente cambiato e continua a cambiare il nostro quotidiano, che nella forsennata corsa capitalistica alla crescita ha trasformato il produrre in tutte le sue forme, investendo e proiettando su dimensione mondiale anche i problemi di sempre.

Temo che isolare un problema, sia pure decisivo come il lavoro, rischi di allontanarci dal proposito di “un nuovo inizio”: che non può essere “l’uscita dalla crisi”, sia pure “da sinistra” (e in che modo poi?), ma solo l’ipotesi di un nuovo ordine economico. Difficile? Difficilissimo. Ma dopotutto la storia è fatta di cose che prima non c’erano.

9 agosto 2009

Sì ad una sinistra sociale ed ecologista…

“Noi vogliamo una sinistra sociale, ecologista, femminista, pacifista, anticapitalista e antipatriarcale”. Questo è l’obiettivo che un nuovo gruppo di lavoro si è dato, e che due suoi membri, Imma Barbarossa e Ciro Pesacane, hanno annunciato con un intervento su Liberazione del 1 agosto.

Può parere l’ingenuità di un “vogliamo tutto e subito” privo di conseguenze possibili, o un’accozzaglia di istanze disomogenee, allineate casualmente in un momento di irresistibile rifiuto del reale. A me pare invece un apprezzabile tentativo di aggregare in un unico progetto istanze solitamente programmate e vissute separatamente: l’ambientalismo, il femminismo, il pacifismo, ecc. qui proposti invece in un unico discorso. Il difetto sta semmai in una insufficienza di sintesi, quasi il progetto fosse frutto di una spinta inconscia più che di una meditata riflessione. Perché, se ognuna di queste istanze viene assunta in tutta sua portata e nella complessità delle sue possibili ricadute, ci si avvede come sempre i loro oggetti obbediscano a una medesima logica; e (quali ne siano gli antefatti e la specifica vicenda storica) tutti operino oggi come agenti decisivi di un unico sistema: il capitalismo. Ed è facile convincersene se appena si ci sofferma a considerarle.

Tralasciando il “sociale” (qualità imprescindibile, anzi ragione fondativa, di ogni “sinistra”, l’unica d’altronde che bene o male tutte le sinistre tentano di perseguire) occupiamoci di temi meno consueti: l’auspicio “ecologista” innanzitutto. E qui ci imbattiamo (come ho detto più volte) in uno dei più gravi “peccati” della sinistra; la quale a lungo ha negato la stessa esistenza del rischio ambiente, facendo proprio il paradigma dello stesso ordine economico che diceva di combattere, puntando sull’accumulazione capitalistica nella speranza di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e - alla pari dell’intero mondo politico - ignorando ciò che da sempre l’ambientalismo più qualificato afferma: cioè l’impossibilità di perseguire una produzione in crescita illimitata su un pianeta che illimitato non è, ed è pertanto incapace sia di fornire alla produzione quantitativi via via crescenti di risorse, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano; e pertanto la necessità di contenere la moltiplicazione del superfluo, la corsa all’iperconsumo e allo spreco, la santificazione del Pil.

Dunque lo squilibrio ecologico che va devastando il mondo e che nessuno può più ignorare, entra di diritto e d’autorità in un programma come quello che il gruppo propone: programma anticapitalista in ogni sua proposta, anche se la natura delle diverse istanze perseguite può sollevare qualche interrogativo.

Ad esempio una sinistra femminista e antipatriarcale (non credo scorretto affrontare insieme i due obiettivi, che nelle rispettive specificità obbediscono a esigenze analoghe) difficilmente di primo acchito può ritenersi necessariamente su posizioni anticapitalistiche. Si potrebbe addirittura sostenere il contrario, ricordando che proprio nei secoli di massima affermazione capitalistica le donne hanno conquistato diritti civili e sociali, e raggiunto livelli di libertà senza precedenti. Ma pronta, e sacrosanta, sarebbe l’obiezione femminista, a ricordare come il lavoro familiare e domestico, dovunque ritenuto dovere delle donne anche con regolare impiego, si ponga di fatto come “produzione e manutenzione di forza lavoro” fornita a costo zero all’industria capitalistica. E si potrebbe aggiungere come le conquiste femminili risultino limitate e in qualche misura deformate dalla cultura della società attuale, tutta giocata tra produzione e consumo, cioè dominata da una categoria la quale (secondo la millenaria divisione delle funzioni sessuali, che attribuisce al maschio la produzione e alla femmina la riproduzione) comporta il trionfo del “maschile”: e dunque iperattività, aggressività, violenza, guerra in qualsiasi forma, a definire ogni realtà e ogni rapporto, e poco o tanto a contaminare anche le donne che in questa realtà cercano di esprimersi. Senza dire (ma questo vorrebbe ancora un lungo discorso) della mercificazione imperante che della donna - da sempre ridotta a merce lei stessa - ha fatto strumento di invito alla merce.

E il pacifismo. Le guerre ci sono sempre state, con solerzia ci viene ripetuto. Vero. Ma non è meno vero che il capitalismo, oltre a usare la guerra come sempre per la conquista di nuove terre e di risorse pregiate, l’ha eletta a strumento regolatore del proprio equilibrio economico; e soprattutto a partire dal secolo scorso (come ampiamente argomentato da grandi economisti ) “una nuova alleanza tra industria e forze armate” (Galbraith) è stata stipulata a garantire la prosperità del sistema.

Agli amici impegnati in questo nuovo gruppo di lavoro, se saranno fedeli all’impianto dell’enunciazione, non mancherà materia su cui riflettere e faticare. Ma la strada imboccata credo sia quella buona: sapendo che, come sempre - ma più che mai oggi, in un mondo globalizzato - “tutto si tiene”, e proprio nelle connessioni e nella reciprocità di determinazione tra fenomeni apparentemente dissimili, è possibile leggere per intero i problemi che urgono e le battaglie che si impongono.

Per il 2007 eddyburg augura

Una buona legge per il territorio,

- che riduca il suo consumo a ciò che è strettamente necessario,

- che riconosca il valore dei paesaggi senza ridurli a merce,

- che subordini le sue trasformazioni alle esigenze collettive,

- che affidi le decisioni che lo riguardano al potere pubblico democratico.

Una legge che contribuisca

- a rendere le città più belle e funzionali per chi le abita e per chi le frequenta,

- a distrarre risorse dalla rendita per impiegarle nelle attività socialmente utili,

- a garantire ai nostri eredi almeno tante risorse quante ne abbiamo usate noi.

Una legge che aiuti

- partendo dalla piccolissima parte del mondo di cui si occupa

- a rendere il pianeta Terra

- più longevo, più ricco di diversità biologiche e culturali,

- e finalmente equilibrato nel rapporto

tra i bisogni delle persone e dei popoli e il loro appagamento

Il piano paesaggistico della Sardegna, come è noto, è stato redatto in tempi brevissimi dagli uffici della Regione e approvato con tempestività dalla Giunta Soru. La sua premessa è stata un vincolo di salvaguardia temporanea su una fascia molto estesa delle coste, da decenni devastate da furiose iniziative immobiliari. Il tempo stabilito per sostituire al vincolo il piano era brevissimo, ed è stato rispettato, grazie alla dedizione di un numero elevato di tecnici mobilitati dalla Regione (sarebbe utile confrontarlo con il tempo della produzione di piani di analoga complessità di livello locale o d’area vasta). Appena adottato è stato reso noto urbi et orbi con rarissima tempestività.

Le opposizioni generate dal piano dopo la sua approvazione sono di due ordini. Da una parte, quella degli interessi costituiti, politici ed economici. Interessi vasti e diffusi, soprattutto i secondi, ramificati in molti settori potenti della vita nazionale. La loro opposizione non stupisce: era nel novero delle cose attese. L’altro ordine di critiche ha una matrice diversa, che invece induce alla riflessione. Si critica l’invadenza della Regione nei confronti dei poteri locali. I toni della critica non mancano di asprezza, non solo là dove i portatori delle critiche sono sollecitati anche da interessi politici ed economici, ma anche dove si tratta di persone e gruppi che condividono l’impostazione, gli obiettivi, la strategia territoriale della Giunta Soru.

Dalla Sardegna alla Toscana la distanza non è molta. E mentre in Sardegna si critica l’invadenza della Regione, sul versante continentale si protesta per i documentati danni che l’eccessiva compiacenza della Regione verso i comuni provoca: Monticchiello non è che la punta di un iceberg, si dice, la Regione si è legata le mani e i piedi, ha decretato l’autonomia piena dei comuni e così non può intervenire anche quando i municipi promuovono “schifezze” che guastano paesaggi celebrati nel mondo.

Riconosciamolo con franchezza: nelle file sparpagliate dei difensori del paesaggio e dell’ambiente, e nei mondi culturali e politici di cui sono l’espressione, alberga una grande confusione. E proprio su una questione che è fondamentale per la decenza stessa del sistema democratico rappresentativo. Quando le divisioni si manifestano all’interno di un fronte che è minacciato dalla pervasiva potenza degli interessi immobiliari occorre fare il massimo sforzo per superarle. E quando esse derivano dalla confusione, il primo obiettivo è far chiarezza al più presto: pena, la sconfitta dei valori di cui si vuole essere i difensori.

Per fare chiarezza, crediamo che si debbano innanzitutto superare alcuni miti che si sono diffusi negli ultimi anni. Il primo mito è che la cooperazione tra enti diversi (la “copianificazione”, come l’hanno ribattezzata gli urbanisti) sia una panacea, e non una procedura da applicare rispettando un principio essenziale: quando più decisori tentano l’accordo, occorre che sia chiaro chi decide nel caso che l’accordo non si raggiunga entro tempi stabiliti. Il secondo mito è che “piccolo” sia sempre “bello”, che l’istanza della democrazia “più vicina ai cittadini” sia la migliore di tutte per definizione stessa della democrazia (come se non fosse sempre il medesimo popolo a eleggere il governo del comune, della provincia, della regione e dello stato).

Sarebbe forse il caso, sul terreno dei criteri da assumere nelle regole della democrazia, di cominciare di nuovo a riflettere su quel “principio di sussidiarietà” che, nato in Europa per accrescere il potere del governo dell’Unione nei confronti di quelli degli stati nazionali, è stato adoperato in Italia in senso inverso: da alcuni – la destra leghista - come manganello per sconfiggere lo stato, da altri – il centrosinistra - come ripiego strumentale per rendere innocuo il manganello. Sussidiarietà non significa (quante volte lo si è scritto su queste pagine!) che tutto il potere possibile deve essere gestito dal livello più basso, e che solo il residuo merita di essere lasciato alle istanze provinciali, regionali, statali. Significa che di ogni decisione è attribuita a quel livello che meglio degli altri può assumerne la responsabilità, dal punto di vista della scala dell’azione e dei suoi effetti.

E sarebbe poi il caso di ragionare anche, sul terreno crudo dei fatti e delle loro cause, sul perché le popolazioni che più direttamente vivono i paesaggi che formano l’Italia, eredi di quelle stesse che li hanno costruiti nei secoli, ne siano diventati oggi, nella maggioranza dei casi, i più attivi demolitori. Schiave anch’esse dell’aberrazione per cui la felicità delle persone e dei gruppi sociali si raggiunge consumando e dissipando oggi ciò di bello e di utile che nei secoli è stato progressivamente formato, e che nei secoli meriterebbe di vivere: un’aberrazione che è la diretta conseguenza di una concezione dell’economia che vede nella quantità della produzione di merci l’unico parametro del progresso, e di una pratica della politica che di quell'economia la vede serva.

Ciò nonostante, il più appariscente attore della stagione di Mani pulite, il più acceso paladino della legalità, il ministro Antonio Di Pietro, e con lui il prudente ed equilibrato premier Romano Prodi, hanno imposto al Consiglio dei ministri di blindare ogni decisione e decretare la validità del MoSE. La forzatura (il blitz, lo hanno chiamato i giornali) è avvenuto alla vigilia della riunione del Comitato per la salvaguardia di Venezia e che era stato convocato per esaminare, su richiesta del Comune di Venezia, le ipotesi alternative: più leggere, più economiche, più affidabili, meno rischiose per la vita della Laguna. Nel Comitato, cui sono sottoposte le decisioni sui finanziamenti per la salvaguardia di Venezia e della Laguna, siedono i rappresentanti di quattro ministeri, della Regione, della Provincia, del Comune di Venezia e del rappresentante degli altri comuni lagunari.

Il blitz è avvenuto perché, nonostante l’immane apparato propagandistico del Consorzio Venezia Nuova, alimentato dai soldi dei contribuenti, la verità sugli errori del sistema MoSE si stava facendo luce. La maggioranza del Comitato poteva oscillare. Qualche ministro aveva studiato le carte (che inutilmente erano state da tempo trasmesse a Prodi e a Di Pietro), e il gigantesco apparato messo in piedi dal Consorzio Venezia Nuova poteva vacillare. I danni all’ecosistema lagunare potevano non commuovere troppi, ma il dubbio di gettare soldi in un pozzo senza fondo potendone spendere meno poteva sollecitare qualche attenzione. Meglio non rischiare. Meglio costringere i ministri a indossare l’elmetto e dichiarare “Obbedisco!”. (Lo faranno? Vedremo). Meglio dare uno schiaffo al Sindaco-filosofo di Venezia, e magari fargli minacciare le dimissioni.

L’ignoranza sulla realtà della Laguna e dello Mose, favorita dalla complicità di gran parte della stampa, è enorme. E altrettanto grandi sono gli interessi (privati) coinvolti. Il Consorzio Venezia Nuova è composto dai colossi del settore dell’edilizia, e l’entità della spesa prevista è di 4,5 miliardi di euro: ma tutti sanno che il consuntivo sarà molto più alto. Nessuno sa chi pagherà la gestione (certamente costosissima, data l’entità delle installazioni sotterranee, la struttura metallica delle parti sommerse, la delicatezza degli impianti, la continuità delle operazioni richieste). E nessuno ha avuto la possibilità di sperimentare a fondo le soluzioni alternative, dato il monopolio concesso dallo Stato (per la precisione, dal ministro Franco Nicolazzi, con un altro blitz) al poderoso Consorzio.

Elasticità nel rispetto della legge e subordinazione agli interessi forti sembrano essere gli elementi di continuità tra il vecchio e il nuovo governo. Difficile dire se ciò dipende da una oggettiva confluenza di atteggiamenti oppure – per il governo Prodi – dalla circostanza di affidarsi a consiglieri “amici del giaguaro”.

Moltissimi documenti sulla vicenda sono reperibili nell’apposita cartella dedicata al MoSE. In particolare: sull’obbligo non rispettato di por termine alla “ concessione unica” al CVN, la replica di Luigi Scano alle bugie del Ministro Lunardi; un quadro complessivo, tracciato da Edoardo Sazano, della questione MoSE e Laguna,in una sintesi su Liberazione e in un saggio ampio su Area vasta; sulle proposte alternative “ a gravità” e ARCA; infine, il testo della relazione della Commissione ministeriale per la Valutazione d’impatto ambientale.

L’episodio di Monticchiello ha particolarmente colpito perché è avvenuto in Toscana, regione che si colloca tra quelle che hanno espresso maggiore considerazione per la ricchezza costituita dalla qualità dei paesaggi. Così da Monticchiello il ragionamento si è allargato ma si è rimasti prevalentemente nella stessa regione: la Toscana felix è diventata la Toscana in bilico, si è scritto. Eppure basterebbe scendere un poco più a Sud (dal Lazio alla Campania, dalla Puglia alla Calabria) o un poco più a Nord (l’orribile conurbazione padana che sta divorando dimore storiche e campi come un mostruoso blob) per rendersi conto che altrove il danno al Belpaese è ben più grave di quello che nella Val d’Orcia si è svelato. Riflettere sul danno toscano può allora aiutare a comprendere che cosa fare per evitare, o almeno ridurre, quello italiano.

Molti ritengono che una delle cause dei numerosi scempi di brandelli del paesaggio sta nel fatto che la Regione Toscana ha attribuito troppo potere ai comuni, affidando loro qualcosa (il paesaggio) di cui la Costituzione attribuisce la tutela allo Stato. Hanno ragione. Esiste, ed è centrale nel governo del territorio, la comunità locale. Ma non è l’unica. Ciascuno di noi appartiene a cerchie via via più vaste di comunità: esiste il comune dove sono nato o dove abito e lavoro, e poi esiste la provincia (il “contado”, diceva Carlo Cattaneo), la regione, la nazione, l’Europa… Ciascuna di queste comunità è titolare del bene paesaggio, il quale non può essere privatizzato, gestito e goduto in esclusiva, da nessun individuo e neppure da nessuna comunità che ne escluda le altre.

Certo, la comunità più vicina, che del paesaggio è anche componente e diretta custode, ha maggiori responsabilità. Ma non è l’unica responsabile. E se opera male, se non tutela ciò che a lei spetterebbe tutelare, altre hanno il dovere di intervenire.

Le leggi hanno il compito di regolare i modi in cui le responsabilità devono equilibrarsi: senza esclusività per nessuno dei livelli di comunità cui la nostra costituzione attribuisce sovranità popolare. Pessima è una legge che attribuisca troppo potere a uno dei livelli, cancellando la responsabilità degli altri. E in Italia abbiano esempi di leggi pessime sia in una direzione sia nell’altra.

Il vizio di assolvere ai propri compiti scaricandoli su altri livelli non è peraltro solo della Toscana. Le tendenze cosiddette “federaliste” (come se federalismo non significasse associare invece che dissociare), così come l’interpretazione alla Bossi del principio di sussidiarietà (tutto il potere al basso), sono stati bandiere che tutto il centro sinistra ha sventolato, per tentar di distogliere dal fronte avversario qualche manipolo di leghisti.

Così come non è certamente solo toscano (anzi, questa Regione è ricca di esperienze alternative) la riduzione dell’intero concetto di sviluppo (morale, culturale, sociale, estetico…) al solo sviluppo economico inteso come mera crescita della produzione di merci.

In quanti comuni e regioni d’Italia non domina la concezione che costruire di più, a prescindere da qualsiasi dimostrato bisogno, è un bene per tutti, è qualcosa che ad ogni costo deve essere perseguito? E che semmai (per i benpensanti) si tratta di mitigare, ammorbidire, rendere sopportabile (anzi, travisando i termini, “sostenibile ambientalmente, economicamente, socialmente”) ogni inutile costruzione di case, capannoni, infrastrutture.

Considerare davvero, al di là delle chiacchiere, il territorio un bene comune comporterebbe di tener conto di entrambi gli aspetti: le responsabilità della tutela non spettano a un solo livello di governo, esistono valori che non soltanto non sono riducibili al valore di scambio e alla crescita economica, ma che vengono prima.

Si tratta di due principi che sono ormai presenti nel diritto come nella cassetta degli attrezzi del governo del territorio. In particolare, nel nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, che è il punto d’arrivo di un’elaborazione culturale e giurisprudenziale che è partita con la cosiddetta Legge Galasso. E i governanti della Regione Toscana hanno replicato alla tempesta sollevata a partire da Monticchiello non solo arroccandosi nel tabù dell’intangibilità della piena e indiscriminata autonomia dei comuni (soprattutto il presidente Martini), ma anche (soprattutto l’assessore Conti) indicando come strada per “superare” Monticchiello quello della pianificazione territoriale e dell’intesa in proposito con lo Stato.

Ma bisogna intendersi. Un piano che voglia avere le caratteristiche del piano paesaggistico prescritto dal Codice non può essere un compendio di analisi o una raccolta di esortazioni o un’antologia di racconti, ma deve definire, individuare e regolare precisamente ciò che il Codice prescrive. Esso deve individuare col massimo dettaglio possibile i beni meritevoli di tutela, sia quelli appartenenti a determinate “categorie” (boschi, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, rocche, casali, campi e trame agrarie, filari e piantate, percorsi storici …), sia quelli che, per la particolare identità che l’intreccio tra storia e natura ha determinato, compongono determinate riconoscibili unità di paesaggio (come la Val d’Orcia). Deve individuarli in modo preciso e disciplinarne l’uso e le trasformazioni consentite in termini tassativi, non perorativi o suggestivi,e dove è necessario con efficacia immediata.

I precetti relativi ai beni di rilevanza regionale e nazionale devono poi prolungarsi nelle direttive la cui traduzione in regole è affidata alla pianificazione sottordinata (provinciale e comunale), nei confronti della quale la regione ha una duplice ulteriore responsabilità: quella di sostenerla materialmente, consentendo alle comunità di minore capacità di dotarsi degli indispensabili strumenti tecnici per la pianificazione, e quella di verificare che le prescrizioni e le direttive siano rispettate.

E’ questo il piano che Toscana e Ministero dei beni e delle attività culturali hanno deciso di formare? Se è così, “schifi” come quello di Monticchiello potranno essere scongiurati. In Toscana e – se il Ministero per i beni culturali farà il suo mestiere e applicherà con rigore e fedeltà il Codice senza bisogno di altri Monticchielli – nelle altre regioni italiane. Altrimenti…

Qui alcune immagini del paesaggio di Monticchiello

Roberta Carlini ha scritto che la finanziaria non spiega a sufficienza se l'obiettivo finale sia il risanamento o lo sviluppo, nè quale scelta vi sia tra welfare e mercato. Forse questo non era il compito di un provvedimento finanziario. Ma è certo compito della politica spiegare quale sviluppo si intenda perseguire superata l'esigenza impellente del risanamento finanziario,e quale rapporto si intenda costruire tra welfare e mercato. E una politica economica che non spiega se stessa non sollecita a schierarsi chi dovrebbe difenderne gli strumenti: su questi si mobilitano gli interessi colpiti (anche se in modo del tutto marginale, e là dove i margini per tagliare sarebbero ampi), mente restano inerti i cittadini interessati a sostenerla poichè non comprendono per quali prospettive debbano farlo.

Il fatto è che i cittadini non sanno quali siano, nel concreto, i costi della società, come siano composti, quali siano riducibili e quali no, quali giusti e quali ingiusti. Così come non sanno mediante quali canali, diretti e indiretti, si drenano i soldi per pagarli, e da quali tasche essi scaturiscano. Nella seconda edizione della Scuola di Eddyburg abbiamo affrontato (dopo quattro sessioni spese a illustrare problemi e soluzioni possibili per la casa, l’ambiente,la mobilità, le politiche pubbliche) un argomento cruciale: chi paga i costi della città?

Una cosa è emersa con chiarezza. Una parte troppo alta del costo della città va alla rendita, cioè a quella forma di reddito che, come ha scritto di recente Giorgio Lunghini, “non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà”. La rendita erode salario e profitto. La tassa occulta che essa costituisce incide pesantemente sull’affitto, ricade sul costo delle merci e dei servizi. La facilità di fruirne ha spinto il capitale industriale a spostare le sue risorse dall’innovazione e dalla ricerca verso gli investimenti finanziari e immobiliari,condannando l’economia del Paese alla stagnazione. Qualcuno oserebbe opporsi alla lieve incisione sulla rendita compiuta con la finanziaria se tutti avessero presenti queste verità?

Si è anche discusso (alla Scuola di Eddyburg e nelle polemiche a proposito di finanziaria) del ruolo degli enti locali: hanno ancora senso le Province, e non costa troppo una democrazia così articolata (quattro livelli di governo) come quella italiana? Sulla stampa quotidiana un ottimo articolo di Diego Novelli,già sindaco di Torino e valoroso parlamentare, ha ricordato come il Parlamento avesse deciso, alla fine degli anni Novanta, una riforma degli enti locali che ne prevedeva la razionalizzazione, e come quella riforma non fosse stata attuata per tiepidezza dei partiti e per il rifiuto dei sindaci dei grandi comuni (Rutelli, Bassolino, Castellani: Roma, Napoli, Torino) a cedere i loro poteri.

I sindaci di oggi protestano per i tagli ai bilanci comunali. La loro protesta avrebbe maggior sostegno se rendessero trasparenti i bilanci, se dissipassero i veli ragionieristici che li rendono incomprensibili ai cittadini. Se pubblicassero, ad esempio, l’elenco delle consulenze con i relativi importi e il rendiconto dell’attività svolta. Se rendessero esplicito quanta parte delle spese sostenute per i Grandi Eventi che hanno dato lustro alla città è venuta dal bilancio dello Stato (quindi dalle tasche di tutti i cittadini). E se, prima di gloriarsi per l’aumento del numero dei turisti e di investire risorse per eventi che ne attirino altri, spiegassero ai cittadini quanto costa ogni city user: chi paga (e quanto paga di tasse) per le spese che la città sostiene, e chi guadagna (e quanto paga di tasse) chi ne cattura i soldini.

Vogliamo "bilanci partecipativi"? Non chiediamo tanto, ci basterebbero bilanci trasparenti per tutti, non solo per i padroni della città.

L'immagine di Sergio Staino è tratta dal sito del Comune di Empoli (Firenze)

Il merito del progetto e del suo inserimento è, al cospetto dello scandalo di oggi, questione secondaria C’è chi lo ritiene un’opera d’arte che valorizzerà il sito e lo renderà ancora più ambito ai visitatori, aumentandone la competitività. C’è chi ritiene che in quel territorio delicatissimo e già bellissimo siano negativi nuovi interventi, mentre bisognerebbe invece depurarlo dalle costruzioni abusive. Due tesi entrambe legittime, sebbene Eddyburg propenda decisamente per la seconda (abbiamo documentato con ampiezza i momenti, i documenti e le posizioni in questo sito).

Ma le ragioni che hanno motivato le opposizioni più recise sono altre: riguardano la legittimità. Quell’intervento è dimostratamente in contrasto con il piano territoriale vigente, quindi è illegittimo. Nessuno ha potuto contestare l’illegittimità, che è stata confermata dalla magistratura nel merito, mentre le sentenze che hanno “liberato” l’intervento riguardano solo i formalismi (come un errore d’indirizzo di una citazione). Anche l’attuale governo comunale ha ritenuto l’intervento in contrasto con il piano vigente, e lo ha fermato. Il presidente della Regione (il “governatore”) ha prima minacciato di sostituirsi al comune sottraendogli i poteri e poi, di fronte alla resistenza, ha nominato il suo commissario. Senza neppure provare a fare quanto il Consiglio regionale può fare, e cioè approvare un nuovo piano territoriale. Senza neppure contestare nel merito le critiche di legittimità, ma adducendo l’unica ragione della perdita di un finanziamento europeo.

Superior stabat lupus: certamente l’autorità del presidente della Regione è superiore a quella del sindaco, ma adoperarla per forzare una comunità locale a essere complice d’una illegalità costituisce una violazione grave della sostanza della democrazia. Eppure, nessuno ha gridato allo scandalo. Anzi, la notizia è stata relegata nelle cronache o nei quotidiani locali. La democrazia si vuole esportarla in altri mondi, ma qui si accetta che sia soggetta agli umori dei potenti.

Non stiamo esagerando. Chiave della democraticità del sistema rappresentativo è il corretto equilibrio dei poteri. Non siamo tra quelli che ritengono che il livello di potere più “basso”, in questo caso il Comune, debba sempre aver ragione su tutto. Abbiamo applaudito al presidente-non-governatore Soru anche perché ha saputo tutelare gli interessi dello Stato e della Regione imponendo ai comuni di non costruire lungo le coste, perché il patrimonio dei beni paesaggistici e culturali costituiti dalle parti non ancora devastate delle coste della Sardegna sono beni d’interesse nazionale e regionale, non “disponibili” per gli altri livelli dei governi (e delle comunità) democratici. Quindi non avremmo protestato se la Regione avesse contrastato e impedito, motivatamente e legittimamente, un intervento che avesse minacciato di degradare ulteriormente il bene costituito dalla costa di Ravello (né se avesse, ad esempio, invitato il Comune a demolire le eventuali costruzioni abusive che la corrompono, minacciando e praticando interventi sostitutivi in caso di inerzia). Ma non è questo il caso. In questo caso l’autorità della Regione (anzi, del suo Governatore) è stata diretta a imporre al comune una scelta che riguarda strettamente il campo delle scelte di competenza del comune, e per di più obbligando quest’ultimo a compiere un atto illegittimo.

Dispiace che un atto del genere, e una lunga azione sbagliata in relazione a questa illegittima operazione di griffe, sia stata compiuta da una persona come Antonio Bassolino, nei cui confronti abbiamo nutrito sentimenti di vivissima stima e ammirazione.

L’icona è tratta da Aesopus moralizatus, in Napoli, per F. Del Tuppo (stralcio), inserita in internet da www.iconos.it

Implicito, finché la Costituzione era rispettata, era quello che poi fu definito il “ principio di sussidiarietà” (alla Jacques Delors, non alla Umberto Bossi; nella cultura europea, non nella subcultura “padana”): a ciascun livello di governo spettano le decisioni in merito a ciò che a quel livello meglio può essere governato. Poiché i livelli storici (lo Stato e i Comuni) non erano ritenuti sufficienti, nel 1948 si introdussero, tra l’uno e gli altri, le Regioni. Se queste furono costituite solo nel 1970 ciò fu per vicende politiche contingenti (tale appare oggi la declinazione italiana della guerra fredda!), non a una modificazione delle scelte di fondo.

Dopo il 1970 la politica si rese conto di ciò che gli esperti da qualche anno avevano già compreso: i fenomeni territoriali richiedevano, tra Regione e Comune, un livello intermedio. La discussione, la ricerca e la sperimentazione impegnarono due decenni: trovarono soluzione concorde nel 1990: Stato, Regione, Provincia e Comune avevano competenza per ciò che a quel livello si amministrava meglio, con un equilibrio nei poteri e nelle procedure che trovarono applicazioni esemplari in numerose leggi: da quella per la casa del 1971 a quella sull’ordinamento dei poteri locali del 1990.

In questa stessa logica si inserì con saggezza la “legge Galasso” del 1985: riprendendo in salsa democratica l’intuizione di John Ruskin (“il paesaggio è il volto amato della Patria”) e di Benedetto Croce (“il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria”), individuò e tutelò ope legis i lineamenti fondamentali del paesaggio della nazione, quelli percepibili a quella scala, e affidò alla pianificazione ordinaria o specialistica alle scale sottordinate quella che la Corte costituzionale definì “l’assidua riconsiderazione del territorio nazionale”: la individuazione a scala via via più ravvicinata, delle qualità da tutelare.

Questo equilibrio si è rotto: nelle nuove norme, gabbate per “riforme”, e nei comportamenti politici e amministrativi. Si può dire (riprendendo un’antica battuta di Giulio Carlo Argan) che oggi “l’Italia è diventata un gigantesco campo di decentramento”: almeno per quanto riguarda il territorio e il suo governo. E oggi il panorama è a macchia di leopardo, con una pericolosa prevalenza dei localismi.

C’è della luce. Così, in Sardegna Renato Soru difende con energia la responsabilità della Regione nell’avere l’ultima parola nella tutela degli elementi rilevanti a quella scala, contro le demagogie localistica di destra e di sinistra. Così, la Corte costituzionale ammonisce la Regione Toscana e ricorda che non tutto si può delegare ai comuni, perchè “l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica […] è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale” e perchè “il paesaggio va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali”.

Ma altrove l’ombra è fitta. In quanti luoghi italiani (quelli della cultura, della politica, dell’amministrazione) si tende a ridurre le competenze regionali all’esortazione programmatoria e quelle della provincia al mero coordinamento a posteriori delle decisioni comunali? In quante sedi si sproloquia sulla “equi-ordinazione” degli strumenti di pianificazione di competenza dei diversi livelli istituzionali, per dire che un piano comunale può tranquillamente disattendere e contrastare la decisione di un piano regionale o provinciale? O si afferma che, addirittura, la pianificazione d’area vasta e quella strutturale non devono, per l’amor di Dio, essere precettive e regolative, ma solo esortative e “d’indirizzo” (lo ripete spesso lo stesso presidente onorario dell’INU, Giuseppe Campos Venuti)?

Bisogna riconoscere che un contributo importante all’affermarsi di simili posizioni (e pratiche) lo hanno dato le infauste modifiche al titolo V della Costituzione, improvvidamente e furbescamente varate dal centro-sinistra. La furberia era quella di tagliar l’erba sotto i piedi a Umberto Bossi: ma il diavolo insegna a fare le pentole, non i coperchi.

Dopo aver battuto le perverse ”riforme” costituzionali del centrodestra bisognerà ricominciare a ragionare sul serio, a partire dal tema proposto dal direttore del Giornale di architettura che ho citato all’inizio: “il superamento di autonomie locali oggi controproducenti”, la ricostituzione di un equilibrio tra i poteri pubblici fondato sulla ragione e sull’efficacia, e non sulla demagogia.

Sulla sentenza costituzionale n.182 del 20 aprile – 5 maggio 2006

Come si argomenta nella relazione che accompagna l’articolato (entrambi i testi sono scaricabili in calce), il ”governo del territorio” è concetto e campo molto vasto. Comprende materie che sono attribuite dalla Costituzione a enti diversi. Una legge che regoli l'insieme dell'argomento richiederà un lavoro di lunga lena, che non può non avere la sua premessa in un diligente lavoro di enucleazione dei principi desumibili dalla ricchissima legislazione vigente. Non a caso le leggi regionali in materia, anch’esse usurpando in qualche misura l’espressione “governo del territorio”, concernono il campo - più limitato ma indubbiamente decisivo – della pianificazione del territorio urbano ed extraurbano. A definire “principi” relativamente a questo campo è dedicato il testo che proponiamo.

È un testo snello, essenziale, scritto cercando di adoperare un linguaggio chiaro ma anche giuridicamente corretto. Non è comunque questo che soprattutto ci interessa, quanto il contenuto: le riaffermazioni che in esso si fanno di principi consolidati nella giurisprudenza costituzionale, le novità che si formulano tenendo conto delle nuove esigenze ed esperienze maturate.

Due principi sono alla base dell’intero articolato e ne ispirano i contenuti e i procedimenti: il territorio e la sue risorse sono un patrimonio comune, di cui le autorità pubbliche sono garanti e custodi; la titolarità della pianificazione del territorio compete esclusivamente alle pubbliche autorità democraticamente elette e rappresentative della cittadinanza.

Tra le riaffermazioni e il consolidamento di principi già presenti nel quadro legislativo italiano, segnaliamo l’assunzione della pianificazione come metodo generale per il governo delle trasformazioni territoriali (principio peraltro contraddetto nell’azione amministrativa e nella legislazione recente), l’onerosità per l’operatore immobiliare delle opere necessarie per la trasformazione urbanistica, la non indennizzabilità dei vincoli di tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica del territorio.

Particolare evidenza tra le novità, introdotte anche mutuando elementi dalle legislazioni regionali più recenti, assume una decisa opzione per la riduzione di quello sciagurato fenomeno, contrastato negli ultimi anni da tutti i governi europei, consistente nell’abnorme consumo di suolo, motivato unicamente dall’esigenza di accrescere il valore di scambio di privati patrimoni immobiliari. Accanto a questi, si segnalano: nuove norme per la tutela ope legis degli insediamenti storici, per effetto dell’essere individuati dagli strumenti di pianificazione, purché d’intesa con la competente Soprintendenza; l’affermazione del diritto alla città e all’abitare, riprendendo e consolidando il diritto alla presenza di determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico ma aggiungendo, tra l’altro, i diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale delle risorse territoriali ed ambientali e del patrimonio culturale; l’obbligo per gli enti pubblici di acquisire antro un termine perentorio gli immobili assoggettati dai piani a vincoli di tipo espropriativo; infine (last but not least) la formazione partecipata degli strumenti di pianificazione.

A quest’ultimo proposito si ritiene che la partecipazione della società alle scelte di governo non sia un problema dell’urbanistica, ma della democrazia, della vitalità dei suoi istituti, della loro capacità di rinnovarsi. Certo è comunque che le scelte sul territorio hanno particolare rilevanza sia dal punto di vista dei poteri che da quello dei diritti dei cittadini. Procedure aperte, trasparenti, attente all’ascolto e alla proposta, rendiconti puntuali, chiarezza negli atti a partire dalla condivisione delle basi conoscitive e dalla evidenza nella rappresentazione delle scelte – possono essere valido aiuto, che la legge può contribuire a determinare, per l’espressione dei diritti democratici. Anche a tal fine, oltre che per adempiere a un obbligo formale,si è introdotta nella proposta il recepimento della normativa europea in materia di valutazione ambientale strategica, per le parte in cui riguarda i procedimenti di formazione e i contenuti della pianificazione delle città e dei territori.

Affidando queste proposte alla buona volontà dei legislatori, ci auguriamo che esse diano un contributo per la costruzione, nella città e nel territorio, non di una congerie di valorizzazioni immobiliari e di conseguenti diversificate degradazioni ambientali, sociali e culturali, ma della casa comune della società italiana dei futuri decenni.

“Lavoro” è un termine che esprime un valore profondo, primario, fondativo della nostra società. Per la nostra Costituzione (la difendiamo abbastanza?) il lavoro è il fondamento della Repubblica italiana. E in effetti, in modo diverso e con alleanze di classe diverse, le grandi forze che fondarono la Repubblica esprimevano tutte il mondo del lavoro: dal PCI e il PSI, alla DC, ai “partiti laici”.

La corrente di pensiero che, nella sua analisi e nella sua azione, ha posto come centrale il lavoro dell’uomo è comunque indubbiamente la marxista. E allora vale la pena di ricordare il modo in cui Marx lo definiva: “l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso [corsivo mio] di qualsiasi genere”. E ancora: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.

Riflettere sul significato del lavoro dell’uomo nei contesti nei quali viviamo (dal governo nascituro dell’on. Prodi alla crisi planetaria) porta a sottolineare due connotazioni dei nostri tempi, l’una di carattere tattico e relativa al breve-medio periodo, l’altra di carattere strategico e relativa allungo periodo. Da esse scaturiscono due necessità dell’azione politica e di quella culturale: necessità certamente distinte, ma che sarebbe delittuoso separare.

Da un lato, è evidente che nell’attuale situazione italiana, così come questa si è determinata per colpa sia della destra che delle debolezze del centro-sinistra, il lavoro ha perso la centralità che la Costituzione gli assegnava. Lo rivelano l’espansione del precariato e la sua assunzione come “fattore di modernizzazione”, l’indebolimento dei sindacati dei lavoratori, lo squilibrio tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi finanziari, nonché, per riferirci a un tema centrale per queste pagine, la prevalenza della rendita (remunerazione della proprietà) sul salario (remunerazione del lavoro) e del profitto (remunerazione dell’attività imprenditiva secondo una scuola, il frutto stesso del lavoro secondo un’altra). Un programma di governo che volesse ripristinare il rispetto della Costituzione su ciò che costituisce il fondamento della Repubblica dovrebbe assumere perciò come centrale la questione del lavoro, in tutte le articolazioni ora enunciate.

Ma accanto e dietro questo aspetto del problema del lavoro un altro se ne pone, che ne costituisce in qualche modo la prospettiva e lo scenario. La concezione del lavoro che ancor oggi nutre il pensiero economico e l’organizzazione sociale è quella propria del sistema capitalistico: il lavoro socialmente ed economicamente riconosciuto è quello finalizzato, direttamente o indirettamente, alla produzione di merci. Se Marx, nel brano sopra citato, riferiva il lavoro alla produzione di valor d’uso, oggi per il calcolo economico, e per la stessa considerazione sociale, l’unico valore che è rimasto è il valore di scambio. I beni (siano essi oggetti o servizi) cui la produzione è finalizzata sono solo quelli riducibili a merce, e in tanto sono considerati in quanto sono ridotti a merce. Ciò che conta non è la loro utilità ai fini dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità, ma la loro capacità di essere acquistati da un consumatore.

È morto qualche giorno fa John Kenneth Galbraith. Fu lui che, nel lontano 1958, coniò per primo il termine “società opulenta” (affluent society). Con questa espressione si designa appunto una società nella quale la produzione ha perso qualunque profondo connotato umano, ed è finalizzata esclusivamente a vendere, in misura via via crescente, merci via via più lontane da ogni reale utilità per l’uomo. Sembra che un lavoro finalizzato esclusivamente alla produzione crescente di merci superflue (spesso per di più dannose) non possa essere considerato durevole. Il ragionamento sul lavoro e la rivendicazione della sua necessaria centralità si deve perciò connettere a quello attorno ai limiti dello sviluppo (di questo sviluppo, basato sulla riduzione dei beni a merci, sull’orgogliosa negazione dei limiti posti dal pianeta, sulla perdita di ogni finalità propriamente umana), al nuovo imperativo della “decrescita”, al pieno riconoscimento economico e sociale dei valori d’uso - e delle qualità culturali,ambientali, storiche del territorio.

Il discorso di Fausto Bertinotti

Scritti sulla "decrescita" nella cartella Il nostro pianeta

I valori furono dunque una componente decisiva: non ricostituzione (come in Francia e in Danimarca, in Belgio e in Olanda, in Jugoslavia e in Norvegia) di quelli nazionali calpestati dal nemico invasore, ma costruzione di valori nuovi, fondativi della società nuova che – a partire dalla Liberazione – si cominciava a costruire.

Ricordare oggi, 25 aprile 2006, la liberazione dell’Italia dal nazifascismo suggerisce prepotentemente una necessità di oggi: rimettere i valori al centro dell’attenzione della politica e della società.

Una necessità di oggi. Il risultato elettorale del 9-10 aprile scorso non rivela soltanto che “l’Italia è spaccata in due”: risultato inevitabile d’un sistema maggioritario, come qualche osservatore più lucido ha rilevato. Rivela anche un’incertezza degli elettori, una certa aleatorietà del risultato, una mobilità di parte consistente dell’elettorato che non ci sarebbero se alla base delle scelte di voto ci fossero convincimenti profondi e radicati, e legami stretti tra questi e le proposte delle diverse (delle due) parti politiche.

In assenza di convincimenti profondi e radicati (di valori) è evidente che tendono a prevalere gli interessi differenziati dei gruppi,delle corporazioni, dei segmenti della nostra frammentata società. Tendono a prevalere insomma quei moventi del voto che più facilmente vengono catturati dalle offerte mercantili (bugiarde o meno) degli imbonitori cui è stato lasciato il possesso dei mezzi di comunicazione di massa.

Singolare, in proposito, l’atteggiamento del centro-sinistra. La sua propaganda ha lasciato cadere tutti i numerosi spunti polemici (e di convincimento delle coscienze) che potevano essere offerti dalle stesse parole ed azioni dell’avversario. A partire dall’ingiustizia di fondo,dal vero e proprio vulnus dell’ordinamento democratico, costituito dal potere straordinario in mano a uno solo dei contendenti (in codice: il conflitto di interessi), fino a quell’incredibile affermazione dell’ex premier, rivelatrice di un pensiero osceno, secondo il quale sarebbe del tutto evidente che il figlio d’un operaio vale meno del figlio d’un professionista.

Abbiamo dimenticato i principi fondativi della nostra nuova società, nata dalla Resistenza. Non ci siamo sentiti offesi dal loro tradimento, dal loro rovesciamento perfino. Ricordiamoli,così come furono costruiti nelle coscienze e nei sacrifici negli anni difficili della Resistenza e tradotti in principi costituzionalmente garantiti.

Solidarietà, primato del lavoro, subordinazione della proprietà al suo ruolo (al suo dovere) sociale, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e ai diritti non solo giuridici, sostegno ai più deboli perché possano entrare nel novero dei più forti, privilegio agli interessi della collettività, politica come proposta di un progetto di società più alto di quello dell’antagonista. Infine, ma non è l’ultimo dei valori, difesa dei beni comuni costruiti dal lavoro di tutti: a partire dalle fabbriche strenuamente difese, nel 1943-45 dagli operai perché non erano dei padroni, ma di tutti, fino alla tutela del paesaggio e dei beni storico-artistici come patrimonio della Nazione,nel 1946-48.

È da qui che occorrerebbe partire per conquistare durevolmente il consenso delle cittadinee dei cittadini: dalla riaffermazione orgogliosa di quei principi, dalla loro propaganda tenace e intelligente, dalla loro traduzione in una reale riforma dei codici della convivenza civile (a cominciare dalla demolizione delle norme e delle prassi con essi in contrasto). E scendendo dal generale allo specifico degli interessi di questo sito, vorremmo lavorare per una legge sul governo del territorio che si aprisse con le parole: “le risorse del territorio sono patrimonio comune non negoziabile”. Ma di questo scriveremo un’altra volta.

Occupiamo – una tantum – questo spazio riservato alle riflessioni di Edoardo Salzano (temporaneamente ‘in vacanza’, ma consenziente all’invasione) per un’occasione davvero speciale che Eddyburg non può permettersi di non celebrare (v.d.l.; m.p.g.)

La lunga notte del 10 aprile ci ha restituiti ad una mattinata caliginosa di dubbi, mescolati a qualche inquietudine, ma anche ad una soddisfazione tanto intensa quanto lungamente compressa nel tempo che vorremmo condividere con i lettori di eddyburg.

Come abbiamo rilevato più volte, durante la campagna elettorale, i temi dell’urbanistica e del governo del territorio, hanno abitato uno spazio defilato, sempre a rimorchio di qualcos’altro (le infrastrutture, ad esempio, vere primedonne bypartisan) ma, come è stato scritto in questi giorni, le vere scelte si fanno dopo il 9 aprile.

Ed è importante, adesso, smentendo – finalmente – il costume inveterato della politica italiana, dagli anni di piombo a mani pulite, non limitarsi ad accantonare i detriti in un angolo e passare oltre o peggio cercare di recuperarli, quei detriti. Proprio perchè troppe volte ci si è limitati a nascondere la spazzatura sotto il tappeto della nostra casa comune, l’altra notte, di fronte all’altalena disperante di proiezioni e sondaggi, molti di noi hanno pensato che quest’Italia sia destinata a non voltare mai pagina. E che il berlusconismo, con i suoi connotati di populismo e totale disprezzo delle regole, tenacemente affezionato all’accezione di libertà come decostruzione dello Stato e del pubblico, è ancora sentire viscerale largamente diffuso.

Gli eddytoriali hanno costantemente ribadito la preoccupazione nei confronti di fenomeni e pratiche che stanno accellerando il degrado, non solo del nostro territorio e del nostro patrimonio culturale e paesaggistico, ma assieme del sistema condiviso delle regole di governo.

Questo del governo del territorio è uno degli ambiti in cui il ribaltamento dalla forza del diritto al diritto della forza, connotato distintivo del berlusconismo, si è acuito nell’ultimo lustro, infettando, come una forma epidemica, trasversalmente, anche l’habitus urbanistico di regioni province e comuni di centro sinistra, così come Eddyburg non si è mai stancato di rilevare. Decisiva riprova del fascino bypartisan esercitato da queste pratiche deregolative è il tentativo, maldestro anche sul piano della cultura giuridica, noto come legge Lupi. Provvidamente annullata dalla fine della legislatura, oltre che da una ‘guerriglia’ instancabile di cui eddyburg è stato il primo motore, pare suscitare ancora trasversali, non sopite, nostalgie.

In questi ultimi anni abbiamo segnalato, sempre più spesso, come le molte amministrazioni comunali e regionali abdicassero dal proprio ruolo di pianificatori e di garanti del pubblico interesse nell’illusione, nella lettura più benevola, di ricavare, dalle trattative dirette con i portatori di interessi privati, benefici economici da reinvestire in altri servizi, sacrificando un bene irriproducibile per ‘guadagni’ rapidamente vanificati, nel medio-lungo termine, da perdite e danni alla collettività in temini di disservizi, congestione e, in generale, depauperamento del livello di vivibilità.

Fra le tante urgenze che attendono il prossimo governo Prodi, vi è dunque anche questa. Quella della ricostruzione di un sistema delle regole aggiornato e fondato su alcuni irrinunciabili principi di tutela del territorio come bene collettivo non negoziabile, di titolarità pubblica del governo del territorio, di limitazione del consumo di suolo, di diritto alla città, alla casa, ai servizi, di garanzia di partecipazione alle decisioni urbanistiche. Insomma un sistema chiaro di ‘regole inderogabili’su cui costruire la gerarchia degli strumenti di pianificazione.

Ma anche la migliore delle leggi è destinata ad essere disattesa se non è sostenuta da un comune retroterra culturale e civico che ne costituisca l’humus imprescindibile.

In fondo, con limitatissimi mezzi, eddyburg ha operato, in questi anni, esattamente in questa direzione: a chi da domani ci governerà offriamo fin da ora il nostro contributo sia per quanto riguarda la costruzione del sistema delle regole che per quel che attiene la costruzione di una cultura che lo accompagni e lo sostenga.

Ma adesso è tempo di festeggiare e di ribadire la nostra gioia per un cambiamento tanto atteso e dal quale tanto ci attendiamo.

Votiamo dunque turandoci il naso, come in un contesto ben più civile (ma dirigendo la mira in una direzione opposta) invitava a fare Indro Montanelli. Certo che il fetore è alto: basta vedere come sono state composte le liste elettorali, e come sono scomparsi quasi tutti i margini di scelta dell’elettore: “attivo” solo nella nomenclatura formale, poiché ogni reale attività è stata consegnata da Berlusconi ai partiti.

Votiamo rinunciando all’odorato, ma non alla vista: guardiamo anzi con attenzione al significato del nostro voto. Per quanto mi riguarda la mia “speranza di voto” questo avrà un duplice significato.

1. cacciare un personaggio e un gruppo la cui permanenza al potere renderebbe invivibile e inutilizzabile a fini civili quel poco di pulito che è rimasto tra le Alpi e il Canale di Sicilia. Non credo che sia necessario illustrare questo assunto. Mi limiterò a ricordare che, quando ci indigniamo per quello che di poco limpido c’è nello schieramento di opposizione parliamo di berlusconismo: il germe dell’infezione sta dunque là, fuori di quello schieramento, ed è di là in primo luogo che occorre debellarlo.

2. ristabilire un quadro di principi fermi, di regole funzionanti, di istituti efficaci mediante i quali si possa svolgere la libera dialettica tra forze diverse, oggi confusamente aggregate nell’opposizione a Berlusconi.

Credo che sia utile, forse addirittura necessario, fare uno sforzo per comprendere quali sono le forze diverse che formano l’opposizione (in che cosa precisamente consista la loro differenza), e qual è il programma che può unirle non solo per sconfiggere Berlusconi ma anche per governare dopo di lui.

Sul primo punto mi sembra che il discrimine che faticosamente sta emergendo dalla confusione possa essere definito nel seguente dilemma:

(a) se il sistema entro il quale viviamo (il sistema economico-sociale fondato sul modo di produzione capitalistico e nutrito dai principi e dagli istituti foggiati dalla borghesia, con il concorso dialettico della classe antagonista) sia tale da poter essere corretto nei suoi aspetti più critici senza modificarlo dalle radici, cioè dalla concezione dell’uomo, del lavoro e della società;

(b) oppure se le contraddizioni di quel sistema siano così profonde e letali da poter essere scongiurate solo attraverso l’invenzione e la graduale messa in opera di un sistema economico-sociale fondato su principi (e governato da istituti) del tutto diversi.

La dialettica tra “moderati” e “radicali” esprime forse queste due posizioni. Sarebbe augurabile che nelloro ambito si riuscissero a formulare con una qualche chiarezza i rispettivi connotati, a partire da argomenti fondanti e non dalle occasioni di cronaca: dalle strategie e non dalle tattiche.

Sul secondo punto, il programma, mi sembra che le ragioni dell’unione, e quindi le basi di un programma di governo unitario, debbano essere individuate in due direzioni, da enunciare in con un'esplicitazione chiara di contenuti, principi e indirizzi, un reale e serio "contratto con gli italiani", e non in un elenco infinito, e necessariamente sempre incompleto, di cose da fare

Innanzitutto deve essere reso chiaroi ed esplicito l'impegno a istabilire le regole della convivenza democratica. Ciò comporta ritrovare l’ispirazione della Costituzione del 1948, che non a caso fu un patto democratico tra forze portatrici di progetti di società alternativi; ma richiede anche di instaurare un rapporto tra le diverse dimensioni dell’umano operare (la politica, l’economia, l’amministrazione, la religione, l’arte, la scienza…) nella quale le rispettive autonomie siano tutelate e le diversità dei punti di vista rispettate, senza alcuna sudditanza d’una dimensione all’altra.

Mi sembra che la prevaricazione della politica sull’amministrazione e quella dell’economia sulla politica, come l’utilizzazione politica della religione, siano tra le più inquietanti anomalie dei nostri anni.

Un impegno altrettanto chiaro ed esplicito deve essere dichiarato oggi (e domani praticato) per mettere in moto un meccanismo economico nel quale vengano sconfitti alcuni vizi storici del capitalismo italiano: innanzitutto il peso schiacciante delle rendite d’ogni tipo e dimensione, a cominciare da quella immobiliare, e poi anche il permanere di ampie sacche di privilegio prive ormai d’ogni giustificazione sociale, e la conseguente rinuncia a percorrere le rischiose strade dell’innovazione.

Ma un meccanismo nel quale vengano garantiti i valori del lavoro e quelli del futuro: nel quale quindi, in attesa di un più compiuto riconoscimento sociale (possibile solo in una società radicalmente diversa), i valori dei beni comuni non riconducibili a merci siano garantiti nella loro sopravvivenza e nel loro sviluppo.

Nella consapevolezza che un vero sviluppo, omogeneo alla natura del genere umano e al suo patrimonio culturale, può avvenire solo se il valore d’ogni prodotto viene riconosciuto alla sua carattere di bene, e non alla sua riduzione a merce.

Una consapevolezza, questa, che non dovrebbe appartenere solo alle componenti “radicali” dello schieramento unitario.

Una persona soprattutto dobbiamo ringraziare, per ciò che ha fatto molto concretamente: il senatore Sauro Turroni, Verde, eletto nel Collegio di Prato per la lista dell’Ulivo. È stato (a nostra conoscenza) l’unico parlamentare che non abbia ceduto né alla distrazione né alle lusinghe bipartisan, l’unico che abbia dimostrato di possedere una consapevolezza piena della posta in gioco e la capacità di convincere i suoi “compagni di laticlavio” a smorzare gli entusiasmi e rifiutare le accelerazioni. Grazie. Speriamo di rivederlo nel Senato che uscirà dalle elezioni del 9-10 aprile.

Il lavoro da fare sarà molto, e uno spazio grande spetterà al Parlamento. Le idee su cui lavorare per elaborare proposte positive per un rinnovato “governo del territorio” ci sono; molte le abbiamo raccolte in questo sito, rendendo così disponibili contributi provenienti da fonti e voci diverse, ma tutte ispirate ad alcuni principi comuni: alla centralità del territorio come bene pubblico e collettivo e alla conseguente esigenza che il primato delle decisioni in materia di pianificazione urbanistica e territoriale spetti al potere pubblico: a un potere pubblico democratico non solo per le modalità di elezione degli organismi rappresentativi. Voci diverse, ma tutte consapevoli che il maggiore conflitto che avviene sul territorio, e ne decide il destino, è quello tra interessi economici nemici di ogni possibile sviluppo durevole (quali quelli della rendita) ed esigenze di una vita personale, sociale ed economica soddisfacente, in un quadro di vita gradevole e bello, in un’organizzazione territoriale razionale ed efficiente: per le cittadine e i cittadini di oggi, e anche per quelli di domani.

Consideriamoci all’inizio di un lavoro da fare: non per distruggere proposte che sono ormai morte, ma per costruire. Qualche base c’è nei programmi elettorali.

Questi (mi riferisco in particolare a quello presentato da Romano Prodi e dai leader dell’Unione) sembra volto in una direzione giusta. Possono trarsi conseguenze rilevanti e positive dall’affermazione che le politiche saranno “orientate a garantire la qualità ambientale, culturale e paesistica, la biodiversità, il risparmio del suolo, la prevenzione e la riduzione dei rischi”, come dalladichiarazione “che i principi della sostenibilità, della prevenzione e della precauzione debbano improntare tutti i piani e programmi che intervengono sul medesimo territorio, garantendo la massima trasparenza e partecipazione”. L’accento posto al risparmio di suolo suona come una novità nei documenti politici degli ultimi decenni. E così può leggersi una certa contrapposizione tra la manutenzione del territorio, che “è la più importante opera pubblica”, e l’ideologia delle Grandi Opere. (Ma perché due giorni dopo Prodi ha annunciato che la TAC in Val di Susa si farà “senza si e senza ma”?). Insomma, c’è qualche segno di speranza e d’inversione di tendenza, al confronto con l’imperante “lupismo”.

Su un punto mi sembra perciò ragionevole richiamare l’attenzione. A una prima lettura del documento, e in particolare della parte relativa alle politiche territoriali, si ha l’impressione che i diversi provvedimenti necessari al suo governo siano visti con un’ottica settoriale. Anche quando si richiama – opportunamente – la necessità di “realizzare una gestione integrata che tenga conto della biodiversità, della qualità ambientale, culturale e paesistica, del ruolo multifunzionale dell’agricoltura e insieme della qualità sociale e urbana”, si trascura ogni cenno (non vorrei per ignoranza) al fatto che gli strumenti inventati per realizzare una “gestione integrata” delle trasformazioni territoriali e urbane sono quelli della pianificazione: proprio quelli che sono stati smantellati dalle pratiche e dalle teorie del “lupismo” d’ogni colore, non solo nell’ultima stagione berlusconiana. Strumenti che da tempo meritano di essere adeguati, migliorati, perfezionati, resi aderenti alle nuove esigenze e possibilità (come molte regioni e molti enti locali si erano apprestati a fare tra il 1990 e il 2000), ma certo in primo luogo conosciuti e praticati come elementi cardine del governo pubblico del territorio.

Forse c’è un primo passo da fare - al di là delle opportune dichiarazioni di volontà e d’intenti sul terreno dei principi - per avviare una fuoriuscita dalla stagione che si vorrebbe consegnata alla storia,. Partire cioè dalla consapevolezza, e dalla ricognizione, di ciò che nel sistema giuridico italiano si è consolidato, secondo un percorso che è iniziato con Giolitti all’inizio del secolo, si è sviluppato con Bottai e Gorla nel rovinoso e tragico declinare del regime fascista, si è sviluppato (ministri sono stati Sullo, Mancini, Bucalossi, Galasso) nella stagione delle “riforme di struttura” degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso,.

Innestare insomma il nuovo nel tessuto intrecciato nei decenni in cui la preoccupazione per gli interessi generali e la tutela dei valori comuni erano più vivi e diffusi che negli anni di Berlusconi. E se proprio si vuole che il legislatore non trascuri i prodotti del Parlamento che è stato appena sciolto, invece che dalla Legge Lupi e dalle squallide e approssimative elaborazioni che sono alla sua base, sarebbe meglio, molto meglio, partire da quella diligente ricostruzione delle regole vigenti nell’ordinamento italiano in materia di governo del territorio, contenute nello “schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali nella materia governo del territorio”, il quale con grande modestia e con grandissima utilità si adopera nell’individuazione “dei principi fondamentali in materia di governo del territorio di cui all’articolo 117, terzo comma della Costituzione, che si desumono dalle leggi vigenti”.

Lo schema di decreto legislativo, sottoposto all’attenzione delle regioni nel gennaio scorso, è stato formato ai sensi della legge 5 giugno 2003, n. 131, articolo 1, comma 4, ed è scaricabile qui.

Quelle tre opere sono simili per alcune ragioni sostanziali: sono di utilità dubbia o nulla; il loro costo è incerto, e comunque enorme; produrranno arricchimento privato e indebitamento pubblico; comportano rischi e danni immediati all’ambiente.

Il Ponte sullo Stretto. Dovrebbe servire allo sviluppo della Sicilia: ma c’è ancora qualche balordo che pensa che basti collegare un’area con una infrastruttura per portarvi duratura ricchezza? Non sembra che la Calabria abbia cambiato faccia quando l’autostrada del sole l’ha collegata al resto dell’Italia, e alle ricche regioni del Nord.

Per affrontare sul serio il problema delle connessioni e del ruolo dell’Isola occorrerebbe lavorare sui collegamenti tra il Continente e le altre sponde del Mediterraneo, quindi sulle “autostrade del mare” e le loro connessioni con la rete delle comunicazioni terrestri. Ma è più facile proporre (quanto a realizzare, è un altro discorso) una grande opera d’ingegneria o d’architettura che lavorare seriamente a un serio programma nazionale dei trasporti.

In compenso, non c’è nessuna garanzia seria sulla sicurezza sismica, c’è la certezza del guasto a un sito che affonda le radici del suo valore nella profondità del mito e offre occasioni eccezionali alla vita della natura e alla ricchezza delle specie. Il suo costo è gigantesco, e altrettanto grandi sono i profitti di chi lo studia, progetta, promuove, realizza; ma non è il mercato che lo misura: il deficit lo paga Pantalone.

Il Treno ad alta velocità in Val di Susa. Anzi, non è più ad alta velocità, ma ad alta capacità: trasporterà le merci, perchè per i passeggeri non conviene. Però il tracciato è rimasto lo stesso: forse un treno che trasporti lentamente grandi quantità di merci richiede le stesse caratteristiche geometriche di una freccia lanciata nello spazio?

Chi ha spiegato a che cosa, a chi, perchè serve un “corridoio intermodale” tra Lisbona e Kiev, quali traffici debba smaltire lungo il suo percorso, come si connetta con il resto della rete delle comunicazioni? Qualcuno (che non sia un ambientalista estremista) ha riflettuto sull’utilità di trasportare patate, bottiglie e automobili da un punto nel quale queste merci vengono prodotte a un altro punto dove le medesime merci sono prodotte (magari dalle stesse holding)? Luciana Castellina ha ricordato di recente che il TIR che s’incendiò nella galleria del Frejus portava carta igienica dalla Francia all’Italia: non sappiamo produrla qui?

In compenso, gli economisti dei trasporti ci dicono che i conti economici sono del tutto inattendibili. Se l’opera si farà, verificheremo una volta ancora che il project financing è uno specchietto per le allodole: alla fine, viva il Mercato, ma il conto lo paga Pantalone. E magari Pantalone pagherà pure agli abitanti della Val di Susa qualcosa per il disturbo; la distruzione del paesaggio, lo sconquasso di un’economia locale, li pagheranno i figli e i nipoti di Pantalone.

Il MoSE nella Laguna di Venezia. Dovrebbe servire a tenere al riparo dalle “acque alte eccezionali” (prodotte delle maree marine e dell’esondazione dei fiumi) la città, che per un millennio è stata salvaguardata da un’intelligente e quotidiana opera di manutenzione del delicatissimo equilibrio ecologico. Lo fa con tecniche ingegneristiche devastanti, divenute rapidamente obsolete, che saranno sicuramente inefficaci se le modifiche planetarie saranno un po’ diverse dalle incerte previsioni.

In compenso, lo studio la progettazione la sperimentazione l’esecuzione sono state affidati da Nicolazzi (lo ricordate? è il primo ministro dei LLPP insignito del premio Attila) a un consorzio di imprese private, lucrosamente remunerate. In compenso, i lavori (che sono iniziati nonostante una relazione d’impatto ambientale negativa) devastano aree di grande pregio sia in sè sia in relazione all’intero ecosistema lagunare. Il costo della realizzazione è enorme, ma quello della gestione (che sarà gigantesco, trattandosi di enormi macchinari sommersi) ancora non è stato valutato, e non si sa neppure chi lo sosterrà. Pantalone sta già pagando, pagheranno figli e nipoti per molte generazioni.

Se mettiamo insieme i tre pannelli di questo trittico comprendiamo la strategia che c’è sotto. SI tratta di immagini potenti (l’ardita opera del genio ingegneristico che scavalca il mare tra Scilla e Cariddi, la grande direttrice dei movimenti delle persone, delle merci, dell’energia che collega l’Atlantico alle soglie dell’Asia, le geniali barriere d’acciaio che si ergono per proteggere la Perla della Laguna dall’irrompere minaccioso dei flutti marini), che trovano in se stesse la loro giustificazione.

Si tratta di mettere in moto grandi affari, rinviando al futuro i costi collettivi: e rinviando al futuro, quando gli improvvidi decisori non ci saranno più, anche la verifica della presunta utilità delle opere.

Si tratta di mobilitare il consenso di chi da opere faraoniche ha comunque da guadagnare: profitto, rendita, salario.

La sostenibilità? Ormai è un termine che ha perso la severità del significato originario: è stato ridotto a sinonimo di sopportabilità. E comunque chi sopporta è Pantalone, e i suoi figli e i figli dei loro figli.

Le 250 pagine del programma dell’Unione dicono qualcosa in proposito? Non sembra. Eppure, l’abrogazione esplicita di questo trittico, quale che sia il prezzo che occorrerò pagare, sarebbe comunque un grande risparmio per il futuro. E il segnale di una diversità dal berlusconismo che darebbe qualche speranza, e qualche ragione per votare non solo contro Berlusconi, ma anche per Prodi.

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