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Fine del sistema parlamentare

di Luciano Canfora

A giudizio di molti, il punto più basso è stato raggiunto martedì 14 dicembre con il mercato dei parlamentari compravenduti. Peraltro già mesi addietro, profeticamente, un fantasioso esponente PdL teorizzò, in vivaci dibattiti televisivi, la liceità del vendere il proprio corpo (maschile o femminile) al fine di «fare carriera». Sovviene la franchezza e freschezza lessicale dell'Alighieri a riguardo del lavoro diTaide: lavoro che si può esplicare anche vendendo il proprio voto di parlamentare in cambio di un mutuo o di un kepos (che ovviamente non va confuso col CEPU).

Ma, a ben riflettere, non era quello il punto più basso. In fondo anche il saggio Solone, anziché reprimerlo questo genere di lavoro, preferì disciplinarlo. Il punto più basso è stato raggiunto, invece, quando si son visti dotti maestri del giure disquisire a giustificazione dei deputati in vendita (non ancora in vetrina). Un ex presidente della Corte, con saggezza alla Polonio, ha pensosamente invitato, chi nel fenomeno del deputato in vendita ravvisa un reato, a «valutare con grande attenzione la compatibilità dell'articolo 68 della Costituzione» con la denuncia all'autorità giudiziaria dei compravenduti. Un altro sofo, esperto forse della vita che si conduce nell'entourage del premier, ha dichiarato al "Corriere della Sera" di sabato 11: «Bisogna essere cauti», e ha invitato a distinguere tra i casi in cui «il deputato che passa dall'altra parte ottiene mutui, soldi ed escort (sic)» e i casi in cui «la contropartita è la ricandidatura o un posto da presidente di commissione o di sottosegretario».

Ascoltando queste parole sembra di affogare nel fango. È la campana a morto per il sistema rappresentativo-parlamentare. Quel sistema appare ormai agonizzante, e la consapevolezza della fine di esso diviene senso comune.

Quella decadenza viene da lontano. Da quando il fatuo pseudo-concetto di «bipolarismo» ed il suo corollario («voto inutile») hanno preso piede nella società politico-giornalistica, il principio stesso della rappresentanza è stato ferito, e il cardine «un uomo/un voto» è stato liquidato. Da allora in avanti il distacco tra parlamento e paese si è venuto aggravando. E la lotta politica appare ormai piuttosto come un tavolo da gioco intorno al quale si punta al «jolly» del «premio di maggioranza».

Dal tavolo da gioco alla compravendita del voto il passo è stato breve. E dalla compravendita del voto a quella degli eletti il passo è stato ancora più breve. Servì per affossare Prodi; è servito daccapo martedì scorso.

Che il sistema rappresentativo-parlamentare fosse un prodotto storico, cioè un fenomeno che nasce, si sviluppa e muore, e non un valore «eterno», lo avrebbe capito a priori anche un principiante. Ora ne abbiamo la prova in corpore vili.

Come sempre quando le classi in lotta «marciscono» (per dirla con Gramsci) il problema è se ci attenda un Cesare. Magari da baraccone, galleggiante su di un ceto parlamentare in cui, come si esprime l'avv. Pecorella, si scambiano «soldi, mutui o escort».

Prosit.

Nell'Italia di Berlusconi,

una democrazia parlamentare a rispettabilità limitata

di Colin Crouch

Per lo straniero che osserva l'Italia dall'esterno, il crollo finale delle pretese di rispettabilità della democrazia parlamentare italiana, cui abbiamo assistito nel corso del voto sulla fiducia/sfiducia al governo, suscita due tipi di riflessioni: considerazioni particolari, specifiche del caso italiano; e considerazioni più generali, che valgono per tutti.

Il caso italiano

Particolare – o almeno così sembra – è il modo in cui la classe politica e anche gli elettori italiani hanno accettato i ripetuti oltraggi inferti alle norme costituzionali durante il lungo periodo berlusconiano: le immunità privilegiate – anzi il fatto stesso che un presidente del consiglio debba ricorrere a così tante immunità; la concentrazione dei poteri politici, mediatici ed economici in un singolo uomo. In situazioni del genere, la democrazia e il costituzionalismo hanno bisogno di una sospensione delle lealtà di partito e di ideologia per proteggere l'integrità del sistema e la reputazione stessa del paese. Non mancano, certo, esempi importanti di un simile comportamento – per citarne uno quello del presidente della Camera Fini – di parlamentari che hanno accettato di assumersi una responsabilità di questa portata. Ma i loro numeri non bastano; e il fatto che queste persone abbiano dimostrato che un tale comportamento è possibile, rende ancora più vergognoso quello degli altri.

Quanto agli elettori, chissà cosa pensano realmente. In tanti, sono tuttora convinti che Berlusconi sia il solo in grado di proteggere gli italiani dal bolscevismo di The Economist e delle "toghe rosse"; altri, forse, ritengono che è giusto che un Parlamento di furbi sia governato dal più furbo; altri ancora alzano le spalle, sostenendo che l'Italia vera non ha bisogno di una classe politica nazionale autoreferenziale e delle sue istituzioni, ma può tirare avanti con il civismo forte della vita locale di tante parti del paese; altri ancora alzano le spalle e basta.

Dietro tutti gli sviluppi bizzarri e imprevisti degli anni berlusconiani – destinati a continuare – rimane l'incongruità iniziale del 1994, da cui discende tutto il resto. Dalle rovine della cosiddetta "prima Repubblica" emerse un uomo, Berlusconi, che stava al centro di quella Repubblica con i suoi misteriosi legami finanziari, e che "scese in campo" proponendosi come colui che avrebbe dato vita a una nuova, pulita, vita politica italiana. E gran parte degli italiani gli credette. In realtà, ciò che era crollato erano esclusivamente le organizzazioni politiche della prima Repubblica, non le sue pratiche di Tangentopoli. Berlusconi era sicuramente in grado di creare nuove organizzazioni, con al centro il suo partito-azienda. Ma un partito-azienda non poteva cambiare le dubbie pratiche della prima Repubblica. Queste continuarono, continuano, e continueranno. C'è qui un paradosso profondo: in un certo senso, gli aspri contrasti tra i partiti della prima Repubblica erano una delle cause dei suoi vizi; ma in un altro senso rappresentavano una protezione contro di essi. Il conflitto tra la Chiesa e il comunismo, e le relative identità, era infatti talmente profondo, che gli elettori non guardavano criticamente il comportamento dei loro rappresentanti. Ma la robustezza delle organizzazioni di partito – con la lealtà alla Chiesa, a un'ideologia, agli eroi del passato, ma anche con il bisogno di dare soddisfazione ai militanti dei partiti, motivati principalmente dalla condivisione di ideali – riusciva pure a imporre delle restrizioni al comportamento degli individui e a proteggere la democrazia italiana dagli aspetti più devastanti delle cattive pratiche.

Con la crisi di Tangentopoli e dei partiti, anche questi controlli si dissolsero, almeno per i partiti principali del vecchio centro, Dc e Psi. Allo stesso tempo il Pci entrò a sua volta in difficoltà a seguito del crollo dell'Unione Sovietica, sebbene i comunisti italiani avessero già preso largamente le distanze dal comunismo sovietico. Gli altri outsiders, come Alleanza Nazionale, non poterono resistere all'abbraccio berlusconiano.

In assenza di una disciplina di partito come collante tra i politici e la società, fiorirono senza alcun tipo di restrizione tutti i vizi della prima Repubblica: una classe politica "a sé stante", con deboli legami col popolo, che cerca di accaparrarsi posti, posizioni, vantaggi e occasioni di ogni tipo. Col suo partito-azienda, Silvio Berlusconi fu – ed è – il 'leader' perfetto per un simile sistema.

Lezione per gli altri?

Una stravaganza italiana, dunque, diranno gli stranieri, che magari ci fa ridere, ma che non deve preoccuparci. Ma non è così. Viste le particolari condizioni del crollo dei partiti italiani negli anni 90, il paese è andato incontro in tempi rapidissimi a un'esperienza più generale, che riguarda anche altri paesi. Le ideologie, di ispirazione sia religiosa sia di classe, che formarono le identità e le organizzazioni politiche del secolo scorso, stanno perdendo dappertutto la loro forza, la loro realtà. Dovunque i partiti si presentano come contenitori vuoti, che usano simboli e retorica del passato nell'illusione che producano legami anche più artificiali con il popolo, ma che assumono come loro compito principale la distribuzione di posti, di favoritismi, e di ogni altro privilegio a personaggi politici staccati dal legame con la società.

Ma se le classi politiche stando perdendo il contatto con il popolo, non lo perdono con le grandi aziende, le quali non hanno smarrito la propria capacità organizzativa, hanno bisogno dei governi e possono usarli. Per queste ragioni la crisi generale dei rapporti tra il mondo politico e l'elettorato è una crisi che tocca soprattutto il centro-sinistra. Una politica dominata dalle grandi imprese dà più fastidio alla sinistra che alla destra.

Alcune particolarità del caso italiano rimangono: la velocità del crollo degli anni 90 ha svelato la nudità, il vuoto dei partiti in modo particolarmente brutto; nel resto del mondo democratico i partiti conoscono invece un declino graduale e dignitoso. Certo, anche altrove alle spalle dei primi ministri c'è la grande impresa; ma in Italia la grande impresa si annida nel corpo stesso del primo ministro. Le idiosincrasie del 'leader' italiano sono qualcosa di personale, e non è detto debbano verificarsi in altri paesi. Epperò molti elementi del caso italiano mostrano ad altri paesi democratici il proprio futuro.

Documenti tratti dal sito web dell' Editore Laterza

In una bene ordinata repubblica si dovrebbe riflettere in primo luogo su una crisi che sta distruggendo l’intero tessuto istituzionale, senza farsi ogni giorno depistare da questa o quella microfibrillazione. In uno Stato non immemore di quelli che ancora sono suoi compiti, si dovrebbe riflettere sulla crescente rifeudalizzazione dei poteri, che quotidianamente lo svuota e ne cambia la natura. In un sistema politico non perduto nell’autoreferenzialità si dovrebbe riflettere su quanto sopravviva della rappresentanza e reagire coralmente alla sostituzione dell’intera politica con una macchina del fango sempre in funzione che contribuisce alla decomposizione sociale. Mai, nella storia della Repubblica, gli scontri istituzionali erano stati così violenti, ripetuti, quotidiani, emblematicamente riassunti dagli attacchi continui del Presidente del consiglio a tutte le istituzioni di garanzia. Mai s’era avuta una legge elettorale che, come quella attuale, consegna la selezione dei parlamentari ad oligarchie ristrettissime e manipola la rappresentanza. Mai s’era vissuto un periodo di sostanziale instabilità come quello cominciato nel 2006, che sembra aver fissato in due anni la durata possibile d’una legislatura. Mai la vita pubblica era stata attraversata da tanti "mostruosi connubi", dalla riduzione d’ogni cosa all’interesse privato, con irrisione palese di moralità e legalità.

Si potrebbe continuare. Ma quel che più deve far meditare è l’apparire congiunto di tutti questi fattori. La novità della situazione, il reale mutamento qualitativo, derivano dal loro irrompere tutti insieme sulla scena pubblica, da una saldatura che ha cambiato faccia alle istituzioni e alla società, diventando così il vero connotato della cosiddetta Seconda Repubblica, il cui fallimento è certificato dal fatto che già se ne invoca una Terza.

Com’è potuto accadere tutto questo? La riflessione politica s’arresta. E le spiegazioni centrate sull’antiberlusconismo si rivelano inadeguate. E non perché non siano grandissime le responsabilità di chi ha dato nome a questa fase. Ma perché lo stesso fenomeno Berlusconi ha potuto espandersi in un contesto rivelatosi propizio. Di questo si dovrebbe parlare, e non lo si fa. Con danno grandissimo per la stessa progettazione politica. L’ostacolo a una riflessione adeguata, il tabù da rimuovere, si chiama bipolarismo. Il dommatismo fa sempre male, soprattutto in politica, dove una delle regole da osservare è proprio la valutazione di ogni iniziativa secondo le conseguenze che produce. Ed è indubitabile che la via scelta per il bipolarismo all’italiana si sia rivelata disastrosa, anche perché, in un impeto fideistico, non si volle tener delle cautele a suo tempo suggerite. V’erano molti modi di arrivare al bipolarismo nel contesto storico e istituzionale italiano, e invece si è scelto quello che apriva la strada al populismo e alla concentrazione dei poteri.

La riflessione politica deve partite dalla diagnosi critica della drammatica situazione attuale. Solo un’analisi impietosa può ricreare le condizioni per una politica di rinnovamento, che significa in primo luogo liberarsi del populismo e ripristinare le condizioni minime della stessa democrazia formale. E segnalo altre tre questioni che mi sembrano ineludibili.

La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato "neomedievalismo istituzionale". Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l’indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all’appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni ‘50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell’uomo. A molti tutto questo appare come innovazione, così come lo stesso Berlusconi viene presentato come l’incarnazione di un tempo di novità. Ma davvero non hanno nulla da dire le modernizzazioni autoritarie del secolo passato, e le diverse strade che seppero trovare le democrazie?

La Seconda Repubblica ci consegna gli attacchi allo stesso Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale, descritta come un manipolo di reduci della sinistra che viola le prerogative del popolo sovrano; ad una magistratura all’interno della quale si troverebbe una vera "associazione per delinquere"; al Parlamento in sé, volta a volta considerato come un intralcio o come luogo di spregiudicati reclutamenti. Ora siamo all’assalto finale. Questo hanno colto gli studenti, e il Presidente della Repubblica che, ascoltandoli, ha visto l’elemento che differenzia il movimento di oggi da quelli del passato, la volontà di essere protagonisti e, insieme, interlocutori delle istituzioni, nelle quali si riconoscono attraverso la Costituzione. Questo ha colto Daniel Baremboin quando ha aperto la stagione della Scala leggendo l’articolo 9 della Costituzione. Questo dovrebbero cogliere le forze politiche: la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo, com’era avvenuto nel 2006, quando 16 milioni di persone dissero no alla riforma costituzionale berlusconiana. Le forze di opposizione non hanno saputo, o voluto, amministrare quel patrimonio. Anche da una riflessione su questo punto può partire un rinnovamento della politica.

C´è chi dirà che l´iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone.

Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l´accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un´alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l´articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l´insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.

Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.

A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l´etica pubblica, esasperando lo sporco spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l´ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l´hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.

Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell´opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s´insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c´è, dietro l´apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel ´94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell´uso di gas nella guerra d´Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel ´38.

Un´uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all´opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall´anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.

Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: «La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali».

Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.

È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l´Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l´ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l´interiorizzazione non c´è stata. Anche tra il ´43 e il ´44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel ´46 all´elezione dell´assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.

Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d´altro genere – il rischio di uno Stato in bancarotta–e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L´impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d´insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano («Il Quirinale vuole un governo solido») come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.

L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d´opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l´equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell´interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall´inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d´opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell´informazione, autonomia della magistratura, lotta all´evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d´interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt´altro che ridicolo o provinciale.

I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L´unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna «o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono». Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell´ozio: «Sono pronti a dire ai veggenti: ‘Non abbiate visioni´ e ai profeti: ‘Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni´».

Il profeta d´illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.

La profezia di Totò

Ha ragione Mario Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani senza futuro o d’una sola generazione depredata. Un trentasettenne precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere riconosciuto (questa l’etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l’età matura, poi l’anziana. I nati dopo il ‘70 sono la metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti. Che s’imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St Louis ( Il Fatto, 11 novembre).

Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire all’estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento reciproco fra l’Italia che ha un posto e l’Italia che ha semplici attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli d’essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di «accumulare punti». Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s’è fatto banale: è un’usanza dettata dal principe (un bando dell’autorità). È la morale del tempo presente.

Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una miccia – così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica – che ha acceso risentimenti acuti, non limitati all’istruzione che pure è «crocevia nella vita» d’ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger l’essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos’altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.

In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su ricerche dell’Istat e del Center for Research on Pensionsand Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d’Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni. Non così il precario nato dopo il ‘70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà – se avrà lavorato 32 anni su 40 – 340 euro al mese. Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch’essi. I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l’auto sino all’orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz’averlo deciso.

Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul Web – l’agora di queste generazioni – ma poco sui giornali. C’è una complicità tacita, che impedisce alla verità d’esser disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa – sulla crescita che nei paesi sviluppati s’abbasserà stabilmente, sul clima da proteggere, sullo Stato impoverito – questo qualcosa dovrà implicare nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l’istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini). L’accordo non va cercato tra partiti ma tra l’Italia che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c’è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici) che queste cose le guardino in faccia.

Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste crudamente: «Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare». Il risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.

Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei focolari paterni o materni: secondo l’Istat, il 68 per cento vive coi genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli anni ‘40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta, dell’economia, è un’esperienza interiore di guerra: «È una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di mantenere in vita il Welfare». Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è più creativa.

Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. «È proprio adesso, con la guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta l’occasione. (...) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi» (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).

Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l’ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: «Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito». Nemmeno gli avversari del ‘68 usavano aggettivi simili. Negli italiani è stata svegliata nell’ultimo decennio, e nutrita, ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l’attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei disertori: «Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore ( Schweinehund) che abita ciascun uomo».

Dopo la sfiducia (annunciata) dei finiani e della diplomazia internazionale, su Silvio Berlusconi si abbatte ora anche quella del Censis. L'icona dell'individualismo, del consumismo, dell'uomo solo al comando si è rotta, annuncia Giuseppe De Rita; un lungo ciclo - economico, politico, sociale e psicologico - si è concluso, lasciando sul campo fragilità e depressione, nelle vite singolari e nella vita collettiva. Un'altra bufala, commenterà l'Immarcescibile. E invece, come al solito la diagnosi del Censis centra il punto, va presa sul serio e soppesata.

Dopo averci avvertito, negli ultimi anni, che eravamo diventati una cosa a metà fra una mucillagine malinconica e una compagnia di replicanti in apnea, De Rita mette da parte gli attrezzi della sociologia e prova con quelli della psicoanalisi. Quello che ci paralizza, dice, è qualcosa di più profondo della contabilità economica o di un trend che va storto: è un grumo inconscio, che annoda il rapporto fra desiderio e legge producendo una società priva dell'uno e dell'altra, del desiderio e della legge, i quali o vivono in una tensione reciproca o muoiono entrambi. Fonte evidente ma non dichiarata la letteratura post-lacaniana sull'eclissi dell'Edipo - in particolare il lavoro di Massimo Recalcati, ben noto a lettori e lettrici del manifesto -, De Rita riconduce a questo grumo la «sregolazione pulsionale», così la chiama, di una società priva di bussola, in cui al desiderio si sostituisce il godimento immediato e all'autorità della legge simbolica si sostituisce la frammentazione inefficace dei poteri e delle norme. Consumismo - degli oggetti e dell'altro ridotto a oggetto, delle merci e del sesso ridotto a merce: ricorda qualcuno? -, edonismo, narcisismo, egoismo, e insieme illegalità diffusa, criminalità, investimento immaginario su una leadership tanto personalizzata quanto impotente: il catalogo è questo, la fotografia del berlusconismo è calzante, e anche il grumo inconscio individuato è quello giusto.

Tuttavia il discorso è scivoloso. Lo sa lo stesso De Rita, quando passa dalla diagnosi alla terapia e scongiura la scorciatoia di una risposta che consista solo in un rafforzamento della legge (o nella litania «più legge, più merito»): la caduta della legge simbolica non si arresta con la stretta delle leggi repressive; non è di autoritarismo che ci sarebbe bisogno ma di autorità, e «non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge». Per De Rita infatti è piuttosto sul secondo tasto che bisognerebbe battere, cioè sul rilancio del desiderio: «tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Senonché anche il desiderio non si lascia rilanciare da un'esortazione, e tantomeno da un dovere civile. E in una situazione politica come la nostra, in cui allo stato di illegalità permanente instaurato da Berlusconi si tende a contrapporre solo la parola d'ordine di una legalità-feticcio, è più che probabile che l'analisi del Censis porti a battere non sul secondo tasto ma sul primo.

Si scivola facilmente anche su un altro punto del discorso, quando De Rita riconduce il «soggettivismo» di Berlusconi alla scoperta della soggettività operata dal 68 e dal femminismo: non che siano la stessa cosa, ma «la libertà di essere se stessi» allora conquistata «ha trovato in Berlusconi colui che l'ha cavalcata». Cavalcata, o rovesciata nel suo contrario, traducendo la libertà politica in libero mercato e la soggettività in individualismo? La domanda cruciale è questa, e anche qui non sono ammissibili scorciatoie del discorso, salvo avallare reazioni come quella di Sacconi, il quale infatti coglie la palla al balzo per sentenziare che sì, emerge «un certo nichilismo» dal rapporto del Censis, ma «nasce dai cattivi maestri, figli degli anni Settanta, e va contrastato con i valori tradizionali».

Sono i rischi di un'applicazione troppo meccanica del discorso psicoanalitico al discorso sociale e politico. Meglio incassare intanto le molte fini decretate dal Censis: fine della leadership troppo personalizzata, fine del mito della governabilità e del decisionismo, fine della fede nei miracoli dell'unto dal Signore, fine della credenza nelle magnifiche sorti di un capitalismo che satura sfornando oggetti di consumo. E accogliere l'auspicio di una nuova forma di leadership politica, che sappia puntare sulla responsabilità diffusa. E che più che della dinamica desiderio-legge, che non è nelle sue mani, si occupi di arrestare il piano inclinato su cui il Censis, di anno in anno e ogni anno di più, fotografa impietosamente il paese.

Anticipiamo parte di un testo di che compare integralmente nel nuovo numero di "Reset"



Il principale nemico del multiculturalismo oggi non è più la monarchia assoluta che si identifica con una religione, con una nazione o con una lingua. È piuttosto la società di massa globalizzata che trasforma nazioni e culture in meri mercati, votandole al consumismo, alle comunicazioni di massa e ai mass media. La società di massa è prima di tutto una società senza attori, senza principi morali e senza basi istituzionali. La diversità culturale oggi non può sussistere se non coniuga la difesa di specifiche minoranze locali e culturali con azioni positive che si oppongano allo schema dominante del contesto sociale e culturale. La varietà della culture rischia altrimenti di trasformarsi in un insieme di gruppi comunitari chiusi, intolleranti e ossessionati dalla propria purezza e omogeneità.

Il solo modo per scongiurare questo genere di evoluzione negativa consiste non nell’isolare e proteggere ogni peculiarità linguistica o cultura religiosa, ma nell’attaccare la società di massa che annulla la soggettività, le tradizioni, le norme e le rappresentazioni. Tutte le culture dovrebbero condividere gli stessi interessi: dovrebbero puntare a non farsi distruggere dal mercato culturale globale o dallo Stato autoritario e teocratico. Ogni cultura ha l’obbligo di difendere il diritto che ciascuno ha di creare, utilizzare e trasmettere una cultura che si definisca in primo luogo per la difesa di contenuti universali, della ragione e dei diritti umani. Solo presupposti così universalistici possono difendere in maniera efficace la varietà culturale. Non è una questione di fascino della diversità, anche se quest’argomentazione, apparentemente strana, è più seria di quanto sembri.

La controffensiva però non può basarsi esclusivamente sull’aspetto positivo del pluralismo culturale. Per essere abbastanza forti da resistere alla società e alla cultura di massa e al sistema dell’economia globalizzata, dobbiamo dare priorità alle culture che si autodefiniscono in termini universalistici. È il caso delle religioni principali, dell’ecologia politica, di tutte le forme di femminismo e di tutte le azioni volte alla difesa delle minoranze, che siano nazionali, sessuali, linguistiche o religiose.

Alcuni, tra cui i postmodernisti, potrebbero obiettare di difendere il multiculturalismo per motivi molto più semplici e non così radicali. A detta loro le società moderne non sono più caratterizzate da un principio generale di unità. Non esiste nessun agente centrale che controlli l’istruzione, il tempo libero, la conoscenza della letteratura nazionale e delle opere d’arte. Il multiculturalismo - affermano - non è né buono né cattivo, ma piuttosto naturale, perché la capacità dello Stato di reprimere le minoranze si indebolisce sempre più. I gruppi dominanti si preoccupano dei processi economici che diventano ogni giorno più globali e inquietanti, ma non si sentono spaventati dal declino di una lingua nazionale o dal fatto che le attività di ricerca scientifica di punta siano concentrate in pochi laboratori localizzati per la maggior parte in America e per il resto in altre cinque o sei nazioni, anche se tale situazione potrebbe cambiare rapidamente.

A tale punto di vista non vanno attribuiti giudizi di valore. Non è né buono né cattivo, la sola argomentazione utile a suo sfavore è che è oggettivamente falso. La consapevolezza di un’identità naturale è forte negli Stati Uniti come in diversi nuovi Stati emergenti, specialmente in quelli di maggiori dimensioni. Pochi cinesi credono che entro la fine di questo secolo si trasformeranno in asio-americani. Dal canto suo l’India, più di ogni altra nazione, ha sempre avuto interesse a coniugare tradizione e innovazione. E la stessa tendenza, anche se a un livello inferiore di intensità, può essere osservata nella maggior parte dei paesi del mondo. La sola eccezione importante è rappresentata dall’Europa occidentale, in cui una stragrande maggioranza dell’opinione pubblica è convinta che l’identità nazionale e il ruolo universalistico della propria nazione appartenga al passato. In poche regioni del pianeta i cittadini sono meno interessati che in Europa occidentale al futuro del proprio paese e del proprio Stato.

Solo gli europei stanno rinunciando al gusto per le differenze e le specificità perché le generazioni più giovani già ignorano la propria storia nazionale originaria. L’orientamento culturale che si sta diffondendo più rapidamente in Europa occidentale è la xenofobia, il rifiuto degli stranieri e in particolare degli immigrati. La xenofobia è altrettanto forte in Nord Europa che nell’Europa meridionale, malgrado di primo acchito possa apparire più forte al nord.

L’idea di un multiculturalismo lievemente tollerante, libero dalle forme di controllo del vecchio Stato centralizzato, che era ossessionato dall’identità culturale della propria nazione, non è altro che un sogno. Il multiculturalismo viene più spesso percepito in termini negativi che non positivi. Per conferirgli un’accezione positiva bisogna prima di tutto sottolineare la capacità dei gruppi umani dotati di valori culturali e norme sociali di resistere alla globalizzazione della cultura di massa e all’attrattiva culturale e materiale delle maggiori superpotenze economiche.

La difesa del pluralismo culturale non può limitarsi alla tutela di una storia culturale che in realtà è già assente nella memoria dei giovani. Essa può essere supportata in maniera efficace solo attraverso un attacco diretto all’economia globalizzata e alla cultura di massa che annulla la cultura come reinterpretazione del passato, elemento chiave per la costruzione di un futuro originale. La forte difesa della cultura nazionale o regionale è una delle condizioni principali per la definizione di un atteggiamento positivo nei confronti del pluralismo culturale, almeno quando le culture, al di là della propria identità e specificità, si definiscono come espressioni della generale capacità umana di creare sistemi simbolici ed elaborare giudizi di valore.

(Traduzione di Chiara Rizzo)

"Ero amico del padre del leader laburista E sono contento che il figlio si preoccupi dei più deboli" - Un colloquio con il sociologo sul futuro della politica. Partendo dal suo rapporto con Ed Miliband - "Sono per un ‘reddito’ minimo garantito ai più poveri: è una delle poche idee che permette la nostra resurrezione morale" - "Conta ritrovare il senso della comunità: perché se un individuo viene escluso non ha più protezione e può essere facilmente manipolato"



Benché abbia lasciato il suo incarico di docente di sociologia alla Leeds University nel 1990 per andare ufficialmente in pensione, l´ottantaquattrenne Bauman continua ad essere un autore prolifico, sfornando un libro l´anno dalla sua dimora nel verde dello Yorkshire. L´ultimo saggio, intitolato 44 Letters from the Liquid Modern World, raccoglie una serie di articoli scritti su vari fenomeni, da Twitter all´influenza suina alle élite culturale.

Bauman ha il pubblico di una vera star: quando è stato inaugurato l´istituto di sociologia che l´università di Leeds ha intitolato a suo nome, a settembre, più di 200 delegati stranieri sono venuti a sentirlo. Nonostante il plauso che riscuote, pare proprio che Bauman sia profeta ovunque meno che in Inghilterra. Forse dipende dal fatto che finora non si è prodigato a fornire ai politici teorie superiori per giustificare il loro operato e le loro motivazioni – a differenza di Lord (Anthony) Giddens, il sociologo autore della teoria politica della "terza via", sposata dal New Labour di Tony Blair.

Ma tutto è cambiato da quando alla guida del Labour c´è Ed Miliband che ha mutuato da Bauman la tesi secondo cui il partito aveva perso di umanità convertendosi al mercato. Così per il sociologo il nuovo leader offre una possibilità di "risurrezione" alla sinistra a livello morale.

«Mi sembra molto interessante la visione della collettività di Ed. La sua sensibilità ai problemi dei poveri, la consapevolezza che la qualità della società e la coesione della comunità non si misurano in termini statistici ma in base al benessere delle fasce più deboli», racconta Bauman.

Il rapporto tra Bauman e i Miliband è di lunga data. Il padre di Ed, Ralph, e Bauman strinsero una profonda amicizia negli anni ´50 alla London School of Economics. Entrambi erano sociologi di sinistra e ebrei polacchi d´origine. Entrambi fuggiti da regimi tirannici: Ralph Miliband scappò dal Belgio ai tempi dell´avanzata tedesca nel 1940 e Bauman fu espulso dalla Polonia quando i comunisti locali attuarono una purga antisemita nel 1968. Decisiva fu la scelta di Ralph Miliband di entrare a far parte, nel 1972, del dipartimento di scienze politiche dell´università di Leeds, dove Bauman insegnava sociologia. La casa di Bauman a Leeds divenne una tappa fissa per i figli di Milliband. Ed e David crebbero guardando i due accademici discutere del futuro della sinistra.

Bauman afferma che i fratelli Miliband già da piccoli erano «validi interlocutori… affascinanti e di straordinaria intelligenza per la loro giovane età». (...)

Neal Lawson, direttore del think tank della sinistra laburista Compass, afferma che l´appello di Ed Miliband a mobilitarsi «per chi crede che nella vita non contano solo i guadagni» e la sua energica difesa della «collettività, dell´appartenenza e della solidarietà» era in puro stile Bauman. Anche perché a differenza di quanto accade per altri sociologi l´opera di Bauman è accessibile, intellettuale e spesso polemica. La sua biografia – dalla fede comunista allo status di minoranza perseguitata all´analisi scientifica della quotidianità – rende difficile inquadrarlo. La sua teoria si fonda sul concetto che sono i sistemi a fare gli individui, non viceversa. Bauman sostiene che non è questione di comunismo o di consumismo, comunque gli stati vogliono controllare l´opinione pubblica e riprodurre le loro élite (...). La sua opera si incentra sulla transizione ad una nazione di consumatori inconsapevolmente disciplinati a lavorare ad oltranza. Chi non si conforma, dice Bauman, viene etichettato come "rifiuto umano" e depennato come membro imperfetto della società. Questa trasformazione «dall´etica del lavoro all´etica del consumo» preoccupa Bauman. Egli ammonisce che la società è passata dagli «ideali di una comunità di cittadini responsabili a quelli di un´accolita di consumatori soddisfatti e quindi portatori di interessi personali». Non c´è da stupirsi che i critici dipingano Bauman come un "pessimista".

Ma davanti ad una tazza di tè e a un assortimento infinito di pasticcini il canuto professore è il fascino in persona – per quanto pessimista sia. A suo giudizio è emerso tutto un vocabolario politico come "paravento" per intenti occulti. Così il termine mobilità sociale, ad esempio, è «menzognero, perché gli individui non sono in grado di scegliere la propria collocazione nella società». L´equità non è che una copertura per «lo spettro dell´assistenza concessa solo negli ospizi». (...)

Talvolta le scelte di Bauman risultano inquietanti. Dichiara di aver mutuato l´idea fondamentale del suo importantissimo saggio sull´Olocausto da Carl Schmitt, un politologo considerato vicinissimo a Hitler. Bauman sostiene che l´"esclusione sociale" di cui oggi si discute non è che un´estensione del postulato di Schmitt secondo cui l´azione più importante di un governo è "identificare un nemico".

Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l´omicidio di milioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l´azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l´esito delle azioni della gente. L´Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato moderno di perseguire l´ordine sfruttando il timore degli "stranieri e degli emarginati". «Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette. Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi. Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società».

Oggi Bauman è comunque ottimista sulla capacità della sua disciplina di trovare soluzioni per questi problemi. Con il calo degli iscritti al corso di laurea e la mentalità insulare la sociologia britannica si dibatte tra statistica e filosofia, ma, ammonisce Bauman: «Il compito della sociologia è venire in aiuto dell´individuo. Dobbiamo porci a servizio della libertà. È qualcosa che abbiamo perso di vista», dice.

Nonostante abbia la reputazione di criticare senza offrire soluzioni, Bauman è stato una voce importante nei dibattiti sulla povertà. La sua proposta di garantire un "reddito del cittadino", fondamentalmente il denaro sufficiente a condurre una vita libera, è stata una delle poche voci non conformiste nel dibattito sulle politiche di reimpiego (welfare-to-work). L´erogazione di denaro ai poveri, scriveva Bauman nel 1999, eliminerebbe «la mosca morta dell´insicurezza dall´unguento odoroso della libertà». Dieci anni dopo il reddito minimo garantito è entrato nel comune dibattito politico ed è una causa sostenuta da Ed Miliband.

Bauman si è sempre interessato di politica: il suo primo scontro con l´autorità pubblica ebbe luogo quando criticò il partito comunista polacco negli anni ´50 per la sua burocrazia fossilizzante e la spietata repressione degli oppositori. «La mia tesi era che il comunismo era animato solo dalla necessità di restare al potere».

Un decennio di simili eresie gli guadagnò l´espulsione dal suo paese a danno della Polonia e a beneficio dello Yorkshire. Oggi Bauman non mostra amarezza. È arrivato al punto di ignorare l´articolo di una rivista polacca di destra che nel 2007 lo accusò di essere stato per un periodo al soldo dei servizi segreti polacchi e di aver avuto parte nella purga degli oppositori politici del regime.

«L´accusa si basa su un ragionamento deduttivo. Poiché da adolescente ero membro di un´unità interna dell´esercito polacco devo necessariamente essere colpevole di qualcosa. Non c´è traccia di prove. Semplicemente non è vero», dice Bauman.

Nonostante l´esperienza maturata in decenni di attività intellettuale Bauman non si pone volentieri nel ruolo di vate, dice di non aver intenzione di "calcare i corridoi del potere" dispensando gemme di saggezza. Augura successo al Labour e resta profondamente pessimista circa il tentativo del governo di coalizione di dare un volto umano ai tagli alla spesa pubblica. «Ci siamo già passati con Reagan e la Thatcher», ammonisce.

© Guardian News & Media Ltd 2010 . (Traduzione di Emilia Benghi)

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi – futuro Premier – aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ‘92. Dell’Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ‘74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un «uomo di garanzia».

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il «regalo» a Riina (5 milioni) per «aggiustare la situazione delle antenne televisive» in Sicilia. Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe «finito sotto i ponti o in galera per mafia» ( la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri, in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera».

C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: «Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale».

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.

Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: «Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni».

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: «Se non vi adeguate ve li scateno contro». Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna - che hanno denunciato il «ciarpame senza pudore» del Cavaliere, e le «guerre per bande» orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ‘92 - condividendo le opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per «concorso esterno in associazione mafiosa». Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l’effetto di rendere «antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d’influenza». Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa «di sinistra», ma di ben più essenziale: l’era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.

Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con «vocazione maggioritaria», ma l’essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il ‘45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre ‘44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: «È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso».

Del potere non si può fare a meno; per questo, occorre limitarlo. Scriveva Hannah Arendt che il potere non ha bisogno di giustificazioni «in quanto è inerente a ogni comunitá politica». Ciò di cui ha bisogno è la legittimità. L´esercizio regolato e in pubblico del potere politico consente la limitazione che meglio si accorda con la legittimità e la libertà individuale, ovvero con i principi e la pratica della democrazia costituzionale. Arendt scriveva nel 1971, a commento di quanto l´opinione pubblica americana stava scoprendo, grazie alla stampa: uno schema di abuso sistematico di potere messo in atto dalla Casa Bianca per coprire il ruolo dei servizi segreti e del Dipartimento di Stato in Indocina e in Vietnam a partire dalla Seconda guerra mondiale.

Arendt metteva a nudo la manipolazione delle informazioni, la menzogna scientemente orchestrata, la violazione della costituzione e dei diritti civili. Coprendosi dietro il pretesto di fare gli interessi nazionali, i leader americani si curavano invece di salvaguardare la loro immagine. Coprivano le loro reali intenzioni e azioni per essere creduti limpidi dal pubblico. Presumevano, dunque, che il potere politico fosse pubblico proprio mentre lo usavano come un fatto privato – per questo la loro azione doveva restare nascosta, perché impropria secondo le leggi, ovvero perché un abuso.

L´abuso di potere è un fatto gravissimo perché distrugge una comunità politica trasformando i cittadini in sudditi, facendone oggetto di raggiro, mettendoli nella condizione di non sapere e quindi di non poter giudicare con competenza, lasciando chi governa nella straordinaria libertà di fare ciò che vuole. L´abuso mina alla radice la fiducia senza la quale non si danno relazioni politiche in una società fondata sul diritto. Il liberalismo ha colto al meglio questo problema, poiché ha da un lato assunto che il potere è necessario, e dall´altro che il suo esercizio stimola negli uomini la propensione a non averne mai abbastanza e quindi ad abusarne. Il potere alimenta la passione per il potere con un´escalation fatale verso il monopolio. Le costituzioni moderne partono tutte dalla premessa che ci si debba sempre attendere la violazione e l´abuso da parte di chi esercita il potere e per questo istituzionalizzano le funzioni pubbliche e stringono il potere politico dentro norme rigide e chiare. Da questa concezione liberale ha preso forma l´idea che l´unica legittimità che il potere politico può acquisire è quella che viene dal rispetto delle garanzie di libertà individuale e, quindi, dalla limitazione e dal controllo del potere (limitazione nella durata e nell´intensità grazie alle elezioni, ai controlli di costituzionalità e alla divisione dei poteri) attraverso vincoli che chi governa non può manomettere. Violare i limiti che la difesa di questa libertà impone equivale a mettersi fuori della legge (un fatto di sedizione che indusse John Locke a giustificare la disobbedienza e la ribellione, aggiungendo con toni sconsolati che purtroppo i popoli hanno più capacità a subire gli abusi che a ribellarsi ad essi). Il potere che opera d´arbitrio non è più potere politico, quindi, ma é dominio assoluto e dunque nuda forza che fa di chi lo subisce un servo a tutti gli effetti. La differenza fra dominio e governo sta tutta qui.

Le riflessioni di Hannah Arendt si adattano come un guanto a ciò che sta avvenendo nel nostro paese. Il fatto che invece di una guerra ingiusta ci siano in ballo relazioni erotiche con minorenni e giovani donne non cambia la natura dell´arbitrio. Semmai la rende più sordida e avvilente. Ma anche nel caso italiano la manipolazione, la confezione ad arte dei fatti, e il nascondimento sono le armi usate da un governo, che, ci ha spiegato Giuseppe D´Avanzo, ha istituito un "tavolo di crisi" per riscrivere "la verità del premier sulla telefonata in questura". Al nascondimento del vero si è aggiunto lo stravolgimento studiato dei fatti (con risvolti che mettono l´Italia in pessima luce nelle relazioni internazionali) perché nella telefonata fatta per convincere a rilasciare la minorenne si è detto che la ragazza era la nipote del presidente egiziano Mubarak. Il presidente del Consiglio italiano usa la sua autorità di garante dell´interesse nazionale per coprire una sua azione illecita. Abuso a tutto tondo, e inoltre presa in giro del proprio Stato e coinvolgimento mendace di uno Stato straniero.

In una democrazia costituzionale il Presidente del Consiglio e i ministri (il potere esecutivo) ricevono legittimità dal patto fondativo che detta le regole della loro designazione e della loro durata e, se necessario, della loro destituzione per la possibilità di essere sottoposti alla giustizia ordinaria "per i reati commessi nell´esercizio delle loro funzioni" in seguito all´autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati (Art. 96, il quale nella formulazione originaria del 1947, poi sopposta a revisione nel 1989, era molto più severo e prevedeva la possibilitá della messa in "stato d´accusa", una formula simile all´impeachment americano). Queste regole e questi limiti definiscono quello politico come agire pubblico, stabilendo che esso appartiene alla comunità politica e non a chi lo esercita, il quale non può sostituire il suo personale giudizio su come relazionarsi alle istituzioni a quello definito dalla legge, dalla quale egli dipende. L´abuso blocca proprio la dimensione pubblica del potere rendendone l´esercizio un fatto tutto privato; è a questo punto che il potere si fa nuda forza, discrezione nella mani di chi lo maneggia, come strumento di privilegio. Il governante che viola le norme che regolano il suo operato si impossessa del potere e lo piega ai suoi interessi.

L´intervista/Bill Emmott, ex direttore dell´Economist

Se dimettersi è un obbligo

Per dieci anni direttore dell´Economist, Bill Emmott dedicò varie copertine a Berlusconi, inclusa una diventata famosa che lo definiva, a causa del conflitto d´interesse e dei suoi processi, "indegno di governare". Conosce bene il nostro paese, ci ha appena scritto un libro intitolato Forza, Italia, sottinteso: forza, Italia, liberati di Berlusconi e riprendi a volare. Ma anche lui è stupito degli ultimi sviluppi: «Un simile abuso di potere sarebbe inconcepibile nel mondo anglosassone e in qualsiasi paese democratico».

Che cosa la colpisce di più?

«Tutti i politici chiedono e ottengono favori. Tutti cercano di abusare del proprio potere. Ma se c´è un confine invalicabile è il lavoro della polizia. Cercare di influenzare una decisione delle forze dell´ordine è un abuso che in Gran Bretagna, in America, ma pure in Giappone o in Germania, condurrebbe dritto alle dimissioni di chi ne è responsabile».

Nel Regno Unito, veramente, ci sono stati ministri che si sono dimessi per molto meno.

«Certamente. Peter Mandelson fu costretto a dimettersi perché accusato di avere aiutato un uomo d´affari a ottenere la cittadinanza britannica. Un´accusa peraltro mai provata in un tribunale e di cui lui continua a professarsi innocente. Ma Blair, allora premier, ritenne che il comportamento di Mandelson, sebbene legale, desse un´impressione di improprietà e questa era diventata un danno per il partito laburista e dunque per il governo. Quindi ne chiese le dimissioni».

Il ministro degli Interni David Blunkett si è dovuto dimettere per una nanny…

«Sì, per avere apparentemente chiesto l´accelerazione della pratica che doveva assegnare o respingere il permesso di soggiorno della baby-sitter straniera di una sua amica, o meglio della sua amante. Quella nanny ha poi ottenuto il permesso, perché ne aveva tutto il diritto. Ma l´intervento del ministro è bastato a farlo dimettere».

Cos´è che tiene così severamente a bada gli abusi del potere, in Gran Bretagna e altrove?

«Da un lato il senso etico. La fairness, l´imparzialità, l´equità, è un dovere di chi governa la cosa pubblica e la gente si aspetta che venga rispettato. Poi ci sono i regolamenti: norme che dicono cosa i membri del governo possono fare e non fare, amministrate dal civil service, funzionari dello stato non schierati politicamente. Nell´Italia berlusconiana forse è difficile immaginare che una simile imparzialità sia possibile, ma in questo paese e in America succede».

E che ruolo hanno i media?

«Fondamentale. Stampa e tivù vanno all´attacco di qualsiasi sospetto di comportamento improprio. Senza distinzioni di parte. Il Telegraph, quotidiano conservatore, ha screditato decine di deputati dei Tories nello scandalo sui rimborsi spese. La Bbc, diretta da laburisti, ha dato del bugiardo a Blair per i dossier sulle armi in Iraq».

Quindi, tradizione etica, norme severe e un´informazione libera. Eppure gli abusi di potere ci sono anche all´estero.

«La corruzione del Giappone è leggendaria. E negli Usa basta dire Watergate, il padre di tutti gli abusi politici. Ma raramente chi abusa del proprio potere la fa franca, come dimostrano sia la fine di Nixon nel Watergate, sia gli innumerevoli leader giapponesi travolti da scandali di corruzione».

Cosa c´è dunque di insolito nel caso italiano?

«Due aspetti. È l´abuso di un´istituzione statale nei confronti di un´altra: il governo che dice alla polizia cosa deve fare. E poi il fatto che il responsabile, Berlusconi, non si dimette. Almeno per ora».

Una prima autoillusione – la si potrebbe chiamare l’autoillusione del mondo globalizzato – viene espressa dall’affermazione secondo cui «nessuno può fare politica contro i mercati». Questa sentenza dell’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer illustra perfettamente l’autocomprensione della classe politica degli scorsi due decenni. I politici si consideravano come pedine di un gioco di potere dominato dal capitale che agisce a livello globale. Qui si tratta – in un doppio senso – di una favola dell’innocenza impolitica.

Da un lato si assume che la classe politica con il suo stesso agire abbia causato la sua presunta incapacità di agire: essa, cioè, avrebbe imposto a livello nazionale, come «politica riformista», le regole dei mercati globalizzati. In questo modo essa avrebbe prodotto il «destino della globalizzazione» che, apparentemente, non può più essere influenzato. Si noti: il capitale globale conseguirebbe il suo potere «inattaccabile» solo allorché la politica persegua attivamente la propria autoeliminazione.

Dall’altro, l’impotenza che la politica deve addebitare a sé stessa serve da pretesto per respingere la pressione ad agire che aumenta con i rischi globali ai quali è sempre più esposta la vita quotidiana delle persone e per non utilizzare le opportunità dischiuse dalla politica interna mondiale. L’argomento è imbastito in questo modo: dal momento che non ci sono e non ci possono essere risposte politiche globali alle conseguenze della globalizzazione, non c’è niente da fare!

C’è però anche l’opzione strategica consistente nel volgere in senso contrario l’argomento appena abbozzato: in questo caso, i politici suscitano aspettative la cui irrealizzabilità è palese. Ad esempio, prima di un vertice del G20 si chiede a gran voce un qualche tipo di tassa globale sui mercati finanziari, ben sapendo che essa non ha alcuna possibilità di essere applicata. Il motto: «Tutto funziona a livello globale - perciò non funziona nulla!» consente dunque di pervenire a un’intenzionale separazione tra il parlare e l’agire. Quanto più irraggiungibile è il traguardo annunciato, tanto più a cuor leggero si possono avanzare richieste, presentandosi come i paladini di ciò che è buono, bello e necessario a livello globale - senza timore di doversi sporcare le mani. Perciò non è affatto insensato che il governo federale tedesco innalzi il vessillo della rivendicazione di una tassa sulle transazioni finanziarie, una sorta di imposta sulle entrate applicata agli affari finanziari, senza credere neppure lontanamente alla sua introduzione.

Tuttavia, il preteso «non poter fare» viene smentito dalla «grande politica» (Nietzsche) della salvezza delle banche «rilevanti per il sistema» e della creazione di fondi di soccorso per gli Stati minacciati dalla bancarotta. La crescita costante di cifre sempre più fantastiche, la scomparsa nel nulla di somme gigantesche che in precedenza non erano mai disponibili, portano a una svalutazione della politica per eccesso di rialzo delle sue quotazioni. Anche se i «pacchetti di soccorso» non sono stati il risultato della coordinazione politica, ma la conseguenza di accordi informali e degli egoismi dei singoli Stati, qui si è manifestato perlomeno per un istante mondiale il plusvalore politico, che può accelerare a razzo l’agire politico nelle arene nazional-statali altrimenti così refrattarie, resistenti, scosse dalla crisi.

Il problema non è l’obiettivo - l’autoinvestitura della politica in forza dell’esperienza della collaborazione al di là delle frontiere nazionali; il problema è la via che porta ad esso: il superamento dell’ontologia nazionale.

L’autoillusione nazionale



L’autoillusione nazionale si basa sull’assunto secondo cui nella realtà concreta della politica interna mondiale potrebbe avvenire un ritorno all’idillio dello Stato nazionale. Così risuona ovunque la lamentazione che l’Europa è una burocrazia senza volto, l’Europa distrugge la democrazia, l’Europa seppellisce la pluralità delle nazioni. Anche se in questa critica può esserci molto di giusto, essa è sbagliata se muove dalla premessa: «Senza nazione, niente democrazia». In base a questa logica nazional-statale un’Europa post-nazionale non può che essere un’Europa post-democratica. E questo a sua volta significa che quanto più c’è l’Unione europea, tanto meno c’è democrazia.

Questa argomentazione è sbagliata per tutta una serie di motivi. In primo luogo ai suoi sostenitori sfugge il fatto che la via per un’Europa democratica non può essere identica alla via percorsa dalle democrazie nazionali. Anche il concetto di democrazia, come criterio dell’Ue, deve essere diverso. L’Ue è composta da Stati democratici, ma non è uno Stato nel senso tradizionale del termine. Perciò si pone il problema se i modelli di democrazia sviluppati per lo Stato moderno possano essere trasposti all’Ue oppure se per la legittimazione democratica della politica europea non debbano essere concepiti altri approcci, di tipo post-nazionale.

Entrambe le cose hanno la loro motivazione nell’autoillusione nostalgica, che assolutizza la dimensione nazionale. Di ciò fa parte anche il fervore con il quale viene esaltato il modello dell’«economia sociale di mercato» come risposta alle sfide della globalizzazione: una concezione politica in tutto e per tutto legata alla politica nazionale del Welfare di keynesiana memoria. La situazione della politica interna mondiale necessita di un «Keynes II» che superi «Keynes I». Questo nuovo caposcuola dovrebbe sviluppare una teoria dell’economia mista sensibile all’ecologia e altamente innovativa, capace di porre al centro della sua riflessione l’orizzonte del mercato globale.

L’autoillusione neoliberista



Strettamente collegata all’autoillusione nazionale è quella neoliberista. Dopo la Guerra fredda la globalizzazione neoliberista è diventata la forza normativa e politica decisiva della politica interna mondiale. Alla fine il neoliberalismo aspira ad essere il migliore socialismo, poiché con l’aiuto del regime del mercato mondiale mira ad eliminare non solo a livello nazionale, ma sul piano globale, la povertà e a creare un mondo più giusto.

Tuttavia, i rischi globali mandano a monte l’ordine prodotto dalla coalizione neoliberista tra il capitale e lo Stato: i rischi globali potenziano gli Stati e i movimenti della società civile, poiché mettono in luce nuove fonti di legittimazione e nuove opzioni d’azione; d’altra parte, essi indeboliscono il capitale globalizzato, dal momento che ora le decisioni di investimento creano enormi rischi globali.

Come e quanto l’utopia neoliberista della trasformazione del mondo si sia dimostrata un’autoillusione diventa chiaro, non ultimo, in base all’«effetto-convertiti»: anche i partiti politici e i capi di governo che prima della crisi finanziaria caldeggiavano come «obiettivi delle riforme» le norme della «buona gestione del bilancio» si fanno ora banditori di ciò che aveva fruttato critiche graffianti a Oskar Lafontaine, l’ex ministro socialdemocratico delle Finanze del governo Schröder, ossia la necessità di imporre al capitale finanziario che agisce su scala globale il corsetto di un sistema di regole.

L’autoillusione neomarxista



Paradossalmente, l’autoillusione neomarxista è la gemella nera come la pece dell’autoillusione neoliberista. Proprio i critici più duri del capitalismo globale diventano gli apologeti dello Stato neoliberista del mercato mondiale. Anche loro vedono un’autotrasformazione dello Stato (assistenziale), ma esclusivamente nel senso dell’autoadeguamento della politica statale al predominio del mercato mondiale, ciò che in ultima analisi conduce all’autoliquidazione della politica. Tuttavia i neomarxisti e i neoliberisti valutano in termini opposti la situazione mondiale che viene così a configurarsi.

L’economia mondiale fa saltare i detentori del potere nelle economie nazionali, impone l’apertura delle frontiere e conquista lo spazio di potere della politica interna mondiale. Ma al campo visivo neomarxista sfugge che questo shock dischiude anche nuovi ambiti, risorse, opportunità d’azione per tutti gli attori, al di qua e al di là della dimensione nazionale.

In questo modo vengono perdute di vista anche le tensioni e le fratture manifestatesi nel capitalismo globale. Non mi riferisco tanto al capitalismo riformatore verde, quanto, piuttosto, alla ascesa di un nuovo capitalismo con varianti e coloriture asiatico-pacifiche, latino-americane. Esso è diventato sempre più l’alternativa sistemica alla tirannia occidentale, ormai infranta. Se considerata dalla prospettiva dei Paesi in via di sviluppo, la situazione mondiale è caratterizzata da:

- uno spostamento del potere a favore dei Paesi in via di sviluppo (che si riflette, ad esempio, anche nella loro partecipazione al nuovo vertice del G20);

- uno spostamento del baricentro della geografia del potere economico mondiale dall’Atlantico al Pacifico;

- la strisciante de-monopolizzazione del dollaro americano come valuta-guida globale, a favore di un’alleanza tra diverse valute e di accordi valutari bilaterali;

- la crescente importanza della cooperazione Sud-Sud ed Est-Sud per la soluzione dei problemi economici; e, non ultimo,

- la perdita di autorità ed esemplarità morale del vecchio centro euro-americano.

L’autoillusione tecnocratica



Mentre le posizioni fin qui esposte muovono da una minimizzazione delle opzioni politiche, la posizione tecnocratica cerca la massimizzazione dello spazio d’azione politico sotto la pressione dei pericoli per l’umanità. Non c’è dubbio che gli studiosi del clima siano dei grandi realisti, ma spesso sono anche degli idealisti e di conseguenza non riescono a capire perché i loro apocalittici modelli matematici non provochino contromisure urgenti.

Veniamo così all’autoillusione tecnocratica. Infatti, nel mondo dell’homo oecologicus il primato della democrazia passa in secondo piano e le disuguaglianze prodotte dal mutamento climatico e dalla politica ambientale retrocedono a fatto marginale. Qui incombe il cortocircuito tra le immagini belle e terribili delle calotte di ghiaccio che si sciolgono e la necessità di una sorta di espertocrazia dello stato di emergenza, che nell’interesse della sopravvivenza imponga il bene comune mondiale contro gli egoismi nazionali e le riserve democratiche.

Le tre componenti - anticipazione della catastrofe, il corsetto temporale e la tangibile incapacità delle democrazie di agire con decisione - fanno sì che quasi tacitamente la visione di Wolfgang Harich di uno «Stato forte e interventista, fautore di ascetiche redistribuzioni e ripartizioni», cioè il modello ecodittatoriale, si aggiri per le menti proprio dei più impegnati. Si pone perciò la questione-chiave: Com’è possibile la democrazia nei tempi del mutamento climatico? O, per formulare la domanda in termini ancora più incisivi: Perché lo sviluppo ulteriore della democrazia è la conditio sine qua non di una cosmo-politica del mutamento climatico?

L’autoillusione tecnocratica presuppone lo Stato nazionale che interviene in modo ecodittatoriale. Ma come può uno Stato nazionale imporre agli altri Stati nazionali il consenso ecologico? Con la guerra? Con un’ecodittatura mondiale? Diventa chiaro che l’autoillusione tecnocratica non solo nega i valori della democrazia e della libertà, ma alla fine è inefficace, anzi, controproducente.

La conseguenza di tutto ciò è che la politica dell’impolitico non funziona più in modo impolitico. E non c’è più via di scampo dalla convinzione che la politica nazionale nell’era globale riuscirà a svolgere la sua funzione plasmatrice e (forse) a recuperare credibilità solo nelle forme della cooperazione transnazionale (Ue!).

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Si impara nelle scuole italiane e perfino in certe facoltà universitarie: non si scrive mai la storia con i «se». A prima vista può sembrare un consiglio sensato e pragmatico. Ma escludere l'esplorazione delle vie alternative, dei sentieri che la storia avrebbe potuto prendere (senza poi farlo) si rivela quasi subito un condizionamento ingiustificabile, quasi ideologico. Il grande albero della storia ha il suo tronco, maestoso e imponente, di fattualità, cioè di quello che è accaduto. Ma ha anche i suoi rami di contro-fattualità, cioè di quello che avrebbe potuto accadere. Nella costruzione di una storia nazionale, i rami hanno un'importanza quasi uguale al tronco. Sono le spie di un'altra storia, non quella predominante ma quella possibile, che offre spesso gli spunti più suggestivi per le future generazioni.

È con questa chiave che vorrei esaminare due temi di grande importanza nella storia d'Italia. Il primo è l'autogoverno come processo di educazione e presa di coscienza. Carlo Cattaneo, impropriamente adottato ora dalla Lega come suo ideologo, scrisse nel 1864 un saggio intitolato «Sulla legge comunale e provinciale». In essa pregò il nuovo governo italiano di rispettare le leggi locali esistenti in Lombardia e altrove, molto più avanzate e democratiche di quelle piemontesi, allora da poco imposte a livello nazionale. Per Cattaneo i piccoli comuni democratici e ben funzionanti erano «la nazione nel più intimo asilo della sua libertà».

L'arte di governo italiana era tutta qui, nel comune e nella città: «Pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi». Naturalmente, la nuova classe dirigente italiana disse di no alle proposte ben sostanziate di Cattaneo, ma le sue parole hanno continuato a volare attraverso i decenni, e costituiscono un esempio significativo di quello che avrebbe potuto essere ma non fu. Nel suo bell'articolo (il manifesto 2ottobre) Pierluigi Sullo insiste sulla necessità di incoraggiare e immaginare comunità «neo-democratiche», capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Sullo suggerisce che Pisacane si troverebbe a suo agio al Presidio No Dal Molin. Aggiungiamo pure Cattaneo, anche con il rischio di uno scontro immediato tra i due - l'uno lombardo, e poi ticinese, l'altro napoletano, l'uno professore universitario, l'altro ex-ufficiale dell'esercito, un liberale di ferro contrapposto a un sognatore socialista.

Se l'autogoverno è un primo tema sconfitto dalla storia italiana, un ramo più che un tronco, un secondo ramo di grande interesse e attualità è quello dell'uguaglianza. Oggi l'Italia è uno dei paesi più disuguali del mondo, vicino nelle tabelle internazionali ai quattro peggiori - Portogallo, Gran Bretagna, gli Usa e Singapore. In Italia il 20% più ricco della popolazione è distanziato dal 20% più povero da un reddito circa sette volte superiore. Ma questa cifra complessiva rischia di mascherare la drammaticità di due altre componenti della disuguaglianza italiana - una geografica - il divario tra Nord e Sud, e l'altra tra individui. Marco Revelli ha riportato, all'affollato convegno fiorentino sul berlusconismo della scorsa settimana, le cifre impressionanti sulle disparità della ricchezza individuale nell'Italia neo-liberista.

Torniamo al Risorgimento. Poche ma significative sono le voci che si sollevano contro le grandi disuguaglianze del tempo, quelle soprattutto tra bracciante affamato e proprietario terriero spesso assenteista.

Una di queste è di nuovo Pisacane che nel suo Testamento politico (1857) dichiara la società moderna governata da «una legge economica e fatale», che avrebbe accumulato tutte le ricchezze «in ristrettissime mani». Dopo 150 anni nulla si rivela di più sensato. Specialmente alla luce degli studi più recenti, come quello di Richard Wilkinson e Kate Pickett (The Spirit Level), che dimostrano come le società più disuguali siano le più infelici. In moltissimi ambiti - basso livello di fiducia, alto livello di sorveglianza, scarsa parità di genere, obesità, percentuale di carcerati ... - le società diseguali nel complesso hanno risultati assai peggiori di quelle più paritarie.

Forse le figure più autorevoli del Risorgimento avrebbero dovuto dare un po' più di ascolto a quell'isolato ex-ufficiale dell'esercito napoletano che, pallidissimo, sul molo di Genova, dettava il suo testamento politico a Jessie White Mario, prima di andare a morire nel Cilento. Se l'avessero fatto, forse l'Italia sarebbe oggi una nazione più felice. Ma la storia, come si sa, non si scrive con i se.

Se apocalisse significa letteralmente ritiro del velo che copre le cose, quella che viviamo in Italia è l’apocalisse del giornalismo: è giornalismo denudato, svelato. È giornalismo che si trova davanti a un incrocio: se si fa forte, rinasce e ritrova lettori; se si compiace del proprio ruolo di golem della politica, perde i lettori per il semplice motivo che non ha mai pensato a loro. Diciamo subito che il male oltrepassa la piccola storia del Giornale di Sallusti e Feltri, nonostante la piccola storia sia tutt’altro che irrilevante: se la redazione è stata perquisita come fosse un covo di banditi, è perché da tempo il quotidiano si conduce in modo tale da suscitare sospetti, apprensione.

I suoi vertici orchestrano campagne di distruzione che colpiscono uno dopo l’altro chiunque osi criticare i proprietari della testata (la famiglia Berlusconi, il cui capo è premier): prima vennero le calunnie contro Veronica Lario, poi contro Dino Boffo direttore dell’ Avvenire, poi per mesi contro Fini, adesso contro il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Il male oltrepassa questa catena di operazioni belliche perché tutti i giornali scritti sono oggi al bivio.

La crisi è mondiale, i lettori si disaffezionano e invecchiano, i giovani cercano notizie su altre fonti: blog, giornali online. Philip Meyer, professore di giornalismo all’Università della Carolina del Nord, sostiene che l’ultimo quotidiano cartaceo uscirà nel 2040.

Viviamo dunque gli ultimi giorni della stampa scritta e vale la pena meditarli in un Paese, l’Italia, che li vive così male. Per questo le aggressioni a Fini e alla Marcegaglia sono decisive, vanno studiate come casi esemplari. Si dirà che è storia antica, che da sempre il giornalismo sfiora il sensazionalismo. Alla fine dell’800, chi scriveva senza verificare le fonti veniva chiamato yellow journalist, e i primi giornalisti-liquidatori innamorati del proprio potere politico furono Joseph Pulitzer e William Hearst ( Citizen Kane nel film di Orson Welles). Perché giornalismo giallo? Perché un vignettista di Pulitzer aveva dato questo nome - yellow kid - al protagonista dei propri fumetti. Ma quelli erano gli inizi del grande giornalismo, fatto anche di preziose inchieste. Perfino il compassato Economist apprezzava la cosiddetta furia mediatica. Negli Anni 50, il direttore Geoffrey Crowther prescrisse ai redattori il motto seguente: «Semplifica, e poi esagera» ( simplify, then exaggerate).

Ora tuttavia non siamo agli inizi ma alla fine di una grande avventura. Per ogni giornale stampato è apocalisse, e a ogni giornalista tocca esaminarsi allo specchio e interrogarsi sulla professione che ha scelto, sul perché intende continuare, su quel che vuol difendere e in primis: su chi sono gli interlocutori che cerca, cui sarà fedele. Nel declino gli animi tendono a agitarsi ancora più scompostamente, e questo spiega lo squasso morale di tante testate (e tante teste) legate al magnate dei media che è Berlusconi. Se quest’ultimo volesse davvero governare normalmente, come pretende, dovrebbe interiorizzare le norme che intelaiano la democrazia e non solo rinunciare agli scudi che lo immunizzano dai processi ma ai tanti, troppi mezzi di comunicazione che possiede. Lo dovrebbe per rispetto della carica che ricopre. Aiuterebbe l’informazione a rinascere, a uscire meglio dalla crisi che comunque traversa.

Chi scrive queste righe, si è sforzato di avere come sola bussola i lettori: non sempre con successo, ma sempre tentando una risposta alle loro domande. Ritengo che il lettore influenzi il giornalista più di quanto il giornalista influenzi il pubblico: in ogni conversazione, l’ascoltatore ha una funzione non meno maieutica di chi parla. Per un professionista che ami investigare sulla verità dei fatti, questo legame con chi lo legge prevale su ogni altro legame, con politici o colleghi. Una tavola rotonda fra giornalisti, senza lettori, ha qualcosa di osceno. Tanto più sono colpita dalla condotta di esponenti del nostro mestiere che sembrano appartenere alle bande mafiose dei romanzi di Chandler. Nella loro distruttività usano la parola, i dossier o le foto alla stregua di pistole. Minacciano, prima ancora di mettersi davanti al computer.

Soprattutto, gridano alla libertà di stampa assediata, quando il velo cade e li svela. Hanno ragione quando difendono il diritto alle inchieste più trasgressive, e sempre può capitare l’errore: chi non sbaglia mai non è un reporter. Quel che non si può fare, è telefonare alla persona su cui s’indaga e intimidirla, promettendo di non agire in cambio di qualcosa. In tal caso non è inchiesta ma ricatto, seguito semmai da vendetta. È qui che entriamo nel romanzo criminale, nella logica non dell’articolo ma del pizzino. Il giornalista Lonnie Morgan dice a Marlowe, nel Lungo Addio: «Per come la penso io, bloccare le indagini su un omicidio con una telefonata e bloccarle stendendo il testimone è solo questione di metodo. La civiltà storce il naso in entrambi i casi».

Conviene ascoltare e riascoltare le parole pronunciate dai vertici del Giornale, perché inaudita è la violenza che emanano. Sentiamo quel che il vicedirettore Porro dice al telefono, pochi minuti dopo aver spedito un minatorio sms, a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia: «Ora ci divertiamo, per venti giorni romperemo il c... alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova». Perché? «Perché non sembra berlusconiana,... e non ci ha mai filati». Porro s’è presentato tempo fa in tv come «volto umano» del quotidiano (la «belva umana» è secondo lui Sallusti). Il presidente della Confindustria, come Boffo o Fini, ha criticato il premier: questo peccato mortale, non altri ritenuti veniali, indigna i giornalisti-vendicatori.

Il turpiloquio non è perseguibile: alla cornetta si dicono tante cose. Quel che è scandaloso viene dopo la telefonata. Spaventata dai malavitosi avvertimenti, la Marcegaglia telefona a Confalonieri, presidente di Mediaset e consigliere d’amministrazione del Giornale. Confalonieri telefona a Feltri, direttore editoriale. Si ottiene un accordo. Si parlerà della Marcegaglia, ma con cura: pubblicando magari articoli, fin qui ignorati, di altri giornali. È così che il giornalista si tramuta in smistatore di pizzini, e demolitore della propria professione.

Quello del giornalista è un bel mestiere con brutte abitudini, e tale doppiezza gli sta accanto sempre. È qui che l’occhio del lettore aiuta a star diritti, a non farsi usare: è il lettore il suo sovrano, anche se la maggior parte dei giornali dipende purtroppo, in Italia, da industriali e non da editori. Berlusconi ha reso più che mai evidente un vizio ben antico. Così come lui carezza la sovranità del popolo senza rispettarlo, così rischiamo di fare noi con i lettori. Rispettarli è l’unica via per lottare contro la nostra fine, e le opportunità non mancano: è il resoconto veritiero, è smascherare le falsità. È servire la persona che ancora acquista giornali. Ci vuole qualcuno che trattenga l’apocalisse, cioè l’avvento dell’anomia, dell’illegalità generalizzata: un katéchon, come nella seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (2,6-7).

Il giornalista che aspira a «trattenere» lo squasso è in costante stato di Lungo Addio, come il private eye di Chandler. Il suo è un addio alle manipolazioni, alle congetture infondate, alla politica da cui è usato, ai tempi del Palazzo, a tutto ciò che lo allontana da tanti lettori che perdono interesse nei giornali scritti, troppo costosi per esser liberi. Chi vive nella coscienza d’un commiato sempre incombente sa che c’è un solo modo di congedarsi dalle male educazioni del mestiere: solo se il Lungo Addio, come per Philip Marlowe, ignora le bombe a orologeria ed è «triste, solitario e finale».

È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Etienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici». Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

La direttiva del governo francese riguardo alle espulsioni era concepita in modo inammissibile: mettendo l´accento sull´identità dei rom risultava un´operazione discriminatoria e, al limite, razzista. Certo, la vicepresidente della commissione europea Viviane Reding, comparando la misura ai provvedimenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ha evidentemente esagerato.

Ora, al di là delle reciproche scuse, è chiaro che in Europa esiste un problema e una questione dei rom. È mia convinzione che questo problema debba essere regolato attraverso una politica specifica concordata in sede europea. Occorre varare un regolamento al cui rispetto siano tenuti tutti i paesi dell´Unione, al di là del fatto che il numero dei rom sia diverso in ciascun paese e che i governi europei oggi siano divisi tra quelli che hanno un atteggiamento piuttosto accogliente e quelli invece (come l´italiano) che sembrano porsi in maniera tendenzialmente ostile.

Penso che la cosa più importante da fare oggi sia aprire un confronto tra i rappresentanti di tre diverse parti: le diverse comunità rom, i governi nazionali e l´Unione europea. Un tavolo di dialogo dovrebbe individuare, prima di tutto, dei luoghi deputati all´insediamento delle diverse comunità rom. Luoghi che i governi devono far rispettare ma che devono rispettare anche le stesse comunità rom. C´è comunque nella storia una tendenza dei rom a installarsi e rimanere in luoghi specifici.

Il problema è reso più acuto dal fatto che i paesi europei dove i rom sono più numerosi - in particolare la Romania - sono anche quelli in cui la disoccupazione è più alta. Per questo credo che nei colloqui si dovrebbe affrontare anche il tema dell´occupazione.

Oggi l´attrito tra rom e gruppi di cittadini europei nasce da diverse questioni ancora insolute: una di queste è la resistenza di alcuni rom a far frequentare le scuole pubbliche nazionali ai propri figli. Io sono favorevole alla maggiore integrazione possibile dei rom nelle culture dei diversi paesi in cui risiedono, ma credo anche che potremo lasciare loro il compito di organizzare essi stessi l´educazione dei loro figli, a condizione che funzionari pubblici di diversi paesi possano sovrintendere al rispetto di alcune regole fissate di comune accordo. Dunque lascerei ai rom libertà nella scelta dei docenti degli orari e dei metodi dell´insegnamento ma con l´impegno che questo stesso insegnamento sia oggetto di una verifica da parte degli stati nazionali. Anche nel settore della sanità e della salute occorre cercare un compromesso tra la libertà dei rom di dove e come farsi curare e la verifica che queste cure siano effettivamente svolte.

Come storico credo che una progressiva realizzazione di una sempre più forte unione europea sia la strada giusta per risolvere il problema. Per riprendere un espressione di Jacques Delors il nostro spazio politico ha scelto di costruirsi come «Europa delle nazioni». E i rom si possono considerare a tutti gli effetti una nazione. Ecco perché credo che almeno una parte importante delle regole che si applicano alle nazioni europee potrebbero essere applicate ai rom. Tenendo conto che l´Europa è un insieme di diversità, anche se con forti somiglianze tra diversi paesi che la compongono.

Insomma, mi pare che l´essenziale sia la voglia di pervenire ad un accordo che non può che essere un compromesso, frutto di un dialogo. Naturalmente c´è un problema linguistico: i rom parlano sia lingue specifiche sia la lingua del paese in cui risiedono, dunque la loro nazione non si distingue per un´unica lingua. Ma questo è un problema che esiste anche altrove in Europa e anch´esso può trovare una ragionevole soluzione.

Come storico credo che ciò che ha contraddistinto l´esperienza millenaria dell´Europa siano stati il meticciato, la mescolanza delle culture e la loro progressiva integrazione.

L´Europa è nata dalla fusione tra i popoli cosiddetti romani o gallo romani o ispano romani (cioè quelli che diedero luogo a una prima integrazione) e i cosiddetti «barbari», una parola oggi bandita dagli storici. Oggi fortunatamente non disprezziamo più chi non pratichi una cultura cosiddetta superiore: gli storici e tutti coloro che hanno influenza sulla società dovrebbero mostrare come la caratteristica tipica dell´Europa sia proprio la sua capacità di integrazione nel rispetto delle diversità: una strada difficile ma possibile.

Certo, le difficoltà di accogliere gli stranieri che si manifestano oggi in Europa nascono anche dal fatto che negli ultimi anni il numero di immigrati è cresciuto. Ma non dovremmo dimenticarci che nel periodo dell´antichità tardiva o del Medioevo le cifre relative ai cosiddetti barbari, celti, germani o slavi che si spostarono sul territorio europeo erano assai più grandi. A quell´epoca l´integrazione più importante fu quella provocata dalla cristianizzazione. Oggi la religione di per sé non può essere lo strumento principale di integrazione. Serve un progetto culturale comune nello spazio europeo: un progetto scientifico ma anche educativo. E poi è necessario lavorare anche sul regime politico: la forza dell´Europa è anche quella di essere composta da stati che con tutti i loro limiti sono tutti democrazie. La sinistra in particolare deve saper rispondere con maggior forza alla destra su questo tema. Il suo limite oggi è che purtroppo non riesce a combinare la giusta ostilità alle cattive politiche di discriminazione con un´alternativa efficace, capace di offrire soluzioni di ricambio concrete percorribili. Forse la nozione più falsa e pericolosa veicolata dal nazismo è proprio quella della purezza etnica. C´è bisogno oggi di un grande progetto capace di rifarsi proprio all´originalità dell´esperienza storica europea, capace cioè di ritrovare l´ingrediente storico della sua forza: il suo multiculturalismo, la sua abitudine al meticciato. Il presidente della repubblica francese - per fare solo un esempio - dovrebbe ricordarsi di essere ungherese.

Intervento raccolto da Giuseppe Laterza e pubblicato su www. laterza. it, il sito web della casa editrice da oggi rinnovato nei contenuti

Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un’altra società e d’un altro diritto, e "la rivoluzione dell’eguaglianza" diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l’eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all’eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d’essere adempiuta.

Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l’art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.

1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all’origine delle tensioni dei decenni successivi.

2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale "di fatto", caratterizza l’art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell’eguaglianza sostanziale, che segue quello dell’eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l’una volta verso la conservazione dell’eredità, l’eguaglianza formale; l’altra rivolta alla costruzione del futuro, l’eguaglianza sostanziale. Già l’inizio dell’art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell’eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell’articolo non ne depotenzia la forza "eversiva", ma dice che la stessa ricostruzione dell’eguaglianza formale non può essere condotta nell’indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell’eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove il riferimento astratto "tutti" è stato sostituito da "ogni persona".

3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all’emersione dell’eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall’ homohierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all’homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L’antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell’art. 3. A questo si deve aggiungere l’«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l’art. 36. Dobbiamo concludere che l’ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell’eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un’ombra sulle discussioni di oggi?

4) L’eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l’elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell’eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l’eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall’altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, "inclusiva".

5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l’accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall’effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino "eguale" una chiave che apre solo una stanza vuota.

6) L’eguaglianza riguarda l’accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni "divario", e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l’avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.

7) L’associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell’eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l’eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L’eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, "eversivo" rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.

«Sorpreso.. preoccupato... allibito...», dice Alfredo Reichlin commentando le ultime vicende del Partito democratico. Il tono non è quello di chi sta cercando di individuare il participio più appropriato: è quello di chi è sorpreso (preoccupato, allibito) per essere stato interrotto in modo inopportuno nel mezzo di un ragionamento complesso. Il ragionamento che Reichlin sta sviluppando da tempo sui cinque lustri di questa interminabile «fase politica» e sulla difficoltà del Pd «a entrare in partita»: «Continuiamo a litigare sugli schieramenti e sulle alleanze e ancora non sappiamo nemmeno con quale legge elettorale si voterà, né quando. La verità è che non siamo stati in grado di elaborare e di proporre una nostra idea di società».

Questa frase così appropriata e attuale, così “sulla cronaca” è stata pronunciata all’inizio della settimana scorsa. E dunque il suo autore oggi avrebbe qualche motivo per accogliere la polemica attorno alle dichiarazioni di Veltroni con la soddisfazione di chi vede confermata una tesi. Solo che Alfredo Reichlin con i suoi 85 anni e la sua lunghissima storia di politico e di intellettuale evidentemente condivide, anche se per riguardo non lo esplicita, lo stato d’animo della base democratica. Quello che, ormai a ogni “bufera tra leader”, ne produce automaticamente un'altra fatta di «Uff». Insomma, non gli va di parlarne. «Su che cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali? Queste esistono, ma non credo che spieghino tutto».

No, non gli va di parlarne. Quest’altra frase risale addirittura a più di un mese fa. L’abbiamo tratta dalle venti pagine di una riflessione sul Paese e sul partito che Reichlin ha scritto in agosto. Sono lo sviluppo di ragionamenti in parte svolti nei mesi scorsi su l’Unità e articolati in chiave autobiografica in un bel libro, Il midollo del leone, pubblicato da Laterza nel marzo scorso. Ciò che colpisce in queste note (che possono essere lette integralmente nel nostro sito) è il tono di urgenza che le attraversa: un «non possiamo più perdere tempo» che vibra in tutte le righe. Fin dall’incipit: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all’avventura. È in gioco la speranza che l’Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica... Pesa non poco la vanità e l’inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».

Alla base della riflessione (e dell’urgenza), c’è la constatazione di un colossale abbaglio: l’idea che la fine della Guerra fredda avesse segnato l’inizio di un irreversibile progresso e che, in definitiva, il mondo fosse ormai diventato il migliore dei mondi possibili. I progressisti, la sinistra, in questo mondo non avevano più alcuna ragione per sviluppare una diversa idea della società, ma era sufficiente che si limitassero a garantire le “pari opportunità” e a “difendere i più deboli”. Come se la fine dell’utopia comunista dovesse necessariamente segnare la fine dell’utopia nella sua funzione di idea-forza. Tutto questo mentre l’economia mondiale veniva sovvertita dal crescente predominio del capitale finanziario a scapito di quello prodotto dal lavoro. E mentre l’Italia, inebetita dalla lente deformante del berlusconismo, guardava senza capire. Comunque capendo meno degli altri paesi dell'Occidente.

Reichlin che ha vissuto per intero, dall’infanzia alla maturità, quello che è stato imprudentemente definito “il secolo breve” ha sempre pensato che “breve” non fosse affatto. Al contrario: mentre si coltivava quell’illusione paralizzante, avveniva un cambiamento epocale. «Qualcosa che è paragonabile alla rivoluzione industriale di fine Ottocento». E così come dalla «folla cenciosa di contadini inurbati, di fanciulli e di donne che massacravano la loro vita davanti alle prime macchine (si parlava anche allora, come oggi alla Fiat, di leggi ineluttabili del mercato)» si arrivò ai sindacati moderni, allo stesso modo il Partito democratico deve cercare le condizioni per «creare una nuova soggettività politica in grado di opporre un’idea di società a questo supercapitalismo mondializzato».

C’è una citazione di Gaetano Salvemini che è particolarmente cara a Reichlin. La troviamo, infatti, nel suo libro e la ritroviamo in queste note: «Datemi una leva, datemi una soggettività sociale, e solleverò il mondo». Salvemini allora aveva 23 anni, era il 1896, e individuò la “leva” nei contadini pugliesi. Qual è la “leva contemporanea”, chi sono i nuovi soggetti del cambiamento? Il Pd, pena un degrado inarrestabile, ha l’obbligo di individuarli. Traendone tutte le conseguenze: «Perché un’idea di società è anche un’idea di partito».

E qui Reichlin sospende la sua riflessione. Un po’ per il modo che ha di intendere il suo ruolo: stimolare, suggerire, ma non dividere. Un po’ perché una «idea della società» non può, per la sua stessa natura, essere ridotta a una ricetta. Al massimo è possibile fornire la lista degli ingredienti, cioè dei luoghi dell’intervento, dei territori rimasti nell’ombra. A percorrerli si resta sorpresi nel constatare che lo sguardo di un dirigente politico nato nel 1925 è più lungo e lucido di quello di tanti suoi pronipoti. «Penso a un diritto umano di base incentrato sul lavoro creativo», scrive, per esempio, a conclusione di una riflessione attorno al problema di «come dare una rappresentanza politica nuova al lavoro moderno».

Non c’è la ricetta. Eppure, a leggere queste note nel combinato-disposto col libro autobiografico, senti in lontananza il profumo della pietanza. E, all’improvviso, provi un sentimento sorprendente e imbarazzante che proprio non t’aspettavi: l’invidia. Le pagine più belle del libro («Sì conferma l’autore me lo dicono tutti che quelle sono le pagine più belle...») sono quelle dedicate alla fase più tragica del nostro Novecento: l’armistizio, l’occupazione nazista e la Liberazione. Col Paese ferito e dilaniato che riprende faticosamente vita. A pagina 54 c’è una frase che ti orienta nella ricerca delle cause dell’imbarazzante sentimento di cui si è appena detto. È la descrizione dello stato d’animo, dopo l’8 settembre, degli allora giovani degli anni Venti: «Tutto diventava possibile. Si erano riaperte, sia pure coperte di macerie, le strade dell’avvenire».

Ecco allora l’origine dell'invidia (ed ecco la ragione per cui quelle pagine sono unanimemente considerate «le più belle»). Siamo a questo punto: abbiamo una tale fame di strade, e abbiamo un tale timore di macerie, che chi conserva la memoria delle strade ed è stato capace di liberarle dalla macerie ci appare il rappresentante di una generazione fortunata. Più fortunata della nostra e, dunque, molto più fortunata di quella dei nostri figli. Una generazione che aveva una visione dell’Italia futura e un bisogno insopprimibile, un’urgenza, di raccontare e migliorare quella presente. Forse «avere un’idea di società» è semplicemente questo.

La Dichiarazione d’indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 inizia con un’enfatica dichiarazione. Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c’è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).

La (ricerca della) felicità è uno dei grandi temi che ha caratterizzato, nel suo insieme, il secolo XVIII, dal punto di vista morale e politico. La Dichiarazione d’indipendenza è figlia di quel tempo e, come vedremo, di quella terra. Il secolo successivo è stato molto più prudente. Anzi: la felicità come meta della vita individuale e collettiva è stata piuttosto associata all’infelicità, in una sorta di coincidentia oppositorum. Per gli individui, è fonte d’inquietudine e di aspirazioni mai stabilmente soddisfatte. Per le società, è fonte di forze distruttive, operanti su larga scala. Possiamo farci aiutare da un testo classico, che non cessa di stupire per la sua fecondità, Il Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si dice, di solito, che il dialogo dell’Inquisitore col Cristo silente tratta di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini. In realtà, ancor prima è un discorso sulla felicità e sull’infelicità: l’infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Leggiamo. Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c’è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la loro libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell’umanità, coloro che la libereranno dall’oppressione della libertà cioè da quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell’infelicità umana. Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?

Che la libertà sia un peso è quasi un luogo comune. Che questo peso, almeno nella letteratura reazionaria basata sull’idea della corruzione della natura umana, possa essere sopportato solo da uomini superiori e non dalla massa, anche. La massa è fatta da schiavi con la costituzione del ribelle, dice l’Inquisitore: in quanto ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone. L’Inquisitore avrebbe certamente detto che il diritto "americano" di cercare la felicità era in realtà la condanna all’infelicità. Dovrà regnare la felicità, sì, ma la dovrete ricevere da noi, gli Inquisitori, che ve la amministreremo nella misura che vi è consona .

Ma quale felicità? La felicità consiste nell’aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà. Non s’intende qui la libertà come possibilità di scelta di convenienza; della libertà, per così dire economica, legata semplicemente a preferenze, la libertà del consumatore, per intenderci. Stiamo parlando di ben altra cosa, della libertà di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza. È questa, non l’altra, la libertà che deve essere tolta all’essere umano per renderlo felice.

Non è forse questo il segreto di un certo tipo di dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati nei piccoli loro desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra avere sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l’altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l’oggetto del desiderio.

Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. "Il faut les embêter". L’altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l’instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.

Sigmund Freud, nel celebre scritto del 1920 su Il disagio della civiltà parla di felicità, infelicità e istituzioni con riguardo alla psiche umana e dice: «Non vogliamo ammetterla [l’infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti. […]. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Con queste parole, si tocca il punto centrale: il rapporto tra felicità e sicurezza. La massima (ricerca individuale della) felicità comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quando ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è condicio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l’assoluto divieto della (ricerca individuale) della felicità.

Che dire allora? Che per vivere in società dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? Non sia mai. Ogni società è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità. Come permettere la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani? La formula della Dichiarazione d’indipendenza americana, dalla quale abbiamo preso spunto per queste considerazioni, è l’espressione genuina del più ingenuo ottimismo del secolo dei "lumi". Poteva forse corrispondere a una possibilità effettiva in società come quella delle tredici colonie che non conoscevano confini. O meglio: società dove lo spazio non costituiva limite e condizione. Il viaggio a occidente per cercare fortuna era la prospettiva per una ricerca della felicità che poteva svolgersi senza conflitti (le popolazioni autoctone non facevano problema). Questo era il mito americano, così intimamente legato al miraggio della felicità.

Ma negli "spazi pieni"? Lo spazio pieno è quello in cui ogni spostamento di uno comporta lo spostamento di altri. È, da secoli, la condizione europea. Ma gli spazi sono ormai saturi anche in America dove, oggi, le frontiere, non più allargabili, sono presidiate dalla forza pubblica.

Che cosa si deve concludere, allora? Che la ricerca della felicità, qui e oggi, è impossibile? Che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente? Che la profezia del Grande Inquisitore o il "disagio della civiltà" ci condannano alla passività e all’immobilità?

Sopra tutto, notiamo uno spostamento, anzi un rovesciamento di senso. La ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli [nel testo a stampa manca la parola – ndr] cioè degli oppressi. Basta leggere il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza. Oggi, il senso s’è rovesciato. Sono i potenti, i "Prominenten", che la rivendicano come diritto, la praticano e l’esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il suo bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece che felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia. Negli spazi pieni, la felicità nel senso della Dichiarazione citata all’inizio è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia, non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d’oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con quest’ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un’aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia, è un’aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma delle politiche collettive. Una conclusione certo inquietante. Sullo sfondo c’è lo stato-provvidenza, uno stato che ha tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti. Così è che, nella ricerca dell’equilibrio tra libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno alla coscienza che è l’obbligo legale.

Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale; è "le bonheur de tous". Tra questi "tutti", la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell’uno non diventi infelicità degli altri. Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti di libertà previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" nel senso anzidetto è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all’illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.

Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo "Felicità. La possibilità del bene" che terrà domenica a Modena nell’ambito del Festivalfilosofia

La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l´incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell´epoca spiegavano l´improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall´ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l´attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell´incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l´ambivalenza, l´indeterminazione e l´imprevedibilità. (...)

Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.

In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d´incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d´incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)

Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l´incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l´incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell´esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell´errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)

Durante gli ultimi cinquant´anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l´impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell´universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell´evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali – cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti – sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.

La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull´assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l´esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant´anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell´esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (…)

Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant´anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un´incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (…)

Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni. In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione. La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all´esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l´incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.

Traduzione di Daniele Francesconi

Cogliamo quasi ogni giorno i frutti avvelenati di una ormai troppo lunga stagione di rapporti malsani tra politica e istituzioni. È una storia che non può essere identificata solo con il tempo del berlusconismo, e che ha molti attori. Picconatori, cultori delle spallate referendarie, riformatori inconsapevoli degli effetti "di sistema" delle loro iniziative, idolatri di un bipolarismo contemplato senza tener conto della crescente personalizzazione della politica e del ruolo determinante giocato dal sistema dell´informazione… È una storia destinata ad accompagnarci ancora se si continuerà a parlare molto di riforme istituzionali da fare e si rifletterà poco sugli effetti di quelle fatte. E l´accelerarsi della crisi rende più urgente la riflessione su questi problemi, che sarà più libera se si scioglierà il nodo della riforma elettorale.

Qualche sprazzo di consapevolezza si è appena manifestato, tra mille prudenze e imputando ogni male alla "porcata" elettorale, ma cominciando comunque a registrare l´impossibilità di continuare a vivere nell´attuale forma del bipolarismo aggressivo. Se non è l´ammissione di un fallimento, è qualcosa che gli assomiglia molto. E tuttavia si tratta di analisi ancora inadeguate e che rischiano di riprodurre i vizi del passato, visto che sono condotte in chiave assai politologica e poco storico-politica. Non si tratta di contrapporre modello a modello, ma di andare a fondo nei processi reali che hanno portato a quella che, con formula assai ambigua, viene chiamata "Seconda Repubblica".

Non è una storia lineare. Anzi, in un momento decisivo, conosce uno spettacolare rovesciamento. Nella lunga transizione italiana, già prima della caduta del Muro, si era pensato che alla crescente debolezza della politica si potesse supplire trasformando integralmente la questione politica in questione istituzionale. In questo modo la politica cercava di allontanare le responsabilità sue proprie. Non nella politica, ma nelle istituzioni era il problema: sì che, modificate queste, ogni questione sarebbe stata risolta. In uno slancio fideistico, si affidava alla riforma istituzionale una palingenesi politica – la stabilità dei governi, l´efficacia della decisione, la fine della frammentazione partitica, la scomparsa della corruzione.

Al riparo di questa rimozione, la politica si consegnava all´"ingegneria costituzionale", abbandonando così una visione d´insieme che avrebbe avuto bisogno d´un vero rinnovamento culturale. Da qui le difficoltà nell´approdare a qualche soluzione condivisa e il nascere della tentazione delle "spallate". Fu, questa, la stagione dei referendum elettorali, aperta dall´eliminazione delle preferenze e approdata all´abbandono del sistema proporzionale. Ma nulla si fece poi sulla via degli indispensabili aggiustamenti di un sistema costituzionale che aveva nella sua filigrana proprio una legge elettorale proporzionale, e che su questa premessa aveva costruito suoi essenziali equilibri. E si chiusero gli occhi sui rapporti tra queste novità e la nuova funzione politica del sistema dei media, evidente già prima che s´incarnasse nel proprietario della Fininvest.

Saltati gli equilibri costituzionali, con la crisi politica che precipitava nella scomparsa di partiti storici al tempo di Tangentopoli, la transizione italiana cambiava volto, e con essa si capovolgeva il rapporto tra politica e istituzioni. Si esauriva la delega all´ingegneria costituzionale. Nel deserto istituzionale, nato dal riduzionismo elettorale, si creavano le condizioni per il ritorno di una politica affrancata non tanto dai "riti" della Prima Repubblica, ma da contrappesi e controlli necessari per l´esercizio democratico del potere. Sì che il bipolarismo all´italiana non seguiva i ritmi e le regole proprie di un sistema dove l´alternarsi di partiti e coalizioni si realizza sul terreno della diversità dei programmi, Si esauriva, invece, nel modo d´intendere l´esercizio del potere. Il berlusconismo trovava la sua forma nell´esasperare l´ostilità a controlli, pesi e contrappesi, nel portare a conseguenze estreme decisionismo e personalizzazione del potere. Nasce proprio da qui, dall´irriducibilità a un denominatore comune delle diverse forze in campo, l´asprezza distruttiva del bipolarismo. Con due ulteriori conseguenze, una spiccatamente istituzionale, l´altra più immediatamente politica.

Alterato nel suo complesso il sistema delle garanzie e dei controlli, questa ineliminabile funzione democratica si è concentrata, da una parte, nella Presidenza della Repubblica e nella Corte costituzionale; e, dall´altra, nella magistratura e nell´informazione. Sono queste, oggi, le frontiere della democrazia: e, come sempre accade alle istituzioni di frontiera, sempre soggette a tensioni, a tentativi di sfondamento da parte di chi vuole istituire un potere autocratico, utilizzando anche la categoria della "costituzione materiale", di cui non dovrebbe essere dimenticato l´originario obiettivo, appunto la legittimazione di ambigui poteri di fatto. Tutto questo produce anche paradossi, come quello riguardante il nostro bicameralismo perfetto, del quale giustamente si reclama l´abbandono, ma che in questa stagione difficile ha avuto la benefica funzione di bloccare pericolosi colpi di mano grazie alla navette tra le due camere. Peraltro – ed è la seconda conseguenza – nessuna delle promesse del bicameralismo è stata realizzata: il sistema politico si decompone, la corruzione è regola, la formale stabilità governativa non ha prodotto efficienza. E la regressione culturale cancella la condizione di base d´ogni buona politica.

Da qui bisogna ripartire, perché le stesse questioni oggi più discusse, riforma elettorale in testa, esigono la costruzione di un diverso ambiente nel quale le persone possano riconoscersi e ritrovare il senso politico delle grandi questioni. Non un sogno da vendere, ma una cultura da costruire, capace di dare anche alle vecchie parole il senso adeguato ai tempi mutati. La forza delle cose ci indica quali siano le questioni da affrontare. Lavoro e istruzione non solo come diritti, ma come condizione della libertà. Laicità come autonomia. Cittadinanza come pienezza dei diritti d´ogni persona. Legalità costituzionale come effettivo equilibrio tra i poteri e funzionalità dei controlli formali e informali. Europa come dimensione quotidiana. Istituzioni dell´economia non risolte nella pura delega al mercato. Essenzialità dei legami sociali e riconoscimento dell´altro. Consapevolezza di una nuova antropologia delle persone, immerse nel flusso della tecnoscienza e proprio per questo bisognose di un più forte diritto all´autodeterminazione. Sguardo su un futuro che è già presente, che si chiama mondo globale, beni comuni, informazione liberata, Internet, accesso alla conoscenza, e così ci trasmette una nuova idea di eguaglianza.

Qui si costruisce l´agenda politica, non solo dell´opposizione, anche se proprio affrontando chiaramente questi temi l´opposizione può promuovere un rinnovamento culturale, trovare una identità percepibile e, con essa, un consenso finalmente convinto.

Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino

"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa. Per chiarire, mi avvalgo d’una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell’Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.

Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all’interno dei popoli. L’uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell’agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.

La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale ( Etica Eudemia, 1234 b).

Con le parole di Hannah Arendt ( Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d’individui, una società. Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un’ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d’essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.

Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l’unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.

Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n’è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l’appunto, da un posto all’altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.

Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c’è e chi non c’è. E volete che chi non c’è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all’opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un’insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica. Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio – l’allevamento - tradisce perfettamente l’orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l’idea dell’allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.

Di quest’atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l’atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un’espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso – per squalificarne il concetto stesso – la si intende come "i salotti" dove s’incontrano persone disparate che presumono d’essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d’interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.

Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un’operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l’attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.

La società civile esiste, ma è un’altra cosa: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?

La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l’ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall’apertura. Non c’è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell’abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello Che cos’è il terzo stato, un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: "Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".

Sotto questo punto di vista, c’è oggi in Italia una specifica situazione d’emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui – col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere.

Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l’impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall’alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E’, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell’esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti – dispongono dell’intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.

La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch’essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall’alto, senza alcuna possibilità d’influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all’uno e all’altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l’apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l’antipolitica, tra la partecipazione e l’esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia.

Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.

Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz’altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.

Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch’io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.

E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall’altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all’opera l’incultura della sopraffazione che è l’esatto opposto dell’ethos necessario alla democrazia.

Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell’azione per contrastare l’incultura della violenza, c’è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo.

Ecco un’altra buona ragione per abbandonare l’idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell’immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l’idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell’altra, e viceversa.

Non è cosa semplice vivere da precari, e non solo per via dei soldi che son pochi e del posto di lavoro permanentemente effimero, inaffidabile. Non è semplice muoversi tra persone che parlano di crisi e non la conoscono, parlano di futuro come se fosse una categoria ancora sicura, difendono appartenenze etniche locali nascondendo che dipendiamo dal mondo - e dall’Europa - assai più che da patrie municipali o nazionali. Neppure è molto facile contemplare l’affaccendarsi sfaccendato dei governi, così simile all’ ambularedisordinato descritto da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi: «Non fanno nulla pur essendo sempre in agitazione» (2 Ts 3,11). Tutti questi agitati ambulanti pensano di poter chiudere la parentesi della scarsa crescita e promettono, senza pudore, che presto la parentesi si chiuderà.

I precari sono soprattutto giovani, ma non solo: anche nelle età medie capita di entrare in orbite dell’esistenza dove niente si solidifica. L’Istat constata: un giovane su quattro è senza lavoro, e una gran parte rinuncia a cercarlo. Tre milioni sono precari, sconsideratamente trattati come retroguardia. In realtà sono un’avanguardia, più consapevole di quanto si pensi. La crisi, la traversano da decenni, ne sono la personificazione, e di essa sanno l’essenziale: che non è un intervallo, bensì un’enorme trasformazione.

In primo luogo s’è trasformato il lavoro: che non è il lavoro, il posto, ma resta pur sempre un lavorare. Anzi uno sgobbare: spesso il precario lavora più di chi ha il posto. Spesso è cosciente che il continuo transumare peggiora la qualità del lavoro (la scrittrice Corinne Maier nota: «La pigrizia sarà l’avvenire del precariato»).

In secondo luogo si trasforma la vita in società: al di là della famiglia s’aprono spazi vuoti, fatti di legami cuciti e strappati alla svelta. Infine cambia il rapporto con i governanti. Quando il politico dice che il precario «costa troppo», quando infastidito dalle proteste l’accusa di farsi strumentalizzare politicamente, lo respinge due volte: come persona che lavora e come soggetto politico. Il ministro Gelmini non ha torto, quando dice che il male precede i governi di destra. I sindacati divenuti lobby dei pensionati, la sinistra che si limita ad accertare l’emergenza: ambedue mancano l’appuntamento con la grande mutazione.

Ma pur non avendo torto il ministro perpetua il buio, quando solidarizza a distanza con i precari e si rifiuta di incontrarli. Questa distanza è insensata, cieca: di fronte a sé, il ministro ha un mondo di mutanti, non di sciagurati. Davanti non le si accampano vittime, ma i principali attori di un cambio di civiltà. Non le si chiede personale compassione ma fredda conoscenza della crisi, della crescita che non sarà più quella di ieri, della solidarietà comunitaria da reinventare e organizzare.

Per questo è non tanto offensivo quanto inane, denunciare il revival della lotta di classe e del rapporto conflittuale fra padroni, capitale, lavoratori. Il precario sa più cose, oggi, di quelle che sanno i fini conoscitori dei due secoli passati. Il più delle volte non ha un padrone: è vertiginosamente libero, confinato però in terre di nessuno, senza diritti né doveri. Non vive e non lotta come classe. Vorrebbe avere un riconoscimento: che il suo lavorare equivale per dignità al lavoro, e abbia le sue tutele come avviene in tanti Paesi europei. Vorrebbe confutare quando vanno dicendo tanti spiriti apparentemente anticonformisti, secondo cui la Costituzione italiana garantirebbe ipocritamente, nell’articolo 1, una democrazia «fondata sul lavoro».

Chi vorrebbe eliminare quest’articolo, o quello in cui si parla della responsabilità sociale dell’impresa (articolo 41) è indietro nei tempi. A differenza del precario, non sa che il lavorare rimane comunque il centro dell’esistenza individuale, e che quella promessa costituzionale dà continuità a ciò che tende a farsi discontinuo, transeunte. Eliminare l’articolo 1 è come levare, dal preambolo della Costituzione americana, la Giustizia, la Tranquillità interna, il Benessere generale. Cosa si mette al posto delle vecchie parole, magari in nome dell’anticonformismo? Competitività? Consumo? Le Costituzioni sono qualcosa di più di una fotografia dell’esistente e delle sue necessità, anche se incorporano l’esistente e il necessario. Sono state scritte quando non c’erano tranquillità, giustizia, benessere, lavoro per tutti. Il tabù dell’incesto nasce perché c’è incesto, non perché non c’è.

Un’altra cosa che il precario sa è la metamorfosi del tempo: il suo sbriciolarsi, divaricarsi. Entrare nella vita lavorativa, per le generazioni precedenti, era fare futuro. Difficile farlo, se ogni due settimane o due mesi tocca cercare nuove attività. Il tempo breve diventa la stoffa della tua vita e tuttavia con questa stoffa bisogna inventarsi, a meno di non disperare, il tempo lungo di un’esistenza: metter su casa, far figli, credere in quel che fai. Bisogna anche pensare la vecchiaia, che precocemente impaura: cosa farò, non avendo accumulato diritti alla pensione? È uno dei crucci dei giovani che padri e nonni non conoscevano: specialmente forte in Italia. Anche questo sdoppiarsi del tempo (da un lato brevissimo, dall’altro lungo per una vita piena) chiede di esser visto, riconosciuto.

La dialettica padrone-servo cambia nelle forme ma non nella sostanza, ed è il motivo per cui la questione sociale fa ritorno. Ignorarla non l’elimina dal paesaggio ma è una precisa scelta: è criminalizzarla invece di affrontarla, è tramutare lo Stato sociale (un tesoro d’Europa) in Stato penale. Quel che torna è il rigetto dei disadatti, e il loro incollerirsi. È il disprezzo e la sfiducia verso chi lavora in altro modo, e la lotta per il riconoscimento di quest’altro modo. Un riconoscimento non emotivo, ma molto materiale: si tratta di decidere come far funzionare lo Stato sociale nella presente mutazione, come aiutare l’individuo pencolante nel vuoto fra un’attività e l’altra, come raggranellare una pensione futura, come ottenere crediti bancari o affittare un appartamento in assenza di ricchi garanti.

Chi dice che l’articolo 1 della Costituzione è sorpassato non sa nulla della crisi. Parla di ipocrisia perché ai suoi occhi il precario ha meno valore: non essendo, il suo, un vero lavorare. Pensa di esser moderno, ma gli occhiali che inforca sono vecchi. Come disse Raymond Aron del presidente Giscard: non sa che la Storia è tragica.

In latino precari è un verbo (vuol dire pregare), e precisamente questo fa il precario nella crisi-trasformazione. Scritto nel 1907, il dizionario etimologico di Pianigiani spiega: precario è quel «che si ottiene per preghiera; si esercita con permissione, per tolleranza altrui; quindi che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente». Su questa base non si può costruire alcun nuovo patto sociale. Se il precario è un pregante si aggiungerà ai rifugiati, ai reietti, alle vite di scarto descritte da Zygmunt Bauman: vite relegate in non-luoghi ignari delle leggi, dove non valgono le sentenze dei tribunali ma il ben volere del «concedente».

Chi prega si genuflette: non ancora accettato, è al momento solo un «impiegabile». Non è un cittadino ma un fedele, un penitente, un sottomesso. Considera il datore di lavoro come il padrone-pastore della propria vita pubblica, giuridica, privata. Il padrone-pastore si rifiuta d’incontrarlo, lo ritiene un miscredente, un volubile, in fin dei conti un folle. Nasce così, secondo Foucault, il trattamento della follia nel ’400. I folli e i disadattati, in Germania e poi nel resto d’Europa, venivano imbarcati su un Narrenschiff - stultifera navis - e banditi da borghi e villaggi. Prima o poi la nave dei folli si vendicherà, perché la storia è fatta di queste tragedie, e delle nemesi che rispondono a queste tragedie.

Perché politici, analisti (ultimo in ordine di tempo Ernesto Galli della Loggia, «Quell'unità da ritrovare», Corriere della sera, 29 agosto) e persino la gente comune, quando parlano di problemi italiani, dell'unità del paese, della sua modernizzazione e del suo sviluppo, chiamano in causa soltanto due dei soggetti possibili, e cioè il Nord e il Sud?

Le Italie non sono due: le Italie sono tre. Fra il Nord e il Sud s'interpone infatti la corposa realtà di quella che i linguisti chiamano per l'appunto l'Italia mediana, e cioè Toscana, Umbria e Marche (con l'esclusione, da questo punto di vista, dell'Emilia-Romagna): alludendo al fatto che le parlate di questa zona del paese hanno strette parentele fra loro, mentre si distinguono nettamente sia da quelle settentrionali sia da quelle meridionali. Se poi affrontiamo la questione dal punto di vista della «memoria storica», e cioè di storia, oltre che linguistica anche culturale. letteraria e artistica, sarebbe fin troppo semplice arrivare alla conclusione che senza l'Italia mediana non ci sarebbe immagine dell'Italia in grado di competere con le immagini che di sé hanno dato nel corso dei secoli, e nonostante tutto continuano a cercare di dare, le altre grandi nazioni europee moderne. II resto lo hanno fatto ovviamente, per quanto ci riguarda, per motivi geopolitici comprensibili, alcune grandi città supernazionali e superstato come Venezia e Roma, e, in misura minore, e temporalmente più circoscritta, Napoli e Palermo. Ma l'apporto identitario complessivo della Italia mediana alla costruzione del livello identitario complessivo dell'Italia-Nazione non è stato mai raggiunto da nessun'altra parte o sezione (e regione) del nostro paese (neanche dal Piemonte, che pure dal punto di vista politico e militare è all'origine della sua riunificazione).

A questo nocciolo duro, di carattere culturale, artistico e linguistico, la cui genesi risale a più di mille anni fa, si è poi sovrapposta una complessa storia politica e istituzionale, che, al di là di talune apparenze, ha contribuito lentamente, e talvolta contraddittoriamente. a rafforzarne i principali caratteri unitari e identitari. Il governo pontificio, salendo da Roma e dal Lazio, s'è spinto fino oltre gli Appennini e ha inglobato quella che gli storici della cultura e della letteratura chiamano correttamente la Padania, e cioè l'Emilia-Romagna, l'unica regione italiana degna di questo nome (perché le altre regioni settentrionali sono un'altra cosa). E ha associato da allora anche la storia di questa regione italiana alla storia dell'Italia mediana. Un altro elemento unificante è stato in questa zona italiana - e qui ne parliamo nella maniera più allargata, comprendendovi tutti gli elementi che la compongono - la prevalenza molto a lungo di un'economia agricola e contadina (nonostante la presenza di grande isole capitalistico-industriali, destinate però a restare caratteristicamente tali). E' a questa preminenza dell'elemento agricolo e contadino che va ricondotto anche il carattere dominante del comunismo di quei luoghi.

Un particolare comunismo (con i suoi addentellati e successivi aggiustamenti) che ha governato queste terre pressoché ininterrottamente (altro elemento forte, anzi decisivo, di unità identitaria) negli ultimi sessant'anni. E' dalla mezzadria, e dalla sua crisi, che trae origine questa singolare prevalenza politico-culturale. Paradossalmente, l'ordine nuovo gramsciano è sopravvissuto più a lungo nelle campagne senesi che alla Fiat Mirafiori: e questo ce ne fa comprendere i molti limiti, ma anche qualche pregio. Il riformismo comunista nasce da queste parti, e per l'intreccio di questi motivi; e il riformismo piddino attuale ne discende (più o meno bene). Non c'è spazio ora per sviluppare fino in fondo questo ragionamento (sarebbe interessante chiedersi, ad esempio, da che parte stia Roma in questo schema: ma lo vedremo un'altra volta). In ogni caso, direi, si può innegabilmente parlare per il gruppo di regioni che formano l'Italia mediana più Emilia- Romagna, di un'innegabile identità storica, culturale, politica e persino antropologica. Un cittadino di Fidenza è molto più simile ad un cittadino di Cecina che ad uno di Busto Arsizio; e un cittadino di Cecina è molto più simile a un cittadino di Fidenza che ad uno di Castelvolturno. Persino da un punto di vista geopolitico-militare (sto un po' scherzando) l'Italia mediana risulterebbe vitale, anzi, indispensabile, all'esistenza dell'ltalia- Nazione: se decidesse un giorno di sfilarsene, il Nord e il Sud diventerebbero immediatamente monconi di stato, senza più rapporti fra loro. Insomma, domandiamoci: questo consistente conglomerato sovraregionale è Sud? No. E' Nord? No. Allora è un'altra cosa. Se le cose stanno così, appare legittima la domanda: perché mai alla «questione Italia mediana» si dà, e si continua a dare, un peso insignificante, anzi quasi nullo, anche quando si affronta la grande e oggi attualissima questione dell'Italia-Nazione»? Io mi do tre risposte, che potrebbero anche essere intese semplicemente come prime osservazioni nel merito:

1) «La questione meridionale» e, più recentemente la «questione settentrionale», sono state agitate da decenni, nel primo caso da più di un secolo, come eventi e fattori drammatici dello sviluppo o, a seconda dei casi, del regresso nazionali. La questione dell'Italia «mediana» si è più lentamente e sotterraneamente sviluppata, nonostante certi passaggi laceranti (si pensi, appunto, alla crisi della mezzadria e della campagne), ricucendo via via gli strappi o per lo meno ponendovi mano più autonomamente, senza ricorrereal forziere nazionale allo scopo di porvi riparo. Questa parte del «sistema Italia» è stata cioè sempre più «normale» delle altre: effetto, tra l'altro, presumibilmente, della lunga durata e stabilità del governo amministrativo e regionale locale, che non ha eguali nel resto del paese. Non si capisce però perché, in nome di questa assenza di traumi, un'entità sovraregionale così significativa e poderosa non possa o addirittura non abbia l'obbligo d'inserirsi con un suo punto di vista e un suo programma nel concerto unitario nazionale, tanto più che è abbastanza certo che, cosi facendo, non lo indebolirebbe ma lo rafforzerebbe.

2) II ceto politico di governo locale, comunista-progressista-democratico ha goduto, come abbiamo già detto, di una lunghissima durata e continuità di governo, il cui lato negativo, in taluni casi e situazioni pesantissimo, sono stati il calo drammatico della capacità innovativa, l'autodifesa a tutti i costi e il contagio di metodi e obiettivi caratteristici della «questione meridionale» (ad esempio la speculazione immobiliare). La Toscana ha attraversato una fase involutiva di questa natura, da cui, mi pare, sta lentamente uscendo. Per diventare «questione nazionale» la «questione dell'Italia mediana» dovrebbe presentarsi chiaramente come alternativa, nelle soluzioni e nei metodi proposti, sia alla «questione settentrionale» sia alla «questione meridionale». Perché questo avvenga, ci vorrebbe un patto interregiona1e, che contrapponga chiaramente al Nord «nordista e al Sud «sudista» un Centro (in senso geografico-politico, s'intende), civile, democratico, progressista e riformatore.

3) Non c'è stata, e tuttora non c'è, un'intelligenza politica di rapporti, controlli e processi osmotici fra ceto politico comunista- progressista-democratico locale dell'ltalia mediana più Emilia Romagna e ceto politico comunista-progressista-democratico centrale, ovvero nazionale. Può sembrare strano che questa osservazione sia formulata nel momento in cui è Segretario del Pd Pierluigi Bersani, puro prodotto del vivaio emiliano (e bisognerebbe, certo, ricordare anche Prodi, non indegno rappresentante del medesimo ceppo, sul versante cattolico). Ma io mi riferisco a un processo più complessivo: e cioè a quello che fa del personale politico amministrativo locale il serbatoio consistente e sistematico di quello nazionale. Anche in questo caso, c'è sempre stato un eccesso di delega a Roma nella formazione del ceto dirigente progressista (eredità, non avrei dubbi, del centralismo democratico comunista). Due personalità come D'Alema e Veltroni si spiegano al novanta per cento con il particolare biografico che tutta la loro formazione si è svolta nel perimetro un po' ristretto che sta fra Via dei Frentani, Piazza Montecitorio e Via delle Botteghe Oscure (con più, per D'Alema, l'avventura pugliese, per lui di certo non inutile). Se si nasce a Roma, si cresce a Roma, si vive e lavora quasi esclusivamente a Roma, la tendenza a guardarsi, invece che a guardare, diventa strutturale, anzi genetica. Se si stabilisse un organico e sistematico processo di valorizzazione e transfert delle competenze fra periferie e centro, e magari viceversa, forse entrerebbe più aria pura nel Palazzo e la politica tornerebbe a parlare più facilmente il linguaggio della gente (tenendo anche conto del fatto che, parlando sempre per paradossi, se si togliesse alle forze progressiste nazionali la dote di voti che viene loro dall'Italia mediana più Emilia-Romagna, la percentuale delle loro consultazioni elettorali scenderebbero ad una cifra).

Insomma, esistono tutti i presupposti storici e culturali perché sia possibile parlare a pieno titolo di una terza Italia, che è quella «mediana»; ed oggi ne esistono anche tutte le condizioni politico-istituzionali, affinché questo sia riconosciuto e soprattutto venga praticato. Perché allora non fado, se storia e opportunità politica ci spingono a farlo?

Per gentile concessione dell´editore anticipiamo parte della premessa dell´ultimo libro di Ulrich Beck "Potere e contropotere nell´età globale" in uscita per Laterza



Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all´assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L´incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull´economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovranità e identità territoriali. Lo si può mostrare in relazione a quasi tutti i temi scottanti del nostro tempo. Chi, di fronte alla disoccupazione di massa e all´occupazione precaria in rapida diffusione promuove l´ideale della piena occupazione, offende l´umanità. Chi, nei Paesi in cui il tasso di natalità è sceso sotto la soglia fatidica di 1,3 figli per ogni donna, afferma che le pensioni sono al sicuro, offende l´umanità. Chi, di fronte alla drastica riduzione dei proventi dalle imposte sui profitti vanta i meriti della globalizzazione, che consente ai grandi gruppi economici transnazionali di mettere gli Stati gli uni contro gli altri, offende l´umanità. Chi, nell´era delle catastrofi ambientali e degli avvelenamenti alimentari in atto o incombenti proclama che la tecnica e l´industria risolveranno i problemi da esse stesse prodotti, offende l´umanità.

Il successo di questo fenomeno, a destra e a sinistra, dipende anche dal risentimento. Noi europei facciamo come se esistessero ancora la Germania, l´Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, ecc. E invece non ci sono più da un pezzo, poiché quelle riserve di potere che sono gli Stati nazionali chiusi in se stessi e le unità nazionali delimitate l´una rispetto all´altra sono diventate irreali al più tardi con l´introduzione dell´euro. Nella misura in cui c´è l´Europa non esistono più la Germania, la Francia, l´Italia, ecc. (anche se questi Paesi continuano a governare nelle teste delle persone e nei libri illustrati degli scrittori di storia), poiché non ci sono più le frontiere, le competenze e gli spazi di esperienza esclusivi su cui si fondava questo mondo di Stati nazionali. Ma se tutto ciò è passato, se il nostro pensiero, le nostre azioni e le nostre ricerche si muovono all´interno di categorie-zombie, quale mondo si sta formando o si è già formato?

(...) Per comprendere il terremoto politico provocato e sfruttato dal populismo di destra occorre mettere in luce le fonti della sua potenza. Esse risiedono nel fatto che qui i temi e i motivi cari al nuovo controilluminismo da cui è connotata la modernità europea – la lotta contro il declino e la decadenza, la rinascita dei vecchi valori e delle vecchie comunità – vengono applicati ai tabù attuali della modernizzazione radicalizzata. In tutto ciò è irritante questa massima del «sia ... sia», che rimescola i fronti del politico. Il cosiddetto «populismo di destra» non è affatto un populismo solo di destra, ma un populismo sia di destra che di sinistra. Esso può essere particolarmente potente e inquietante perché questo tipo di politica lega, assorbe, combina, sintetizza ciò che sembra escludersi: obiettivi di destra con metodi di sinistra, la rottura emancipatrice dei tabù messa in scena dai mass-media, che sprigiona il potenziale tossico del risentimento antimoderno. Ciò si riflette anche nella reazione pubblica. Si denuncia la demagogia dei populisti come un pericolo per la democrazia stabilita – ma, perlomeno in cuor proprio, la si saluta come una terapia d´urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo. Pertanto, la potenza dei populisti è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.

Tutto ciò può essere osservato come sotto una lente d´ingrandimento se si prendono in considerazione (come fa questo libro) le conseguenze della globalizzazione (...).

In questo libro la globalizzazione è intesa e sviluppata – riprendendo questi approcci ma nello stesso tempo facendo un passo al di là di essi – come trasformazione storica. Da questa prospettiva emerge che, nello spazio di potere dai contorni ancora indefiniti di una politica interna mondiale, la distinzione tra il nazionale e l´internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata (...).

Se ciò che è nazionale non è più nazionale e ciò che è internazionale non è più internazionale, allora il realismo politico prigioniero dell´ottica nazionale è sbagliato. Al suo posto – è questo l´argomento di questo libro – subentra un realismo politico di cui occorre comprendere la logica di potere e che assegna un posto centrale al ruolo decisivo dell´economia mondiale e dei suoi attori nella collaborazione e nel contrasto tra gli Stati, ma anche alle strategie dei movimenti transnazionali della società civile, ivi compresi i movimenti anticivili, ossia le reti terroristiche, che mobilitano contro gli Stati la violenza privatizzata per perseguire i propri obiettivi politici.

Un realismo, ovvero un machiavellismo, cosmopolitico risponde in particolare a due domande. Primo: come e attraverso quali strategie gli attori dell´economia mondiale impongono agli Stati le leggi della loro azione? Secondo: come possono a loro volta gli Stati riconquistare un meta-potere statuale-politico di fronte agli attori dell´economia mondiale per imporre al capitale mondiale un regime cosmopolitico che includa anche la libertà politica, la giustizia globale, la sicurezza sociale e la conservazione dell´ambiente?

L´importanza e la pertinenza di questa nuova politica economica mondiale derivano per un verso dal fatto che essa in quanto teoria del potere è sviluppata nello spazio strategico dell´economia transnazionale e, per un altro, dal fatto che nello stesso tempo essa risponde alla domanda che allora si pone: come può il mondo della politica organizzata per Stati (nei suoi concetti fondamentali, nel suo spazio di potere strategico, nelle sue condizioni di contorno istituzionali) aprirsi alle sfide dell´economia mondiale ma anche ai problemi derivati dalla modernizzazione?

(...) Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. Gli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001 insegnano, non ultimo, che la potenza non è sinonimo di sicurezza. In un mondo radicalmente diviso la sicurezza potrà esserci solo quando ognuno sarà disposto a – e capace di – vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi dell´altro, dell´alterità, cioè quando l´evoluzione culturale risveglierà in ciascuno questa apertura e quest´ultima sarà diventata quotidiana .

(...) Se si dischiude intellettualmente e politicamente lo spazio di potere mondiale al di là delle vecchie categorie di «nazionale» e «internazionale», si aprono (accanto alle spiegazioni della reazione populistica) prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e dello Stato.

Il famoso saggio sulla «Tragedia dei comuni» scritto dal biologo Garret Harding negli anni Sessanta è stato l'ultimo tentativo di legittimare l'individuo proprietario, figura che ha profonde radici nella cultura giuridica. Il nodo vero da sciogliere è il potere e lo statuto politico del «comune»

Ogni volta che viene avviata una la riflessione sull'attuale statuto giuridico dei beni comuni bisogna sempre fare un'incursione nel passato. Il punto fondamentale da mettere in rilievo è che in Occidente fin dalle sue origini la dimensione giuridica si è conquistata un ruolo fondamentale articolandosi intorno all'«individuo-proprietario», dominus di un dato territorio. In effetti, alle radici del diritto romano si trovano le esigenze contingenti di una società clanica patriarcale nella quale i pater familias insieme al loro gruppo controllavano spazi territoriali definiti su cui esercitare sovranità. I clan (gentes) erano fra loro formalmente uguali, come fossero «micro stati» di un ordine internazionale di stati sovrani.

La legge dei patrizi



Il diritto e le istituzioni romane nascono dunque intorno al 500 avanti cristo per progressive cessioni di sovranità fra clan uguali stanziati su territori limitrofi, rappresentati dai pater familias, proprietari fondiari che col tempo si raccolsero politicamente nel Senato. I conflitti privati fra pater familias sul dominium (proprietà privata) e sui suoi limiti e confini crearono la necessità di istituzioni volte alla loro risoluzione. Tali istituzioni giuridiche si svilupparono ed autonomizzarono gradualmente da quelle politiche specie nel cosiddetto periodo classico fra il primo secolo avanti cristo e il primo dopo cristo. Esse sostanzialmente consistettero in meccanismi di nomina, ad opera del pretore (un politico) di un patrizio (un pari dei patres coinvolti nel conflitto) come iudex al fine di affidargli la soluzione della controversia. Il iudex era scelto in quanto pari dei litiganti e non era dotato perciò di alcunché di paragonabile ad una «cultura giuridica». Oggi diremmo che era un laico.

Man mano che la società divenne più complessa, fu sempre più necessario coinvolgere «professionisti» privati, dotati di conoscenza del diritto, (i giuristi). Costoro nel lavorio dei loro circoli e delle loro scuole avevano sviluppato e conservavano in buon ordine un armamentario tecnico fatto di formulae capaci di ridurre la complessità di ogni singolo conflitto in un'alternativa secca, risolvibile in termini di ragione o di torto. Chi ha diritto e chi torto nel complicato conflitto fra Aulo Agerio (colui che agisce in giudizio) e Numerio Negidio (colui che nega di dovere del denaro)? Il conflitto fra soggetti proprietari andava distillato in un'alternativa semplice e chiara anche per un non giurista da sottopore allo iudex del caso di specie ma anche riproducibile in successivi eventuali casi simili. In questo modo il diritto occidentale nasce come un gioco a somma zero (che scarta i dati fattuali ritenuti irriproducibli e quindi irrilevanti) in cui la ragione di un proprietario si estende soltanto fino a quella dell'altro suo antagonista che ne nega il potere. Infatti, chi supera le proprie ragioni, oltrepassando i confini del suo diritto si mette dalla parte del torto che è l'opposto del diritto (in italiano la «diritta» via si contrappone a quella «storta»).

I feudatari di Guglielmo

In questo originario quadro istituzionale e (successivamente) concettuale si sviluppa il diritto occidentale. Alle sue radici c'è una concezione che si radica nelle necessità dell'individuo (proprietario) collocato in relazione conflittuale (a somma zero) con una controparte processuale. La compilazione del Corpus iuris civilis di Giustiniano (476 dopo Cristo) collocata all'epilogo di una vicenda giuridica durata mille anni, consegna all'Occidente i suoi testi giuridici fondamentali. Oltre ad un libro introduttivo noto come Istituzioni ed una raccolta di leggi e decreti di natura politica ( Codex e novelleae), Giustiniano racoglie ed offre ai posteri un insieme selezionato di opinioni di giuristi (principalmente Paolo, Ulpiano e Modestino) volte a dirimere conflitti reali, formulandoli in termini di ragione o di torto (cinquanta libri di pandettae o digesto). Sulla base della compilazione giustinianea si svilupperà a partire dall'XI secolo tutta la «sapienza civile» formalizzata e tramandata fino a noi dalle facoltà di giurisprudenza continentali .

Un modello molto simile, fondato (sebbene meno pervasivamente) sugli stessi materiali di provenienza romana viene formalizzato e conservato fino ai nostri giorni dalla giurisprudenza delle Corti superiori della tradizione anglo-americana. Le Corti di common law, centralizzate in Inghilterra a partire dal XII secolo, si svilupparono a loro volta per dirimere i conflitti fra i grandi proprietari fondiari (Baroni), beneficiati da Guglielmo il Conquistatore di diritti dominicali di natura feudale. Anche qui i giuristi professionisti svolsero un ruolo molto simile a quello dei loro antenati romani nel preparare l'alternativa secca che ancor oggi viene sottoposta alle giurie popolari laiche (l'equivalente contemporaneo del iudex).

In questo quadro teorico ed istituzionale il posto occupato dai beni comuni è del tutto marginale. Infatti, ciò che non è in proprietà privata può appartenere alla res publica (lo Stato, grande assente dell'esperienza medievale continentale) o può essere res nullius (cosa di nessuno) in quanto tale appropriabile liberamente. In conceto di res communis omnium, né privata né statale pur non assente, risulta largamente sottoteorizzata nella tradizione occidentale molto probabilmente perché da sempre l'occupazione del comune ad opera del più forte è uno dei più diffusi strumenti di accrescimento della proprietà privata. Ne segue che la sottoteorizzazione della differenza fra quanto appartiene direttamente a tutti (senza la mediazione dello Stato) e quanto non appartiene a nessuno è funzionale alle esigenze della classe proprietaria (comunque «padrona del diritto») interessata ad ampliare le proprie possibilià di occupazione confondendo i due concetti.

Questo è vero anche oggi perché l'ideologia dominante è prodotta nell'interesse esclusivo delle classi proprietarie (si pensi al successo arriso al saggio scritto dal biologo Garret Harding nel 1968 e significativamente pubblicato dalla rivista Science con il titolo la «Tragedia dei comuni» che si fonda sull'assunto palesemente ideologico che i commons siano liberamente appropriabili). Infatti nell'esperienza contemporanea i dipartimenti di economia delle università americane svolgono la stessa funzione di «apparati ideologici» al servizio delle classi abbienti tradizionalmente propria dei giuristi. In cambio della costruzione di ideologia giuristi ed economisti traggono potere, prestigio professionale e denaro.

Tuttavia esistono pure ragioni più profonde legate alla struttura stessa del diritto come sopra descritta che spiegano la marginalità del comune rispetto all'accoppiata proprietà privata/Stato nell'immaginario giuridico occidentale. Il comune in quanto potere diffuso (o non potere) risulta strutturalmente incompatibile con il processo. Infatti, dato il descritto assetto istituzionale volto primariamente alla soluzione di conflitti fra privati proprietari, ben difficilmente in pratica il comune sarà in grado di trovare qualcuno che lo rappresenti in giudizio (convenendo quanti cercano di appropriarsene). Da un lato infatti il comune era normalmente fruito da non proprietari, di regola contadini poveri in quanto tali non dotati di mezzi sufficienti per avere accesso alle corti. Basti pensare alla facilità con cui essi furono vittimizzati dalle enclosures volute nell'Inghilterra delle prime manifatture dall'alleanza proprietà privata-Stato.

Arrivano le class action



D'altra parte, la struttura del processo avversariale come gioco a sommazero richiede un interesse ad agire specifico riferibille ad un dato individuo. I beni comuni, caratterizzati da fruibilità diffusa, appartenendo a tutti non consentono di individuare nessuno che sia dotato di un interesse speciale rispetto ad essi tale da legittimarne la rappresentanza in corte. In altri termini, in un processo visto come gioco a somma zero fra un vincitore e uno sconfitto non c'è posto (salvi speciali accorgimenti tecnico-processuali tipo class actions sviluppatisi in via eccezionale solo molto di recente) per un'azione legale i cui benefici siano diffusi in modo potenzialmente illimitato. è il problema noto nel diritto americano come standing to sue (letteralmente: alzarsi in piedi per fare causa): chi fra l'altissimo numero di beneficiari dell'acqua potabile (o dell'aria pulita) può differenziare a sufficienza il suo interesse rispetto a quelllo di tutti gli altri in modo da ergersi a suo paladino esercitando i poteri processuali che derivanoi dalla lite? Si tratta di un problema di grande impatto pratico perché le Corti sono riluttanti ad ammettere tutto ciò che si discosta dall'archetipo del gioco a somma zero e che i vari diritti risolvono (quando risolvono) in modo ecezionale.

Insomma sembra proprio di poter dire che i beni comuni scontano una forma di incompatibilità archeologica e strutturale con gli aspetti più profondi della giuridicità all' occidentale, fondata sull' abbinata universalizzante ed esaustiva proprietà privata/Stato e, più di recente, sulla retorica dei diritti individuali. Tutto ciò evidentemente chiama il giurista ad un compito tanto difficile quanto entusiasmante ed urgente: costruire le basi nuove di una giuridicità che ponga al centro il comune per contribuire alla costruzione di un'autentica sostenibilità di lungo periodo sottratta agli appetiti predatori della proprietà privata e dello Stato.

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