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Di prima mattina, il 5 febbraio del 62 dopo Cristo, in Campania si verificò uno spaventoso terremoto che nel volgere di pochi secondi uccise migliaia di inconsapevoli abitanti. Vaste aree di Pompei crollarono travolgendo gli abitanti nel sonno e ogni tentativo di salvarli fu ostacolato dallo scoppio di vari incendi. I sopravvissuti si ritrovarono spogliati di ogni cosa, a eccezione degli abiti che avevano indosso e che erano completamente ricoperti di fuliggine, tra gli edifici un tempo eleganti ridotti in rovine. Attraverso l´Impero dilagarono spavento, incredulità e rabbia. "Come è mai possibile", si andava chiedendo, "che i romani, i più potenti al mondo, il popolo tecnologicamente più avanzato, i romani che hanno costruito acquedotti e soggiogato orde di barbari, siano così esposti agli insensati capricci della natura?".

La disperazione e lo sbigottimento - fin troppo diffusi oggi, all´indomani del terremoto al largo dell´Indonesia - attrassero l´attenzione del filosofo stoico romano Seneca. Egli scrisse una serie di testi volti a consolare i suoi lettori, ma, cosa assai tipica in Seneca, il conforto offerto fu del genere più rigoroso e fosco che si potesse concepire: "Voi dite ?Non pensavo che sarebbe accaduto´. Pensate dunque che esista qualcosa che non accadrà quando invece ben sapete che è possibile che accada, quando vedete voi stessi che è già accaduta?".

Seneca cercò di mitigare l´impressione d´ingiustizia che imperversava tra i suoi lettori ricordando loro - nella primavera del 62 - che i disastri naturali e quelli provocati dall´uomo faranno sempre parte della nostra vita, per quanto evoluti e sicuri noi si creda di essere diventati. Pertanto, anche nella nostra epoca dobbiamo sempre attenderci l´imprevisto: la calma è soltanto un intervallo nel caos. Nulla è certo, nemmeno il suolo sul quale poggiamo i piedi. Se non ci soffermiamo a riflettere sui rischi di improvvise onde gigantesche, se di conseguenza paghiamo uno scotto per la nostra ostinata ingenuità intenzionale, è perché la realtà comprende due diversi aspetti che disorientano in modo assai crudele: da una parte il senso di continuità e di sicurezza che si trasmette di generazione in generazione e dall´altra i cataclismi non preannunciati. In pratica, ci ritroviamo a esitare tra il plausibile invito a dare per scontato che il domani sarà molto simile all´oggi e la possibilità che andremo invece incontro a un evento spaventoso, dopo il quale nulla sarà più come prima. Ed è proprio perché abbiamo fortissimi incentivi a non prendere in considerazione il secondo dei due scenari che Seneca ci esortò a ricordare che il nostro destino è sempre nelle mani della Dea Fortuna. Costei può distribuire i suoi doni e poi, con terrificante velocità, osservarci mentre soffochiamo per una lisca di pesce incastrata in gola, o mentre chiudiamo gli occhi per sempre, scomparendo per colpa di uno tsunami insieme all´hotel nel quale eravamo alloggiati.

Il terremoto in Asia ha acquisito un rilievo del tutto particolare perché molte delle aree devastate erano zone turistiche, luoghi dove la gente si è recata espressamente alla ricerca della felicità, soltanto per trovarvi morte e caos. Se si visitano i siti Web degli alberghi ora devastati, si possono ancora osservare magnifiche immagini di spiagge assolate, di camere accoglienti, di barbecue in piscina o di immersioni nei fondali marini.

Seneca sostiene che proprio perché veniamo feriti maggiormente da ciò che non ci aspettiamo, laddove dobbiamo invece aspettarci di tutto ("Non vi è nulla che la Fortuna non osi"), dovremmo sempre tenere ben in mente l´eventualità che si verifichino gli eventi più terribili. Nessuno dunque dovrebbe mai accingersi a partire per un viaggio in macchina, né scendere le scale o salutare un amico senza la consapevolezza - che Seneca per altro non avrebbe voluto che fosse necessariamente funesta o tragica - che possa accadere qualcosa di fatale.

Considerando le nostre competenze tecnologiche, è diventato naturale credere di essere in grado di controllare il nostro destino. L´uomo non deve più essere il trastullo delle forze del caso: esercitando la ragione, tutti i nostri problemi possono essere risolti. Nulla è maggiormente lontano dalla mentalità di uno stoico. Piuttosto, sottolinea Seneca, noi dobbiamo accentuare la consapevolezza di ciò che in un qualsiasi momento della nostra vita può andare storto: "Nulla dovrebbe mai esserci imprevisto. La nostra mente dovrebbe anticipare tutto, in modo da poter far fronte a tutti i problemi. Noi dovremmo considerare non ciò che non è usuale che accada, bensì ciò che può accadere. Che cos´è infatti l´uomo? Un vaso che il più lieve urto, il più lieve movimento brusco può frantumare. Un corpo debole e fragile".

All´indomani del terremoto della Campania, molti sostennero che l´intera zona dovesse essere evacuata e che non si dovesse più edificare nelle zone a rischio di terremoto. Ma Seneca confutò l´implicito principio che sulla Terra potesse esistere un luogo - la Liguria, per esempio - nel quale ci si possa considerare del tutto al sicuro, lontani e al riparo dai capricci della Fortuna: "Chi può garantire che in questo o in quel sottosuolo si possono erigere fondamenta più solide? Tutti i luoghi hanno le medesime caratteristiche e se non sono ancora stati colpiti da un terremoto, ciò non di meno potranno esserlo in futuro. Sbagliamo se riteniamo che al mondo possa esservi un luogo esente da pericoli, sicuro? La natura non ha creato nulla di immutabile". Né - potrebbe aggiungere Seneca qualora fosse vivo oggi - la natura ha creato una costa che non potesse essere investita dall´avanzare della marea.

Per cercare di prepararci psicologicamente al disastro, Seneca invitava a sottoporsi ogni mattina a uno strano esercizio, che egli in latino chiamò praemeditatio - premeditazione - consistente nel rimanere sdraiati prima ancora di colazione e di immaginare tutto ciò che nell´arco della giornata che si ha davanti potrà andare storto. L´esercizio non è fine a se stesso, essendo stato concepito per prepararsi all´eventualità che la città in cui si vive venga distrutta la sera stessa o che per qualche ragione muoiano i propri figli. Così si legge in uno degli esempi di premeditazione: "Viviamo tra cose concepite tutte per cessare di vivere. Esseri mortali ci hanno dato la vita e noi stessi abbiamo dato vita a esseri mortali. Pertanto aspettiamoci di tutto".

Lo stoicismo pretenderebbe dunque che noi si accetti tutto ciò che la vita ci propina? No, essere stoici significa riconoscere quanto siamo vulnerabili nonostante tutto il nostro progresso. Seneca arrivò a chiederci di immaginare di essere simili a cani legati a un carro guidato da un conducente imprevedibile. Il guinzaglio è lungo abbastanza da poterci lasciare un certo qual margine di libertà di movimento, ma non così tanto tuttavia da consentirci di vagare a nostro piacere. Un cane spererebbe per sua stessa natura di potersi allontanare a suo piacimento, ma la metafora di Seneca implica che se non potesse farlo, sarebbe meglio per l´animale seguire docilmente il carro, invece che esserne trascinato a forza e finire strangolato. Così disse infatti Seneca: "L´animale che si dibatte rifiutando il guinzaglio finisce col serrarlo? non esiste giogo più stretto da ferire un animale di quello che l´animale stesso stringe, osteggiandolo invece di assecondarlo. Il miglior sollievo dai mali che ci opprimono consiste nel sopportare e nel piegarsi alla necessità".

Ritornando dunque al passato e alla saggezza dei filosofi stoici, potremmo trovare un metodo utile per ridimensionare alcune delle nostre aspettative e per smorzare il nostro shock davanti ai disastri naturali e allo spargimento di sangue. Nel 65 d. C. quando l´imperatore Nerone ordinò a Seneca di suicidarsi, la moglie e i suoi famigliari scoppiarono in lacrime. Seneca no, poiché aveva imparato a seguire il carro della vita con rassegnazione. Portandosi con tranquillità il coltello ai polsi, pronunciò una frase che faremmo bene a ripeterci, quando leggiamo le notizie sui giornali in alcune mattine particolarmente tristi. Egli disse: "Che bisogno vi è di piangere in alcuni momenti della vita? È per la vita tutta intera che si dovrebbe piangere".

Copyright Independent Digital (Uk) Ldt

Traduzione di Anna Bissanti

Il mitico Luca Mercalli di "Che tempo che fa" indirizza una lettera aperta alla candidata del l'Unione alla presidenza della Regione Piemonte. E' una raccolta di temi aggiornati sulla politica ambientale, e non solo. La Mercedes Bresso risponde in modo ragionevole e problematico. C'è una bella differenza con gli argomenti troppo spesso piatti e triviali della campagna elettorale in Emilia-Romagna. Utile per rimanere aggiornati e anche per la linea di politica locale (anche lo slogan è bello). Ciao (a.b.)

Luca Mercalli indirizza una lettera aperta a Mercedes Bresso:



Ti scrivo per porgerti qualche spunto di riflessione "per cambiare il futuro", come recita il Tuo slogan elettorale. Seguendo l'invito che compare sul Tuo sito Internet, questo vuole essere uno di quei contributi "delle più diverse articolazioni della società civile, dell'economia, del lavoro, della politica e della cultura, vale a dire a tutti coloro che condividono il nostro punto di vista e che vogliono cambiare con noi la nostra regione e il modo di governarla".

Del resto, per chi ha a cuore i problemi ambientali, la lettura del Tuo curriculum è un'iniezione di fiducia: "esperta di economia dell'ambiente, economia agraria e di economia del turismo", autrice di saggi tra cui "Per un'economia ecologica" e "Pensiero economico e ambiente", già Assessore regionale alla Pianificazione Territoriale e ai Parchi". "Amante delle passeggiate in montagna e nei boschi".

So anche che sei stata tra le prime in Italia a commentare il pensiero di Georgescu-Roegen, un pioniere, uno che avrebbe meritato il Nobel per l'Economia ben più di Robert Solow.

Ho avuto il piacere di conoscerTi insieme a tuo marito, quel Claude Raffestin "geografo ed esperto di Ecologia umana e Scienze del paesaggio" che completa il quadro del Tuo ambiente culturale come meglio non si potrebbe desiderare.

Insomma, a leggere queste credenziali, il Tuo programma politico dovrebbe avere una marcia in più rispetto - che so io - a quello di un qualsiasi palazzinaro che si metta in politica con obiettivi palesemente meno sostenibili sul piano ambientale.

Sembrerebbe, con un curriculum come il Tuo, di essere in ottime mani: una figura politica che non solo è ben informata su questi problemi, ma ne è pure navigata studiosa.

Ora, a questo punto, i fatti dovrebbero corrispondere alle premesse.

Eppure dal Tuo programma trapelano gli echi delle sirene della crescita continua.

"Con l'Europa per uno sviluppo sostenibile" per evitare il declino del Piemonte, recita il Tuo programma. Ma cosa vuol dire "declino"? Sulla base di quali indicatori? Forse del PIL? O del numero di autovetture prodotte dalla FIAT? Perché mai dovremmo evitare "un dignitoso e magari confortevole declino" a favore "di una dinamica fase di sviluppo"? Sappiamo che "sviluppo", come è inteso oggi (anche se corredato dell'aggettivo "sostenibile") è in realtà un modo addolcito di camuffare la continua crescita dei consumi. E' un'ossessione il ritenere che un luogo sia prospero solo se la sua popolazione aumenta o almeno non decresce, se le merci continuano ad affluire e a ripartire in sempre maggiori quantità, se l'edilizia continua incessantemente a costruire, se il valore degli scambi finanziari continua ad aumentare. A fronte di tali indicatori sappiamo bene che vi è anche l'aumento di rifiuti di qualsivoglia natura - solidi, liquidi e gassosi - e l'irreversibile diminuzione di naturalità del paesaggio, con conseguenze sia sul piano estetico, sia su quello dei cicli biogeochimici.

Ecco dunque che il passo del Tuo programma che recita come "La regione deve essere dotata in primo luogo di tutte le infrastrutture necessarie ad assicurarne la rilevanza economica, culturale, geografica e logistica cui aspira, il tutto nella logica dello sviluppo sostenibile. Vale a dire: le opere pubbliche dovranno essere progettate e portate a termine con il minimo impatto ambientale e al più basso costo sociale possibile. Opere all'avanguardia, concepite come servizi alla terra e agli uomini che debbono ospitarle, realizzate con tecnologie innovative, gestite con tutta la cura resa possibile dalla modernità", contiene inevitabilmente i germi della catastrofe ambientale. E ciò perché non riconosce il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione. In queste infrastrutture è facile vedere l'appoggio a progetti faraonici e non prioritari quali l'alta velocità ferroviaria, la quarta corsia della tangenziale torinese, una ulteriore espansione urbana e industriale capillare.

Sono tutti interventi ormai non più difendibili, inseriti nel mito della crescita continua, che - per quanto mitigata, per quanto addolcita - non può essere sostenibile per via dei meri vincoli fisici del sistema nel quale è concepita: il Piemonte - così come gran parte del nord-Italia, ha ormai subito un ampio superamento di tutte le soglie di attenzione di natura ambientale e deve ora guardare a come ridurre le conseguenze causate da un passo più lungo della gamba.

Per fare questo ritengo che l'unico mezzo sia ormai un serio approccio al concetto di decrescita. Orbene, il passato è passato. Processi storici ed economici hanno condotto fin qui e non ha importanza esaminarne più di tanto le motivazioni. Però Tu ci dici che vuoi cambiare il futuro del Piemonte. Benissimo. E' un'occasione d'oro per dimostrarlo. Se effettivamente desideri proporre un programma politico innovativo - pure rischioso, ovviamente - dovresti fare tuoi i precetti che il mondo scientifico ha da tempo - e con sempre maggior completezza - messo in luce. Il libro che ti allego "Le mucche non mangiano cemento" ne fa una sintesi, proponendo una bibliografia di riferimento che non ho dubbi Tu conosca ampiamente.

Provo comunque a sintetizzare per sommi capi gli obiettivi di un futuro realmente diverso:

1) il paradigma della crescita continua dei consumi e delle infrastrutture (e quindi pure dei relativi rifiuti) dovrebbe essere abbandonato quanto prima. Il suo fallimento è dietro l'angolo, una presa di coscienza anticipata potrebbe ancora consentire una transizione morbida verso una struttura stazionaria, altrimenti il collasso avverrà, come spesso accade nei sistemi non lineari, in modo improvviso e non modulabile da azioni di mitigazione.

2) sviluppo non deve essere confuso con crescita: esiste uno sviluppo culturale, scientifico, spirituale, perseguibile anche al di fuori di uno sviluppo dei consumi materiali o, peggio ancora, di beni superflui ed energivori. E' proprio lo sviluppo dei primi beni elencati a compensare della riduzione dei secondi. In un momento storico nel quale i livelli di benessere fisico sono ampiamente consolidati questa transizione è possibile ed è la sola a garantirne peraltro il mantenimento a lungo termine. Detto in altre parole, con la pancia piena e la casa calda possiamo anche pensare allo sviluppo spirituale/intellettuale/culturale che a sua volta sarà la chiave per continuare ad avere pancia piena e casa calda. Altrimenti si fa indigestione e si vomita. Poi però bisogna ricominciare dall'età della pietra.

3) il consumo di suoli agrari e di «paesaggio» deve essere arrestato immediatamente: in un mondo fisico dalle dimensioni finite non è pensabile espandersi all'infinito. Basterebbe applicare le illuminate proposte del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino, strumento eccellente che Tu ben conosci, purtroppo disatteso. Ovviamente la coerenza è una dote fondamentale del politico di razza: non si possono difendere i preziosi beni agrari dell'Ordine Mauriziano da una parte e contemporaneamente avallare progetti devastanti quali l'alta velocità ferroviaria: entrambi produrrebbero i medesimi risultati finali.

4) l'economia attuale in declino può trovare nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto" che ci circonda in qualcosa di almeno accettabile. Pensiamo a una FIAT che finalmente tiri fuori dai cassetti progetti che già aveva sviluppato da decenni, come la cogenerazione, e investa magari sulla produzione di pannelli solari... Le officine per fare tutto ciò sono praticamente le stesse che oggi si usano per fare automobili. Basta volerlo.

5) vi è necessità assoluta di un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite, imposti non da qualsivoglia ideologia, ma da semplice rispetto del II principio della termodinamica. In tale contesto sarebbe fondamentale disincentivare gli sprechi e l'uso del superfluo nonché gli eccessi nell'impiego di materie prime ed energia, a vantaggio di un benessere più sereno e libero dal senso di competizione sociale generato da modelli pubblicitari ormai patologici.

6) abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. In effetti, in un'epoca dove le telecomunicazioni potrebbero rendere sempre meno necessario il movimento fisico delle persone, e l'esaurimento delle risorse petrolifere porrà in un futuro prossimo restrizioni importanti alla inutile circolazione di merci banali oggi dettata da meri giochi economici, il gigantismo infrastrutturale è una scelta miope e sottrarrebbe enormi risorse alla disponibilità diffusa di servizi efficienti.

Cara Mercedes,

se vuoi veramente cambiare il futuro, dovresti avere il coraggio di inserire nel Tuo programma politico questi elementi, in apparenza fortemente impopolari in quanto lontani dal pensiero unico oggi vigente. Però il grande politico si riconosce proprio dalla capacità di essere realmente innovatore e cambiare totalmente il punto di vista dei problemi. E' peraltro difficile portare avanti tali obiettivi, però bisogna accorgersi che non solo l'ambiente scientifico sta sempre più assumendo consapevolezza che è necessario cambiare rotta, ma anche molta gente comune. Sono innumerevoli nel mondo le associazioni spontanee di cittadini volte alla decrescita (decrescita felice, décroissance, powerdown). Ma non vengo a mostrare ad arrampicare ai gatti: Georgescu-Roegen aveva scritto queste cose già nel 1974. Forse era in anticipo sui tempi. Trent'anni sono passati e ora le condizioni sono fertili per applicare la teoria bioeconomica o una sua opportuna riformulazione attualizzata.

Eppure sembra che la politica resti indietro, fatichi a cogliere questi segnali di disagio profondo, di una disarmonia con le leggi fondamentali di natura. Non basta aggiungere l'aggettivo "sostenibile" ad ogni azione per cambiarne le conseguenze. Molte azioni dovrebbero semplicemente essere abbandonate, non essere rese "sostenibili" quando non lo sono intrinsecamente. Pensiamo per esempio ai Giochi Olimpici Invernali Torino 2006.

Chi meglio di Te può comprendere queste cose? Con un curriculum così.

Ai miei occhi, come a quelli di molte altre persone mature e consapevoli della nostra situazione, assumi con la Tua candidatura politica una grande, grandissima responsabilità: quella di garantire se non il raggiungimento di questi obiettivi, almeno un segno incisivo verso la loro realizzazione, un cambiamento netto di direzione, un gesto di speranza. Se invece anche Tu, con il tuo perfetto curriculum da persona giusta al posto giusto, cadrai sotto la malìa delle sirene dello "sviluppo a tutti i costi", allora, noi che abbiamo capito di essere in un vicolo cieco, saremmo privati anche della speranza.

E senza speranza non resta che la disperazione.

Torino, febbraio 2005

Luca Mercalli (luca.mercalli@nimbus.it)

RISPOSTA DI MERCEDES BRESSO ALLA LETTERA APERTA DI LUCA MERCALLI



La lettera di Luca Mercalli è stata inserita nella sezione "Contributi al programma" del portale.

Normalmente i "Contributi" non ricevono risposta e vengono attentamente esaminati per recepire proposte e suggerimenti utili al Programma. Ma la lettera di Mercalli, trattando argomenti di grande importanza, ha suscitato molte reazioni e ha conquistato spazio sui media.

Decine di e-mail sono arrivate al nostro indirizzo.

Pubblichiamo quindi, in via del tutto eccezionale, la risposta di Mercedes Bresso.



Una bella lettera, la tua, una lettera alla quale voglio rispondere con grande sincerità, senza nascondermi dietro ai tatticismi elettorali che troppo spesso sono una scusa per non dire quel che si pensa e, soprattutto, per ritenersi in diritto di pensare quel che viene considerato indicibile.

Debbo dirti subito che anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di "blocco dello sviluppo". Mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile.

Ho studiato e riflettuto a lungo sulla teoria dell'arresto della crescita. Ma noi - il Piemonte - non possiamo rimanere fuori dallo sviluppo né possiamo rinunciare alla creazione di reddito, conseguenza immediata dell'arresto della crescita. Al contrario, dobbiamo rimanere dentro questi meccanismi di crescita. E dobbiamo rimanerci perché le dinamiche che governano i processi economici non permettono di fermarsi a un certo livello: chi si ferma non mantiene le posizioni acquisite, ma corre il fortissimo rischio di tornare indietro.

Non possiamo dimenticare poi che una quota crescente degli investimenti si concentra su servizi dematerializzati (internet, telefonia, tecnologie satellitari), che sostengono lo sviluppo e hanno un basso impatto ambientale. Io sostengo - insieme a tutto il centrosinistra - che sarà una società basata sulla conoscenza a sottrarci definitivamente al declino. Ritengo anche che il criterio della sostenibilità è l'unico che ci permette di investire in infrastrutture indispensabili e di lavorare per mantenere una parte dell'industria manifatturiera. Senza dimenticare che gli investimenti per la ricerca devono crescere non solo nazionalmente, almeno il 3% del Pil, ma anche e soprattutto nel nostro Piemonte.

Certo quel che conta è cambiare cultura, abbandonando l'equazione mentale che fa coincidere il benessere con l'incremento di beni materiali e consumi.

Io non credo affatto in uno sviluppo a tutti i costi. Credo invece che nel bilancio di ogni opera debbano essere considerati i costi non solo finanziari ed economici, ma anche sociali e ambientali. Al tempo stesso però vanno anche confrontati i risparmi che si conseguono non realizzando un'opera con quelli che l'opera, portata a termine, può garantire.

Non voglio eludere i problemi che poni, a partire all'Alta velocità. Personalmente mi sono battuta perché non si parlasse solo di Alta velocità, ma anche e soprattutto di alta capacità ferroviaria. Mi spiego. I risparmi ambientali che si ricaverebbero da una nuova ferrovia transalpina dedicata al solo traffico di persone sarebbero risibili. Se, al contrario, gli interventi rientrano in un piano destinato a ridurre il traffico su gomma a livello europeo, credo che il rapporto costi-benefici potrebbe essere interessante. Eliminare, o almeno ridurre drasticamente, il traffico dei Tir attraverso la catena alpina sarebbe un fatto grandioso, in grado di produrre effetti positivi sull'ambiente dal Baltico al Mar di Sicilia. Un elemento, questo, che mi pare sia stato enormemente sottovalutato da una parte del movimento ambientalista che pure stimo.

Non sfugge a nessuno poi che l'arretratezza delle nostre infrastrutture è una delle cause più gravi di inquinamento ambientale: un Paese senza metropolitane, con ferrovie inadeguate e con reti telematiche che toccano a malapena le aree metropolitane è condannato, fatalmente, a morire nel traffico e nell'anidride carbonica.

Le alternative sono tre. La prima: condanniamo noi stessi a marcire nell'arretratezza e a morire nell'inquinamento. La seconda, rincorriamo lo sviluppo - Achille e la tartaruga - così come lo abbiamo conosciuto fino agli anni Ottanta. La terza, facciamo del nostro ritardo il punto di battuta per spiccare un salto culturale e tecnologico. Esempio: l'Italia ha rinunciato al nucleare. Bene. Sarebbe sbagliato e antieconomico, oggi, riprendere a discutere di energia atomica nel nostro Paese. Ma il fatto di non averla ci consente di ragionare liberamente su altre opzioni meno disastrose per l'ambiente. Siamo più liberi dei Paesi che hanno investito sul nucleare e che oggi debbono continuare su quella strada per poter assorbire i giganteschi costi di ammortamento.

Possiamo (e per questo dobbiamo) intraprendere con decisione la strada dell'idrogeno, del fotovoltaico, delle energie pulite.

Non possiamo fare a meno delle grandi opere se non altro per il motivo che tutta l'Europa, di cui facciamo parte, ne è dotata. Si è calcolato che il nostro ritardo riguarda interventi per 250mila miliardi di vecchie lire. Io ho la speranza che esistano oggi tecnologie e culture in grado di colmare questo gap a costi ambientali incommensurabilmente più bassi rispetto al passato.

Quanto al Piemonte, la situazione è chiara. La nostra regione fatica a reggere il passo degli altri.

Ci sono zone dove le cose non vanno malissimo (il Piemonte sud) e aree in cui i problemi persistono. Noi abbiamo bisogno di infrastrutture moderne: non a tutti i costi, certo. Pagando solo quel che possiamo permetterci.

E ora vengo ai temi che proponi per il programma del centrosinistra.

La rinuncia al paradigma della crescita continua di consumi e infrastrutture. Qui non si tratta di aggiungere infrastrutture. Si tratta di adeguarle. Quanto ai consumi, possiamo puntare a ridurli, ma con un occhio di riguardo a chi certi standard non riesce a raggiungerli. Possiamo puntare a ridimensionare la produzione di rifiuti, certo, ma per i consumi devi tener conto dei fatti. Ci sono ormai zone di nuova povertà che stanno già sperimentando la riduzione dei consumi, ma controvoglia.

Lo sviluppo non deve essere confuso con la crescita. Posso essere d'accordo con te sugli stili di vita. Se si ha una casa e se si può contare su amici interessanti e buoni libri, il resto viene dopo. Ma non tutti vivono in questa condizione. E poi: la Regione (o lo Stato) hanno il diritto di giudicare lo stile di vita? Ci provò negli anni Settanta, e non senza una certa energia, Enrico Berlinguer, che lanciò lo slogan dell'Austerità. Non ebbe molta fortuna, neppure fra gli intellettuali. Norberto Bobbio osservò che l'austerità si pratica nelle società autoritarie (Sparta), mentre è l'edonismo il corollario delle democrazie (Atene). Forse avevano ragione entrambi. Berlinguer a chiedere uno sviluppo meno dissennato, Bobbio a dire che la riduzione dei consumi, quando i beni sono disponibili liberamente, si verifica solo con interventi autoritari.

Il consumo dei suoli agrari e del paesaggio deve essere fermato. Qui mi trovi perfettamente d'accordo. Nel nostro programma pensiamo alla tutela delle tipologie architettoniche tradizionali. Proponiamo anche di sperimentare un certo tipo di asfalto che avrebbe proprietà simili al materiale fotovoltaico. Come sai il fotovoltaico porta energia pulita, ma "consuma" molto territorio. Se andremo al governo del Piemonte, proveremo a produrre energia non inquinante utilizzando le strade che già esistono, senza occupare altra terra.

Nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto". Siamo perfettamente d'accordo. Sia pure con altre parole, tutto questo è già nel nostro programma. Anche noi, poi, sentiamo l'esigenza di incoraggiare Fiat a proseguire sulla strada dei motori a basso consumo di idrocarburi.

Un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite delle risorse. Siamo d'accordo. Ma qui le istituzioni possono solo aiutare. Tocca prioritariamente alla cultura, alle televisioni (sì), ai giornali, ai partiti, alle chiese trasmettere questi valori. Noi faremo la nostra parte, non dubitare, ma ci vorranno ben altre voci per arrivare alla sensibilità delle persone.

Abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. Di questo abbiamo già parlato: alcune grandi opere sono necessarie, altre no. Come forse saprai io non sono d'accordo con chi vuole fare tutto e di tutto, mentre mi pare essenziale conciliare la tutela del welfare con ferrovie efficienti.

Sono per fare il necessario.

E finisco da dove avevo cominciato. Sono perfettamente consapevole del fatto che non possiamo permetterci certi costi. Ma so anche che se rinunciamo al criterio della sostenibilità ambientale, non restano che due alternative: lo sviluppo selvaggio da un lato e la paralisi dall'altro. Due rischi che non possiamo correre.

Grazie per le belle parole che hai avuto per me e mio marito. Spero di non averti deluso e mi auguro di poterti incontrare presto per continuare a discutere di persona.

Mercedes Bresso

Bel tempo nell'economia mondiale per oggi e per buona parte di domani: crescita forte nel 2005, nessun brusco arresto all' orizzonte. Ma per il dopodomani il campo è diviso tra chi annuncia sereno e chi attende tempesta, tra Pangloss, il personaggio di Voltaire ostinatamente convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e Cassandra, la preveggente figlia di Priamo, secondo cui la quiete sta per diventare tempesta. La disputa che li divide riguarda non solo l'economia, ma anche la politica. Dice Pangloss: il benessere non è mai tanto cresciuto nel mondo quanto nella presente generazione e grazie al mercato si estenderà sempre più a tutti. Le turbolenze recenti (insolvenze finanziarie, Enron, boom e caduta della Borsa, effetto tsunami, caro petrolio) sono state superate più facilmente di quelle precedenti (primo choc petrolifero, crisi del debito latinoamericano). Sì, ci saranno altre turbolenze, ma il mercato ci penserà. Dopotutto io, Pangloss, non dico che il nostro mondo sia magnifico né che sia il migliore in assoluto, ma è il migliore possibile. Abbiate fiducia: le tempeste verranno, ma le sapremo affrontare.

Dice Cassandra: stiamo prolungando una festa che non può durare, e alla cui fine non ci stiamo preparando. L'energia che usiamo (carbone, petrolio, gas) si estingue, dilapidiamo le risorse del pianeta, di cui minacciamo vita e clima. Il mercato di cui ci beiamo è una bestia senza controllo. Stiamo entrando in un nuovo stato di natura dove è privatizzato l'uso stesso della forza, dal terrorista suicida al mercato nero di armi di distruzione di massa. L'economia sembra governare un mondo anarchico, ma finirà per esserne la vittima.

Che cosa dovremmo pensare noi, cittadini comuni? Provo a suggerire alcuni punti, che nascono da una medesima considerazione: prima ancora del mercato e della politica vi è la società, che influenza entrambi, oltre ad esserne influenzata.

Primo punto: ogni lettore può e deve formarsi una propria opinione. Sbaglierebbe a ritenersi in inferiorità rispetto agli specialisti della materia o ai detentori del potere. Questo punto può inquietare chi si attende miracoli da scienziati e governanti; invece, a mio giudizio, dovrebbe rassicurare. Quando non coincide col buonsenso l'economia di solito sbaglia. Viviamo in democrazia e ciascuno contribuisce a scegliere indirizzi e persone di governo. Il pensare che la generalità dei cittadini abbia buonsenso e informazioni sufficienti a compiere scelte ragionevoli è motivo di profonda fiducia per le sorti della nostra libertà e per le prospettive di un buon governo. Gli atteggiamenti diffusi nel corpo sociale si riflettono sul funzionamento del mercato e della politica.

Secondo punto: il «noi» usato sopra è un aggregato di interessi eterogenei. Comprende imprese e famiglie, consumatori e produttori, settori di punta e settori in declino, debitori e creditori. Spesso la fortuna di alcuni è la sfortuna di altri. I pantaloni e i mobili a basso costo offerti dai cinesi e da Ikea mettono in difficoltà il produttore nazionale, ma sono graditissimi al consumatore. L'eterogeneità degli interessi attraversa la singola persona, la singola impresa, il settore, per non dire il Paese. È come se fossimo, nello stesso tempo, dipendenti di Alitalia (oltre 1000 euro per il volo Roma-Londra) e utenti di Ryan Air (meno di 50 per lo stesso viaggio). Tra interessi eterogenei occorre scegliere e i due processi attraverso cui le scelte si compiono nelle nostre società sono il mercato e la democrazia.

Terzo punto: per capire e per decidere bene occorre uno sguardo lungo. Solo questo permette di non arrivare impreparati agli eventi. Le previsioni dell'economista e le decisioni del governo tendono, invece, a non guardare oltre l'orizzonte breve dei modelli o le scadenze delle prossime elezioni. Guardando più lontano, specialisti e politici mettono a repentaglio quanto hanno di più caro, il prestigio scientifico e il potere. Eppure, solo scrutando il paesaggio nebbioso del dopodomani si possono predisporre soluzioni non troppo dolorose alle difficoltà che ci stanno venendo incontro. La recente disputa con la Cina nel tessile e nell'abbigliamento è venuta per aver quasi dimenticato il giungere a scadenza di accordi commerciali liberamente stipulati e noti da tempo.

Quarto punto: il futuro è aperto. Nell'economia, nella politica economica, nelle relazioni umane, più di un futuro può scaturire da uno stesso presente. Nonostante l'importanza del Fato nella cultura greca, perfino Cassandra descrive catastrofi contro le quali, se fosse creduta, potrebbero essere predisposte contromisure. Il suo dramma è che, per punirla, Apollo le ha lasciato il dono della profezia, ma le ha tolto quello della persuasione. A noi Apollo non ha fatto questo cattivo scherzo.

Gli ammonimenti di Cassandra sono fondati. La più ricca società del pianeta (gli Stati Uniti) non potrà per molti anni ancora vivere sul credito di popolazioni e Paesi più poveri. Il mercato globale non può continuare a svilupparsi in modo pacifico e ordinato, se le istituzioni per il suo governo restano insufficienti, prive di potere e di legittimità. Le risorse della Terra (dalle foreste ai giacimenti energetici) non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L'equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se quasi due secoli dopo averlo scoperto continuiamo a ignorare l'effetto serra. Non può rimanere senza conseguenze profonde la disparità di tenore di vita e di condizioni di lavoro tra esseri umani — come gli europei e gli asiatici — con livelli di cultura e di capacità lavorativa quasi uguali.

Settembre è alta stagione per la diplomazia economica internazionale: in ogni parte del mondo sono in corso analisi e consultazioni, che culminano nelle riunioni del Fondo monetario internazionale a Washington. Incontri regionali (l'Unione Europea, i Paesi asiatici), settoriali (finanza, commercio, energia, sviluppo), consultazioni tra Paesi ricchi (il G7) e tra poveri (Africa, America Latina, Paesi in via di sviluppo). Si fa il punto sull'anno che sta per finire e si definisce l'animo con cui guardiamo al futuro.

Vi è motivo di temere che il messaggio degli specialisti e quello dei governanti abbiano lo sguardo più corto e il tono più rassicurante di quanto giustifichi una disincantata osservazione delle tendenze di lungo periodo operanti nell'economia mondiale e nelle nostre società. Spetta innanzi tutto alla riflessione, al buon senso, al desiderio di informarsi e di capire del cittadino comune rendersene conto e trarne conseguenze per il suo modo di guardare al futuro, ai propri comportamenti economici e sociali.

Nello scorso settembre l'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, organizzò un seminario intitolato «Politica e pratiche politiche. All'origine della questione morale», che rilanciava la questione del rapporto fra politica e pratica politica, già messa a tema nei mesi precedenti da alcuni editoriali di Critica marxista. L'ultimo numero della rivista pubblica adesso, precedute da un editoriale di Aldo Tortorella sulla sempre più accentuata separatezza e autoreferenzialità del ceto politico italiano, alcune relazioni a quel seminario, di Giacomo Marramao, Gianni Ferrara, Maria Luisa Boccia, Enrico Melchionda. La prima e la terza in particolare mi sembrano da segnalare per alcuni tratti che le accomunano. Il primo è il legame che stabiliscono fra crisi politica e crisi culturale della sinistra - o meglio, per dirla con Marramao, fra la crisi e la «deculturalizzazione» della politica. Il secondo è la capacità di leggere alcune dinamiche della crisi italiana con le lenti di alcuni classici - da Max Weber a Gramsci a Simone Weil e Hannah Arendt - , sottraendole così alla riduzione a fenomeni di breve periodo o dell'ultim'ora cui tende il chiacchiericcio politologico sulla transizione infinita. Il terzo è il legame fra politica, forme di vita e pratiche politiche che entrambi mettono al centro del discorso, e il rilievo che di conseguenza assumono, in una prospettiva di valutazione storica che abbraccia ormai più di un trentennio, il pensiero-pratica della differenza sessuale e il suo impatto, diretto o indiretto, sulla crisi e le trasformazioni della politica.

Punto di partenza è una diagnosi netta sullo stato di degrado in cui versa nell'Italia di oggi non solo la politica istituzionale, ma anche la vita civile: siamo fuori, e per fortuna, dalla retorica della contrapposizione fra una politica ammalata e una società civile che scoppia di salute. Tuttavia la responsabilità prima è della politica, e in specie, secondo Marramao, di quella tendenza della sinistra post-Pci a deculturalizzare la politica, così screditandola e rendendola una faccenda da ceto separato preoccupato soprattutto della propria autoriproduzione. Max Weber, con le sue due famose conferenze del 1918 sulla politica e la scienza come professione-vocazione, e Gramsci, con le note dei Quaderni sugli intellettuali e sul «moderno Principe», tornano utili da un lato per ripristinare il nesso fra lavoro intellettuale e pratica politica, conoscenza e potenza, azione trasformatrice e general intellect, specialismi e competenza politica. Dall'altro per ricondurre l'origine della «questione morale» italiana a dinamiche di lungo periodo, aggravate dalle ma non riducibili alle nefandezze craxian-berlusconiane: alla perdita di vocazione della professione politica, sì che a destra e a sinistra aumentano, secondo una distinzione weberiana, quelli che vivono di politica rispetto a quelli che vivono per la politica; e al fallimento di quella funzione di riforma intellettuale e morale del «moderno Principe» gramsciano, che doveva consistere nel promuovere l'«accumulazione etica originaria» in altri paesi aiutata dall'imperativo protestante ma mancata nell'ingresso dell'Italia nella modernità. Per ragioni storiche e interne alla sua stessa storia, dunque, la sinistra emersa dalle ceneri del Pci non può chiamarsi fuori dalla crisi della politica, ma ne è parte centrale e cruciale.

L'analisi dell'oggi non può perciò saltare quello snodo cardinale che fu, già negli anni Settanta, la crisi della forma-partito. Lì ritorna infatti Maria Luisa Boccia, anche lei a partire, sulla scia di Gramsci, del frammento hegeliano su politica e destino riletto da Mario Tronti e di Simone Weil, dal nesso fra politica e vita: la forma-partito regge finché realizza quel nesso, crolla quando lo perde o lo costringe in una organizzazione automatizzata e svuotata di passione, giacché, come Gramsci stesso segnalava, la passione politica organizzata deve diventare razionalità, ma la razionalità dev'essere a sua volta continuamente nutrita e «superata» da una passione che la eccede.

Quando questo circolo si spezza, il Pci finisce. Ma non di sole dinamiche interne: potente fattore di crisi è la scommessa femminista «di dare stabilità, continuità, forma all'agire singolare e plurale senza costruire un'organizzazione» e puntando sull'invenzione di nuove pratiche basate sul rapporto fra vita e politica. Fattore di crisi, e apertura di un'altra prospettiva: per Marramao, la «frattura longitudinale» introdotta dal femminismo della differenza è imprescindibile perché «insegnandoci a distinguere fra sfera pubblica e dimensione statuale ci ha indicato le vie di una politica diversa», che passa per quella pluralità di esperienze, pratiche e soggetti neutralizzati dalla logica della politica tradizionale. Anche se, sottolinea Boccia, il rischio del riconoscimento della rivoluzione della differenza è sempre lo stesso, ossia che se ne assumano alcuni contenuti prescindendo dalle sue pratiche. E tornando a separare la parola e la cosa, il discorso e l'esperienza, la politica e la pratica politica.

L'inno dell'Unione europea, eseguito in numerose manifestazioni pubbliche di tipo politico, culturale o sportivo, è di fatto la melodia dell'Inno alla gioia dall'ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, un vero «significante vuoto» che può stare per qualsiasi cosa. In Francia fu elevato da Romain Rolland, umanisticamente, a ode alla fratellanza di tutte le genti («la Marsigliese dell'umanità»); nel 1938 fu eseguito come momento culminante dei Reichmusiktage e in seguito per il compleanno di Hitler; nella Cina della rivoluzione culturale, mentre si bollavano i classici europei, fu rivalutato come parte della lotta di classe progressista, mentre nel Giappone di oggi è diventato un cult in quanto costituito di quello stesso tessuto sociale, per il suo presunto messaggio di «gioia attraverso la sofferenza»; fino agli anni Settanta, vale a dire quando le squadre olimpiche della Germania Ovest e della Germania Est dovevano gareggiare insieme formando un'unica squadra tedesca, l'inno suonato per le loro medaglie d'oro era l'Inno alla gioia e, contemporaneamente, il regime razzista bianco della Rodesia di Ian Smith - che alla fine degli anni Sessanta proclamò l'indipendenza per mantenere l'apartheid, scelse lo stesso motivo come inno nazionale. Persino Abimael Guzman, il leader (ora in carcere) dell'ultra-terrorista Sendero Luminoso, quando gli fu chiesto quale musica gli piacesse, citò il quarto movimento della Nona di Beethoven. Così possiamo facilmente immaginare una scena fantastica in cui tutti i nemici giurati, da Hitler a Stalin, da Bush a Saddam, per un momento dimenticano le loro rivalità e partecipano allo stesso momento magico di estatica fratellanza...

Una marcia turca

Ma prima di liquidare il quarto movimento in quanto «distrutto dall'uso sociale», come ha detto Adorno, osserviamo alcune caratteristiche della sua struttura. A metà del movimento, dopo che abbiamo sentito la melodia principale (il tema della gioia) in tre variazioni orchestrali e tre variazioni vocali, questo primo climax è seguito da qualcosa di inatteso che inquieta i critici da centottant'anni, ossia dalla sua prima esecuzione: alla battuta 331 il tono cambia completamente e, invece di progredire in modo solenne, come in un inno, il tema «della gioia» è ripetuto nello stile della «marcia turca», preso a prestito dalla musica militare per gli strumenti a fiato e a percussione che gli eserciti europei del XVIII secolo avevano adottato dai giannizzeri turchi. Il registro è qui quello di una parata popolare carnevalesca, di una farsa (alcuni critici hanno persino paragonato i suoni dei fagotti e della grancassa che accompagnano l'inizio della marcia turca a peti...). E da questo punto in poi tutto va male, la dignità semplice e solenne della prima parte del movimento non viene più recuperata: dopo la parte «turca» e in chiara contrapposizione con essa, in una specie di fuga nella religiosità più intima, la musica corale (liquidata da alcuni critici come «fossile gregoriano») cerca di rendere l'immagine eterea di milioni di persone che si inginocchiano abbracciate, contemplando timorose il cielo distante e cercando il dio paterno e amorevole che deve risiedere sopra un tetto di stelle («Über'm Sternenzelt/ Muß ein lieber Vater wohnen»). La musica però, per così dire, si inceppa quando la parola «muß», resa dapprima dai bassi, è ripetuta dai tenori e dai contralti, e alla fine dai soprano, come se questa ripetuta evocazione rappresentasse un tentativo disperato di convincere noi (e se stessa) di ciò che sa non essere vero, trasformando il verso «un padre amorevole deve risiedere» in un atto disperato seppure implorante, e attestando così che oltre il tetto di stelle non c'è niente, nessun padre amorevole è lì a proteggerci e a garantire la nostra fratellanza. Ma la cadenza finale è la cosa più strana di tutte: non sembra affatto di Beethoven, ma somiglia piuttosto a una versione più altisonante del finale del «Ratto del serraglio» di Mozart, combinando gli elementi «turchi» con il veloce spettacolo rococò. (E non dimentichiamo la lezione di quest'opera di Mozart: la figura del despota orientale vi è presentata come un vero padrone illuminato). Il finale è dunque uno strano miscuglio di orientalismo e regressione nel classicismo del tardo XVIII secolo, una doppia fuga dal presente storico, una silenziosa ammissione del carattere puramente fantasmatico della gioia della fratellanza che dovrebbe abbracciare tutti. Se mai è esistita una musica che letteralmente «decostruisce se stessa», questa lo è. Nessuna meraviglia se già nel 1826, due anni dopo la prima esecuzione, alcuni critici definirono il finale «una festa dell'odio verso tutto ciò che può essere chiamato gioia dell'uomo».

Qual è, allora, la soluzione? Per spostare l'intera prospettiva e problematizzare la primissima parte del quarto movimento: in realtà le cose non vanno male solo alla battuta 331, con l'inserimento della marcia turca. Vanno male fin dall'inizio. Dobbiamo accettare l'idea che nell'«Inno alla gioia» c'è qualcosa di insipido, di fasullo, sicché il caos che inizia dopo la battuta 331 è una sorta di «ritorno del represso», un sintomo di qualcosa che non andava sin dall'inizio.

Il sintomo del represso

E se avessimo addomesticato l'«Inno alla gioi»a eccessivamente? E se ci fossimo troppo abituati a considerarlo un simbolo di gioiosa fratellanza? Cosa avverrebbe se dovessimo considerarlo daccapo, scartando ciò che è falso?

Non è forse lo stesso, oggi, per l'Europa? Dopo avere invitato milioni di persone, dal più alto al più basso (il verme) ad abbracciarsi, la seconda strofa termina sinistramente: «Ma colui che non può gioire, si trascini via in lacrime» («Und Wer's nie gekonnt, der stehle/ Weinend sich aus diesem Bund»). L'ironia che l'«Inno alla gioia» di Beethoven sia di fatto l'inno europeo sta, naturalmente, nel fatto che la causa principale dell'attuale crisi dell'Unione è proprio la Turchia: secondo la gran parte dei sondaggi, quelli che hanno votato no ai recenti referendum in Francia e in Olanda lo hanno fatto principalmente perché erano contrari all'ingresso della Turchia nell'Ue. Il no può poggiare sul populismo di destra (no alla minaccia turca alla nostra cultura, no alla mano d'opera a basso prezzo dei migranti turchi) oppure sul multiculturalismo liberale (la Turchia non va fatta entrare perché nei confronti dei curdi non si mostra abbastanza rispettosa dei diritti umani). E la posizione opposta, il sì, è tanto falsa quanto la cadenza finale di Beethoven. La Turchia deve dunque essere ammessa nell'Unione, o deve «trascinarsi in lacrime via dall'Unione ( Bund)»? L'Europa può sopravvivere alla «marcia turca»?

E se, come nel finale della Nona di Beethoven, il vero problema non fosse la Turchia, ma la stessa melodia di base, il canto dell'unità europea come viene eseguito dall'élite pragmatica e tecnocratica, post-politica, di Bruxelles? Ciò che ci serve è una melodia totalmente nuova, una nuova definizione di Europa. Il problema della Turchia, la perplessità dell'Unione europea sulla Turchia, non attiene alla Turchia in quanto tale ma alla confusione sulla stessa natura dell'Europa.

Dove ci troviamo, dunque, oggi? L'Europa è in una grande tenaglia, con l'America da una parte e la Cina dall'altra. L'America e la Cina, viste metafisicamente, sono uguali: la stessa disperata frenesia di una tecnologia senza freni e un'organizzazione dell'uomo medio priva di radici. Quando il più remoto angolo del pianeta sarà stato conquistato con la tecnica e sarà sfruttabile economicamente; quando un qualsiasi incidente, ovunque vi piaccia, diventerà accessibile con la massima velocità; quando, attraverso le dirette televisive, potremo «vivere» contemporaneamente una battaglia nel deserto iracheno e un'opera in scena a Pechino; quando in un network digitale globale il tempo non sarà altro che velocità, istantaneità, e simultaneità; quando il vincitore in un reality show televisivo conterà come l'eroe di un popolo; allora sì, su tutto questo putiferio continuerà ad aleggiare come uno spettro la domanda: per che cosa? - per arrivare dove? - E poi?

Chiunque conosca minimamente Heidegger, naturalmente, riconoscerà facilmente in queste righe una parafrasi ironica della diagnosi di Heidegger sulla situazione dell'Europa a partire dalla metà degli anni `30 ( Introduzione alla metafisica). C'è effettivamente bisogno, tra noi europei, di ciò che Heidegger ha chiamato Auseinandersetzung (confronto interpretativo) con il passato, non solo degli altri ma anche della stessa Europa in tutta la sua ampiezza, dalle sue radici antiche e giudaico-cristiane all'idea, recentemente defunta, del welfare state.

Modelli a confronto

Oggi l'Europa è divisa tra il cosiddetto modello anglosassone - accettare la «modernizzazione» (adattamento alle regole del nuovo ordine globale) - e il modello franco-tedesco - salvare il più possibile del welfare state della «vecchia Europa». Sebbene opposte, queste due opzioni sono le due facce della stessa medaglia, e il nostro vero compito non è né tornare a un passato idealizzato - quei modelli sono chiaramente esauriti - né convincere gli europei che, se vogliamo sopravvivere come potenza mondiale, dobbiamo nel più breve tempo possibile adattarci ai recenti trend della globalizzazione. Né il nostro compito è l'opzione forse peggiore, la ricerca di una «sintesi creativa» tra le tradizioni europee della globalizzazione per ottenere quella che si è tentati di chiamare «globalizzazione dal volto europeo».

Ogni crisi è in se stessa un'istigazione a un nuovo inizio; ogni crollo di misure strategiche e pragmatiche a breve termine (per la riorganizzazione finanziaria dell'Unione, ecc.) una benedizione nascosta, un'opportunità di ripensare le stesse fondamenta. Ciò di cui abbiamo bisogno è un recupero attraverso la ripetizione ( Wieder-Holung): attraverso un confronto critico con l'intera tradizione europea, bisognerebbe riproporre la domanda «Cos'è l'Europa?» o, piuttosto, «Cosa significa per noi essere europei?», e così formulare un nuovo inizio.

Il compito è difficile, ci costringe a correre il grosso rischio di affrontare l'ignoto. Tuttavia la sua unica alternativa è una lenta decadenza, la graduale trasformazione dell'Europa in ciò che fu la Grecia per l'impero romano maturo, la meta di un turismo culturale nostalgico senza effettiva rilevanza.

Nelle sue Notes Towards a Definition of Culture («Note per una definizione della cultura»), il grande conservatore T. S. Eliot osservava che ci sono momenti in cui l'unica scelta è quella tra il settarismo e la non fede, quando il solo modo per tenere viva una religione è compiere una scissione settaria dal suo cadavere. Oggi questa è la nostra unica chance: solo per mezzo di una «scissione settaria» dall'eredità europea «standard», tagliandoci via dal cadavere in putrefazione della vecchia Europa, potremo tenere viva la rinnovata eredità europea.

Traduzione di Marina Impallomeni

L'immagine nella presentazione è di P.P.Rubens, Il ratto d'Europa. Quella nel testo è tratta da una cartolina russa di una bennypostcards/ collezione privata

Generale Ricardo Sanchez, assolto. Generale Walter Wojdakowski, assolto. Generale Barbara Fast, assolto. Colonnello Marc Warren, assolto. Generale Geoffrey Miller, assolto. Non sapevano, o non c'è prova che sapessero. Generale Janis Karpinski: ammonita. Per negligenza. Il caso Abu Ghraib è chiuso? Lo Human Rights Watch, osservatorio americano per i diritti umani, giura di no. Per il 28 aprile, primo compleanno di quelle foto di seviziati, seviziatori e seviziatrici che sconvolsero l'opinione pubblica mondiale promette un nuovo dossier che inchioda alle loro responsabilità, oltre a Sanchez e Miller (ex comandante delle forze americane in Iraq il primo, responsabile delle carceri militari irachene, nonché ex comandante di Camp Delta a Guantanamo il secondo), anche il ministro della difesa Ronald Rumsfeld e l'ex direttore della Cia George Tenet. Facciamo il tifo dagli spalti, ma intanto prendiamo atto che, col rapporto consegnato al Congresso sabato, l'esercito americano si autoassolve: malgrado sia l'inchiesta condotta dell'ex ministro della difesa James Schlesinger, sia quella condotta daiu generali Kay, Fay e Jones ipotizzassero per le torture di Abu Ghraib responsabilità dirette e indirette dei vertici della catena di comando. Seymour Hersh, il giornalista e scrittore che per primo denunciò le torture di Abu Ghraib sul New Yorker, non si stupisce: va sempre così quando l'esercito indaga su se stesso. Non ci stupiamo neanche noi dell'esercito americano. Dei lib eraldemocratici italiani, invece, sì. Riprendo in mano un dossier-stampa su Abu Ghraib dello scorso maggio e rileggo alcune difese oltranziste della democrazia americana davanti a quelle foto di prigionieri incappucciati, derisi, trascinati al guinzaglio. L'argomento era il seguente: episodi, sia pur riprovevoli, di tortura capitano in tutte le guerre e a opera di tutti i regimi, tirannici o democratici che siano; la superiorità delle democrazie sulle tirannie non sta nell'assenza dell'errore, ma nella capacità di correggerlo, ovvero nella capacità di punire, esemplarmente, i colpevoli. Ed eccoci accontentati: colpevole il capitano Graner, condannato a 10 anni di galera dalla corte marziale. Colpevole, di negligenza, la direttrice di Abu Ghraib. Innocenti tutti gli alti vertici. Punizione esemplare di una democrazia esemplare? E' questo che stiamo esportando in Iraq, la tolleranza della tortura e la punizione delle mele marce? E' questo il margine di errore previsto nel conto delle «libere elezioni» che certificano che la democrazia è arrivata a Baghdad? I nostri opinion maker democratici, oltranzisti e «terzisti», ci dovrebbero e si dovrebbero una risposta.

E siccome le cattive notizie sono come le ciliegie e non arrivano mai una per volta, eccoci a un altro «errore» che c'è scappato in un altro paese, l'Afghanistan, liberato e democratizzato con la guerra antiterrorista: la lapidazione di Amina Aslam, 29 anni, rea di tradire il marito, da anni assente e economicamente inadempiente, in una regione oltretutto di etnia tagika, dunque nemica dei Taliban. Ma la guerra in Afghanistan non ci era stata presentata come la guerra di liberazionme delle donne dal burka e dalle esecuzioni sommarie? Sì, noi non ci avevamo creduto ma molti democratici italiani, stavolta non solo «terzisti» ma anche squisitamente di sinistra, ci avevano giurato. Anche in Afghanistan ormai si vota, e dovrebbe vigere un nuovo codice di compromesso fra la sharia e il diritto liberale, ma evidentemente non vige: qualcuno ci aveva avvertito, ad esempio Samira Makhmalbaf nei suoi film, che il patriarcato islamico (come del resto quello occidentale) non sta agli ordini dei governi. I nostri opinion maker democratici, oltranzisti e di sinistra, ci dovrebbero e si dovrebbero qualche risposta. E il segretario dei Ds Piero Fassino, ormai convinto che la guerra (qualche volta) è sbagliata ma l'esportazione della democrazia e dei diritti è cosa buona e giusta, si dovrebbe qualche domanda.

La guerra ha esportato in Iraq molti interessi di chi l'ha voluta, certo non la democrazia. La vista degli iracheni che andavano non senza rischio ai seggi ci ha emozionato ma le elezioni sono state tutto fuorché democratiche, per l'esclusione di una parte della popolazione e per l'oscurità in cui sono stati tenuti i candidati e i loro progetti. Saranno poco più che un referendum sulla forza relativa delle opzioni religiose. E come potrebbe essere diversamente, in un paese sotto occupazione e in un tessuto civile sballottato fra una dittatura nazionalista, le lotte etniche, la guerra all'Iran voluta e finanziata dall'occidente, poi le sanzioni crudeli e infine una pretestuosa invasione? Nella massa di popoli e di gente che vorrebbero respiro, pace e un poco di libertà, inconcepibile senza indipendenza, continuano anche a radicarsi una guerriglia di resistenza e a formarsi gruppi estremi, fondamentalisti o semplicemente sbandati in cerca di soldi. Perfino in Italia una guerra, che era stata aspettata e che molti fecero propria, lasciò quando era finita - e in Iraq finita non è - mesi e mesi di disordini, tenuti a malapena a freno da istituzioni e partiti che erano democratici davvero e non compromessi come quello di Allawi. In questo caos, temiamo, si iscrive il sequestro della nostra Giuliana Sgrena, della quale immaginiamo con angoscia le ore in mano di gente che non sappiamo, e forse neppur lei sa, chi sia, la vita appesa a un filo. Del suo rapimento, come di quello di Florence Aubenas, vien da temere che non sia neanche opera di un gruppo terrorista di stampo politico in qualche misura esperto nella custodia degli ostaggi, ma di sbandati che non sembrano neppur sapere che si tratta di due pacifiste, di due giornaliste che si sono battute contro la guerra e appartengono perdipiù a giornali che pesano poco o nulla sui relativi governi. Non è stato molto diverso neanche per le due Simone. E poi, la Francia non essendo in guerra, non si capisce quale contropartita politica potrebbero chiedere i sequestratori di Florence. E per Giuliana? In Italia far tacere la sua voce e il suo stesso sequestro sono per l'Iraq un grave danno, mentre non minacciano il governo che ci ha infilato in questa storia.

Allora? Allora qualcuno pensa che si tratti di una strategia contro le donne sia perché più facili da catturare - ma è facile qualsiasi giornalista non embedded - sia perché sono donne che hanno preso la parola contro la condizione femminile in quei paesi. Questo secondo aspetto implicherebbe però una notevole informazione e non andrebbe da sé in un universo dove prendersela con una donna non è glorioso - lo si fa in casa propria, non per conto terzi. No, il pericolo è che Giuliana si trovi in mano brutali in cerca di soldi; e, a parte che siamo poveri anche se è sicuro che ci faremmo in quattro per trovarli, che sia difficile perfino stabilire un contatto mille volte mediato per una trattativa. L'Iraq è nel caos, mal controllato dalle forze di occupazione e da un governo non certo percepito come baluardo di pace. La fragilità di quel gesto delle folle che andavano ai seggi malgrado il rischio è assieme commovente e terribile.

In questi giorni noi pacifisti siamo stati bombardati dall'accusa: ma chi avrebbe liberato l'Iraq senza questa guerra? Per mio conto rispondo che nessuno ha liberato quel paese. L'ha passato da un dominio all'altro lacerandone nel transito il corpo già finito. Si poteva fare diversamente? Sì, si poteva. Non servendosene quando faceva comodo, non sanzionandolo, ma alimentando politicamente una opposizione pulita sulla quale non hanno puntato né sinistra né destra, né Usa né Europa, soltanto qualche gruppo di volontari le hanno dedicato forza e pensieri. E non parliamo dei mezzi. Il Congresso degli Stati uniti ha detto che la guerra gli era costata fino a qualche settimana fa 152 miliardi di dollari, aggiungiamo i soldi che costa agli inglesi, ai polacchi e anche alla nostra modesta spedizione. Con un decimo di quella spesa si sarebbe alimentato un Iraq che dal saddamismo, già mezzo in frantumi, si sarebbe liberato senza invasioni. La guerra è maledizione e morte e, sotto il profilo di un trapianto di democrazia, peggio che inutile.

Come ebbi a dichiarare mesi fa al Foglio di Giuliano Ferrara, io apprezzo in Stalin uno dei co-fondatori, insieme con Truman, dello Stato di Israele, la cui nascita poté darsi all'Onu grazie a quella intesa. Apprezzo anche in Stalin il fornitore di armi — tramite la Cecoslovacchia — allo Stato di Israele quando Israele fu aggredito nel 1948 dai Regni legati alla Gran Bretagna (Egitto di Faruk e Giordania). Il capovolgimento di quella politica coincise con la aberrante campagna lanciata da Stalin contro Tito e i cosiddetti titoisti nelle neonate repubbliche popolari.

Mi accadde di parlare ampiamente di Stalin su questo giornale in almeno due occasioni: quando il Corriere riprese la prefazione al mio volume Pensare la rivoluzione russa (Teti) e nel febbraio 2003, quando un po' tutti i quotidiani si occuparono del cinquantenario della morte di Stalin. In entrambi i casi la discussione si sviluppò. Ricordo un ottimo intervento di Sergio Romano a proposito della mia prefazione al volumetto ora ricordato.

Santo Mazzarino — uno dei maggiori storici italiani — usava accostare Stalin a Giustiniano (Pericle c'entra poco) per essere stati entrambi grandi costruttori, grandi despoti e grandi intolleranti. Le semplificazioni non sono sempre benefiche ma possono rendere l'idea. La cosa non buona è a mio avviso che spesso si rinunci, tuttora, a parlare di Stalin con lucida mente, come invece si fa ormai per Robespierre o per altri «sanguinari» assertori della «rivoluzione». Si scatta in piedi invece di soppesare il pro e il contro.

Peraltro, se Time proclamò Stalin nel 1944 «uomo dell'anno» una qualche ragione ci ha da essere. Se l'antifascismo europeo gli ha tributato negli anni del pericolo nazifascista schiette parole di apprezzamento e di riconoscimento, ci ha da essere una qualche ragione. Ciò che invece da parte di alcuni si desidera cocciutamente è che si assimili l'opera di Stalin a quella unicamente nefasta e distruttiva di Hitler. Del resto non sarà un caso che il nazismo abbia portato il mondo alla guerra e alla catastrofe e l'Urss no. Alla fine si è dissolta, non ha trascinato gli avversari e il mondo nel baratro.

Stalin ebbe come linea di condotta di tenersi fuori dai conflitti: fino alla cecità di non prestare fede agli avvertimenti che gli giungevano da più parti nel giugno '41.

La gestione del potere in Urss: non potrò in poche righe sintetizzare i risultati che negli scorsi decenni hanno fornito tanti studiosi. Dirò soltanto che, essendo questa discussione sorta a margine di un libro sul cammino e le forme della democrazia in Europa (sia all'Est che all'Ovest mi raccomandò Jacques Le Goff), le questioni sono due: a) quali modelli di «potere popolare» (democrazia appunto) siano scaturiti dalla rivoluzione del 1917; b) quale effettiva prassi sia stata invece instaurata in Urss e nei Paesi satelliti. Parlare del primo punto io credo sia legittimo (basti pensare agli studi di diritto costituzionale intorno alle codificazioni in Urss).

Doveroso è al tempo stesso comparare questi testi e quegli sforzi con le dure lezioni della realtà e con la prassi effettiva. Scrivevo nel mio libro sulla democrazia (p. 301 dell'edizione italiana) che «nell'ultimo tempo del governo di Stalin furono poste le premesse per la rovina del sistema». E infatti quella che era stata, fin dalla rottura con Trockij e la messa fuori legge dell'opposizione interna al Pcus, una guerra civile ininterrotta condotta con ferocia e senza esclusione di colpi, dopo la vittoria del 1945 avrebbe dovuto esaurirsi o attenuarsi. Averne perpetuato gli strumenti fu rovinoso. Su questo concetto di guerra civile riferito all'intera vicenda che va dal 1927 alla vigilia della guerra mondiale mi piace ricordare le pagine di Feuchtwanger (Mosca, 1937), lo scrittore ebreo esule poi in Usa e lì morto.

Quanto detto sin qui ha un solo presupposto: che si discorra di storia. Ma per discorrere bisogna conoscere il senso delle parole. Mi diverte un po' osservare quali fraintendimenti abbia suscitato l'espressione da me adoperata «creare un mito intorno alla Polonia spartita». Qualcuno ha pensato che io dicessi che la Polonia non era stata spartita! Invece in italiano quella frase significa che un fatto (indiscutibile) viene «mitizzato», cioè occupa tutta la scena, diventa il fatto per eccellenza. Laddove esso era uno degli aspetti del patto dell'agosto '39. Gli altri aspetti erano: la volontà di distruggere prima o poi l'Urss ben radicata nella mente di Hitler (come ha documentato Kershaw nei suoi bei libri), nonché la poca volontà anglo-francese di addivenire davvero ad un patto antitedesco insieme con Stalin (lo scrive bene Churchill nel suo Da guerra a guerra). Per non parlare dell'ostilità polacca a far passare truppe sovietiche sul proprio territorio in caso di conflitto con la Germania e per non parlare della compartecipazione polacca, l'anno prima, alla spartizione della Cecoslovacchia.

E facciamo un esempio su un altro versante: Bacque ha documentato nel volume Der geplante Tod (La morte pianificata) l'annientamento da parte Usa di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi. Erano tempi «ferrei» avrebbe detto Tibullo. Mettersi in cattedra a dare i voti e le patenti di democrazia, ora per allora, fa un po' sorridere.

Qui l'articolo di Victor Zaslawsky al quale Canfora replica

È il vero «eretico» della cultura italiana. Dopo la stagione dei Quaderni piacentini, che fondò nel 1962, si è ritirato a vita privata pubblicando pochi libri (che raccolgono i suoi saggi) e avviando nell'85, con Alfonso Berardinelli, una rivista che sin dal titolo, Diario, rivelava intenzioni ben diverse.

Piergiorgio Bellocchio non ama la politica, forse non l'ha mai amata, rifiutando più di un invito a presentarsi come indipendente nelle liste del Pci. «Non ho mai preso la tessera del Pci. Mi allontanavano la sua chiusura culturale, il dogmatismo, la doppiezza dei dirigenti. Ma dal '53 ho pressoché sempre votato Pci, cioè con e per il popolo comunista, i migliori italiani che io abbia conosciuto. Ora rimpiango anche i dirigenti: avevano capacità, senso del dovere, carattere e un'onestà di cui s'è perso il ricordo». Oggi dice: «La politica mi annoia e disgusta. È diventata un mestiere. Coincide perfettamente con gli affari. Le mani sui soldi. Quando non sono affaristi in proprio, i politici sono mediatori e procuratori d'affari. Col tempo che passa rivaluto la vecchia classe togliattiana e quella degasperiana. Anche i socialisti di Nenni e Saragat. E tanto più gli Ernesto Rossi, Calogero, Jemolo… E i loro maestri Croce ed Einaudi». E Berlinguer? «Era un uomo rispettabile, ma aveva una quota di moralismo eccessiva: nello scontro con Craxi un vero politico avrebbe fatto meglio». Torniamo a Togliatti. «Togliatti riuscì a integrare la classe operaia nello Stato, un evento prefigurato dalla Resistenza, sia pure su scala ridotta. Resistenza peraltro rimossa dallo stesso Pci, e addirittura criminalizzata dal potere. Con gli Anni Sessanta c'è stata una rivalutazione dei suoi valori, però su basi spesso equivoche». Per questo Bellocchio non esita a individuare il suo «libro della vita» nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, uscite nel '52: «In una fase di involuzione clerico-fascista, a me che avevo vent'anni apparvero come la scoperta di un'altra Italia». Altra convinzione, non proprio recentissima: «La classe dirigente democristiana, fino a Moro, è sempre stata più a sinistra del suo elettorato. Ha svolto la funzione di frenare e disciplinare una borghesia che aveva il fascismo nel sangue, educarla alla democrazia: merito di uomini come De Gasperi, Dossetti, Vanoni, Fanfani, Moro. Il vecchio democristiano di destra Scalfaro contro Berlusconi ha avuto più intelligenza e coraggio dei postcomunisti. Più del laico ma pavido Ciampi».

Siamo lontani, come si intuisce, dalle ipotesi rivoluzionarie Anni Sessanta: « Quaderni piacentini nasce in coincidenza con la ripresa della lotta alla Fiat. La Fiat era il centro d'Italia e la classe operaia era per definizione la classe rivoluzionaria. Dalla fine dei Sessanta, la ristrutturazione produttiva riduce via via, anche quantitativamente, il peso della classe operaia, viene meno ogni ipotesi rivoluzionaria. Marxisticamente, il '68-69 non è stato un inizio, ma un epicedio». Al '68 seguirono gli anni del terrorismo. L'assassinio di Moro, raccontato dal fratello di Piergiorgio, Marco. Un parere su Buongiorno notte? Eccolo: «C'è troppa indulgenza nei confronti sia di Moro che delle Br, che furono il colpo mortale per la nuova sinistra. Ho preferito L'ora di religione, dove forse Marco è stato invece fin troppo cattivo nei confronti della Chiesa. Mi preoccupa un po' che il film sia piaciuto ai giovani, che non possono sapere cosa ha rappresentato il caso Moro per la storia d'Italia. Mi rendo conto che il mio è un pre-giudizio politico, ma non riesco ad applicare a quella materia ancora bruciante solo un giudizio estetico».

Non ha più voglia di parlare di Quaderni piacentini: troppe interviste, troppe discussioni, per una storia chiusa da tempo. Bisogna insistere un po'. Modelli? «Le riviste di Gobetti e Il Politecnico, letture postume naturalmente. Il Politecnico fu la cosa migliore fatta da Vittorini, non c'era separazione tra politica e cultura. Veniva anche incollato sui muri come un manifesto. A cattiva cultura, cattiva politica, e viceversa. Come dimostrano gli anni che stiamo vivendo, e al contrario gli anni del dopoguerra».

Qualche esempio, oltre al Politecnico? «Basta pensare a Fenoglio, Bassani, Calvino. E il cinema di De Sica, Rossellini, Visconti. E subito appresso, Antonioni, Fellini, Ferreri… E attori come De Filippo, Totò, Magnani, Fabrizi, e ancora Sordi, Tognazzi, Gassman…».

Più che nei Quaderni piacentini, oggi Bellocchio si riconosce in Diario: «L'ho fatto con passione e pieno coinvolgimento. L'abbiamo interrotto nel '93 perché ci siamo trovati di fronte a una situazione ancora peggiore di quella che il nostro pessimismo aveva pronosticato». E le polemiche contro Eco, e ancora contro la neoavanguardia?

«Risponderei come Kent nel Re Lear: non mi piacevano le loro facce. Un fenomeno di autopromozione. Si scagliavano contro Bassani, Cassola, la Morante… La neoavanguardia non ha prodotto un solo libro che fosse meglio del più brutto romanzo di Cassola. I romanzi di Eco? Non esistono. Ma ora basta, le brutte facce sono altre».

Passando agli Anni Settanta, ripensa a Pier Paolo Pasolini: «Ebbe un fiuto, un istinto, un'intelligenza sociologica fuori dal comune. Gli è stato rimproverato il lato nostalgico, ma la nostalgia non è un sentimento negativo in sé. Ascoltando di recente alla radio delle interviste a donne che erano emigrate dal Sud dopo il '45, cacciate dalla fame e dalla disoccupazione, sono rimasto colpito dall'allegria con cui ricordavano l'estrema miseria, ma anche la profonda solidarietà, che andava molto oltre il clan familiare. E poi il lavoro, malpagato ma meglio di niente… La prima lavatrice, che affrancava dalla schiavitù del lavatoio pubblico. Una donna raccontava di aver guardato per la prima volta l'oblò della sua lavatrice, che stava lavorando per lei, con una emozione superiore a quella provata davanti a uno schermo televisivo. I contadini, operai, artigiani, donne di servizio della mia infanzia: un mondo che ormai non esiste più, ma la cui umanità era senz'altro superiore a quella dei loro figli e nipoti più fortunati».

Da Pasolini a Franco Fortini il passo è breve: «Aveva un'attitudine magistrale eccellente. Ho imparato molto da lui, ma me ne sono anche difeso. Mi trovava non abbastanza marxista. Ci restavo male, perché allora il nostro desiderio era di essere veri marxisti (critici certo, ma marxisti), in realtà era la mia fortuna. Fortini vedeva bene il mio lato borghese e anarchico. Dei miei racconti usciti nel '66, che aveva apprezzato e quasi tenuto a battesimo (il titolo I piacevoli servi è suo), una volta gli scappò di dirmi: quanto sono anticomunisti! Ma non era una censura. Invece sull'intervento politico era severo».

Bellocchio ha omesso da tempo di seguire la narrativa. «Mi sono fermato a Volponi. Un'opera magmatica, difficile da ridurre a uno schema ideologico, anche se la passione politica è sempre presente. In Volponi c'è il comunismo e l'amore per l'industria. È un olivettiano che ha recepito le cose buone del progettare e del costruire: pensava che il Pci fosse il gestore ideale, l'erede della migliore borghesia. Poi ingenuamente si lasciò prendere dall'illusione di Rifondazione: non c'era ancora l'infausto Bertinotti; il festaiolo a tutta birra, l'avventurista cui la destra dovrebbe fare un monumento…». Volponi e poi? «Leggo e rileggo i vecchi. Carlo Levi, per esempio. Nuto Revelli, che ha svolto un lavoro straordinario. Di recente mi ha impressionato De Profundis di Salvatore Satta. Leggo con interesse e passione gli epistolari, le memorie, le testimonianze. Credo sempre meno nella cosiddetta creatività. Preferisco gli esecutori. Nel Tempo ritrovato Proust si definisce "un traduttore". Oggi i creativi e gli stilisti sono i pubblicitari, i sarti, i cuochi».

L'Italia al tempo di Berlusconi è l'Italia tartufesca descritta da Garboli? «Garboli ha colto come pochi l'italico costume. Il guaio non è tanto Berlusconi, il vero guaio è l'Italia che ha amato Berlusconi con l'idea che avrebbe fatto tutti ricchi come lui. Invece è successo che Berlusconi è diventato sempre più ricco e il Paese sempre più povero. Anche materialmente, ma soprattutto sul piano civile, culturale, politico. Berlusconi se ne frega nel modo più totale, non ha princìpi né progetti. Dice: volete la devolution? Ve la do. Volete la scuola privata? Ve la do. In questa situazione sciagurata ho dovuto rivalutare persone che solo vent'anni fa potevo definire poco meno che fascisti». Qualche esempio? «Il vecchio Montanelli, dopo aver passato la vita a raccomandare di "turarsi il naso" ma votare Dc, quando arriva Berlusconi decide che è troppo. Conservatori anticomunisti come Giovanni Sartori o Sergio Romano, capaci di indipendenza intellettuale. È paradossale, ma voterei per loro più volentieri che per quasi tutti gli uomini di centrosinistra. Kraus aveva sparato a zero contro i liberal-democratici-progressisti, poi arriva Hitler e dice: mi mancano le parole… Forse anch'io ho speso troppa indignazione a suo tempo e oggi mi trovo in bolletta».

"Submission" e i vili europei

Da la Repubblica del 22 aprile 2005

Sarà anche vero che il Parlamento europeo «è un´istituzione particolarmente prudente e formale», come spiega l´europarlamentare Michele Santoro. Ma è altrettanto vero che la decisione di vietare la proiezione del film Submission nella sala stampa dell´Europarlamento, per "ragioni di sicurezza", espone l´Europa politica, tutta intera, al sospetto, ahimè fondato, di viltà culturale. È vero che la proiezione era stata organizzata dal gruppo leghista, il cui dichiarato spirito di agitazione antislamica non lascia dubbi sulla strumentalità dell´atto. Ma è altrettanto vero, tristemente vero, che il cortometraggio olandese, a qualche mese dall´assassinio del suo regista, è stato abbandonato al suo violento oscuramento da istituzioni culturali e politiche dell´intera Europa democratica. Parafrasando amaramente uno storico slogan, si potrebbe dire che la Lega si è limitata a raccogliere, a suo modo e per i propri scopi, una bandiera che altri avevano gettato nel fango: quella della libertà d´espressione, uno dei sacri principi della democrazia. Ed è ancora leghista la prossima, annunciata proiezione del film, domani, nella non neutra Treviso, amministrata da una giunta xenofoba. E nuovamente una decisiva battaglia di libertà, fin qui disertata dai molti che ne avrebbero la doverosa titolarità, diventerà ringhiosa e generica ostilità contro il mondo musulmano.

Submission non è un film come gli altri. Come è noto il suo autore, il regista olandese Theo Van Gogh, è stato ucciso a coltellate da un fanatico islamico per avere osato girarlo: un altro caso Rushdie, semmai aggravato dall´esito orribilmente infausto. La sua sceneggiatrice, la coraggiosa somala Ayaan Hirsi Ali, rischia uguale sorte. Il suo produttore olandese, terrorizzato dalle minacce di morte, nega a tutti la proiezione del film, aggrappandosi malinconicamente a questioni di copyright.

Come scrive Adriano Sofri nella prefazione di "Non sottomessa" (Einaudi), il libro della stessa Ali sulla segregazione delle donne nella società islamica, "è in corso una guerra mondiale, ancora sparpagliata, per il controllo e la riconquista delle donne, e il corpo delle donne è il campo di battaglia". Esattamente di questo tratta Submission, in 12 minuti di dolente riflessione sull´espiazione e la prostrazione femminile sotto il giogo dei tabù religiosi, e dell´eterna potenza tribale-patriarcale del dominio maschile.

È blasfemo, Submission? Lo è tanto quanto lo furono, agli occhi dell´integrismo cristiano, "Ti saluto, Maria" di Godard, o addirittura "La dolce vita di Fellini", accusato a suo tempo di immoralismo e blasfemia perché osava parlare di suicidio. Eppure (e ovviamente) vennero proiettati, visti e giudicati dal pubblico, sulla base dell´irresistibile corso della libera espressione artistica che è, nelle nostre democrazie, importante come il pane. Vero: l´integrismo musulmano non sembra limitarsi a protestare. Minaccia di uccidere e uccide. Terrorizza. Ma allora la domanda è, e non può che essere: basta un rischio infinitamente più grave, un ricatto così odioso ed esiziale, a giustificare il penoso arretramento del coraggio democratico? O non è piuttosto proprio la gravità della sfida, l´intollerabilità di un bavaglio imposto a fil di coltello, a suggerire di rialzare la testa, di organizzare una risposta politica e culturale all´altezza? Oppure quanto più violenta è la reazione dell´oscurantismo, quanto più flebile e impaurita dev´essere la risposta?

Se gli europei pacifici e aperti confondono la remissività (specie su principi non sindacabili come la libertà) con la tolleranza, la debolezza con il dialogo, diventa poi ridicolo lamentarsi quando nel campo abbandonato della lotta civile trovano ampio spazio le pattuglie xenofobe e i radicalismi "neocristiani".

Specie in questi giorni, di totale predominanza mediatica e culturale del mondo cattolico, molti laici lamentano la sgualcita e dispersa potenza del loro pensiero e dei loro ideali, e in larga parte si improvvisano vaticanisti senza averne la scienza, come per rianimare la loro silenziosa minorità intellettuale, e ricollocarla in qualche maniera laddove il dibattito è vivo, e attivo. Ma come diavolo si può partecipare a quel dibattito (e a qualunque altro) se si trascurano del tutto le più elementari incombenze del proprio campo? Forse che non esistono più «umili lavoratori della vigna della libertà», disposti anche a rischiare qualcosa pur di battersi per la dignità e la sicurezza dei cittadini europei? Che sia questo il famoso "relativismo etico", questo posporre i principi alla convenienza, l´orgoglio della libertà alla paura, la difesa dell´integrità fisica e intellettuale delle persone a un malinteso (molto malinteso) "dialogo con l´Islam"? Ma allora, scusate, rischia di avere ragione la Fallaci quando inveisce contro l´Occidente "senza palle". E rischia di avere ragione il parlamentare leghista Stiffoni (Treviso, Italia) quando annuncia di voler proiettare Submission senza se e senza ma.

Il sonno della ragione genera mostri, appunto. O l´opposizione al fanatismo islamico (e, in parallelo, il dialogo con il grande resto dell´Islam) viene fatta da posizioni di forza, cioè nel nome del diritto, della democrazia e della libertà, oppure genererà un fanatismo uguale e contrario. A meno di voler credere, e sarebbe la peggiore delle ipotesi, che l´argomento stesso di Submission (la liberazione e la dignità del corpo femminile) sia ancora, perfino per gli illuministi rinati dell´Europa moderna, un dettaglio così trascurabile da non meritare urti indesiderati con il già minaccioso estremismo musulmano

Rivolto alla sinistra italiana e a tutti coloro che, in Italia e in Europa (e anche negli Stati Uniti d´America), hanno gioito e giudicato come un evento positivo l´affluenza alle urne del popolo iracheno il 30 gennaio: «Adesso vi dichiarate contenti, ma dove eravate voi nei mesi scorsi mentre i soldati della coalizione combattevano e morivano per la libertà e la democrazia? Ve lo dico io dove eravate. Eravate nelle piazze ad insultarci, a sostenere che avevamo sbagliato tutto, che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette. Perciò prima di gioire dovreste battervi il petto, assumervi la responsabilità di quanto sostenevate fino a ieri, confermare che avete perso ogni credibilità». Parole di Silvio Berlusconi, parole di tutti i neo-conservatori americani, parole che lo stesso George Bush fa trasparire sotto il mantello della diplomazia con la quale ora persegue l´obiettivo di recuperare quanti, in Usa e in Europa, si sono opposti alla guerra irachena e hanno fatto di tutto per impedirla e per intralciarne il decorso.

Il tono di quelle parole è forse troppo apodittico e rischia di incancrenire un dissenso di massa tra le due sponde dell´Atlantico, anche se il linguaggio delle Cancellerie è molto più cauto e felpato. Rischia di consolidare quell´antipatia tra l´America e il resto del mondo che è il dato più nuovo e più netto emerso dall´inverno del 2003, dopo che il resto del mondo si era stretto senza riserve attorno al popolo e al governo americano colpiti al cuore dall´attentato dell´11 settembre.

Ma non c´è dubbio che quelle parole pongono una domanda pertinente, sollevano un problema reale e non eludibile nella coscienza di quanti hanno accolto con sincero sollievo le elezioni irachene dopo aver avversato la guerra voluta da Bush. Se il 30 gennaio scorso gli iracheni hanno potuto esercitare il loro diritto democratico di eleggere un´assemblea costituente e un governo legittimato, non si deve questo risultato alla guerra contro il tiranno Saddam Hussein? Non è evidente come la luce del sole che esiste tra quei due fatti un rapporto di causa ed effetto che nessuna persona di buonafede può negare? E allora? Non debbono, gli oppositori di quella guerra, trarne oggi le conseguenze e riconoscere finalmente il loro errore ed insieme a esso i meriti conquistati sul campo da Bush e dai suoi alleati?

Se questa discussione mirasse soltanto ad accertare da che parte stia l´errore e come debba spartirsi il torto e la ragione, essa sarebbe del tutto vacua. In politica non esistono verità oggettive da accertare, ma opzioni determinate da interessi, convinzioni, intuizioni; in politica come in amore non si può dire «mai». Gli storici, a debita distanza di tempo dai fatti accaduti, spiegano le cause che determinarono certe scelte e gli effetti che ne derivarono.

Tracciano un «trend», un percorso. Ma anche il loro lavoro di scavo è provvisorio, sempre rivedibile e revisionabile, sempre soggetto alle soggettive interpretazioni.

Ma qui il caso è diverso. La discussione infatti influisce direttamente sull´immediato futuro. Qui e ora, visto che proprio qui e ora la superpotenza americana per bocca del suo Capo ha rilanciato la posta. La posta non è soltanto quella d´aver deposto il crudele tiranno dalle mani sporche di sangue e neppure, soltanto, quella d´aver inferto un colpo al terrorismo e al fanatismo islamista, ammesso che le elezioni irachene abbiano di per sé realizzato questi due obiettivi, ma purtroppo non sembra affatto che sia così: e lo dimostra il proseguire degli attentati e dei sequestri, come quello di Giuliana Sgrena, l´inviata del "Manifesto" che ci auguriamo venga subito rilasciata.

L´America di Bush ha ora bandito una vera e propria crociata: portare libertà e democrazia in tutto il pianeta, sia pure in forme consone a ciascun paese e cultura; rendere la vita difficile e infine abbattere tutti i tiranni, ovunque si annidino; restaurare i diritti civili ovunque siano conculcati, issando la bandiera del Dio degli eserciti che è sicuramente con il Bene ed è alla testa di chi combatte contro il Male.

Questa è la posta. Chi potrebbe mostrarsi indifferente? Chi potrebbe evitare di schierarsi con il Bene contro il Male, con la libertà contro la schiavitù, con la sicurezza e i diritti contro il terrorismo e la tirannide?

* * *

Non è certo un avvenire di quiete e di pace quello prefigurato da una crociata di questa natura e con questi obiettivi, ma piuttosto è un futuro di tensioni e di guerra.

La guerra sarà molto lunga, disse Bush dopo l´11 settembre e continua a ripeterlo a ogni occasione. Dopo le elezioni irachene lo ha ribadito arricchendone gli obiettivi, quasi prevedendola permanente e assumendone l´«imperium». Qualche osservatore ci vede un nesso con Teodoro Roosevelt, ma il modello non è quello. Bisogna risalire alla Roma di Cesare, salvo che la vocazione imperiale a quell´epoca non mistificò la conquista del potere con paludamenti ideologici. Ma Bush guida la più grande democrazia del mondo e non può averla con sé senza assegnare alla sua crociata un contenuto morale del quale è certamente e profondamente convinto.

Ecco perché questa discussione non è eludibile. Posto che la diffusione della libertà non può non essere un fine comune a tutti coloro che si riconoscono nei valori dell´Occidente, si tratta infatti di capire se l´esempio iracheno sia quello valido e reiterabile oppure sia stato un errore da non commettere mai più.

Capite bene che, posta così come deve esser posta, la questione non è oziosa, non è materia riservata agli storici, ma è attualissima, concreta, politica e tutti ci coinvolge sulle due sponde dell´Atlantico ma anche oltre, oltre l´Occidente. Ci vedi l´Africa e le sue miserie; ci vedi in lontananza l´ombra lunga della Cina, le contrastate pianure dell´Asia Centrale, la risorgente autocrazia del nuovo zar delle Russie.

Seguirete ancora il modello iracheno? Coltiverete ancora lo slogan della buona guerra attraverso la quale si costruisce la pace e si esporta la libertà? Invertiamo le domande.

* * *

Nell´inverno del 2003, quando questa discussione è cominciata e ha diviso l´Occidente, l´Armata americana aveva già cominciato a schierarsi. Nel marzo di quell´anno c´erano già 60 mila marines e truppe speciali nelle basi saudite e negli Emirati. Già incrociava nelle acque del Golfo la flotta aeronavale più potente del mondo.

L´esercito turco era sul piede di guerra. Blair faceva preparare i contingenti delle «Royal Forces».

L´Iraq era circondato da un anello di ferro pronto a trasformarsi in un anello di fuoco. Gli ispettori dell´Onu (e della Cia) percorrevano il paese alla ricerche delle armi di distruzione di massa. Saddam (che quelle armi non le aveva più dal 1991 come ormai è unanimemente ammesso e come a Washington e a Londra in realtà sapevano da tempo) assisteva annichilito a quei preparativi. Sapeva che il suo esercito non avrebbe resistito più d´una settimana. Sapeva anche di non poter fidarsi di nessuno e meno che mai delle sue scalcinate truppe di élite.

Ma come tutti i dittatori innamorati della propria supposta abilità, pensava d´esser capace di arrivare fino all´ultimo minuto e poi cedere per evitare lo scontro. Cedere pur di mantenersi al potere sotto la protezione addirittura di chi in quel momento lo stava minacciando.

Si poteva realisticamente arrivare a quel risultato? Ottenere una sorta di protettorato affidato all´Onu a ridosso dell´anello militare Usa già dispiegato sul terreno? Ottenere la concessione, graduale ma effettiva, di alcuni diritti civili per il popolo iracheno? Sostenere la presenza in campo dell´Onu con un adeguato contingente di caschi blu? Il cardinale Etchegarray, inviato dal papa a Bagdad, dichiarò che quell´obiettivo non era impossibile. Il ministro degli Esteri di Saddam, Tareq Aziz, fece capire con caute perifrasi la stessa cosa. Francia, Germania, Russia, premevano perché si perseguisse quell´obiettivo.

La verità è che non era l´obiettivo di Bush perché Bush voleva far sentire la voce del cannone e l´Iraq era in agenda da almeno tre anni.

Era in agenda ben prima dell´11 settembre. Ne fanno fede i documenti e il racconto circostanziato fatto dal ministro del Tesoro americano, O´Neill che si dimise dalla carica proprio perché, partecipando alle sedute del gabinetto ristretto insieme al segretario di Stato, al segretario alla Difesa, al Comandante in capo delle Forze armate, al Capo della Cia, a Condy Rice, ovviamente presieduto da Bush, aveva assistito con stupefazione alla discussione sull´invasione dell´Iraq e ai piani strategici relativi e «top secret».

La motivazione furono le armi di distruzione di massa.

L´urgenza fu invocata perché Saddam, secondo informazioni assolutamente certe, aveva il dito sul grilletto. E anche per imperative ragioni meteorologiche: l´invasione doveva partire alla fine di maggio o al più tardi nella prima metà di giugno; era l´ultima finestra meteorologica perché «non si può fare una guerra nel deserto a sessanta gradi di calore».

In realtà non era vero niente. Le armi di distruzione non c´erano e la U.S. Army è rimasta per due estati di seguito a combattere prima la guerra e poi il dopoguerra.

* * *

Tutto vero, dicono i pochi intellettualmente onesti che ci propongono quella domanda. Ma resta il fatto che la nascita di un sia pur incompleto segnale di libertà e di democrazia deriva da quella guerra, piena di errori ma foriera di un risultato prezioso. Ci sarebbero state le elezioni irachene del 30 giugno senza la guerra voluta da Bush? Rispondete.

Rispondo. Probabilmente non ci sarebbero state il 30 gennaio 2005. Per condurre Saddam al guinzaglio fino a sancire il diritto di voto sotto gli occhi dell´Onu e con l´Armata Usa ai confini, ci sarebbero voluti due o tre anni di più. Più tempo.

Sull´altro piatto della bilancia ci sono i morti in combattimento, americani, inglesi, anche italiani. È stato calcolato che potrebbero essere stati centomila i morti tra la popolazione civile irachena, il 40 per cento donne e bambini. Dovuti in parte ai terroristi e a quelli che la stampa Usa chiama «insurgent» (non solo il giudice Forleo, ma tutta la stampa americana); e in parte al «fuoco amico» degli aerei e degli elicotteri Usa. Centomila morti (e un assai maggior numero di feriti e mutilati) non sono pochi, specie se concentrati in una zona specifica del paese.

Ma c´è dell´altro. C´è che in Iraq ha fatto il suo nido il terrorismo che prima non c´era e che sarà difficile da sradicare. C´è che il costo della dissennata operazione ammonta già a 250 miliardi di dollari, che non basteranno.

Si poteva evitare? Sì, si poteva evitare. Negoziando, negoziando negoziando. A ridosso della Grande Armata.

* * *

Del resto è proprio Condoleezza Rice a confermare questa nostra tesi. Il neo segretario di Stato conferma che il prossimo obiettivo in agenda è l´Iran. Ma a chi le chiede: un´altra guerra? risponde: assolutamente no, negozieremo. Gli europei ci diano una mano nel negoziato. L´opzione militare non è prevista, salvo che Teheran non varchi la soglia della bomba nucleare.

Questa è oggi la posizione di Washington. Il cannone non è in agenda, ha detto Condy a Schröder, a Chirac e perfino a Blair che del cannone comincia ad averne abbastanza.

Perciò la risposta a quella domanda è chiara e netta: c´era un altro modo per realizzare l´obiettivo comune di diffondere libertà e democrazia. Lo stesso che Washington afferma oggi di voler praticare.

Ma nel frattempo ha ricoperto un paese di rovine e di cadaveri. Si dice: di questo Bush risponderà alla storia e ai posteri. Il giudizio dei posteri interessa solo i posteri. Chi vive oggi se ne infischia di quel giudizio.

Certo, per chi ci crede, ci sarà il Giudizio Universale. Ma se uno è convinto d´avere Dio al suo fianco, pardon, di marciare al fianco di Dio, quel Giudizio Universale è già stato formulato. Perciò Bush starà probabilmente tra i Beati. Berlusconi, lui, ne è già sicuro.

Postilla. Due punti non mi convincono in questo articoli. 1. Siamo certi che il fatto che a Bagdad e in alcune altre città si sia votato significa aver portato la democrazia in Iraq? e quale democrazia" 2. Oltre ai morti innocenti e alle distruzioni bisogna mettere un altro gravissimo danno arrecato dalla guerra di Bush e dei suoi servi all'umanità: l'abisso d'odio scavato tra l'Occidente e il resto del mondo (es)

L’accentramento amministrativo italiano è carattere genetico radicato nell’happening da cui nasce il Regno. Era una partita d’intelligenza: Cavour persuade Napoleone III all’intervento se l’Austria assalisse il Piemonte; Vienna manda l’ultimatum, confermando detti proverbiali; «sot comme un diplomat autrichien». Guerra fulminea: l’alleato desiste dopo Solferino (il patto era: un regno dell’Italia settentrionale fino all’Adriatico; Nizza e Savoia alla Francia); Franz-Joseph cede la Lombardia al confratello parvenu, che la passa a Vittorio Emanuele II. Muoiono suicidi due ducati e un granducato, Parma, Modena, Toscana. Implodono le Due Sicilie: Sua Maestà sabauda va a pigliarsele, consegnate da Garibaldi; en passant, occupa Marche e Umbria papaline. Plebisciti a suffragio universale maschile decidono l’annessione tout court al Piemonte (un re investito dalla plebe, esclama inorridito l’intellettuale reazionario Claudio Cantelmo nelle Vergini delle rocce). I ministri dell’Interno Farini e Minghetti contemplano un ipotetico decentramento burocratico, regioni senza autonomia normativa, ma i decreti del novembre 1861 estendono l’ordinamento piemontese agli ex Stati: urgeva chiudere la partita davanti all’Europa; e nella scelta pesa l’esperienza d’un ingovernabile meridione (briganti, consorterie pericolose, retour de flamme borbonico).

Carlo Cattaneo, milanese (15 giugno 1801-5 febbraio 1869), aborre l’archetipo subalpino: sogna gli Stati Uniti d’Italia e che vendano il Piemonte alla Francia separandosene con una muraglia cinese; ma supponendolo redivivo, non riesco a immaginarlo entusiasta; dista troppo, umanamente, dagli operai della devolution padana. Vediamoli. In territori già democristiani dallo sfacelo partitocratico affiora la Lega, creatura d’un demagogo fiutatore del vento: l’unica costante è una violenta retorica dialettale contro insegne e poteri dello Stato; presta man forte alla corrida giustizialista; convola nell’effimero primo gabinetto B. e l’affonda; coltiva riti fluviali, folklore pseudoceltico, messinscene separatiste, finché trova un’identità, come Mussolini 1920 quando converte i fasci in partito dell’ordine, fornendo squadre e spedizioni punitive agli agrari; la Lega diventa braccio pretoriano dell’impero d’Arcore, congenitamente anti-italiana, xenofoba, razzista, turpìloqua, insofferente delle regole, né nascondeva il fine, dissestare l’apparato statale.

L’assecondano pulsioni masochiste ex adverso. Come se non bastasse la commedia bicamerale, in quel funereo epilogo della XIII legislatura i sicuri perdenti propongono alla Cdl tre materie su cui votare d’accordo: conflitto d’interessi (viene da ridere), meccanismi elettorali, federalismo; i futuri vincitori ridono; e la coalizione moribonda vara un nuovo titolo V della Carta (Regioni, Province, Comuni), illudendosi d’adescare voti nordisti (la Lega «costola della sinistra»). Così lavorano gli apprendisti stregoni. Non essendo votato dai due terzi delle Camere, tale capolavoro richiede un referendum confermativo: ormai governa la Cdl; domenica 7 ottobre 3,4 elettori su 10 vanno alle urne; il 64 per cento della sparuta minoranza diligente risponde sì; nasce un gratuito federalismo italiano. Era scritto con i piedi: l’art. 117 enumera le materie su cui lo Stato può legiferare, chiamando «concorrenti» le altre: ma il participio va inteso nel senso contrario; Stato e Regione non concorrono affatto; una frase riserva «la potestà legislativa alle Regioni», salvi i «princìpi generali»; formula nebulosa su cui «bianco» e «nero» sono egualmente asseribili, infatti la Consulta è oberata d’un largo contenzioso. L’unico che vi guadagni davanti al suo pubblico è il condottiero padano, ora ministro delle Riforme. Naturale che voglia qualcosa in più e l’ottiene dagli alleati riluttanti (i postfascisti coltivavano una fiera retorica unitaria). Probabilmente l’exploit rimane sterile perché gli elettori chiamati al referendum non lo confermeranno, ma qualunque sia l’esito, un effetto negativo pare acquisito. Gl’italiani hanno visto quanto sia facile scardinare le «norme fondamentali», come le chiama Hans Kelsen, definitore classico dei dinamismi costituzionali: le Carte fissano scelte condivise dai costituenti; nell’epoca berlusconiana le Grundnormen sono materia banale, manipolabile da qualunque maggioranza, come le tariffe d’una gabella.

Torniamo a Cattaneo, ignorato pour cause nel tripudio devoluzionistico: cultura enciclopedica, testa fredda, un positivista educato da Giandomenico Romagnosi, contro fondamentalismi, dogmatiche, fumisterie metafisiche, pose istrionesche; con onesta ferocia confuta lo spiritualismo rosminiano; non esercita l’avvocatura né frequenta i politicanti; studia, osserva, scrive, sordo alle passioni patriottiche; nella mistica mazziniana sospetta un Ego gonfio. I moderati lo odiano. Cosa direbbe della devolution padana? Che un conto è il federalismo originario, organico, altro l’artificiale, prodotto dalla decomposizione voluta dello Stato unitario. Strenuo studioso dei fatti, solleverebbe questioni capitali: costi della riforma; razionalità ed economia del sistema futuro; quanto valga la fauna politica pullulante intorno ai nuovi organismi (nelle dispute 1860-61 Giuseppe La Farina combatte le regioni perché teme una reviviscenza delle vecchie cloache governative napoletano-palermitane); possibili perversioni. Ad esempio, la Regione diventa monopolista della scuola. E se legislatori rudi stabiliscono una ratio studiorum sulla loro misura etico-intellettuale?: dialetto, sei ore; folklore locale, altrettante; le rimanenti dodici da spartire tra italiano basic, rudimenti d’"umanità", matematica, scienze, filosofia degli affari, oratoria da tribuna, arti rampanti. Ci vuol poco a imbarbarirsi. Se le previsioni sono attendibili, lo scempio leghista resterà sulla carta, mancando la conferma referendaria, ma il virus circolava già, iniettato dagli autori della l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3. I peccati contro l’intelligenza non risultano mai innocui, tanto meno quando fossero ciniche furberie.

T he rules of the game are changing, «le regole del gioco stanno cambiando», annuncia solennemente Tony Blair presentando le sue misure antiterrorismo a un paese in cui «per ovvie ragioni il mood è diverso» da quando, anche dopo l'11 settembre, qualunque stretta emergenzialista del diritto incontrava una fiera opposizione in parlamento o nei tribunali. Il mood , il clima psicologico, adesso è di paura; «le circostanze della nostra sicurezza nazionale sono evidentemente cambiate». Tanto cambiate da legittimare, come fa il premier, strappi nello Human Rights Act inglese e deroghe nella Convenzione europea dei diritti umani? Le regole del gioco sono davvero cambiate, se la deroga alle Carte fondamentali diventa la norma nell'era della guerra al terrorismo. Espulsioni rapide e negazione del diritto d'asilo per gli stranieri che predichino, incoraggino, promuovano, condonino o approvino odio e violenza. Probabile messa al bando di gruppi islamisti radicali come Hizb Ut Tahrir. Sottrazione della cittadinanza a chi agisce contro gli interessi della Gran Bretagna, e procedure più restrittive (compreso un esame sulla conoscenza dell'inglese) per ottenerla. Schedatura di siti, librerie, centri e network «estremisti». Modifiche nella procedura penale con estensione della detenzione preventiva per i sospetti terroristi o filoterroristi. Restrizioni nella mobilità e nella comunicazione per gli stessi cittadini britannici sospetti a loro volta di favoreggiamento o continguità. Ce n'è abbastanza, nell'elenco recitato da Blair (che il parlamento dovrà vagliare e completare da qui all'autunno), per incrinare i fondamenti non solo della tolleranza e della società multiculturale, ma della stessa cittadinanza democratica, di alcuni capisaldi della civiltà dei diritti (primi fra tutti la libertà di espressione e la non contemplabilità dei reati d'opinione), di alcuni fondamenti dell'ordine giuridico internazionale che ha retto le sorti del mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale (primo fra tutti l'uguaglianza nella titolarità dei diritti fondamentali senza distinzione di razza, lingua, religione etc.). Sul comune fronte occidentale, l'europea Gran Bretagna si allinea agli Stati uniti di Bush nella perversa strategia che consiste nel difendere le democrazie violandone le basi giuridiche; e poco consola che questo accada paradossalmente in coincidenza con il parziale svuotamento del campo di Guantanamo e con la resa del Pentagono ai doveri di informazione sui caduti in guerra che gli impone il Freedom of Information Act.

Di fronte alla scoperta, dopo il 7 luglio, che il terrorismo non viene dall'altro mondo ma dall'interno delle metropoli occidentali, l'annunciato passaggio dalla Gwot alla Save (ovvero dalla strategia della guerra globale al terrorismo a quella contro il reclutamento violento interno) rischia solo di riprodurre e amplificare all'interno delle democrazie occidentali gli strappi del diritto e la gerarchizzazione dell'umano operati dalla guerra preventiva. Ma anche la palla del pensiero rimbalza all'interno delle democrazie occidentali. Se l'universalismo non regge alla prova della globalizzazione e dei suoi nuovi conflitti; se la cittadinanza non regge alla prova della differenza culturale o religiosa impugnata come un'arma di distruzione totale, qualcosa di cruciale s'è rotto nell'impalcatura che l'occidente ha tentato di dare alla convivenza umana. Contrastare queste tragiche, tragicissime contraddizioni rianimando poteri e barriere della sovranità nazionale con la terapia dello stato d'eccezione non porterà molto lontano.

Giovanni Paolo II muore in pubblico e sigla con l'ostensione della sua agonia un pontificato che della dimensione pubblica ha fatto la sua cifra e la sua forza politica. Non serve a niente esercitarsi in giudizi moralisti e sul numero di telecamere che hanno invaso in queste ore piazza San Pietro, o sull'uso che il Papa ha fatto dei media e che i media hanno fatto del Papa. Non è questione di strumentalità, e non è questione di privacy - quella dell'attore e quella degli spettatori - violata dall'«eccesso» sopra le righe di un Parkinson esibito e di un'agonia in diretta. Wojtyla è stato anche in questo, prima di tutto in questo, interprete del suo e del nostro tempo storico che ha nella visibilità il suo marchio; e se il segno scarno della Croce è parso più e più volte sovrastato dal primato della quantità che ha caratterizzato raduni e giubilei, certo esce rafforzato in questa icona finale della fine, di una morte invincibile e di una sofferenza estenuante, entrambe inseparabili dall'umano ed entrambe costitutive del messaggio del Dio che si è fatto uomo. Certo, la simultaneità della morte naturale del Papa e della morte «artificiale» di Terri Schiavo, entrambe in diretta planetaria, suggeriscono anche un altro giro di pensieri sull'ultimo messaggio che Wojtyla può averci voluto consegnare, ribadendo nella pratica della propria morte un comandamento tante volte enunciato ai vivi: non si può scegliere il momento della fine né la durata della sofferenza, non c'è diritto positivo o giudice terreno che possa avere la meglio sul diritto naturale e sull'imponderabile giustizia divina, non si può staccare la spina ma bisogna fino all'ultimo condividere il dolore altrui che può essere il nostro. Ma nella morte in diretta di Wojtyla c'è molto di più di questo ultimo messaggio: come spesso nella morte, c'è l'impronta di una vita, e come spesso nella morte di un sovrano, c'è l'impronta di un regno.

Sempre in primo piano nel suo pontificato, il corpo di Giovanni Paolo II che si scinde davanti ai nostri occhi nel corpo morente e nel corpo redento è l'emblema incarnato di quel doppio corpo del Re, uno secolare e mortale l'altro sacro e immortale, che tanta parte ha avuto nella teoria e nella storia della sovranità moderna. Direttamente dunque la morte in diretta del vicario di Cristo ci riporta alla vita del Sovrano: dell'unico sovrano che nel mondo post-bipolare e post-politico abbia mantenuto l'aura, mentre attorno a lui quella della politica secolare e di tutti i potenti della terra declinava. C'è nell'ultimo libro di Wojtyla, come in ogni gesto del suo pontificato, questa lucida consapevolezza e volontà di essere un protagonista di un tempo di mutamento epocale, di catastrofe dell'equilibrio precedente, di riscrittura dei confini del pianeta. Non si tratta tanto, o solo, di misurare la parte che il papa polacco ha avuto nella fine del comunismo, quanto di valutare il modo in cui ha interpretato e impersonato la fine della politica novecentesca, i motivi emergenti della biopolitica, le forme di presenza e di azione in una sfera pubblica globalizzata che perdeva le strutture storiche della rappresentanza, degli stati nazionali, del conflitto di classe. Su ciascuna di queste frontiere il pontificato di Wojtyla ha accompagnato il mutamento, sul piano dei contenuti - ambivalenti, e spesso reazionarie - e sul piano altrettanto significativo delle pratiche.

La critica dei due totalitarismi e la distinzione fra il «male assoluto» del nazismo e il «male relativo» del comunismo; la tensione pacifista contro l'emergere della guerra permanente; la critica del liberismo e del consumismo; l'ossessione antiscientifica e antitecnologica contro qualunque rischio di manipolazione della vita naturale e dell'embrione, anche a scopo terapeutico; l'altra ossessione sul controllo del mutamento femminile, del rapporto fra i sessi e della famiglia; l'ostinazione per il recupero delle radici cristiane nel ridisegno dell'identità europea: ciascuno di questi capitoli ci rinvia l'immagine di un pontificato politico estremamente tempista nella scelta stessa dei campi di intervento, e sempre pronto a giocarsi i pensieri lunghi sui tempi brevi e i principi massimi sulle scadenze minime. E altrettanto tempista nella scelta delle forme e delle pratiche con cui dare visibilità all'agire politico. Primo papa della storia a rischiare la vita in un attentato e a essere curato in ospedale, primo ad aver recitato in pubblico e ad aver lavorato in fabbrica, primo a entrare in una sinagoga e in una chiesa protestante, primo a parlare in pubblico ai musulmani, primo ad assistere a un concerto rock, primo a intervenire di persona a un congresso medico: il primato nell'uso strategico dei massmedia va inserito in questa lunga serie di piccoli ma significativi primati, e collegato al primato più significativo di tutto il pontificato, la sua cifra «populista», nel senso di un rapporto diretto con le masse religiose, anch'essa specchio riflettente delle trasformazioni che la politica ha subito, dall'89 in poi, su scala planetaria.

Ci sarà modo, del resto, di guardare la medaglia anche dal suo rovescio. Non sarà infatti certamente un caso se proprio durante il pontificato di Giovanni Paolo II la freccia del tempo della secolarizzazione si è arrestata, e i confini fra laicità e religiosità, nella politica terrena, si sono sbiaditi fino a saltare. Il tempo dei fondamentalismi, compreso quello cristiano, coincide con il tempo del primo papa venuto dall'Est a regnare su un mondo diventato, fu detto al Giubileo, «una sola terra e un solo mare». Su quest'unica terra e quest'unico mare, sono in troppi a imitare il mandato pontificio, imbracciando la spada di Dio come protesi di una sovranità secolare decaduta.

Alessandra Retico

Tra arte, pratica e politica, il subvertising parodizza e rovescia marchi e campagne pubblicitarie delle grandi corporation Usa

Repubblica on line del 7 gennaio 2003

"Obsession" di Calvin Klein: un modello "strafigo" che scruta sotto gli slip con sguardo preoccupato. Dello stesso stilista, "Reality for men": un uomo decisamente poco sexy con pancetta e torso piuttosto villoso. Ma anche "American Excess" con sottotitolo-augurio inequivocabile: "Consumers Welcome". La "M" dagli archi d'oro, quella di McDonald, onnipresente: in commistioni varie, per esempio in (M)icrosoft, o iniziali per le più svariate distorsioni (Mckiller). Esempi di un'arte-movimento-politica che va sotto il nome di subvertising, acronimo (Subvert, sovvertire e advertising, il termine inglese per pubblicità) che "sovverte" di nome e di fatto l'anima dell'economia mondiale, quella del marchio. Rovesciando il senso, illuminando la parte oscura con il potere dell'ironia, il logo viene messo a nudo, svelato per quel che è: illusione. Potentissima illusione.

Sovvertire, dissacrare, parodiare con l'antipubblicità o "spubblicità" non è altro che un gioco del rovescio che l'arte moderna conosce almeno da Velazquez (Las Meninas) ai dadaisti a Andy Warhol fino al situazionismo e alla "guerriglia semiotica" contro il potere dei mass media di cui parlava Eco alla fine dei Settanta. E che oggi, in un'epoca dominata da marketing e branding, gioca e rompe i giocattoli a disposizione, appunto marchi e griffe. Il subvertising, fenomeno insieme artistico e socio-politico, sta assumendo negli ultimi tempi proporzioni e significati importanti soprattutto grazie al palcoscenico in cui si pratica, il più ampio e diffuso che ci sia: Internet.

In Rete infatti circolano decine e decine di "spubblicità", siti di movimenti, di artisti, di "agitatori culturali", che ai grandi totem del consumo, ai marchi delle più note corporation soprattutto americane, mettono quei baffi che Duchamp mise alla Gioconda scardinando alla radice il mito e l'illusione di un'arte "alta" intoccabile. Una delle declinazioni più esemplari del gesto dell'artista dadaista nelle mani degli "spubblicitari" moderni è la bandiera americana che, al posto delle patriottiche stelle, sostiuisce il logo delle più grandi aziende Usa, da Nike a Microsoft a Shell a Coca Cola.

Il di-vertimento è la chiave e il senso multiplo della "filosofia" del subvertising: se il re nudo fa davvero ridere, allo stesso tempo cambia e rovescia il ruolo di chi lo guarda, da semplice spettatore a attore dello spodestamento. In termini economici, il consumatore non è più quello che subisce il mercato, ma lo fa, scegliendo consapevolmente cosa comprare.

E' da questa idea che nasce il subvertising, pratica e pensiero il cui padre ispiratore è una rivista canadese che è oggi un cult per il popolo no global internazionale: Adbusters. Il titolo, un programma: "ad", appunto pubblicità e buster da "to bust", rovinare. Nata nel 1989 come trimestrale a Vancouver, British Columbia, per volontà del suo attuale direttore Kalle Lasn, Adbusters ("rivista per per l'ambiente mentale") è oggi un bimestrale che vende 120 mila copie in tutto il mondo e abbonati in 60 Paesi. Il sito Internet (www. adbusters. org) raggiunge una media di 8.000 contatti al giorno e sessantamila iscritti alla sua lista. A lei si devono due iniziative di successo come il Buy Nothing Day - la giornata del non acquisto lanciata sin dai primi anni '90 - che vede la partecipazione di oltre un milione di persone in cinquanta paesi del mondo, e la Tv Turnoff Week - la settimana senza televisione - che è diventato un appuntamento fisso a cadenza bimestrale, coinvolgendo ogni volta circa ottantamila persone.

La rivista, che dal '99 a Seattle ha conosciuto una crescita che pare inarrestabile, è oggi il cuore e il network di comunicazione dei "culture jammer" di tutto il mondo, cioè proprio di quei "inceppatori culturali" che nel subvertising trovano una delle espressioni più notevoli. Per Feltrinelli è da poco uscito "Errore di sistema", un libro a cura di Franco "Bifo" Berardi, Lorenza Pignatti e Marco Magagnoli che racconta l'esperienza di Adbusters e le sue pratiche contro il dominio del consumo. Il messaggio è che dopo vent'anni di fanatismo economico, di superlavoro e di competizione, siamo in piena fase depressiva. Mentale soprattutto: come quando il computer "cresha" e sullo schermo appare la scritta "system error" seguita da un numero incomprensibile. La soluzione, suggerita da Lasn: "Interrompere la trance mediatica nella quale siamo immersi per riappropriarci della nostra mente, del nostro corpo, della nostra vita."

Carla Ravaioli

Senza piú opposizioni

da “Un mondo diverso è necessario”, Editori riuniti, Roma 2002

[…] L'etica produttivística ha trovato nella favola pubblicitaria, confezionata con un'intelligenza mistificatoria via via piú raffinata e penetrante, lo strumento capace di esercitare sulle persone, fino al limite del plagio, una pesante manipolazione psicologica e comportamentale. Sostenuta dall'analgesica promessa del benessere dell'efficienza della modernitá, confortata dal rozzo edonismo della felicitámerce, mimetizzata sotto la vernice scintillante del progresso tecnologico, maliziosamente ammantata di libertá e trasgressiva disinvoltura; perfino pretendendo di allinearsi al «politically correct» della difesa ambientale per lanciare cibi industriali o sacchetti di plastica in nome della natura; o addirittura camuffandosi di contestazione, con prontezza cogliendo qualche tratto delle giovanili culture della rivolta per divorarle, metabolizzarle e restituirle sotto forma di merce: la pubblicitá non solo ha egregiamente risposto al suo compito di promozione merceologica, ma ha svolto una potente azione conservatrice. Dando un contributo decisivo a quel processo che poco a poco ha imposto il consumo come principale simbolo di affermazione e di successo, ponendosi come pilastro di quella fabbrica di «oggetti del desiderio e soggetti desideranti» che é la realtá antropologica attuale. «L'anima del commercio» era un tempo definita la pubblicitá: oggi é piú esatto parlare di «anima del sistema».

Forse d'altronde la piú convincente riprova di tutto ció é che, proprio mentre la moltiplicazione via via piú accelerata dei messaggi pubblicitari andava surclassando il ritmo della stessa crescita produttiva, e overdosi di comunicati commerciali ci invadevano fino a divenire ininterrotto rumore di fondo delle nostre giornate, anzi dell'intera nostra vita, il discorso critico spesso assai duro che per qualche decennio nel passato si era accentrato su questi problemi, é andato via via perdendo consistenza e attenzione, finché tutta la materia veniva archiviata, inappellabilmente dichiarata fuori moda. Non a caso, mentre il mercato si affermava, praticamente senza piú opposizioni, come perno e motore non solo del sistema economico, ma della cultura vincente nel pianeta, e il consumo diventava dovere e rito di integrazione sociale, e la crescita produttiva veniva brandita e universalmente perseguita come la soluzione di tutti i malanni del mondo, la pubblicitá da promozione di merci finiva per affermarsi come una delle dimensioni caratterizzanti dell'oggi, imponendosi al costume, ai comportamenti e all'intera forma sociale, senza che piú nessuno, di nessuna parte politica, ci trovasse qualcosa da ridire.

Al contrario, con un netto capovolgimento di posizioni sovente da parte di quegli stessi che l'avevano analizzata con l'occhio piú severo, l'attivitá pubblicitaria é andata qualificandosi come una delle piú apprezzate espressioni culturali e addirittura «artístiche». Giornalisti impegnati e opinion leader di prima grandezza fanno a gara nel magnificarne le ultime invenzioni e i loro autori, per antonomasia definiti «i creativi» e a pieno titolo entrati nei piú qualificati ambienti intellettuali, intervistati sui temi piú diversi, festeggiati in serate di gala in loro onore, premiati in concorsi per spot particolarmente efficaci: t vero d'altronde che in mezzo alla gran massa banale e melensa della produzione ordinaria, non sono pochi i messaggi commerciali di qualitá notevole. Ció che non puó stupire dato che in questo campo, attratti da compensi elevatissimi, lavorano i cervelli piú apprezzati del momento; e non solo famosi registi, fotografi, attori, ma anche letterati e poeti non disdegnano di prestare la loro opera, per lo piú in anonimo ma a volte anche platealmente con la loro stessa presenza fisica, alla celebrazione della merce. […]

La galleria d'immagini

Niente di nuovo all’Ovest è il titolo di un famoso romanzo di Erich Maria Remarque. Quel titolo, non la vicenda di guerra narrata nel libro, sembra applicarsi alla condizione di questa nostra civiltà occidentale. Niente di nuovo, perché?

Quindici anni fa comparve un saggio altrettanto famoso, di Francis Fukuyama, La fine della storia. Il quale suscitò critiche e anche scherni. Con qualche ragione. La tesi centrale era che ormai il mondo dell’Occidente aveva raggiunto, nel segno della felice congiunzione della democrazia e del mercato, uno stato stabile, steady state: non statico, nel senso che nulla più si muovesse. Tutto avrebbe continuato a muoversi, ma ormai monotonicamente, in una stessa direzione: come un grande fiume tranquillo, senza quelle cascate, rapide, cateratte: insomma quelle discontinuità (rivoluzioni, guerre, massacri, avventi religiosi, rivolgimenti culturali) che fanno, propriamente, la storia. Chi si aspettava questo scenario irenico è rimasto deluso. In questi quindici anni è successo di tutto.

Eppure, in un certo senso, Fukuyama aveva ragione. È successo di tutto, in Occidente – che di questo si trattava nel libro – ma nello stesso tempo, non è successo niente. Niente che abbia mutato il senso generale, propriamente essenziale della sua marcia.

La quale è, avrebbe detto Elias Canetti, la «muta di accrescimento». Non guerre e rivoluzioni, svolte fatali che mutano la direzione della società, ma la pura e semplice crescita della ricchezza economica della società stessa. Questa è la legge, questo è il vangelo. Come legge dell’Occidente e come modello per il mondo intero.

Certo, tensioni sociali esplodono, periferie si incendiano. Ma poi si placano, in un ritorno rassicurante alla normalità. Non c’è risposta che corregga la direzione di marcia delle «democrazie di mercato».

O meglio, la risposta è la teologica imitazione di Cristo (il dio mercato) predicata dalla più intelligente, informata ironica e mercatistica rivista del mondo, l’Economist. Osservando il malumore crescente suscitato nel mondo dalla globalizzazione, essa affermava qualche settimana fa che ciò che è necessario è che, di globalizzazione, ce ne sia di più. Riferendo poi sui moti francesi con britannica esultanza (France’s failure) li ha attribuiti alla rigidità del mercato del lavoro francese, che provoca una massiccia disoccupazione dalla quale scaturisce la rivolta delle periferie; e alla resistenza opposta all’adozione del modello economico americano dove la disoccupazione è molto minore e le periferie stanno tranquille.

Insomma, l’Occidente si muove ormai a senso unico. O senza senso? Il grande fiume tornerà sempre a scorrere. O no? Franco Venturini ha scritto sul Corriere della sera un lucido articolo che si riassume nella constatazione di un «nuovo smarrimento mondiale», di un disarmo di quella Storia che si voleva morta e della necessità di riconoscere il compito vero, che è quello di «ripensare, davvero, l’Occidente».

Non sono, le periferie delle nostre città ricche e meravigliose, il luogo di una sorda inquietudine che chiede spiegazione, non solo a Parigi, ma in tutto l’Occidente? Di un "Western failure"? Non dovrebbe, l’Occidente, anziché "francesizzare" quell’inquietante fenomeno, comprendere che de te fabula narratur: che esso si inquadra in una malattia minacciosa almeno quanto quella dei polli e altrettanto priva di risposte tranquillizzanti? È davvero pensabile che la risposta al disagio sociale, tanto per fare un esempio, sia racchiusa in una scelta esaltante come quella proposta dal liberismo, di una precarietà sottopagata al posto di una disoccupazione assistita?

Il tema del tramonto dell’Occidente non è certo nuovo. Il libro di Spengler, a suo tempo, segnò un’epoca del pensiero pessimista del Novecento. Non si può dire che, concepito durante la prima guerra mondiale, non fosse seguito da catastrofi immani. Dalle quali, però, l’Occidente è rinato sotto un segno compiutamente diverso, per molti versi opposto: il segno della pace (tra i paesi occidentali non ci sono state più guerre dall’ultimo sterminio mondiale, per oltre mezzo secolo) e dello sviluppo economico (la produzione dei paesi dell’Occidente, in questo mezzo secolo, è triplicata). Dunque, la profezia di Spengler è stata falsificata.

Ma il nuovo corso non ha affatto prodotto quello stato di benessere, di felicità pubblica, che gli era sottinteso. Al contrario: il mondo delle società ricche è un mondo angosciato, frustrato, spaventato. La spiegazione più ovvia è che la ricchezza, oltre che soddisfare domande antiche, ha suscitato domande nuove, le quali generano nuove insoddisfazioni e nuove frustrazioni. La risposta dell’Occidente ricorda l’esortazione di un motto celebre: continuez continuez! E cioè, proseguite sulla strada di una crescita che corra dietro alle domande che la crescita stessa genera, in un inseguimento perenne che sembra ormai la costante di una società esposta (questo sì che è nuovo) alle minacce provenienti dal mondo esterno. Sinceramente, non sembra una risposta rassicurante.

Le tensioni generano nuovi «proletariati interni» che possono combinarsi con nuovi «proletariati esterni» creando condizioni non controllabili di disgregazione sociale. Nuovi tremendi problemi, come quello dell’immigrazione di massa, investono, dall’interno e dall’esterno, l’intera Europa. L’autocompiacenza alla quale si ispira il pensiero oggi dominante in Occidente non è una prova di pragmatica saggezza, ma di irresponsabile cecità.

Ci si deve dunque chiedere se la riflessione sull’Occidente debba limitarsi al problema evocato dai fatti di Francia – l’immigrazione e i diversi modelli di integrazione – o non debba estendersi, come è giustamente suggerito, a un ripensamento dell’Occidente sull’Occidente stesso. In questo caso, la questione dominante dovrebbe diventare l’inceppamento di quella forza propulsiva che ha proiettato l’Occidente verso il primato mondiale: e che è la coniugazione, come Fukuyama afferma, della democrazia e del mercato.

Questa formula felice sembra si sia avvitata, infatti, in un circolo vizioso. E la ragione mi sembra questa: che ambedue i fattori del successo dell’Occidente, il mercato e la democrazia, sono mezzi, non fini. I fini sono rappresentati da valori, ideologici o religiosi; oppure da un progetto laico e mondano, che tuttavia soddisfi il bisogno di senso. E l’Occidente, mentre ha smarrito i primi, non è stato capace di elaborare il secondo.

È, questa, una condizione fragile e pericolosa. Una civiltà che perde l’anima è una società già morta. Nè il mercato né la democrazia posssono sostituirla. Non è pensabile che essa si avviti in un eterno ritorno dell’eguale. In assenza di un fine mobilitante, di una tensione trascendente, infatti, essa finirà, prima o poi, per disintegrarsi sotto gli urti degli inevitabili conflitti, interni ed esterni. Di fronte a problemi come quello di integrare la nuova immigrazione di massa, è del tutto frivolo chiedersi come integrarsi, se nel modo multietnico o nel modo etnocentrico; quando il problema è diventato: in che cosa?

È noto che la decisione iniziale di lavorare alla realizzazione della bomba è provocata dal timore che Hitler ne fabbrichi una a sua volta. Ma, nel 1943, i servizi d´informazione alleati stabiliscono che la Germania ha accantonato questo progetto. Tuttavia, le ricerche sul potere della reazione nucleare negli Stati Uniti proseguono. I fisici hanno relegato al fondo della loro coscienza la questione della giustificazione ultima, sono mossi adesso dal desiderio di risolvere un problema tecnico di una straordinaria complessità. Il pensiero strumentale, esemplificato qui in modo eloquente, impone questo collegamento: se una cosa è possibile, essa deve divenire reale; e se esiste uno strumento, allora bisogna servirsene. In nessun momento interviene una domanda sui fini ultimi, sulle ragioni di un simile agire. La tecnica sembra decidere per noi. Sarebbe stato logico, essendo la bomba concepita come una protezione contro Hitler, rinunciare a servirsene una volta sconfitto. Ma è una cosa inconcepibile per il pensiero strumentale e burocratico: poiché il progetto è stato lanciato, bisogna condurlo fino al termine.

L'ambigua reazione di Karol Wojtyla nei confronti di Passion, il film di Mel Gibson, è ben nota. Subito dopo averlo visto, profondamente commosso, ha mormorato: «È proprio come avvenne in realtà!», dichiarazione poi velocemente ritrattata dai portavoce ufficiali del Vaticano. La reazione spontanea del papa è stata dunque immediatamente sostituita dalla posizione neutra «ufficiale», emendata in modo da non ferire nessuno. Con questa ritrattazione, con questa concessione alla sensibilità liberale, il papa ha tradito ciò che di meglio c'era in lui, la sua intrattabile posizione etica. Oggi, in un'epoca di ipersensibilità verso il rischio di essere molestati dall'Altro, sta diventando un atteggiamento sempre più diffuso lamentarsi della «violenza etica» e criticare quegli imperativi etici che ci «terrorizzano» con le loro brutali imposizioni. L'ideale normativo di questa critica è un'«etica senza violenza», che (ri)negozia perennemente le sue norme: la critica culturale più alta incontra qui inaspettatamente la psicologia pop più bassa.

Durante una serie degli «Oprah Winfrey shows» John Gray, l'autore di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, ha spinto questa posizione all'estremo: dato che, in fin dei conti, «siamo» le storie che raccontiamo a noi stessi su noi stessi, la soluzione a un' impasse psichica sta nella riscrittura «positiva», creativa, del nostro passato. Gray non aveva in mente semplicemente le comuni terapie cognitive che mirano a trasformare le «false credenze» negative su se stessi in un atteggiamento più positivo, nella certezza di essere amati dagli altri e capaci di risultati creativi, quanto piuttosto un'idea più «radicale», pseudo-freudiana, di regressione fino alla scena della ferita traumatica primordiale. Gray accetta la nozione psicoanalitica secondo cui un'esperienza traumatica nella prima infanzia può segnare per sempre lo sviluppo futuro del soggetto facendolo virare in senso patologico, ma propone che il soggetto, sotto la guida del terapeuta, dopo essere regredito fino alla sua scena traumatica originaria ed averla così rivissuta direttamente, «riscriva» questa scena, questa struttura ultima del suo universo di significato, rendendola più «positiva», benigna e produttiva. Se, ad esempio, la scena traumatica primordiale che grava sul nostro inconscio deformando e inibendo la nostra creatività è quella di nostro padre che ci gridava «Non vali niente! Ti disprezzo! Non combinerai niente di buono!», noi dovremmo riscriverla ottenendo così una nuova scena con un padre benevolo che ci sorride affettuosamente dicendoci: «Sei in gamba! Mi fido pienamente di te!»

New Age cristiano

Per portare questo gioco fino alle estreme conseguenze, quando Wolfman, nel famoso caso clinico di Freud, «regredisce» fino alla scena traumatica che aveva determinato il suo sviluppo psichico successivo (il coitus a tergo dei genitori cui aveva assistito) la soluzione non sarebbe forse riscrivere la scena? In questo modo egli avrebbe visto solamente i suoi genitori stesi sul letto e intenti a leggere, il padre un giornale e la madre un romanzo sentimentale.

Il problema è che quanto viene qui evocato come esagerazione satirica, oggi sta succedendo veramente. Si pensi a come le minoranze etniche, sessuali ecc. riscrivono il loro passato in chiave più positiva, di autoaffermazione: gli afro-americani sostengono che molto prima della modernità europea, gli antichi imperi africani possedevano già un alto livello di sviluppo nella scienza e nella tecnologia, ecc.

Su questa falsariga, possiamo immaginare una riscrittura dello stesso Decalogo. Qualche comandamento è troppo severo? Regrediamo fino alla scena sul Monte Sinai e riscriviamola! «Tu non commetterai adulterio, a meno che esso non sia emotivamente sincero e non serva alla tua realizzazione profonda...»

Che cosa va perduto, in questa totale apertura del passato alla sua successiva riscrittura? Esemplare è qui The Hidden Jesus di Donald Spoto, una lettura «liberal» del cristianesimo contaminata dalla New Age, in cui a proposito del divorzio possiamo leggere: «Gesù ha chiaramente condannato il divorzio e il nuovo matrimonio. (...) Ma Gesù non è andato oltre, non ha detto che il matrimonio non può essere rotto (...). Da nessun'altra parte, nel suo insegnamento, c'è una situazione in cui egli incateni per sempre le persone alle conseguenze del suo peccato. Tutto il suo approccio nei confronti delle persone era liberarle, non legiferare (...). È del tutto evidente che di fatto alcuni matrimoni semplicemente crollano, che gli impegni vengono abbandonati, che le promesse vengono violate e l'amore tradito».

Il rovescio del diritto

Queste righe, per quanto comprensibili e «liberal», implicano una confusione fatale tra alti e bassi emotivi, e un impegno simbolico incondizionato che deve resistere proprio quando non è più supportato da emozioni dirette: «Tu non divorzierai, tranne quando il tuo matrimonio `di fatto' crolla, quando diventa un peso emotivo insopportabile che frustra tutta la tua vita». In breve, tranne quando la proibizione di divorziare avrebbe guadagnato il suo pieno significato (giacché chi divorzierebbe quando il suo matrimonio è ancora vitale?). È così che oggi tendiamo a stabilire un collegamento negativo tra il Decalogo (i comandamenti divini imposti traumaticamente) e i diritti umani, sebbene in ultima analisi il tema moderno dei diritti umani sia radicato nella nozione ebraica dell'amore per il vicino. Ossia, all'interno della nostra società liberal-permissiva, post-politica, in fondo i diritti umani sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. «Il diritto alla privacy»: il diritto all'adulterio, commesso in segreto, quando nessuno mi vede o ha il diritto di intromettersi nella mia vita. «Il diritto di cercare la felicità e di possedere la proprietà privata»: il diritto di rubare (o sfruttare gli altri). «La libertà di stampa e la libertà di esprimere la propria opinione»: il diritto di mentire. «Il diritto dei liberi cittadini di possedere armi»: il diritto di uccidere. E, infine, «la libertà di fede religiosa»: il diritto di adorare falsi dei.

Quando, dunque, ci liberiamo di questo meccanismo? L'estrema ironia postmoderna è lo strano scambio tra Europa e Asia: nel momento stesso in cui, a livello dell'«infrastruttura economica», la tecnologia e il capitalismo «europei» stanno trionfando in tutto il mondo, a livello della «sovrastruttura ideologica» l'eredità giudaico-cristiana è minacciata nello stesso spazio europeo dall'assalto del pensiero «asiatico» New Age. Quest'ultimo, nelle sue diverse guise che vanno dal «buddismo occidentale» (odierno contrappunto al marxismo occidentale, in contrapposizione al marxismo-leninismo «asiatico») ai diversi «Tao», si sta affermando come l'ideologia egemonica del capitalismo globale. In questo risiede la più alta identità speculativa degli opposti nella civiltà globale di oggi: pur presentandosi come un rimedio contro la tensione e lo stress della dinamica capitalistica che ci consente di liberare e mantenere la nostra pace interiore, la Gelassenheit, in realtà il «buddismo occidentale» funge da perfetta appendice ideologica a questo tipo di dinamica. Dobbiamo qui menzionare il tema ben noto del «future shock», ossia di come oggi, psicologicamente, le persone non riescono più a tenere testa al ritmo abbacinante dello sviluppo tecnologico e dei cambiamenti sociali che lo accompagnano. Semplicemente, le cose si muovono troppo in fretta: prima che abbiamo il tempo di abituarci a un'invenzione, questa è già soppiantata da un'altra, sicché siamo sempre più privi della più elementare «mappa cognitiva». Il ricorso al taoismo o al buddismo offre un'uscita da questa situazione, decisamente più efficace della fuga disperata nelle vecchie tradizioni: invece di sforzarci di stare al passo con il ritmo in accelerazione del progresso tecnologico e dei cambiamenti sociali, dovremmo piuttosto rinunciare al tentativo di mantenere il controllo su ciò che avviene, rifiutandolo in quanto espressione della moderna logica del dominio. Dovremmo invece «lasciarci andare», vivere alla giornata, opponendo una distanza interiore e un atteggiamento di indifferenza alla danza folle del processo di accelerazione: una distanza basata sulla nozione che tutto questo sconvolgimento sociale e tecnologico è in fin dei conti solo un proliferare non sostanziale di sembianze che non riguardano il nocciolo più recondito del nostro essere... Si è quasi tentati di resuscitare qui il vecchio, famigerato cliché marxista della religione come «oppio dei popoli», come appendice immaginaria della miseria terrestre: la posizione meditativa «buddista occidentale» è probabilmente il modo più efficace, per noi, di partecipare pienamente alla dinamica capitalistica conservando allo stesso tempo l'apparenza della sanità mentale. Se oggi fosse vivo, Max Weber scriverebbe senz'altro un supplemento al suo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo intitolato L'etica taoista e lo spirito del capitalismo globale.

La grandezza di Giovanni Paolo II stava nel fatto che egli impersonava il rifiuto di questa facile scappatoia liberale. Anche quanti ne rispettavano la posizione morale, solitamente accompagnavano quest'ammirazione con l'osservazione che egli restava però irrecuperabilmente all'antica, addirittura medievale, attaccato ai vecchi dogmi, non in contatto con le esigenze attuali. Come si può al giorno d'oggi ignorare la contraccezione, il divorzio, l'aborto? Non sono questi, semplicemente, fatti della nostra vita? Come può il papa negare il diritto ad abortire persino a una suora rimasta incinta in seguito a uno stupro (come è effettivamente successo nel caso delle suore stuprate durante la guerra in Bosnia)? Non è evidente che, anche se in linea di principio si è contrari all'aborto, in un caso così estremo si dovrebbe piegare il principio e acconsentire a un compromesso?

Ora possiamo capire perché il Dalai Lama è molto più adatto alla permissiva epoca postmoderna. Egli ci propone un vago spiritualismo basato sul benessere, senza obblighi specifici: chiunque, anche la più decadente star hollywoodiana, può seguirlo continuando allo stesso tempo nel suo stile di vita promiscuo e avido di denaro... Il papa, al contrario, ci ricorda che un atteggiamento propriamente etico comporta un prezzo da pagare; è il suo testardo attaccamento ai «vecchi valori», il suo ignorare le pretese «realistiche» del nostro tempo anche quando le argomentazioni contrarie appaiono «ovvie» (come nel caso della suora stuprata), a renderlo una figura autenticamente etica.

Ma Giovanni Paolo è stato all'altezza del suo compito? La chiesa cattolica ha la sua organizzazione segreta, la famigerata Opus Dei, la «mafia bianca» della chiesa, l'organizzazione (semi)segreta che incarna in qualche modo la pura Legge al di là di ogni legalità positiva: la sua regola suprema è l'obbedienza incondizionata al papa e la spietata determinazione a lavorare per la chiesa, con la (potenziale) sospensione di tutte le altre norme. Di regola i suoi membri, il cui compito è penetrare nei principali circoli politici e finanziari, tengono segreta la loro affiliazione. In quanto membri dell'Opus Dei, essi sono effettivamente «opus dei», «opera di dio», ossia assumono la posizione perversa di strumento diretto della volontà divina.

L'appendice segreta

Ci sono poi i molti casi di bambini molestati sessualmente da preti. Questi casi sono talmente diffusi, dall'Austria e dall'Italia fino all'Irlanda e agli Usa, che possiamo effettivamente parlare di un'articolata «controcultura» all'interno della chiesa, con il suo insieme di regole nascoste. E c'è un'interconnessione tra i due livelli, dato che l'Opus Dei interviene regolarmente per mettere a tacere gli scandali sessuali dei preti. Incidentalmente, la reazione della chiesa agli scandali sessuali rivela anche il suo modo di percepire il proprio ruolo. Essa sostiene che questi casi, per quanto deplorevoli, sarebbero un suo problema interno e mostra una grande riluttanza a collaborare con la polizia nelle indagini. E, in un certo senso, è giusto: molestare i bambini è un problema interno della chiesa, è cioè un prodotto intrinseco della sua organizzazione istituzionale e dell'economia libidica su cui essa si basa. Non si tratta semplicemente di una serie di reati particolari riguardanti individui che si dà il caso siano preti.

Per rispondere a questa riluttanza della chiesa non dovremmo limitarci a dire che abbiamo a che fare con dei reati e che la chiesa, non partecipando pienamente alle indagini, ne diventa complice. Al di là di questo, la chiesa come tale, come istituzione, va indagata in relazione al modo in cui essa crea sistematicamente le condizioni perché tali reati avvengano. Questa è una delle ragioni per cui non possiamo spiegare gli scandali sessuali che vedono coinvolti i preti come una manovra degli oppositori del celibato finalizzata a dimostrare come le pulsioni sessuali dei preti, non trovando uno sbocco legittimo, siano destinate a esplodere in modo patologico. Consentire ai preti cattolici di sposarsi non risolverebbe niente, avremmo comunque dei preti che molestano i ragazzini: la pedofilia è generata dalla stessa istituzione cattolica del sacerdozio, come sua oscena appendice segreta.

Ed è qui che il papa ha fallito: a dispetto delle sue pubbliche espressioni di preoccupazione, egli ha evitato di affrontare le radici e le conseguenze degli scandali sulla pedofilia. Sotto il suo pontificato, l'Opus Dei è diventata più forte che mai e il papa ha persino dichiarato santo il suo fondatore (un antisemita dichiarato e un protofascista), un atto che manifestamente contraddice e dunque cancella la sua apologia nei confronti degli ebrei per i crimini commessi ai loro danni dalla chiesa per secoli. Per questo motivo, Giovanni Paolo II è stato un fallimento etico, una prova di come anche una posizione etica sinceramente radicale possa essere una posa fasulla, vuota se non prende in considerazione le sue condizioni e conseguenze.

Traduzione di Marina Impallomeni

Il colore viola sul dito degli elettori iracheni diventerà d'ora in poi il simbolo del trionfo della democrazia in Iraq e della sua esportabilità (armata) ovunque nel mondo? Realisticamente credo che dovremmo rispondere di sì, unendoci a gran voce al coro dei cantori della vittoria politica e simbolica dell'amministrazione Bush. Di questo trionfo siamo soddisfatti, ne sentiamo nutrito l'orgoglio di appartenere a quel pezzo di mondo che si chiama Occidente e che alla democrazia ha dato i natali e l'ambizione universalista? Realisticamente credo che dovremmo rispondere di no, separandoci nettamente da quel coro. Come stiano assieme questo sì e questo no, è un paradosso che non è ascrivibile allo «scetticismo» che gli entusiati del voto di domenica rimproverano ai pacifisti e a quanti hanno contestato l'occupazione dell'Iraq, la strategia della guerra preventiva e l'esportazione armata della democrazia. E' ascrivibile invece e purtroppo allo stato in cui versa la democrazia: in Occidente dov'è radicata, prima che in Iraq dov'è stata violentemente impiantata. I cronisti della storica giornata elettorale e chi conosce bene la situazione irachena avranno modo di analizzare minutamente le percentuali promettenti di partecipazione al voto, le fratture politiche, etniche e religiose che tuttavia sottostanno ad esse, i conflitti che inevitabilmente continueranno a imperversare, l'altolà che le urne sembrano aver dato al terrorismo, le piegature che l'occupazione dei «volenterosi» prenderà da qui in avanti. A noialtri resta il compito di interrogarsi sulla forbice che divide la fiducia nel rito elettorale di quegli otto milioni di iracheni, donne e uomini, dalla sfiducia che lo contrassegna nelle democrazie occidentali. E non è sopportabile il paternalismo di alcuni commenti della prima ora, che ci invitano a sciacquare il disincanto apatico e spesso astensionista delle democrazie mature nell'acqua fresca del neonato senso civico iracheno, e accusano di razzismo chi ha osato dubitare che la democrazia possa essere esportata a viva forza laddove non c'è ancora. Come sempre, sono accuse che vanno rovesciate sull'ipocrisia di chi le fa. Non era della ricettività democratica, per così dire, degli iracheni che dubitavamo; era, ed è, della qualità della merce esportata e dei suoi venditori.

Gli iracheni hanno tutte le ragioni per riporre fiducia, speranza ed entusiasmo in un atto che comunque offre a una società sofferente e segnata dalla dittatura e dalla guerra una possibilità di espressione e di scelta. Ma noi avremmo tutte le ragioni, e qualche dovere, per interrogarci sul peso e l'efficacia effettiva di quell'atto in quelle condizioni; e sull'immagine della democrazia in Occidente che, come in uno specchio, l'Iraq di domenica ci rimanda. Fahmi Hweidi, firma autorevole del quotidiano egiziano Al Ahram e di altre testate del mondo arabo, in un articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera ha acutamente evidenziato le contraddizioni insite in democrazie che vengono impiantate su terreni privi di libertà, e in «libere elezioni» che si svolgono in assenza di libere opinioni pubbliche.

Ma non è solo questo il punto. Il punto è che l'Occidente esporta un'idea e una pratica di democrazia ridotta al solo rito elettorale, e a un rito elettorale tutt'altro che trasparente, prima che a Baghdad, in casa nostra: dove fra ogni testa e ogni voto si frappone una montagna di opacità fatta di potentati economici e manipolazione massmediatica, la frequentazione delle urne non contrasta la crisi verticale della rappresentanza e della partecipazione, la libertà di voto non compensa la caduta della libertà politica. E' questa la democrazia che esportiamo con le armi, e che ha bisogno delle armi per essere esportata; è questa la democrazia che trionfa, e del cui trionfo c'è poco da gioire. E' di noi che parla l'Iraq.

L’uguaglianza

Le donne e gli uomini sono tutte e tutti uguali. Ogni essere umano nasce con lo stesso diritto ad una vita compiutamente realizzata, senza distinzioni di genere, casta, censo, reddito, etnia, religione. Lo scopo fondamentale della politica è quello di affermare questo principio. Aspirando a costruire un mondo dove le disuguaglianze siano sempre minori. Il compito primario della politica non è quello di assicurare efficienza allo sviluppo, ma di ridurre e cancellare le sopraffazioni e le disuguaglianze nelle relazioni tra persone, popoli, Stati. Solo in questo modo si può garantire il diritto fondamentale all’individualità e alla differenza. Una società equilibrata salvaguarda le differenze e difende i diritti individuali, una società ingiusta e gerarchizzata li cancella. Il dovere essenziale della politica in una società moderna è quello di contrastare tutte le discriminazioni: quelle teoriche e quelle pratiche, quelle economiche e quelle sociali, quelle formali e quelle di sostanza. Di queste discriminazioni il razzismo e la xenofobia sono le più odiose e aberranti.

La libertà

Ogni essere umano nasce libero. Ogni essere umano ha diritto a vivere libero. Non ci potrà essere libertà se non si demoliscono le basi della schiavitù dal bisogno, dello sfruttamento del lavoro, dell’egoismo sociale, dell’oppressione patriarcale, della superstizione, del nazionalismo. La libertà si realizza abbattendo il dominio. L’affermazione di una società pienamente libera avviene attraverso la critica e il ridimensionamento del potere. La libertà degli individui e dei popoli, cioè la possibilità di vivere la propria vita di tutti i giorni e di costruire il proprio destino in razionalità e autonomia, resta un insopprimibile bisogno umano.

La fraternità e la sorellanza



La convivenza solidale tra le persone è alla base di ogni civiltà: solo il vincolo amichevole della specie, solo la capacità di rapporto con l’Altro e con l’Altra, solo la costruzione attiva di un legame di fratellanza e sorellanza, hanno reso possibile la straordinaria storia dell’umanità. Contro le pulsioni distruttive dell’homo homini lupus, contro il ritorno dello spirito maschile e guerriero, contro la pratica della morte e dello sterminio, la sorellanza e la fratellanza sono oggi dimensioni essenziali. Le sole che possono indicarci un orizzonte di felicità.

Lo sviluppo

Lo sviluppo non si misura con la falsa neutralità del Pil: non è la cieca crescita quantitativa di merci. E’ un progetto di rinascita economica e sociale rispettoso dell’ambiente, dei diritti delle generazioni che verranno, e della necessità di un’equa distribuzione della ricchezza. La terra è di tutti. La ricchezza economica e tecnoscientifica deve servire a tutti. Ai viventi e ai futuri abitanti della Terra.

I diritti di nuova cittadinanza

Ogni persona è cittadina se può esercitare i diritti basici di partecipazione alla politica. Se può difendersi dal potere. Se ha di fronte una giustizia non discriminatoria per classe e per censo. Se può liberamente esprimere le proprie idee e le proprie speranze. Ma una cittadinanza piena è imprescindibile dall’estensione di diritti sostanziali universali: allo studio, alla salute, alla mobilità, all’abitazione e alla dignitosa sopravvivenza. La cultura, l’informazione, la sanità, i trasporti di base, la casa, per acquisire davvero questo statuto universale, non possono che essere sottratti al dominio delle merci e del Privato. La scuola pubblica, laica e plurale, luogo della convivenza, dell’incontro e della contaminazione, è la base di questa ispirazione. Lo Stato non deve finanziare la libera istruzione privata.

La famiglia

Le donne sono il soggetto della più straordinaria e prolungata rivoluzione del nostro tempo, fondata sulla libertà e l’autodeterminazione femminile. Alla base della convivenza sociale, che assume la diversità di genere e di orientamento sessuale come tratto distintivo della libertà moderna, c’è dunque la libera scelta delle persone - con il solo limite stabilito dal rispetto della libertà altrui. La famiglia si articola oggi in una vasta molteplicità di opzioni e di libere unioni, contro ed oltre il dominio patriarcale, contro ed oltre ogni gerarchia stabilita autoritativamente, contro ogni idea tradizionale che limiti la libertà sessuale.

Il rifiuto del razzismo

Oggi nessuno può credibilmente argomentare la superiorità dell’“uomo bianco”. Esiste però una posizione, diffusa, che afferma la superiorità culturale e civile dell’occidente sugli altri popoli del pianeta. La chiusura delle frontiere, la categoria del “clandestino” sorreggono questo nuovo razzismo. Noi affermiamo, al contrario, il diritto dei popoli a emigrare, a viaggiare, a mescolarsi e ci opponiamo alle chiusure delle frontiere

Il dialogo tra le civiltà

Il dialogo tra le diverse civiltà è una risorsa per l’umanità. La civiltà occidentale - quel mix complesso di cultura progressista nata dall’illuminismo, dal liberalismo, dal cristianesimo e dal contributo del movimento operaio, è solo una delle civiltà che abitano il pianeta. Altre si sono espresse, anche con molta forza e splendore, in epoche passate, altri orizzonti attraversano l'immaginario delle popolazioni mondiali. Il dialogo tra le civiltà è la nuova frontiera dell’umanità, l’unico orizzonte credibile per un futuro di pace e di benessere reciproco.

La lotta al terrorismo

Il terrorismo è una forma atroce e inaccettabile di lotta politica. Esso annienta i corpi, moltiplica le vittime e perciò stesso rende muta la politica. Oggi l’ipoteca del terrorismo pesa non solo sulle popolazioni occidentali ma molto di più sullo stesso mondo arabo-musulmano schiacciato dal fallimento delle speranze progressiste, dominato dal neocolonialismo e reso ostaggio di formazioni integraliste e reazionarie che fanno dello strumento terroristico un uso spregiudicato quanto lucido. Il terrorismo non si spiega solo con la disperazione sociale in quanto vive di una sua autonoma progettualità politica. Tuttavia l’aggressione dell’occidente capitalistico lo alimenta e lo rafforza. Battere il terrorismo significa innanzitutto offrire una possibilità di autoliberazione democratica ai popoli arabo-musulmani, e questo non può avvenire se non si pone fine alle guerre e all’oppressione nei loro confronti.

La pace e la nonviolenza



La guerra va respinta. Senza se e senza ma. Va espulsa dalla storia e dalla legalità internazionale. Bisogna opporsi alle aggressioni che l’Occidente, e gli Stati Uniti, continuano a perpetrare ai danni del Sud del mondo. Diciamo sì alla pace, alla convivenza dei popoli, alla pari dignità delle culture. Ci impegniamo sulla frontiera dell’interdipendenza e dell’accoglienza. Molti di noi sono convinti che non ci potrà mai essere pace vera, completa e duratura senza una scelta strategica di

Per aderire andare qui

Non sorprende che Camillo Ruini, il più autorevole dei nostri vescovi, intervenga così frequentemente sulle scelte del governo italiano. C’è da chiedersi perché si permetta di farlo ora. La gerarchia cattolica non ha mai accettato fino in fondo la separazione di campo tra stato e chiesa. Non è una novità. È dal famoso «non expedit» che i cattolici si sono sentiti addosso l’interdizione vaticana a partecipare alla sfera politica ed è un merito della democrazia cristiana di De Gasperi essere riuscita a far ritirare di fatto questa proibizione, lasciando alla destra o alla disinvoltura di Craxi farsi portavoce dei principi e dei bisogni che oltretevere erano cari. L’avere scomunicato nel dopoguerra chi votava comunista aveva finito con il rivolgersi contro la stessa chiesa e dall’interno del suo stesso gregge. E certo anche per la riflessione aperta dal Vaticano II, sebbene dopo la morte di Giovanni XXIII e del tormentato Montini quel processo sia andato lentamente chiudendosi.

In ogni modo le relazioni tra stato e chiesa parevano aver finalmente imboccato una strada corretta. Non che Giovanni Paolo II non facesse sapere quel che pensava dimolti aspetti della modernità, a cominciare dalla controversa questione della libertà sessuale; ma i suoi messaggi si indirizzavano al mondo, e non erano - mi sembra - un intervento diretto nel fare quotidiano delle istituzioni pubbliche.

È dal suo tramonto che la chiesa ha ricominciato a ribadire che il cattolicesimo non riguarda soltanto la coscienza del singolo ma è una scelta obbligata dell’intera nazione italiana. Ed è da allora che la chiesa ottiene dal governo, con la modesta correzione del capo dello stato, inchini e nuovi privilegi (come la detassazione del suo immenso patrimonio immobiliare) e riceve non solo dalla Casa delle libertà - è di ieri la «speciale convergenza» registrata da Berlusconi e Ratzinger - ma dalla sinistra un ossequio che non aveva neppure più sperato di avere.

Ed è questo, non la persuasione da parte della santa sede di detenere la verità rivelata e di imporla a tutto l’universo, che fa scandalo. Lo scandalo è tutto dalla parte della sfera statuale.

Era cominciato da prima della morte di Giovanni Paolo II, ricevuto dal parlamento più che come un ospite di riguardo come il vero maestro del paese, tanto che ormai una targa commemora l’ingresso di quegli augusti piedi nella sede del potere legislativo. Oscar Luigi Scalfaro, credente sul serio, non lo avrebbe mai permesso. È stato dunque un processo, una svolta tutta interna alla scena politica. Forse l’inizio sta nella definizione sempre più diffusa di quel pontefice come la massima autorità morale del nostro tempo - aveva cominciato Massimo Cacciari, che del cristianesimo fa davvero tutto - ma poteva essere un seppur smisurato omaggio. Ma poco tempo fa Giuliano Amato apriva dalla sua posizione di laico di sinistra un discorso nel quale riconosceva alla chiesa di Roma un alto magistero e l’additava in particolare come modello di tolleranza.

Affermazione davvero temeraria da parte di un uomo così colto giacché non occorre riandare alle crociate o all’inquisizione per ricordare che la tolleranza non è stata certo la sua principale virtù. Basta rifarsi al dopoguerra, dalle dirette pressioni esercitate su Dossetti poi sulla sinistra cristiana e infine sullo stesso Franco Rodano fino al recente gesto di fastidio con il qualeGIovanni Paolo II allontanava da sé Leonardo Boss che gli si era gettato in ginocchio davanti. Ad Amato sono seguite dichiarazioni più goffe da parte dell’ex sinistra. Lasciamo stare Pera e Casini, L’ultimo dei due distintosi per la differenza che fa tra laicità, ammessa, e laicismo, condannato. Piero Fassino sentiva di colpo il bisogno di dichiarare che, essendo stato educato dai gesuiti non poteva che provare sentimenti di venerazione per la chiesa. Seguito rapidamente da Fausto Bertinotti che ha fatto sapere via stampa di avere un problema tutto interiore con Dio, si è intrattenuto con i vescovi sulla trascendenza e ieri l’altro dichiarava al che soltanto la chiesa può essere ai nostri giorni un punto di riferimento morale e che chi, come lui, riflette specialmente sull’uomo, non può non riflettere anche su Dio. Il giorno seguente Piero Sansonetti, su Liberazione, glielo contestava in forma garbata con ragionamenti del tutto condivisibili.

Non so se questa improvvisa ondata di religiosità un po’ sia un modo poco elegante per acchiappare voti di centro, come candidamente confessa Livia Turco, nel lodevole intento di toglierci di torno Berlusconi, o se sia ormai così enorme nella cultura dei nostri leader, sinistra e destra per una volta unite, la confusione di idee fra religiosità, cristianesimo, cattolicesimo e chiesa. Termini dei quali uno solo ha una identità storica indiscutibile ed è il cristianesimo, la religiosità essendo una inclinazione psicologica, il cattolicesimo riflettendo solo una parte dei cristiani, e la chiesa di Roma essendone soltanto l’espressione che più temporale di così non potrebbe essere, con tutti i terrestri guai che alla temporalità sono connessi.

Quale che sia l’interpretazione autentica, la leadership politica della sinistra o ex sinistra ci fa sapere che il suo revisionismo è andato molto ma molto più in là di quanto sia stato fino a un paio di anni fa. Fino a persuadersi, gli uni soddisfatti gli altri con preoccupazione, di essere del tutto sprovvisti e incapaci di un’etica. E di avere scoperto di esserlo sempre stati, come se il fatale illuminismo, con la dichiarazione che l’uomo è peribile e deve a se stesso ogni responsabilità di quel che avviene o non avviene in terra, non fosse stato una rivoluzione di ordine non solo culturale ma morale nella storia europea. Come se l’azzeramento della modernit à, l’attacco alle illusioni della ragione rispetto alle ragioni non più del cuore ma addirittura delle viscere avesse ormai debordato i limiti di una riflessione critica per assumere il carattere di una esorcizzazione di tutto quel che è successo fuori dai palazzi vaticani da Montaigne ai tempi nostri.

Francamente più che una crisi di cultura sembra una crisi di ignoranza. Se non siamo, e non lo siamo, volgarmente progressisti, dobbiamo ammettere che la storia non è tutta un andare avanti, che le regressioni esistono, e che la riduzione della politica ai giorni nostri, forse in particolare in Italia, fa di essa il più clamoroso e mediatizzato veicolo.

Ci sono norme che hanno un altissimo valore simbolico anche se nella pratica soccorre il buon senso di non applicarle. La norma del pacchetto Pisanu che consente di mettere in galera fino a due anni una donna con addosso il burqa o il chador è una di queste, e a nulla serve limitarsi a sperare, come ha fatto qualcuno, che non possa essere applicata a chi si copre per motivi religiosi: nell'immaginario razzista che monta in queste tormentate settimane, essa viene già applicata e con soddisfazione. Le istanze «femministe» di chi dall'11 settembre perora la «liberazione» delle donne da veli, chador e burqa a colpi di leggi o di bombe gettano la maschera più eclatantemente in Italia che altrove. Altrove, ad esempio in Francia, il divieto di portare il velo nelle scuole è stato accompagnato da un amplissimo dibattito pubblico e sostenuto da tutt'altre argomentazioni. Si tratta pur sempre a mio avviso, come già mi è capitato di scrivere su questa colonna, di un cattivo divieto, e di cattive argomentazioni: la laicità intesa come neutralizzazione, l'uguaglianza fra i sessi intesa come omologazione, la libertà intesa come dettato normativo con effetti liberticidi. Ma il Rapporto della Commissione Stasi che ha ispirato la legge francese merita comunque di essere letto come esempio illuminante dei paradossi in cui può cacciarsi l'universalismo occidentale; e la discussione che ne è seguita nell'opinione pubblica francese ha meritato comunque di essere seguita come esempio illuminante delle ragioni a difesa, a correzione o contro di esso.

Nell'Italia berlusconiana tutto è più semplice e più elementare: una legge penale e via. Due anni di galera e la questione è risolta. Le donne velate vanno «liberate» con la repressione: la galera vera, della legge penale occidentale, al posto della galera simbolica, della religione e del patriarcato islamico, dell'abito. Qualcosa di minaccioso - un codice sessuale intraducibile nel linguaggio occidentale dell'ostentazione del corpo - si cela dietro il velo, e questo è a ben leggere il messaggio «velato» della legge francese. Quel qualcosa diventa minacciosissimo - un'arma, una bomba, un kamikaze - nella norma italiana, che lì, nel viso femminile velato, trova modo di incarnare e incardinare il fantasma assoluto del pericolo incombente. E il delirio di onnipotenza del controllo assoluto: un kamikaze a viso scoperto non si può - purtroppo - riconoscere e arrestare preventivamente, una donna velata sì. Lì sta l'ignoto, lì sta la preda, lì sta la presa.

Di nuovo troviamo donne, corpi femminili, come posta in gioco del cosiddetto scontro di civiltà. Il passaggio all'inciviltà è questione di poco. Piccole norme paradossali apparentemente con scarse possibilità di essere applicate. All'immaginario bastano minuscoli slittamenti per scavarsi delle autostrade.

L'immagine è tratta dal sito news.bbc.co.uk

Padre Mikael Mouradian (rettore del Pontificio collegio armeno, ndr), quest'anno ricorre il 90° anniversario del genocidio del popolo armeno, il Metz Yeghèrn, il Grande Male. Fu un vero e proprio genocidio? Sappiamo, infatti, che molti contestano l'utilizzo di questo termine.

«Non si può dire che non sia stato un genocidio perché, se prendiamo la definizione Onu di genocidio, vediamo chiaramente che di genocidio si tratta quando c'è la decisione di sterminare tutto un popolo cancellandone la storia, la memoria, la presenza fisica. I turchi, allora, dissero: "lasceremo soltanto un armeno, un esemplare in un museo". I Giovani Turchi il 24 aprile 1915 hanno massacrato a Istanbul circa 800 personalità armene di spicco. Tra di loro c'erano i vescovi, i prelati, gli scrittori, i deputati. Fu il loro primo colpo. Come dice Gesù nel Vangelo "per massacrare le pecore, dai il primo colpo al pastore". È quello che hanno fatto con gli armeni nel 1915. Penso che non si possa usare un'altra parola per spiegare ciò che è avvenuto nel 1915».

Quali sono le ragioni politiche del mancato riconoscimento del genocidio?

«È stato il primo genocidio del XX secolo anche se non è stato riconosciuto per lunghissimi anni dalla comunità internazionale, e purtroppo ancora adesso continua questa negazione. Ricordo benissimo ciò che mi raccontavano i miei genitori e mio nonno: quando gli armeni sono giunti a Parigi nel 1920, Clemenceau disse: "ancora una volta questi scheletri!". Per ragioni politiche internazionali non è stato riconosciuta l'idea del genocidio armeno perché poteva creare attriti con il governo turco».

Fu solo la rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, a denunciare all'epoca l'eccidio?

«Non solo, anche se la Civiltà Cattolica ha avuto la maggiore risonanza. In Armenia c'erano molti missionari e diplomatici stranieri tra i quali l'ambasciatore degli Stati Uniti che sul genocidio ha scritto le sue memorie. Esistono molti documenti che provano la verità del genocidio tra i quali un telegramma che Talat, allora ministro degli interni turco, ha trasmesso al governatore di Aleppo. In esso si legge: «Il diritto degli armeni di vivere è cancellato».

Oggi, a distanza di 90 anni, cosa rappresenta il genocidio per un armeno?

«È una pagina della storia dell'Armenia che non è chiusa e non si chiuderà finché non avremo riconosciuti i nostri diritti su ciò che è stato. È un diritto che ci è negato e che rimane come una spada nel cuore di ogni armeno».

Come affronta la questione la storiografia turca?

«Gli storici turchi avanzano la tesi del trasferimento del popolo armeno. In quel periodo di guerra i turchi erano obbligati a difendere i loro confini e perciò hanno dovuto trasferire molta gente. E quando sposti una massa di gente da un posto a un altro è facile che accadano cose simili a quelle accadute agli armeni. Ma evidentemente non è una spiegazione sufficiente per giustificare uno sterminio di massa. Dicono di non aver fatto niente e che, al contrario, gli armeni hanno massacrato i turchi e aggiungono che nessuno li ha obbligati a lasciare la Turchia e che se ne sono andati da soli (con la diaspora successiva al genocidio ndr)».

In Turchia il genocidio ha colpito anche gli edifici, le chiese, la cultura armeni?

«In Turchia oggi non si parla di presenza di armeni. Purtroppo il genocidio morale e storico continua ancora. Se vai in Turchia a visitare le città dove vivevano gli armeni ti renderai subito conto dalla costruzione delle chiese che c'era un popolo che viveva lì. Purtroppo però il genocidio monumentale continua perché il governo non bada a questi edifici storici. Io definisco tutto ciò genocidio culturale: puoi cancellare la presenza di un popolo non solo massacrando la gente ma cancellando tutti gli edifici e i segni visibili che quella cultura ha costruito».

C'è un'attenzione della stampa su questo?

«No, assolutamente no! Specie per quanto riguarda la distruzione dei monumenti armeni. In sostanza, il governo turco cerca di fare in modo che non ci sia più traccia della nostra storia».

Qual è la posizione della comunità armena sull'opportunità di ammettere l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea?

«Gli armeni non sono a tutti i costi contro l'ingresso della Turchia in Europa. Siamo contro l'ingresso della Turchia nello stato attuale delle cose perché una nazione che non riconosce la sua storia non può costruire il suo futuro, e purtroppo la Turchia non riconosce la sua storia. Avremmo in Europa una nazione che manca di rispetto proprio alla costituzione europea».

Pensa che la tragedia degli armeni sia stata e sia ancora oggi trascurata dalla storiografia? Nei programmi scolastici non si studia il genocidio armeno. Pensa che uno studente colleghi l'idea di genocidio allo sterminio degli armeni?

«Dipende dalla spiegazione e dall'apertura mentale che uno studente ha nel capire che genocidio equivale a sterminio di un popolo. Se si parlasse del genocidio armeno, il processo democratico farebbe un grande passo in avanti, pure qui in Italia. Penso molto all'educazione dei giovani, che sono il futuro dell'Italia, dell'Europa, e non hanno un'apertura mentale completa sul termine genocidio che appartiene a tutti quelli che hanno subito, penso al Darfur in Africa. I giovani, gli studenti devono avere la definizione chiara e così si può capire, spiegare».

Le arti hanno trascurato il genocidio?

«Sì. Se prendiamo il cinema, fino a adesso i film sul genocidio sono stati realizzati da soli registi armeni. Non c'è stato un solo regista non armeno che abbia fatto un film con un vigore internazionale. I film sul genocidio sono arrivati anche qui in Italia ma non hanno avuto una propaganda sufficiente per la loro diffusione».

Pensa che l'ingresso in Europa per la Turchia rappresenti una sorta di «promozione morale» in grado di cancellare il passato?

«Come armeno mi sentirei offeso nella mia propria persona umana se la Turchia entrasse nell'Unione europea senza il riconoscimento del genocidio. Sarebbe un'offesa a tutti gli armeni di tutte le nazioni. Sarebbe un mancato riconoscimento del diritto delle minoranze in Europa. Gli armeni turchi non possono oggi gridare "c'è stato un genocidio nel 1915!" così come i curdi i cui diritti non sono riconosciuti da tutti. La Turchia non riconosce la sua storia, come invece ha fatto la Germania che, riconoscendo l'Olocausto, si è conquistata il diritto di andare avanti».

Il buon soldato Graner ha parlato per tre ore davanti alla corte marziale americana che lo ha processato e condannato a dieci anni di galera per le torture di Abu Ghraib. Ha parlato e ha riso, raccontando di quando massacrava i prigionieri, scattava foto e rideva. Perché rideva allora, perché ha riso adesso, gli hanno chiesto. Risposta: «Non ce n'era e non ce n'è motivo. E' la nevrosi. A Abu Ghraib abbiamo fatto cose indicibili, sopportabili solo con l'assuefazione e con l'idea che ci fosse qualcosa di divertente». Il buon soldato Graner ha raccontato che a Abu Ghraib lui e i suoi compari dovevano però adoperarsi a far sì che l'assuefazione non colpisse i prigionieri. Loro no, non dovevano assuefarsi al dolore perché il dolore doveva restare insopportabile e aumentare ogni volta: questa era l'unica regola da osservare. Un po' di fantasia insomma, per non rendere la sofferenza troppo routinier. Botte ovunque sul corpo; schiaffi in faccia; umiliazioni sessuali. A ripetizione, ma con quel tanto di imprevedibilità da vincere ogni istinto di difesa dei detenuti. Trattamenti individualizzati: per ognuno una scheda personalizzata, come in palestra. «Gradi crescenti di privazione del sonno e del cibo, tecniche di pressione fisica e psicologica, uso mirato dell'isolamento notturno e diurno». Nudità obbligatoria. Tempo massimo per mangiare cinque minuti, tempo minimo venti secondi.

Il buon soldato Graner ha aggiunto che lui, e altri come lui, non erano stati addestrati adeguatamente per questi compiti, non erano preparati al meglio, e che per questo le cose sono degenedrate. Con un po' di tecnica in più, chissà, le cose sarebbero andate meglio: un buon sadico deve saper esercitare un perfetto controllo su quello che fa, altrimenti rischia di sbagliare le dosi. La preparazione tecnica invece era stata sostituita dall'imperativo di eseguire gli ordini senza discuterli, punto e basta. E quindi il buon soldato Graner li eseguiva. Aveva provato a obiettare qualcosa, col capitano Brenson, i sergenti Snyder e Ward, il tenente Phillabaum, il maggiore Rayder, ma gli fu detto di tacere e eseguire e lui tacque e eseguì. «Non c'era nulla di legale. Abbiamo commesso atti criminali. Ma per me, allora, erano ordini, anche se ne dubitavo». Che doveva fare allora il buon soldato Graner? Come ha detto sua madre in suo soccorso: «Lo state processando, ma anche se avesse disobbedito lo avreste processato». Che differenza fa? Obbedienza e disobbedienza indifferenti ai contenuti del comando.

Nel 1961, di fronte al tribunale di Gerusalemme che lo processava e lo condannò a morte per lo sterminio degli ebrei, Adolf Eichmann non considerò sufficiente difendersi invocando l'ubbidienza agli ordini; rivendicò anche una più impegnativa obbedienza alla legge, improntata ai princìpi dell'etica kantiana, o meglio a ciò che di quei principi gli pareva di aver afferrato, di un'etica kantiana, come lui stesso disse, «a uso della povera gente». Hannah Arendt, raccontando il processo ne La banalità del male, sottolinea l'importanza di questa distinzione dell'imputato: per fare scorrere la banalità del male non basta darsi l'alibi di eseguire un comando altrui, bisogna interiorizzare quel comando, «identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge, agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge cui si obbedisce». Adolf Eichmann non eseguiva passivamente gli ordini di questo o quel superiore, aderiva attivamente all'ordine superiore della legge, che per lui si identificava con il Führer. L'«obbedienza cadaverica», come lui stesso la definì durante il processo, non si alimenta né di fanatismo né di automatismi, ma di una ligia e salda ancorché perversa coscienza. Il buon soldato Graner non lo sa, o è figlio di un'epoca, la nostra, in cui anche la banalità del male si banalizza ulteriormente e come un automa risponde all'impulso automatico di superiori senza neanche l'aura dell'autorità della legge?

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