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Sviluppo: quale e quanto. È il titolo di questo incontro. Incomincio dal «quanto». Perché la quantità, e la sua continua dilatazione, è indubbiamente la categoria che meglio caratterizza la società moderna, in tutte le sue principali espressioni. Cito alla rinfusa cose diversissime. Popolazione, agglomerati urbani, macchine di ogni tipo, reti stradali, trasporti, mezzi di comunicazione, burocrazie, traffici, carta stampata, spettacolo, pubblicità, scolarizzazione, turismo, velocità, informazione, ricerca: tutto ciò e molto altro nel secolo scorso ha conosciuto aumenti spettacolari.

In questo processo occorre però tener presente un rapporto che illumina e definisce la particolare qualità del fenomeno quantitativo. Nella seconda metà del Novecento la popolazione mondiale è raddoppiata, e continua a crescere. Nello stesso periodo il prodotto dell'economia mondiale si è moltiplicato per sette, e anch'esso continua a crescere. Ma, mentre l'aumento demografico desta preoccupazioni e sollecita (seppure in modo disorganico e da più parti contrastato) politiche destinate a contenerlo, la crescita produttiva si è imposta in modo sempre più netto come l'asse portante della politica economica e sociale del mondo, da tutti auspicata come irrinunciabile, con dogmatica sicurezza e ossessiva insistenza indicata come strumento risolutivo di ogni problema.

Ma siamo certi che lo sia davvero? Che questo continuo moltiplicarsi e ingigantirsi di fatti quantitativi, tutti d'altronde carichi di un'altissima, a volte rivoluzionaria, valenza qualitativa, sia la migliore garanzia per il nostro benessere e per il futuro del mondo? E le sinistre, e con esse il sindacato, come si collocano di fronte a questo interrogativo? O, meglio, se lo pongono?

Facciamo l'esempio dei problema occupazione. Ne avete già parlato a lungo, dicendo cose molto interessanti. Ma forse non è inutile aggiungere qualche altra considerazione. Tradizionalmente il rapporto tra quantità di produzione e quantità di occupazione è stato di regola proporzionale e biunivoco. Oggi di questo rapporto s'è persa ogni certezza. Il più drammatico crollo occupazionale si è registrato mentre il Pil continuava a salire. Né in seguito la crescita produttiva, forzata al di là di ogni reale bisogno e utilità sociale, ha sanato la situazione. Un parziale recupero, lo sapete bene, si è determinato solo a prezzo di precarizzazione selvaggia e sempre più esoso sfruttamento del lavoro. E il fenomeno riguarda tutto il mondo. L'International labour office parla di un miliardo di disoccupati e sottoccupati, un terzo della forza lavoro del pianeta.

Ciò nonostante di fronte a questa drammatica situazione la parola d'ordine, delle sinistre come delle destre, continua ad essere «crescita». Con una evidente sottovalutazione della rivoluzione informatica, della sua capacità di sostituire in misura sempre maggiore non solo il lavoro manuale ma anche quello mentale. E con una sostanziale rinuncia a utilizzare il progresso tecnico a favore dei lavoratori: paradossalmente infatti, quando sarebbe possibile ridurre fortemente la necessità di lavoro umano, la quantità di lavoro erogato va aumentando dovunque: sia complessivamente sia singolarmente. E questo in definitiva porta alla mancanza di una vera politica occupazionale, anche da parte delle sinistre, costringe a un'azione meramente difensiva di fronte alle «leggi» del capitalismo neoliberistico: secondo le quali il lavoro cessa di essere un diritto, perde il suo valore di cittadinanza e di appartenenza sociale (come l'attacco sistematico al welfare dimostra), scade a una variabile soggetta a tutte le incertezze, di durata, di mansione, di orario, di salario, in conformità alle «compatibilità» aziendali.

Ma un altro aspetto del grande mutamento, nei mondo economico mi pare non venga adeguatamente considerato. Oggi tutte le politiche poste in essere dall'imprenditoria mondiale al fine di ingrossare fatturati, migliorare efficienza produttività competitività, aumentare il Pil, cioè a dire in nome degli stessi obiettivi di continuo da tutti invocati, anche dalle sinistre e dai sindacati, di fatto si traducono in strumenti di ulteriore sfruttamento del lavoro: dalla flessibilizzazione nelle sue mille forme, alle ristrutturazioni aziendali operate mediante pesanti tagli di personale, al boom della finanziarizzazione, al fenomeno sempre più vasto della delocalizzazione, che di volta in volta mette sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori. In proposito, a evidenziare la logica che presiede alle politiche economiche neoliberiste, mi pare serva ricordare che le borse americane premiano, con vistosi rialzi delle loro azioni, le imprese che «snelliscono (organico».

Davvero in questa situazione è difficile capire perché si continui a insistere sulle vecchie politiche produttivistiche, a inseguire le destre nella rincorsa della competitività ad ogni costo, della modernizzazione non importa quale, della crescita produttiva indiscriminata, adeguandosi a un'economia sempre più separata dalla realtà sociale e dai suoi bisogni; al cui interno nemmeno il più moderato riformismo riesce ormai a trovare qualche spazio.

Per un lungo periodo la crescita produttiva nella forma dell'accumulazione capitalistica parve in qualche misura favorire il progresso sociale, anzi oggettivamente lo favorì. Fu allora che i movimenti operai, pur senza mettere in discussione il sistema dato, seppero conseguire importanti vittorie, sfruttando la parzialissima e ambigua, ma fondamentale, convergenza di interessi tra impresa e lavoro: quando - sia pure tra mostruosi squilibri, abusi e iniquità - la tendenza espansionistica del capitale incontrava l'esigenza di maggior reddito delle popolazioni industrializzate, a garantire insieme allargamento dei mercati e crescente benessere.

Questo tipo di rapporto il neoliberismo non lo consente più. È la sua stessa ratio a vietarlo, il suo impianto non solo strutturale ma concettuale. L'iniquità è organica alla competitività senza freni che domina il mercato globalizzato, e detta le regole di un'economia unicamente e forsennatamente impegnata alla produzione di quantitativi sempre crescenti di merci, in tempi sempre più stretti, a costi sempre più bassi: il tutto inevitabilmente a scapito del lavoro. Quali merci si producano d'altronde non importa, né per quale utilità, né con quali conseguenze. Ciò che conta è solo la smisurata dilatazione di un consumo che ben poco ha ormai a che vedere col benessere delle masse, e di fatto non ha altro fine che se stesso.

È vero, oggi tra le sinistre si va ormai diffondendo la consapevolezza che la crescita degli ultimi decenni sul piano sociale non ha pagato, che anzi il neoliberismo ha fortemente aumentato le distanze tra ricchi e poveri, non solo a livello internazionale ma all'interno stesso dei paesi più affluenti. E sempre più insistenti si fanno i dubbi sulla possibilità di conciliare obiettivi con tutta evidenza confliggenti, come competitività e welfare, crescita e solidarietà, modernizzazione e occupazione; sempre più premono interrogativi su come poter difendere le idee di giustizia, costitutive dell'esistenza stessa delle sinistre, all'interno del sistema attuale. E si torna a citare - ma ormai come una vecchia e stanca giaculatoria - la necessità di un nuovo modello di sviluppo, che però nessuno finora ha neppure tentato vagamente di abbozzare.

E questo è il più grave peccato delle sinistre, le quali hanno del tutto mancato una seria analisi critica di una società ormai identificata con una straripante produzione di merci, e impegnata nella riduzione a merce di ogni rapporto e ogni dimensione dell'esistenza; di fatto identificando lo sviluppo sociale con una crescita meramente quantitativa, in tal modo avallando come progresso quella perversione del consumo che è il consumismo, e ignorandone l'azione corruttrice, che diffonde il prevalere incontrastato di valori materiali e acquisitivi, a seminare individualismo aggressività e spregiudicatezza.

Su questa via le sinistre, o quanto meno una loro parte non trascurabile, hanno finito per adagiarsi su una deriva coincidente con la favola raccontata dalle destre: secondo cui la continua e crescente produzione di ricchezza toccherà prima o poi dimensioni tali da raggiungere tutti, fino a eliminare fame e miseria. Non eliminando le disuguaglianze, no. Perché, dice la favola, sono proprio le disuguaglianze a sostenere la competitività, a migliorare produzione e consumo, e così a creare ancora e ancora ricchezza, di cui a tutti, o quasi tutti, toccherà una piccola fetta.

O magari perché no una fetta grossa. Non è questa la magia del capitalismo? Non si son fatte così le fortune più vistose? Non mi soffermo sulla palese inaccettabilità per le sinistre di una politica che prevede e teorizza, come normale strumento di strategia economica, la disuguaglianza sociale, fino all'esclusione di individui, gruppi, interi paesi. Vorrei piuttosto esaminare la questione da un altro lato, e domandare: quale futuro, o meglio quanto futuro, può avere un progetto fondato sulla produzione illimitata di ricchezza?

La produzione, di qualsiasi tipo, è consumo di natura: minerale, vegetale, animale. Ma la natura terrestre, cioè il nostro pianeta, è una quantità data e non estensibile a piacere, e in quanto tale non è in grado di alimentare indefinitamente un'economia in continua crescita, fornendole le quantità di natura a ciò necessaria. E nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare indefinitamente gli scarti che ne derivano, i rifiuti (solidi, liquidi, gassosi). Parrebbe un'ovvietà, anzi è un'ovvietà, che però nessuno, o pochissimi, soprattutto tra economisti e politici, di destra o di sinistra, sembrano considerare tale.

Il problema ambiente oggi nessuno più lo ignora. È sotto gli occhi di tutti lo squilibrio degli ecosistemi, che sconvolge il clima tra uragani, alluvioni, frane, desertificazioni; che va devastando il mondo e le nostre vite tra malattie da smog, intossicazioni, innumerevoli nuove patologie ignote alla medicina tradizionale, insicurezza di ciò che mangiamo beviamo respiriamo; che produce milioni di senza-casa, di profughi, di morti. A lungo però tutto questo le sinistre lo hanno ignorato.

E ancora oggi (sebbene nessuno più ormai si sottragga al dovere di una citazione, in osservanza del «politically correct») la materia non sembra degna di attenzione nel momento delle scelte politiche decisive. Come se la crisi ècologica nulla avesse da spartire con economia, produzione, lavoro, i grandi temi della Politica con la maiuscola. Come se non fosse invece la conseguenza diretta e inevitabile di un modello economico che si regge sulla crescita illimitata e pertanto, inevitabilmente, sulla rapina della natura, sulla continua rottura del limite. Come se tutto ciò, tra l'altro, non costituisse un rischio per la stessa economia: alcune scarsità, acqua e petrolio in primis, già allarmano infatti la macchina produttiva mondiale, e né il mercato né le tecnologie più avanzate sembrano avere soluzioni in mano.

Forse trovate che io stia spaziando tra problemi che non riguardano il sindacato. Non direttamente almeno. Ed è vero che la funzione specifica del sindacato appartiene a un ambito più circoscritto, in sostanza identificabile con la tutela del lavoro e dei lavoratori; mentre tocca ad altri istituti la elaborazione delle politiche del paese e del loro confronto in ambito internazionale. Ma in una società come l'attuale, definita e radicalmente mutata dalla complessa fenomenologia della globalizzazione, io credo che anche decisioni settoriali, non possano essere assunte senza aver presente il quadro degli immani problemi che scuotono il mondo.

Se la globalizzazione ha aperto nuovi spazi alla valorizzazione dei capitali, fornendo all'industria planetaria manodopera a costi irrisori, e creando nel Sud del mondo condizioni di sfruttamento da protocapitalismo. Se condizioni analoghe spesso si producono anche nei nostri paesi tra le masse sempre più numerose dei migranti, tra l'altro fatalmente trascinando al ribasso i salari di tutti. Se i consumi in Occidente sono saliti al punto che un quinto della popolazione del pianeta si appropria di due terzi delle risorse. Se nonostante la continua crescita produttiva nel Sud del mondo ancora si muore di fame, mentre in Occidente si muore di obesità da iperalimentazione. E se, di fronte a un'economia che in complesso continua a deludere, impantanata in una crisi infinita, a un dato momento soltanto la guerra si pone come unico strumento capace di far quadrare i conti del sistema.

Se questa è la verità dei mondo, il mondo del lavoro non la può rimuovere, nel momento in cui si confronta con i suoi problemi e ne cerca soluzione. E non solo perché in qualche misura questa verità è presente anche tra noi, in un Occidente dove disoccupazione e precarizzazione, attacco allo stato sociale, aumento dei poveri e impoverimento dei ceti medi, vengono imposti come condizione alla crescita economica, data come infallibile strumento di futura prosperità per tutti. Ma perché proprio nel confronto tra il grande mondo e la nostra realtà, mi pare si evidenzi in modo ineludibile l'insostenibilità non solo ecologica ma sociale e politica dell'attuale paradigma economico, dunque la necessità di un diverso modo di produzione scambio e consumo. E in questo i sindacati possano dare un contributo tutt'altro che secondario.

Oggi non è più tempo di sovversioni politiche traumatiche, di rivoluzioni armate e sanguinose. Di tutto ciò abbiamo avuto abbastanza. E d'altronde oggi non si tratta di espugnare il Palazzo d'inverno. Si tratta di rimettere in causa un sistema-mondo che con il suo dogma iperproduttivistico e iperconsumistico, e con l'imposizione del mercato come regolatore indiscusso non solo dei meccanismi economici ma della società intera, ha capillarmente penetrato e inquinato cultura, costume, coscienze, fino a determinare comportamenti, desideri, progetti di vita. E delegittimarlo è possibile solo mediante una rivoluzione dolce ma radicale, consapevole e decisa, da attuarsi per gradi ma con costante tenacia, con un'azione molteplice, presente anche nel quotidiano minore, fermamente orientata a contrastare i valori oggi dominanti. Un'azione che muova dal netto rifiuto di una politica come quella praticata finora dalle sinistre, non solo italiane, sostanzialmente incapace di una linea diversa da quella delle destre.

Un tipo di politica che a volte si ritrova anche nell'azione del sindacato. La lotta per la salvaguardia del posto di lavoro, e quindi la difesa della fabbrica, è la strada da sempre seguita come la più naturale, che ancora oggi scatta ad ogni crisi come un riflesso immediato. Ma oggi si impongono interrogativi di cui ieri non c'era motivo. Per fare un solo esempio. Fabbriche gravemente inquinanti, ad alto rischio per i lavoratori e l'ambiente: è il caso di salvarle ad ogni costo? Una riconversione, con riprofessionalizzazione del personale - come d'altronde sovente si fa - non dovrebbe essere sempre presa in considerazione come la soluzione da preferire?

Ma anche altre domande di volta in volta bisognerebbe porsi: se e quanto serva ciò che si produce; se risponda a bisogni reali o non si tratti di oggetti destinati al consumismo più futile che poi la pubblicità s'incaricherà di dimostrare indispensabili; se non esistano altre necessità insoddisfatte, dunque con diritto di priorità; e quali siano le ricadute dei prodotti in questione, sul piano ecologico, sanitario, culturale, sociale, umano.

Una molteplicità di scelte, anche minori e minime, operate a questo modo, costituirebbe parte non piccola di una rivoluzione non traumatica ma Incisiva, in quanto netta, continua e sistematica negazione dei criteri che guidano l'economia capitalistica, basati unicamente sulla valutazione di quantità e profitto conseguibili, e ignari di ogni altra esigenza. Per questa via, in una realtà come la nostra, straripante di merci ma gravemente carente sul piano dei servizi pubblici e sociali, sarebbe forse possibile progressivamente spostare il baricentro dell'economia dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni sociali.

Le conseguenze, anche se inizialmente limitate, sarebbero però tutt'altro che trascurabili, anche nell'immediato. Sul piano occupazionale innanzitutto: perché mentre nell'industria la tecnica sempre più largamente va sostituendo le persone, nessuna attività sociale può prescindere dalla presenza umana. E ai fini degli equilibri ecologici: perché la produzione sociale, a differenza di quella industriale, non inquina. Ma soprattutto per l'avvio di un diverso modo di progettare, pensare, vivere il lavoro, e quindi la produzione e il consumo.

Vi sembrano sogni, pii desideri? E però da qualche tempo stanno accadendo cose insolite. Da più parti, da gruppi di giovani, circoli di intellettuali, nuove riviste, convegni, spezzoni del movimento altermondialista, giungono segnali di rifiuto dell'orgia consumistica, di dubbi sulla bontà indiscussa della crescita illimitata. Alcuni addirittura a gran voce chiedono «decrescita». E, fatto davvero non trascurabile, di recente la Cina, di fronte al sempre più drammatico deterioramento ambientale del paese, e all'aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, ha deciso di contenere di un terzo il tasso di aumento del proprio Pil. Infine tra i segnali di questo tipo non posso tralasciare il nostro incontro: che i sindacati si interroghino su materie come quelle dibattute oggi non mi pare davvero di scarso significato.

Dino Greco si diceva convinto di una evidente crisi del capitale. Ne sono convinta anch'io. Sono gli stessi meccanismi dell'accumulazione che spesso ormai sembrano girare a vuoto, inceppati tra crisi e scandali a ripetizione. Forse a riprova che crescita illimitata non esiste, né in natura né nella storia. Forse anche a ricordarci che dopotutto il capitalismo è un fenomeno storico, e come tutti i fenomeni storici ha avuto una nascita e avrà prima o poi una fine. È una verità che le sinistre una volta tenevano presente, a supporto del loro stesso esistere e agire. Una verità forse da recuperare.

Pubblico e privato sono due parole che si possono dire in molti modi. Un tempo le separava una linea chiara, sì che le virtù pubbliche, a quel tempo tutte maschili, risplendevano a spese dei vizi privati, occultandoli o omettendoli; molti uomini pubblici apparentemente tutti d'un pezzo vivevano in realtà, e gradirebbero tuttora vivere, di quella scissione. Poi delle virtù pubbliche si sono impadronite anche le donne, per giunta rifiutandosi di considerare vizi le passioni private, nonché di occultarle o di ometterle. La linea chiara si è spezzata e privato e pubblico, o come meglio disse il femminismo personale e politico, da allora sono entrati in circolo: o si potenziano o si urtano, o si sostengono o si sgambettano; dipende da chi muove la partita. Accade alla corte reale d'Inghilterra con Lady D. come alla Casa bianca col sexgate come al comune di Cosenza; e quasi sempre a muovere è una donna. Muove la regina anche a Cosenza, dove il sindaco Eva Catizone - 39 anni, separata dal marito, vicina no global e pacifisti, eletta nel 2002, sulla base della designazione di Giacomo Mancini, da una coalizione di centrosinistra oggi scossa da non pochi problemi - un bel giorno decide di rendere pubblica la sua scelta privata di mettere al mondo un figlio da sola, o come si dice da single, senza riconosciuta paternità e dandogli il proprio cognome. Lo fa con un'intervista al Quotidiano della Calabria - «con una donna, Lucia Serino, perché mi fidavo di più» -, cui seguono altre interviste in tv e la prima pagina della Gazzetta del Sud, e seguiranno servizi nazionali e copertine di settimanali. Complice agosto, la storia fa notizia, perché è la protagonista stessa a politicizzarla. Da donna, si sente in sintonia con i tempi: dice che vuole questo figlio anche se il padre non lo riconosce, che gli farà lei da madre e da padre, che anche la Consulta ha messo in questione il patronimico, che la legge sulla procreazione assistita va abolita perché non aiuta ma ostacola il desiderio di maternità. Da sindaco, si sente in sintonia con la sua città e vuole che la sua città si metta in sintonia con lei: «La mia vita privata è necessariamente anche pubblica, fra un sindaco e la sua città c'è un rapporto carnale, io sono sicura di interpretarne lo spirito, ci sono gesti di libertà che servono a trasformare le infrastrutture mentali più di centinaia di strade o di ponti». Ci sono gesti di libertà che servono anche a stroncare le insidie sempre in agguato del gossip politico, che non si era risparmiato di associare i recenti eventi politici dell'amministrazione cosentina - rottura del patto federativo fra il il Pse di Giacomo Mancini jr e i Ds, ingresso in giunta di Ds e Margherita che prima la appoggiavano dall'esterno -, al legame tra il sindaco e il segretario regionale dei Ds Nicola Adamo. Legame non segreto ma non ufficiale. Fino a ieri.

Ieri infatti la notizia raddoppia, perché a sorpresa il padre del bambino si manifesta, a sua volta tramite un'intervista, questa volta alla Gazzetta: «Penso di essere io», dice Nicola Adamo sotto un titolo a sette colonne sulla «delicatissima vicenda». Stessa tecnica mediatica, stesso intrigo di pubblico e privato, ma il linguaggio cambia e il senso si capovolge: il tormento al posto dell'entusiasmo, la confessione al posto dell'annuncio, i sensi di colpa al posto della gioia, l'errore al posto del desiderio. Il dirigente ds avrebbe preferito che la vicenda «si risolvesse in una dimensione privata», ma vista la mossa di lei non c'era più scampo: «la mia coscienza non poteva più reggere, i miei genitori mi hanno inculcato il principio dell'onestà, quando si sbaglia meglio ammettere le proprie colpe, non fuggo e non mi nascondo, non voglio che il nome del nascituro resti ignoto, non potevo avallare un nuovo gioco di società, il toto-partner del sindaco». No, quel figlio non era previsto e lui non desiderava una nuova paternità, ma «la scelta finale non poteva che essere di Eva». Seguono le scuse agli amici, la richiesta di perdono a moglie e figli, l'evocazione dell'esempio di Emanuele Macaluso che nel suo ultimo libro racconta di essere stato in carcere per adulterio: «Vecchi tempi che insegnano a essere coerenti e ad addossarsi il peso degli errori». C'è la sintonia di un sindaco con la città, e c'è la sintonia di un dirigente col super io delle istituzioni, dalla famiglia al partito.

Eva Catizone si chiude in un rigido no-comment: bisogna tutelare l'oggetto d'amore anche, forse soprattutto, quando rischia di essere compromesso. Anche quando prima evapora dalla scena erotica, poi ricompare sulla scena mediatica. La città intanto ha reagito al meglio: fiori e auguri al sindaco in quantità. Il bambino si chiamerà Filippo come il nonno, padre adorato di Eva che faceva il ginecologo dalla parte delle donne ma «non ha mai fatto un'interruzione di gravidanza».Con la sua nascita sua madre ne festeggerà altre due, quella del più grande planetario del Mediterraneo e quella del percorso museale sui maestri del Novecento, da Consagra a Warhol a Botero, realizzato grazie alla donazione del mecenate newyorchese Carlo Bilotti alla sua città natale.

L’immagine qui accanto mi è arrivata con lo spam quotidiano il giorno stesso che un’amica mi aveva segnalato l’articolo

Vladimir Ilic Lenin è morto il 21 gennaio 1924, ottanta anni fa, e ci chiediamo se l'imbarazzato silenzio che circonda il suo nome non significhi che è morto due volte, che è morta anche la sua eredità. Effettivamente la sua insensibilità nei confronti delle libertà personali è estranea alla nostra sensibilità liberale e tollerante. Chi oggi non si sente rabbrividire al ricordo delle parole con cui Lenin liquidò la critica che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari facevano del potere bolscevico nel 1922? «In verità, le prediche che fanno i menscevichi e i socialisti rivoluzionari rivelano la loro vera natura: "la rivoluzione si è spinta troppo oltre(...)". Ma allora noi replichiamo: permetteteci di mettervi di fronte a un plotone di esecuzione per aver detto queste parole. O vi astenete dall'esprimere le vostre opinioni oppure, se insistete ad esprimerle pubblicamente nelle circostanze attuali, in un momento in cui la nostra posizione è di gran lunga più difficile di quando le guardie bianche ci attaccavano apertamente, non potete biasimare altri che voi stessi se noi vi trattiamo alla stessa stregua degli elementi peggiori e più perniciosi delle guardie bianche». Questo atteggiamento sprezzante nei confronti del concetto liberale della libertà spiega la cattiva reputazione di cui Lenin gode fra i liberali. La loro tesi si basa soprattutto sul rifiuto della classica contrapposizione marxista-leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: come non si stancano di ribadire anche i liberali di sinistra del calibro di Claude Lefort, la libertà è intrinsecamente «formale», per cui la «libertà reale» equivale all'assenza di libertà. Lenin è ricordato soprattutto per la sua famosa risposta: «Libertà - sì, ma per chi? Per fare cosa?». Per lui, nel caso appena citato dei menscevichi, la loro «libertà» di criticare il governo bolscevico equivaleva in effetti alla «libertà» di minare alle basi il governo dei lavoratori e dei contadini, a favore della controrivoluzione ...

Oggi come oggi, dopo la terrificante esperienza del socialismo reale, non è forse più che evidente in che cosa consiste l'errore di questo ragionamento? In primo luogo, esso riduce una costellazione storica a una situazione chiusa, in cui le conseguenze «oggettive» degli atti di una persona sono completamente determinate («indipendentemente dalle vostre intenzioni, quello che voi adesso state facendo serve oggettivamente a ....»). In secondo luogo, il suo «oggettivismo» apparente ne copre l'opposto soggettivismo: sono io a decidere il significato oggettivo delle tue azioni, dato che sono io a definire il contesto di una situazione: ad esempio, se io considero il mio potere l'espressione immediata del potere della classe operaia, chiunque si oppone a me è «oggettivamente» un nemico della classe operaia.

Ma è proprio questa la conclusione del discorso? In che modo funziona di fatto la libertà nelle democrazie liberali? Per quanto la presidenza di Bill Clinton rappresenti alla perfezione la terza via della (ex) sinistra odierna subalterna al ricatto ideologico della destra, il suo programma di riforme dell'assistenza sanitaria costituirebbe comunque, nelle condizioni di oggi, un atto fondato sul rifiuto dell'ideologia imperante del taglio della spesa pubblica: in un certo senso, Clinton avrebbe «fatto l'impossibile». Non c'è da stupirsi, quindi, che tale programma sia fallito: il suo fallimento - forse l'unico evento significativo, ancorché negativo, della presidenza di Bill Clinton - conferma una volta di più la forza materiale del concetto ideologico di «libera scelta». Sebbene la grande maggioranza della cosiddetta «gente comune» non fosse adeguatamente informata in merito al programma di riforma, la lobby medica (due volte più forte dell'infame lobby degli armamenti!) riuscì a inculcare nell'opinione pubblica l'idea fondamentale che, con l'assistenza medica universale, si sarebbe in qualche modo minacciata la libera scelta in questioni attinenti alla medicina.

A questo punto tocchiamo il centro nervoso dell'ideologia liberale: la libertà di scelta, questione di cruciale importanza nelle nostre «società del rischio» - come le definisce Ulrich Beck - in cui l'ideologia dominante tenta di «venderci» quella stessa insicurezza che è provocata dallo smantellamento dello stato sociale, spacciandola per l'opportunità di nuove libertà. Dovete cambiare lavoro ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine invece che su un lavoro stabile a lungo termine? Perché non vedere in questo la liberazione dai vincoli di un lavoro fisso, la chance di reinventare continuamente la propria vita, di prendere consapevolezza di sé e di realizzare i potenziali latenti della propria personalità? Non potete più fare affidamento sui sistemi pensionistici e mutualistici tradizionali, per cui dovete scegliere una copertura integrativa e pagare di tasca vostra? Perché non percepire in questo un'ulteriore possibilità di scelta: una vita migliore adesso, o una maggiore sicurezza a lungo termine? E se vivete con angoscia un frangente del genere, l'ideologo post-moderno o della «seconda modernità» vi accuserà immediatamente di essere incapace di assumere la libertà completa, di «rifuggire dalla libertà», in un'immatura adesione alle vecchie forme di stabilità. Meglio ancora, se questo si iscrive nell' ideologia del soggetto inteso come individualità psicologica, gravida di capacità e tendenze naturali, ciascuno interpreterà automaticamente tutti questi mutamenti come risultati della propria personalità, e non come conseguenza del fatto di essere sballottato come un fuscello dalle forze del mercato.

Fenomeni come questi rendono più che mai necessario oggi riaffermare la contrapposizione fra libertà «formale» e libertà «reale», in un senso nuovo e più preciso. Consideriamo la situazione dei paesi dell'Est europeo intorno al 1990, quando il socialismo reale stava crollando. All'improvviso, la gente si è trovata catapultata in una situazione di «libertà di scelta politica»senza che le venisse posta la domanda fondamentale: quale tipo di nuovo ordine desiderava realmente? Prima le si disse che stava entrando nella terra promessa della libertà politica; subito dopo, la si informò del fatto che questa libertà comportava privatizzazioni selvagge, lo smantellamento della sicurezza sociale, ecc. ecc.. La gente ha ancora libertà di scelta, se vuole, può tirarsi indietro; ma no, i nostri eroici concittadini dell'Est europeo non volevano deludere i loro maestri occidentali, e quindi hanno perseverato stoicamente nella scelta che non avevano mai compiuto, convincendosi che era loro dovere comportarsi da soggetti maturi, consapevoli che la libertà ha il suo prezzo ...

A questo punto si dovrebbe rischiare di reintrodurre la contrapposizione leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: il nocciolo di verità nella caustica replica di Lenin ai suoi critici menscevichi è che la scelta veramente libera è una scelta in cui io non mi limito a scegliere tra due o più alternative all'interno di un insieme prestabilito di coordinate, ma scelgo invece di modificare quell'insieme stesso di coordinate. L'intoppo nella «transizione» dal socialismo reale al capitalismo è stato che la gente non ha mai avuto la possibilità di scegliere l'ad quem di tale transizione: all'improvviso si è vista catapultata (alla lettera) in una situazione nuova, in cui si trovava di fronte ad un nuovo insieme di scelte prestabilite (puro liberalismo, nazionalismo conservatore ....).

È questo il senso delle ossessive tirate di Lenin contro la libertà «formale», in questo consiste il loro «nocciolo razionale» che vale la pena di salvare ancora oggi. Quando Lenin sottolinea che la democrazia «pura» non esiste, che noi dovremmo sempre chiederci a chi giova la libertà specifica presa in considerazione, qual è il suo ruolo nella lotta di classe, Lenin mira per l'appunto a salvaguardare la possibilità di una vera scelta radicale. In questo consiste, in ultima analisi, la distinzione tra libertà «formale» e libertà «reale»: la libertà «formale» è la libertà di scelta all'interno delle coordinate dei rapporti di potere esistenti, mentre la libertà «reale» designa un intervento che mina alle basi queste stesse coordinate. In sintesi, Lenin non intende limitare la libertà di scelta, bensì conservare la scelta fondamentale. Quando si domanda quale sia il ruolo di una libertà all'interno della lotta di classe, quello che ci chiede è per l'appunto questo: questa libertà contribuisce alla scelta rivoluzionaria fondamentale, oppure la limita?

Lo spettacolo televisivo più popolare degli ultimi anni in Francia, con indici di ascolto altissimi, che hanno addirittura doppiato il successo dei reality shows tipo Il Grande Fratello, è stato C'est mon choix su France 3. Si tratta di un talk show che ospita ogni volta una persona che ha effettuato una scelta particolare, determinante per tutta la sua vita: uno che ha deciso di non indossare mai biancheria intima, un altro che cerca continuamente di trovare un partner sessuale più adeguato per il padre e la madre, e così via. I comportamenti stravaganti sono ammessi, addirittura incoraggiati, ma con l'esclusione esplicita delle scelte che possono disturbare il pubblico : ad esempio, una persona che scelga di essere e agire da razzista è esclusa a priori. Non si può immaginare un esempio più calzante di quello che la «libertà di scelta» rappresenta realmente nelle nostre società liberali. Possiamo continuare ad effettuare le nostre piccole scelte, a «reinventare noi stessi» compiutamente, a patto che queste scelte non incidano veramente sull'equilibrio sociale e ideologico generale. Per fare una cosa davvero di sinistra, C'est mon choix avrebbe dovuto concentrarsi per l'appunto sulle scelte «spiazzanti»: invitare come ospiti persone che fossero razzisti impegnati, cioè persone la cui scelta incide veramente, fa la differenza. È anche questo il motivo per cui, oggi come oggi, la «democrazia» è sempre più un falso problema, un concetto talmente screditato dal suo uso prevalente che, forse, si dovrebbe correre il rischio di abbandonarlo al nemico. Dove, come, da chi sono effettuate le decisioni chiave riguardanti i problemi sociali globali? Avvengono nello spazio pubblico, con la partecipazione impegnata della maggioranza? In caso di risposta affermativa, è di secondaria importanza vivere in uno stato a partito unico, o altro. In caso di risposta negativa, è di secondaria importanza che si viva in un sistema di democrazia parlamentare e di libertà delle scelte individuali.

Quanto alla disintegrazione del socialismo di stato venti anni fa, è doveroso non dimenticare che, approssimativamente nello stesso periodo, è stato inferto un colpo durissimo anche all'ideologia dello stato sociale delle socialdemocrazie occidentali, che ha cessato anch'essa di operare come immaginario coesivo delle passioni collettive. L'idea che «l'epoca dello stato sociale è tramontata» è ormai largamente acquisita e condivisa. L'elemento comune a queste due ideologie sconfitte è il concetto che l'umanità, in quanto soggetto collettivo, ha la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo ed impersonale, di guidarlo nella direzione desiderata. Attualmente, tale concetto viene sbrigativamente accantonato come «ideologico» e/o «totalitario»: di nuovo, si percepisce il processo sociale come dominato da un Fato anonimo, che trascende il controllo sociale. L'ascesa del capitalismo globale si presenta a noi nelle vesti del Fato, contro cui non è possibile combattere: o ci adattiamo, oppure la storia ci lascia indietro, ci travolge. L'unica cosa che si può fare è rendere il capitalismo globale quanto più umano possibile, combattere per un «capitalismo globale dal volto umano» (questo è, o piuttosto era, in ultima analisi, la terza via)

La nostra scelta politica fondamentale - essere socialdemocratico o cristiano-democratico in Germania, democratico e repubblicano negli Stati uniti, ecc. - non può non ricordarci l'imbarazzo della scelta quando chiediamo un dolcificante artificiale in un bar: l'alternativa onnipresente fra bustine rosa e bustine blu, fra sweet'n'low e dietor, e la ridicola pervicacia con cui ognuno sceglie fra le due evitando quella rosa perché contiene sostanze cancerogene o viceversa, servono semplicemente a evidenziare l'insignificanza totale dell'alternativa. E lo stesso discorso si ripete per la Coca e la Pepsi. Ancora, è un fatto ben noto che il pulsante «chiudi porte» degli ascensori è quasi sempre un placebo assolutamente inefficace, piazzato lì soltanto per dare ai singoli individui l'impressione di partecipare, di contribuire in qualche modo alla velocità del viaggio in ascensore; ma quando premiamo quel pulsante, la porta si chiude esattamente alla stessa velocità di quando ci limitiamo a premere il pulsante del piano. Questo caso estremo di falsa partecipazione è una metafora efficace della partecipazione degli individui nel processo politico della nostra società «postmoderna» ...

È questo il motivo per cui, attualmente, tendiamo a evitare Lenin: non perché egli fosse un «nemico della libertà», ma piuttosto perché ci ricorda i limiti ineluttabili (imprescindibili) delle nostre libertà; non perché non ci offra una scelta, ma piuttosto perché ci ricorda il fatto che la nostra «società delle scelte» preclude qualsiasi vera scelta.

(traduzione di Rita Imbellone)

la traduzione in italiano è qui

Par leur accumulation et par leur caractère unilatéral, les commémorations du soixantième anniversaire du Débarquement sont en train d'installer, dans la conscience collective des jeunes générations, une vision mythique, mais largement inexacte, concernant le rôle des Etats-Unis dans la victoire sur l'Allemagne nazie.

L'image véhiculée par les innombrables reportages, interviews d'anciens combattants américains, films et documentaires sur le 6 juin, est celle d'un tournant décisif de la guerre. Or, tous les historiens vous le diront : le Reich n'a pas été vaincu sur les plages de Normandie mais bien dans les plaines de Russie.

Rappelons les faits et, surtout, les chiffres.

Quand les Américains et les Britanniques débarquent sur le continent, ils se trouvent face à 56 divisions allemandes, disséminées en France, en Belgique et aux Pays Bas. Au même moment, les soviétiques affrontent 193 divisions, sur un front qui s'étend de la Baltique aux Balkans.

La veille du 6 juin, un tiers des soldats survivants de la Wehrmacht ont déjà enduré une blessure au combat. 11% ont été blessés deux fois ou plus. Ces éclopés constituent, aux côtés des contingents de gamins et de soldats très âgés, l'essentiel des troupes cantonnées dans les bunkers du mur de l'Atlantique. Les troupes fraîches, équipées des meilleurs blindés, de l'artillerie lourde et des restes de la Luftwaffe, se battent en Ukraine et en Biélorussie. Au plus fort de l'offensive en France et au Benelux, les Américains aligneront 94 divisions, les Britanniques 31, les Français 14. Pendant ce temps, ce sont 491 divisions soviétiques qui sont engagées à l'Est.

Mais surtout, au moment du débarquement allié en Normandie, l'Allemagne est déjà virtuellement vaincue. Sur 3,25 millions de soldats allemands tués ou disparus durant la guerre, 2 millions sont tombés entre juin 1941 (invasion de l'URSS) et le débarquement de juin 1944. Moins de 100.000 étaient tombés avant juin 41. Et sur les 1,2 millions de pertes allemandes après le 6 juin 44, les deux tiers se font encore sur le front de l'Est. La seule bataille de Stalingrad a éliminé (destruction ou capture) deux fois plus de divisions allemandes que l'ensemble des opérations menées à l'Ouest entre le débarquement et la capitulation.

Au total, 85% des pertes militaires allemandes de la deuxième guerre mondiale sont dues à l'Armée Rouge (il en va différemment des pertes civiles allemandes : celles-ci sont, d'abord, le fait des exterminations opérées par les nazis eux-mêmes et, ensuite, le résultat des bombardements massifs de cibles civiles par la RAF et l'USAF).

Le prix payé par les différentes nations est à l'avenant. Dans cette guerre, les Etats Unis ont perdu 400.000 soldats, marins et aviateurs et quelques 6.000 civils (essentiellement des hommes de la marine marchande). Les Soviétiques quant à eux ont subi, selon les sources, 9 à 12 millions de pertes militaires et entre 17 et 20 millions de pertes civiles. On a calculé que 80% des hommes russes nés en 1923 n'ont pas survécu à la Deuxième Guerre Mondiale. De même, les pertes chinoises dans la lutte contre le Japon -- qui se chiffrent en millions -- sont infiniment plus élevées -- et infiniment moins connues -- que les pertes américaines.

Ces macabres statistiques n'enlèvent bien évidemment rien au mérite individuel de chacun des soldats américains qui se sont battus sur les plages de Omaha Beach, sur les ponts de Hollande ou dans les forêts des Ardennes. Chaque GI de la Deuxième guerre mondiale mérite autant notre estime et notre admiration que chaque soldat russe, britannique, français, belge, yougoslave ou chinois. Par contre, s'agissant non plus des individus mais des nations, la contribution des Etats Unis à la victoire sur le nazisme est largement inférieure à celle que voudrait faire croire la mythologie du Jour J. Ce mythe, inculqué aux générations précédentes par la formidable machine de propagande que constituait l'industrie cinématographique américaine, se trouve revitalisée aujourd'hui, avec la complicité des gouvernements et des médias européens. Au moment ou l'US-Army s'embourbe dans le Vietnam irakien, on aura du mal à nous faire croire que ce serait le fait du hasard...

Alors, bien que désormais les cours d'histoire de nos élèves se réduisent à l'acquisition de « compétences transversales », il serait peut-être bon, pour une fois, de leur faire « bêtement » mémoriser ces quelques savoirs élémentaires concernant la deuxième guerre mondiale :

- C'est devant Moscou, durant l'hiver 41-42, que l'armée hitlérienne a

été arrêtée pour la première fois.

- C'est à Stalingrad, durant l'hiver 42-43, qu'elle a subi sa plus lourde défaite historique.

- C'est à Koursk, en juillet 43, que le noyau dur de sa puissance de feu -- les divisions de Panzers -- a été définitivement brisé (500.000 tués et 1000 chars détruits en dix jours de combat !).

- Pendant deux années, Staline a appelé les anglo-américains à ouvrir un deuxième front. En vain.

- Lorsqu'enfin l'Allemagne est vaincue, que les soviétiques foncent vers l'Oder, que la Résistance -- souvent communiste -- engage des révoltes insurrectionnelles un peu partout en Europe, la bannière étoilée débarque soudain en Normandie...

Eddytoriale 46 del 1° giugno 2004

A giugno si vota per il rinnovo del parlamento europeo.

L’obiettivo primario di questa campagna elettorale è ottenere una vittoria sul centrodestra e battere Berlusconi.

A questo appuntamento il centrosinistra si presenta con una lista unica del polo riformista costituita da DS, Margherita e SDI, e con una pluralità di liste espressioni della società civile e della sinistra: Lista Di Pietro-Occhetto, PdCI, Verdi, Rifondazione Comunista. La lista del polo riformista suscita molte perplessità sia per i contenuti moderati che esprime sia per le modalità con cui è nata. Essa appare del tutto inadeguata rispetto alla " radicalità" manifestata dai movimenti su temi e valori decisivi per contrastare il centrodestra e per affermare una proposta di governo alternativa. Non ha una base programmatica certa e sicura e rischia, qualora si tornasse a vincere, di dar vita ad un esecutivo debole e non confortato sul piano del programma dal consenso popolare.

Paradossalmente le forze politiche di sinistra che non si riconoscono nella lista riformista pur avendo una base programmatica più chiara e condivisa, si presentano divise nell’illusione che ancorandosi alla propria identità il risultato elettorale possa essere migliore. Tuttavia esse, pur con limiti, hanno manifestato una maggiore sintonia e apertura nei confronti delle sollecitazioni espresse da gran parte dei movimenti che sono in prima fila nella lotta contro la guerra, contro il neoliberismo per la tutela del lavoro e dei diritti universali, per una democrazia partecipata, per un nuovo modello di sviluppo più equo nei confronti col Sud del mondo e rispettoso degli equilibri ecologici.

L' obiettivo di sconfiggere una destra ormai chiaramente eversiva dell'ordine costituzionale potrà realizzarsi se l' alleanza di centro sinistra potrà contare su una sinistra unita e plurale che dia ampia garanzie sul terreno della difesa del lavoro e delle conquiste sociali, della legalità, della piena valorizzazione della democrazia costituzionale , oggi minacciata, e che recuperi molti elettori che hanno disertato le urne in questi anni. Questo chiedono milioni di elettori, che sono stati protagonisti dei movimenti che si sono sviluppati nel paese e che hanno rappresentato l'autentico motore dell'opposizione al governo Berlusconi.

La Lista riformista e la frammentazione delle liste a sinistra non corrispondono a queste aspettative. Lo riteniamo un errore. Tuttavia siamo consapevoli che, per il carattere proporzionale di queste elezioni, quello che conterà sarà il voto complessivo che otterranno tutte le liste dell'attuale opposizione, nessuna esclusa. Al tempo stesso sappiamo che oggi nessuna delle liste di sinistra che non si riconoscono nella Lista riformista può aspirare a diventare, da sola, il polo di una nuova aggregazione a sinistra che appare matura e non più rinviabile. Per questo pensiamo che non sia necessario dividerci, riproponendo un sterile diatriba di appartenenza su quale di queste liste votare. Esprimeremo un voto differenziato, a partire dalle nostre diverse storie, esperienze e sensibilità, chiedendo loro di sentirsi coerentemente impegnate in un percorso riconoscibile di ricostruzione di una sinistra autonoma, visibile, plurale.

Il nostro voto sarà un voto "in prestito " che nessuna delle liste in questione potrà considerare come l'affermazione della sua linea e identità, ma solo come una fiducia temporaneamente accordata in vista di una diversa prospettiva per una sinistra unita che si confronta con le sue posizioni con altri soggetti che esprimono, allo stato delle cose, un punto di vista moderato all’interno di una più larga coalizione democratica.

Rivolgiamo un invito a tutti coloro che condividono queste nostre considerazioni a sottoscrivere l'appello e a promuovere, a breve, un incontro per porre all'ordine del giorno l'apertura - dopo le elezioni europee - di una Fase costituente per una nuova aggregazione della sinistra.

Per aderire: Franco Ottaviano, tel . 065561229 - 3494921234 -
ottaviano.franco@tiscali.it

Franco Ottaviano, Antonio Castronovi, Aldo Carra, Vittorio Parola, Gerardo Marletto, Sandro Morelli, Carlo Siliotto, Aldo Garzia, Armando Cipriani, Mario Cocco, Stefania Tuzi, Grazia Tuzi, Antonella Stanganelli, Claudio Canestrari, Bruno Ceccarelli, Stefano Rizzo, Sergio Sammarone, Tiziana Silvani, Antonio Thiery, Assunta Vanocore, Giovanni Nicolai, Marco Cordella, Gigliola Fioravanti, Marina Minicuci, Raffaele Calabretta, Paolo Berdini , Maria Rosaria Fanuele, Giovanna Ricoveri,, Lorenzo Musella, Isabella Temperelli, Angelo Palloni, Marina Montacutelli, Maurizio Melani, Roberto Mazzantini, Maurizio Antonio Petrachi, Enza Talciani, Giulia Barrera, Tiziana Cristofani, Marco Tulli, Lorenzo Gallico, Anna Lisa Comes, Marcello Cicirello, Gianni Ruocco, Carlo Drago, Silverio Corvisieri, Milena Sarri, Rosalia Grande, Luca Lo Bianco, Mirella Duca, Bruno Principe, Ivano Di Cerbo, Mauro Pepe, Antonella Marrone, Francesca Parola, Mauro Belardi, Anna Paola Bonanni, Paolo Ciofi, Maria Teresa Palazzolo, Carlota Benitez, Maria Adelaide Palmieri, Franco Falasca., Marzia Savelli, Luigi Barbato, Massimo Trebitsch, Bruno Giarolli, Celeste Ingrao, Sabbatini Giancarlo, Pietro Rella, Antonella Zagaroli, Franco Mazzetto, Francesco Granone, Gennaro Lopez, Tarcisio Bonotto, Maria Luisa Chiavari, Ruggero Donati, Elisabetta Papini, Marcello Marani, Giuliana Todini, Anna Maria Pulcini, Piero Leone

Aldo Baldi, Ugo Balzametti, Marco Carlaccini, Patrizia D'Orsi, Erica Betti, Massimo Marciani, Carlo Magni, Giovanni Casino Papia, Luciano Quagliarotti, Silvia Messina, Giuseppe Pinna, Carlo Pellas, Luciano Braga, Pippo Di Marca, Licia Rotunno, Giuliano Nencini, Daniela Ortaggi, Alberto Cassanelli, Francesco Donzella, Francesca Borruso, Angelo Paciotti, Christian Massimini, Michele Calabresi, Francesco Cavaliere, Massimo Tiberi, Maria Carmenla Bosco, Ceciclia Errede, Luana Belloni, Stefano Narduzzi, Alberico Ceccarelli, Giorgio Scavino, Elide Bernardina Stucchi, Gilda Bosco, Orietta Umbro, Fabiana Tiberi, Emilio Scutti, Maria Elisabetta Militello, Felicita Mariantoni, Lino Ponticelli, Elena Olcese, Ferdinando Pedone, Carlo Faggiani, Victor De Andreis, Simonetta Tarantini, Elisa De Francisci, Sandro Segarelli, Concetta Menna, Marco Quaranta, Enrico Calamai, Marco Cimaglia, Cristina Ambrosetti, Nino Lisi, Bianca Idelson, Mara Camelin, Maria Fausta Adriani, Vezio De Lucia, Carlo Sordoni, Giovanni Mimio, Franca Santini, Biagio Propato, Gianfranco Argentero, Rita Proietti, Angela Picchione (Bologna), Vittorio Marletto (Bologna), Carlo Trivisano (Bologna), Norma Cagnino (Bologna), Maria Grazia Negrini (Bologna), Maurizio Goffredi ( Brescia ), Laura Mentasti (Brescia), Felice Bifulco - Mugello (FI), Sandro Nicola Modafferi (Pisa), Dario Franchini (Pisa), Maurizio Alfonso Iacono (Pisa), Francesco Lenci (Pisa), Francesco Stoppaccioli (Pisa), Maurizio Logli (Pisa), Pietro Pertici (Pisa), Gregorio Marzano (Pisa), Maurizio Persico (Pisa), Sergio Cesaratto (Siena) , Roberto Pisani (Torino), Romilda Boccia (Aosta), Maria Pia Simonetti (Aosta), Luigi Ceci (Bari), Paolo Fioretti (Bari), Alberto Tonolo (Padova), Maria Stella Caligaris (Feltre - BL), Alberto Bonisoli (Milano), Tarcisio Bonotto (Verona), Davide Fiorello (Como), Vincenzo Sena (Canicatti - Ag.), Sergio Acquilino (Savona), Felice Fanuele (Parigi - Francia), Andrea Burzacchini (Freiburg - Germania), Edoardo Salzano (Venezia), Fabrizio Bottini (Monza), Anna Spinò (Napoli)

Tra gli articoli pubblicati nei giorni scorsi da questo giornale Alfredo Reichlin prima e Alberto Asor Rosa poi hanno sollevato alcuni problemi che stanno particolarmente a cuore a chi,come me, spera con tutto il cuore che l'Italia possa superare la crisi che oggi la attanaglia.

E, nella sua intervista, Sergio Cofferati ha ricordato obbiettivi e comportamenti politici che il centro-sinistra dovrebbe assumere con maggiore chiarezza.

Stiamo vivendo una crisi non solo economica e sociale che fa vivere sempre peggio le famiglie italiane, i giovani e gli anziani, ma anche politica e culturale per l'attacco violento che la maggioranza di governo sta perpetrando da due anni e mezzo a questa parte ai valori della democrazia repubblicana, all'indipendenza della magistratura, alla legalità della vita pubblica, alla pluralità dell'informazione, alla formazione e all'istruzione delle nuove generazioni.

Reichlin ha sottolineato a ragione la difficoltà che hanno ancora le forze politiche dell'Ulivo a trasmettere all'opinione pubblica il messaggio politico complessivo che pure affermano di voler sostenere e che dovrebbe articolarsi in un progetto politico e culturale per un'Italia profondamente rinnovata. Ci ha ricordato che, in mancanza di un simile messaggio, incertezze e confusione rischiano di non far comprendere agli italiani la partita impegnativa che inizia con le elezioni europee e che ci porterà, nel giro di due o tre anni, al confronto finale con la Casa delle libertà.

Asor Rosa, da parte sua, ha sottolineato il valore importante ma sicuramente non compiutamente unitario (questa é una constatazione ancor prima che un giudizio) della lista che raccoglie Democratici di sinistra e Margherita con l'ulteriore apporto dei Socialisti democratici e dei Repubblicani europei, collocandosi su un crinale moderato sotto la guida di Romano Prodi.

Mi ha colpito, confesso, il fatto che nessun giornale italiano abbia dato rilievo nei giorni scorsi al progetto di partito europeo di centro (ma che significa in un sistema bipolare?) che Prodi vorrebbe realizzare con il partito francese UDF di Giscard D'Estaing e che disegna assai bene il carattere moderato, della nuova aggregazione che si vorrebbe costruire a livello continentale.

Asor Rosa, riallacciandosi a una sua precedente analisi, ha affermato anche, che a differenza dei moderati, la sinistra non si vede, spezzettata come é in piccole aggregazioni che non hanno fatto finora quello sforzo unitario richiesto dalla situazione. E su questo punto ha sicuramente ragione: non si capisce perché liste che dicono di collocarsi tutte a sinistra della lista cosiddetta unitaria non arrivino in tempi brevi a una federazione con un programma comune e un'alleanza di fondo esplicita e comunicata in tempo agli elettori.

Proprio perché la maggioranza delle forze politiche del centro-sinistra (se non di elettorato perché questo è ancora da verificare ancora) sta tentando di arrivare all'obbiettivo del partito moderato, diventa necessario e urgente, pur all'interno di un'alleanza che si riconosce all'Ulivo, formare una federazione di forze di sinistra che costituisca un'alternativa credibile allo sbocco immaginato dai due maggiori partiti del centro-sinistra.

È quello che accade in tutta Europa, magari in partiti come quello laburista o quello socialdemocratico tedesco caratterizzati al proprio interno da tendenze moderate e radicali, ed egualmente presenti in una maggioranza di centro-sinistra.

Noi sappiamo che non è prevedibile nel nostro paese la riduzione al bipartitismo ma si può lavorare per raggiungere l'obbiettivo di far convivere all'interno dell'Ulivo forze politiche diverse per formare una coalizione di governo che accolga sia il centro moderato (che sta diventando, a quanto pare, particolarmente affollato) che una sinistra più radicale.

Non si capisce perché in Italia non possa o non si voglia realizzare una simile coalizione. Credo sia necessario e urgente raggiungere un livello di convivenza capace di far coesistere tendenze differenti senza arrivare allo scontro costante, spesso privo a volte del rispetto necessario ad ogni alleanza.

Le ragioni di questa difficoltà consistono, a mio avviso, nella storia della sinistra italiana; nella difficile transizione dal partito comunista al partito democratico della sinistra; nella mancata elaborazione di una nuova piattaforma politica e culturale dopo il crollo del comunismo di osservanza sovietica; nella debolezza nel nostro paese di una cultura politica democratica, pur dopo il crollo dell'impero sovietico.

Che fare a questo punto?

Innanzitutto è necessario che le componenti moderate e quelle più radicali del centro-sinistra dialoghino tra loro nel rispetto reciproco e che l'Ulivo costituisca con chiarezza l'obbiettivo strategico per l'una come per l'altra componente. Il modo migliore per favorire questo processo non é lo scontro verbale, personale o ideologico ma il confontro sui progetti che pure stanno fiorendo in molte istituzioni e che devono costituire la piattaforma unitaria del futuro programma della coalizione.

Senza trascurare il fatto che oggi gli italiani non hanno bisogno né voglia di leggere lunghi programmi ma l'esigenza assai forte di individuare gli obbiettivi di metodo e di contenuto propri di un'alleanza politica del centro-sinistra: dalla difesa della Costituzione repubblicana alla costruzione di un'Europa democratica alla politica dei diritti e dei lavori, alle esigenze di una legalità che realizzi i princìpi della Costituzione a cominciare da quelli fondamentali della libertà e dell'eguaglianza.

In questo senso è necessario che una costituente dell'Ulivo possa finalmente attivarsi e proseguire con un lavoro assiduo aprendo le porte a tutte le forze, dai partiti ai movimenti, che vi si riconoscono.

Molte centinaia di lettori che mi hanno scritto in questi giorni mostrano di aver capito perfettamente che il mio difficile addio ai Democratici di sinistra é nato da ragioni di dissenso aperto sulla linea politica e non da motivi personali. Chi scrive intende lavorare ancora per l'Ulivo accanto a tutti i compagni che si riconoscano in questa coalizione in qualsiasi posizione si collochino giacché la battaglia è comune, l'obbiettivo è per tutti quello di lottare, con metodi democratici, contro una maggioranza di governo che è fallita e sta portando il paese a un declino disastroso.

A differenza di quel che pensa il Riformista o il Giornale di Belpietro io non ho traslocato da nessuna parte perché ero e resto a sinistra, ero e resto un cittadino dell'Ulivo e mi batto per obbiettivi che, almeno a parole, sono condivisi non da una lista particolare ma da tutti quelli che vogliono un grande Ulivo che includa davvero tutte le forze del centro sinistra, compresa Rifondazione comunista.

Quanto al programma per le prossime competizioni elettorali oggi non sarebbe difficile concordare su una piattaforma comune.

La battaglia di questi tre anni ha chiarito che noi vogliamo un'Europa politica, culturale ed economica autonoma dagli Stati Uniti e assai diversa da quella che la destra sostiene; che il modello di Stato sociale per cui ci battiamo prevede modernizzazione ma, nello stesso tempo, tutela dei diritti dei lavoratori; che la Costituzione repubblicana va difesa nei suoi valori e principi fondamentali e che non è il caso di dare a un primo ministro poteri più o meno assoluti come lo scioglimento delle Camere; che la politica economica fin qui fatta deve cambiare, pena l'argentinizzazione della crisi italiana.

Inoltre non possiamo permettere che l'art. 21 della Costituzione sulla libertà di espressione venga abrogato in silenzio: l'informazione è il problema centrale della democrazia contemporanea.

Voltiamo pagina rispetto alle polemiche dei mesi e anni scorsi e concentriamo tutta la nostra attenzione sulla battaglia ormai iniziata. Chi scrive, come è noto, non è un politico di professione ma, negli ultimi dieci anni almeno, preoccupato sempre di più per le sorti della sinistra e dell'Italia, ha partecipato intensamente alla vita politica e intende continuare a farlo accanto a coloro che vorranno lavorare tutti insieme per la rinascita di un Ulivo che colmi la frattura ancora aperta tra il mondo della politica e la gran parte degli italiani.

Non si vince da soli ma insieme agli italiani, anche quelli che non si occupano di politica.

FONDAMENTALE per un ordinamento liberale, la parità dei diritti per tutti i cittadini offre l’opportunità di prendere parte alla vita politica, formare associazioni, esprimere le proprie opinioni. E apre inoltre le porte alla partecipazione ad attività economiche e istituzioni sociali, tra cui in particolare la scuola. Le garanzie costituzionali in ordine a questi diritti sono il risultato eminente di una lunga lotta per i diritti civili, che ha segnato gli ultimi due secoli.

Spesso però la legge non basta a garantire questi diritti. Lo stesso diritto di voto ha scarso significato per chiunque dipenda totalmente da altre persone o istituzioni. E anche l’uguaglianza davanti alla legge rimane una promessa priva di contenuti per chi non disponga dei mezzi, o semplicemente del necessario grado di informazione per ottenerla. Il diritto a un’istruzione commisurata al proprio talento comporta varie forme di incoraggiamento. Di fatto, una delle maggiori aspirazioni nel campo del progresso sociale del Ventesimo secolo fu quella di rivestire di sostanza sociale il concetto astratto di parità dei diritti: un obiettivo che implica la necessità di incoraggiamenti attivi, ad esempio attraverso l’informazione e l’educazione politica. Per dare concreta attuazione al diritto all’istruzione è stato necessario impegnare risorse per dare aiuti economici agli studenti, attraverso prestiti o borse di studio. Ma nonostante tutti questi interventi, la parità dei diritti continuava a trovare ostacoli particolarmente tenaci. Alcuni settori importanti della popolazione continuavano ad essere scarsamente rappresentati negli ambienti di maggior prestigio e successo: in particolare le donne, ma anche alcune minoranze culturali, e segnatamente quelle definite da una caratteristica estranea a qualsiasi scelta personale, quale il colore della pelle.

Tra i grandi manager, ministri o titolari di cariche governative, ma anche tra i docenti, medici o avvocati era raro trovare esponenti di questi gruppi, tanto da far sospettare l’esistenza di una barriera invisibile. A giocare a sfavore delle donne e dei neri era forse l’arroccamento su una certa cultura istituzionale. Per garantire reali diritti di cittadinanza a tutti non bastavano dunque le garanzie legali e l’informazione, e neppure il sostegno finanziario.

La decisione coraggiosa di porre rimedio a queste inveterate ingiustizie ricorrendo a una politica di nuovo tipo, almeno per un periodo di tempo limitato, è stata presa per la prima volta negli Stati Uniti. Si è proceduto al varo di una serie di norme, che complessivamente hanno preso il nome di "affermative action", in base alle quali l’accesso a tutta una serie di uffici o mansioni - ad esempio nella polizia o nell’esercito, così come a percorsi di studio, di insegnamento o altro - doveva essere riservato, per una data percentuale, ai membri dei settori o gruppi che in precedenza avevano subito discriminazioni. La vigilanza sull’affermative action era affidata alla Corte suprema degli Usa.

In tutti i casi in cui è stata applicata seriamente, l’affermative action si è dimostrata innegabilmente positiva; ciò vale in particolare per i paesi a popolazione un tempo omogenea, che si trovano oggi a confronto con gruppi di colore, di religione musulmana, o comunque appartenenti a una minoranza identificabile e negletta. Ora però, proprio mentre si guarda all’America per trovarvi un modello di politica da adottare, l’affermative action incomincia a suscitare una serie di dubbi, tre dei quali appaiono di particolare importanza.

Primo: non si corre il rischio di provocare nuove ingiustizie nel senso opposto, o in altri termini, di discriminare chi un tempo era privilegiato? Negli Stati Uniti questo problema è stato affrontato per la prima volta dalla Suprema Corte nel caso di uno studente bianco che si era visto negare l’iscrizione alla facoltà di medicina, benché i suoi titoli accademici fossero superiori a quelli di altri candidati. In Gran Bretagna gli alunni delle scuole private rischiano ora di trovarsi in posizione di svantaggio a causa della pressione delle università, che tendono a favorire l’iscrizione di un maggior numero di studenti provenienti dalle scuole statali. Tutto ciò ci riporta alla ben nota vexata quaestio: può la parità coesistere con l’eccellenza?

Secondo: la parità di rappresentanza a tutti i livelli corrisponde davvero al desiderio e all’esigenza di tutti i gruppi e settori della popolazione? In molti Paesi, la «femminizzazione» della professione di insegnante non ha danneggiato nessuno; e molti altri hanno tratto benefici dallo spirito imprenditoriale di minoranze cinesi ed ebraiche. Non corriamo il rischio di inseguire un’idea troppo meccanica, confondendo il superamento di privilegi e svantaggi con la cancellazione delle diversità?

Terzo: con l’affermative action non si rischia di generare in alcuni casi un nuovo tipo di rigidità settoriale, con effetti distruttivi su quella stessa società civile che si voleva costruire? E si è davvero certi, ad esempio, che le donne siano sempre le migliori sostenitrici degli interessi del loro genere?

La stessa domanda si potrebbe applicare ai membri di gruppi religiosi e di minoranze etniche, e persino di alcune classi sociali. C’è da rabbrividire al pensiero di un Parlamento i cui membri siano prescelti in prima istanza in base al criterio di appartenenza a un gruppo bisognoso di affermative action. E di fatto, in taluni paesi la democrazia non riesce a dar vita a un governo efficiente e immaginativo proprio perché mira soprattutto a dare spazio ai gruppi più consistenti.

Per tornare al punto di partenza: l’affermative action è stata ed è tuttora una coraggiosa mossa finale nella lotta per i diritti civili universali, non solo sulla carta ma nella realtà; ma non deve diventare un principio permanente nell’ambito di un ordinamento liberale.

Se c’è una normativa che necessita di una «sunset clause», ovvero di una clausola di temporaneità, che ne imponga la revisione entro un termine prestabilito, questa è l’affermative action. In questo senso la flessibilità della Corte suprema degli Stati Uniti è ammirevole. Altrove, la soluzione migliore sarebbe probabilmente quella di includere nelle legislazioni dei singoli Stati e negli statuti delle organizzazioni una clausola che preveda il decadimento della norma per l’affermative action dopo un periodo di cinque, o al massimo di dieci anni. Certo, si dovrebbe prevedere la possibilità di un rinnovo del provvedimento. Ma nulla è più efficace di una scadenza prefissata per imporre lo sforzo mentale di una revisione approfondita.

Abbiamo chiesto a Betty Leone, segretaria Cgil, un commento ai risultati del nostro sondaggio sul senso dell'8 marzo

L'otto marzo intanto ha senso come giornata che ricorda il percorso di emancipazione e di liberazione delle donne. Non capisco non ho mai apprezzato tutta questa polemica - l'otto marzo serve, non serve? -, tutti i grandi eventi hanno le loro celebrazioni e nessuno si preoccupa di questo. Io credo che l'otto marzo celebri la presa di parola delle donne nella storia. E avrebbe senso anche solo per questo. Poi, per me che sono una sindacalista, non è solo una celebrazione: abbiamo fatto assemblee e riunioni nei posti di lavoro e anche con le pensionate, io in particolare con le pensionate perché ora mi occupo di loro.

All'ordine del giorno abbiamo messo come è difficile vivere per le donne oggi, il fatto che le pensioni delle donne sono molto più basse di quelle degli uomini e che la maggior parte della povertà italiana è rappresentata da donne, pensionate e sole. Quindi esiste un problema che riguarda la condizione delle donne, alla quale va data una risposta. Noi vogliamo dare uno spazio alla manifestazione nazionale unitaria dei pensionati che faremo il 3 aprile: a questa particolarità e difficoltà di essere donna anche da anziana.

Se poi pensiamo alle giovani, diciamo che le giovani continuano a essere discriminate nel mercato del lavoro, perché è vero che l'occupazione femminile cresce, ma cresce prevalentemente nel precariato e quando i posti precari si stabilizzano, si stabilizzano quelli dei maschi e assai meno quelli delle ragazze, e questo è un altro dato statistico molto importante. Quindi esistono ancora molti problemi alle difficoltà che le donne devono incontrare pur in questa parità apparente.

Poi non voglio parlare della fatica terribile delle donne anche per tenere insieme il lavoro e la famiglia. E poi c'è la rappresentanza sociale e la democrazia: possiamo dire che le donne sono ancora escluse dalla rappresentanza politica. Perché sono una minoranza esigua. Quindi esiste un problema di come si rappresenta una condizione femminile nella politica, non ce ne possiamo dimenticare.

Infine siamo in un mondo globalizzato, le donne nel mondo rappresentano il 70 per cento dei poveri. Producono la metà del cibo e sono la maggioranza della forza lavoro ma guadagnano soltanto il 10 per cento del reddito mondiale e hanno meno dell'1 per cento delle proprietà. Basta questo per dire che esiste ancora una discriminazione. Certo meno forte e più nascosta nel mondo industrializzato che è passato per l'emancipazione, come nel nostro paese. Ecco perché dico che l'otto marzo come celebrazione della capacità di parole delle donne nella storia è soprattutto una speranza.

(*) Segretario generale Cgil con delega ai pensionati

Rifare la Dc? Questo, alla fine, potrebbe essere uno dei risultati delle prossime elezioni europee. Lo diciamo senza spirito polemico, anche perché una Dc rifatta, in confronto al putridume del centro-destra attuale, sarebbe una vera e propria manna. Ma se cosi fosse, bisognerebbe che la sinistra-sinistra (ormai è meglio scrivere il termine in questo modo, a scanso di equivoci) si ponesse seriamente il problema di rifare a propria volta qualcosa - “qualcosa di sinistra”, come troppo tempo fa diceva Nanni Moretti, ora silenzioso.

Che ci sia nell'aria una voglia di Dc lo induciamo da vari segni. Primo: le ripetute mosse di Rutelli in direzione di un atteggiamento bi-partisan sulle pensioni e ora sulla “riforma” della magistratura. Secondo: una lunga intervista alla deputata Ppe Marcelle de Sarnez, che esce sulla rutelliana “Europa” (3 marzo), in cui, sotto il titolo “È tempo della nuova Europa”, si enfatizza il senso neo-centrista delle discussioni in corso fra Prodi e Bayrou per la costituzione di un nuovo gruppo di centro al Parlamento europeo, “una nuova offerta - precisa la de Sarnez - che dovrebbe essere proposta prima delle elezioni europee del 13 giugno”. Il che risolverebbe dunque la questione di dove andranno gli eletti della lista unitaria italiana nel nuovo Parlamento. Sappiamo bene che questo non è il proposito della componente Ds di questa lista; ma non è indifferente, per tale componente, sapere che questo è il proposito dell'altro principale partner dell'impresa; e verosimilmente anche degli altri due - Boselli e Sbarbati.

Terzo segno, molto più indiretto, della voglia di centro. Miriam Mafai (Repubblica del 3 marzo) suggerisce esplicitamente ad Amato, incaricato di formulare il programma della lista unitaria, di pensare a una candidatura di Emma Bonino per le prossime elezioni europee. Difficile sostenere che la Bonino rientri nel piano di una nuova Dc; ma certo conferirebbe alla lista un indubbio sapore di centro, date le posizioni liberiste che i radicali non si sono mai stancati di sostenere in questi anni.

Non sembra affatto esagerato ritenere che segnali come questi - scelti qui a caso, tra i tanti che si vedono sempre più spesso, primo fra tutti la posizione sulla guerra in Iraq - dovrebbero essere tenuti più francamante presenti nella sinistra del centro-sinistra. Si può assistere senza reagire al delinearsi di simili posizioni? Esagerando un poco il senso dell'intervento di Miriam Mafai, possiamo accontentarci del fatto che il nuovo centro europeo prodiano-rutelliano si dia una colorata “di sinistra” assumendo le iniziative e lo spirito laico-libertario della Bonino? È vero che una tale assunzione potrebbe mandare in aria l'accordo con Bayrou e l'UdF - che trovano già troppo laici i liberali europei di Watson; ma, come si è visto nel voto sulla fecondazione assistita, anche il laicismo della Bonino sarebbe verosimilmente destinato a naufragare davanti ai problemi di coscienza di Rutelli e dei suoi. Con il risultato che il centro si identificherebbe sempre più con una nuova Dc. Ripetiamolo, che accada questo ci sembra assolutamente positivo - sia per la chiarezza del panorama politico, sia per l'effetto di vera e propria “disinfestazione” che avrebbe sul Ppe e anche sul centro-destra italiano. Ma che cosa ne sarebbe, in tutto ciò, della sinistra ?

L’altro giorno uno dei miei figli, che ha ricevuto per Natale «Il gioco del ca... lcio», nel bel mezzo di una partita è venuto a chiedermi cosa significasse «Jus Primae Noctis». Non è male come domanda per un bambino di sette anni. Gli ho chiesto cosa mai c’entrasse «Il gioco del calcio» con lo «Jus Primae Noctis» e mi ha portato subito un bel mazzo di carte, che fanno parte del gioco. Una specie di imprevisti e di probabilità genere «Monopoli». «Il gioco del ca... lcio» con tanto di puntini di sospensione ammiccanti, vagamente volgari, del tipo dico e non dico, è un formidabile gioco da tavolo, vendutissimo in tutti i negozi di giocattoli, prodotto dalla «Giochi Preziosi». Il proprietario della «Giochi Preziosi», Enrico Preziosi, è l'ideatore del gioco ma è anche il presidente del Genoa. Attraverso un tabellone, i giocatori devono fingersi presidenti di una società di calcio, e tirando i dadi debbono vincere lo scudetto. Soltanto che il tutto è regolato da duecento carte che rappresentano imprevisti e penalità.

In queste duecento carte c'è lo spaccato più paradossale, deteriore e ridicolo di questo paese. Non servono a comprare giocatori, o a fare schemi di gioco. Le carte si usano per un fine alto e assai praticato: corrompere, pagare gli arbitri, nascondere abusi, cancellare risultati sfavorevoli, divertirsi con le veline, inanellare strafalcioni grammaticali, comprare Porsche, Mercedes e Ferrari, menare i calciatori delle squadre avversarie, doparsi e far sparire le provette delle analisi.

Pagando con denaro sonante. Ho letto la carta che mio figlio aveva pescato senza capirne il significato. Dice: «Alcuni vostri giocatori chiedono di poter portare mogli e fidanzate in trasferta. Glielo concedi, poi ripristini lo Jus Primae Noctis». Gli ho spiegato che lo «Jus Primae Noctis» è una leggenda che si tramanda dal medioevo ma che non è mai esistito. Ma cercando di spiegarglielo mi sono accorto che sfondavo una porta aperta. Perché «Il gioco del calcio» della Giochi Preziosi, è una perfetta radiografia di questo paese, in versione gioco da tavolo. Mi sono seduto al tavolo con i miei figli, e ho giocato una partita. In meno di un'ora sono riuscito a commettere qualunque tipo di irregolarità, e come in una patetica commedia degli anni Sessanta, ho messo sul piatto tutto il denaro che potevo per raggirare, dire una cosa e pensarne un'altra, truccare partite, arrivando a una media inglese invidiabile.

Pugni, provette e «testoni»

Ho cominciato pagando 150 «testoni» (questa è la moneta del gioco) perché i miei giocatori sono «Risultati positivi all'antidoping. Resteranno fermi per 2 giornate per accertamenti. Oppure (con 150 testoni per ogni giocatore) andranno persi i prelievi campione e tutti tornano in campo». Tanto per spiegare a Guariniello come si sta al mondo. Poi nel bel mezzo di un derby ho pescato una carta che diceva: «Al termine di una partita un tuo giocatore colpisce con un pugno un avversario. Tu lo nomini addetto alle pubbliche relazioni. Ti costa 100 testoni». Ho pagato un manesco addetto alle pubbliche relazioni. Tutto normale, naturalmente, come nella realtà. Mi sono preso una sponsorizzazione a peso d'oro perché «Dopo che l'ennesimo scandalo a luci rosse investe la vostra squadra, una azienda di profilattici decide di sponsorizzarvi: 100 testoni per ogni giocatore». Sono stato denunciato per calunnia (ma è poca cosa, me la caverò) perché: «Pensando di non essere in onda durante una trasmissione sportiva fai degli apprezzamenti sulle abitudini sessuali delle mogli di alcuni presidenti. Vieni denunciato per calunnie. Multa di 300 testoni».

La palla quadrata

Sono entrato in un mondo che sembrava alla fine più vero di tutti. Mi sono passati davanti tutte le trasmissioni spazzatura sul calcio ho ripassato le love story estive di calciatori e veline, i presidenti rissosi, gli arbitri che fischiano poco o troppo. Ma soprattutto ho capito il messaggio profondo e autentico. Basta pagare, bastano i soldi, e tutto è possibile. Anche far diventare una palla da rotonda a quadrata. Inutile fare dei moralismi su questo concetto, inutile dire che è un gran bell'esempio per dare una coscienza etica ai nostri figli. Il signor Preziosi fa il presidente di una squadra di calcio, e presentando il gioco dice che è divertente. Allora mi convinco che se stai al gioco devi farlo fino in fondo. Come un James Bond di provincia pesco una carta che mi dice: «Fai trovare una avvenente ragazza in camera ad un arbitro prima della prossima partita e scopri che questo è omosessuale. Giochi con uno svantaggio di -4». Ho perso una partita con l'Inter solo per questo. Mi auguro che ci sia una carta dove posso far trovare un avvenente ragazzo all'arbitro, almeno per recuperare la prossima partita.

Naomi e l’insalatina

Niente, il calcio è molto macho, e certe cose non si fanno. Posso consolarmi con una cenetta con Naomi Campbell, ma solo perché mi accusano di essere razzista: «Vieni accusato di razzismo. Per smentire questa voce portate fuori a cena Naomi Campbell. Ti costa 200 testoni solo per un insalatina». Manca l'apostrofo nell'insalatina, ma è poca cosa. Il razzismo, che è una forma tremenda e preoccupante negli striscioni da stadio degli ultrà di certe squadre, mi torna addosso due giri dopo. E non posso che esibire la mia Porsche di pelle nera per togliere di mezzo ogni dubbio: «Vieni accusato di razzismo. Per smentire questa voce dichiari che la pelle nera ti piace, tanto che hai pure gli interni della Porsche in pelle nera». Il doppio senso, la battuta, l'uso continuo nei testi di punti esclamativi e puntini di sospensione mi rincuora. È un'Italia gridata quella che si riflette nel tabellone e nelle carte lucide di questo gioco. Tutta discoteche, orgette con ragazze bellissime, situazioni alla Boldi e altre amenità. In un incontro a luci rosse a cui partecipa la mia squadra intera (immagino la confusione) quegli ingrati dei giocatori non mi invitano neppure, la domenica successiva non li faccio giocare. Ufficialmente li punisco per il loro comportamento immorale. Nei fatti perché mi hanno escluso.

Non c’è niente da capire...

Per tutto il gioco, eccetto lo «Jus Primae Noctis», ai miei figli non ho dovuto chiarire niente, avevano capito perfettamente come si doveva giocare e di che cosa era fatto quel campionato di calcio. Ma non c'era proprio da stupirsi. D'altronde anche loro avevano regalato Rolex d'oro a più di un arbitro, giustificato assalti ai pullman della squadra avversaria, blandito Galliani, e polemizzato con Roberto Bettega. Ma io stavo per vincere, e mi accorgevo che più corrompevo tutti più aumentava il mio patrimonio in soldi. E i punti in classifica. Qualcosa che non mi era affatto nuovo. Se non fosse stato per quell'ultima carta, che ho sprecato come fossi uno scemo. La carta, intitolata «Dai massaggiatori alle massaggiatrici!», che dice: «Coinvolti in un giro di piacevoli massaggi tutti i tuoi calciatori. Rischiano la squalifica per cinque giornate! Oppure, decidi di coprire la cosa pagando i giornalisti e la Magistratura con 200 testoni per ogni giocatore». Ho detto che no che è un reato gravissimo cercare di corrompere i magistrati, e che di solito si va in prigione. Mio figlio mi ha chiesto perché ho detto «di solito». Ma la sarei cavata anche quella volta, c'era da giurarci, male che andava spostavo il processo a Brescia o a Catanzaro, o mi facevo promulgare qualche legge ad hoc. Alla peggio un decreto. E invece, come fosse un soltanto un gioco e non lo specchio di un paese, mi sono fermato cinque giri. Ho perso il campionato. Per rifarmi ora aspetto una nuova versione del Monopoli. Dove non accumuli solo case e alberghi e terreni, ma apri società alle isole Cayman, fai debiti per miliardi, e truffi i risparmiatori. Ma questa è un'altra storia...

Non si sa se piangere o ridere davanti ai «non è vero», «è una bugia», «è una menzogna», gridati dai berlusconiani afflitti perché le cose vanno proprio male per loro. La povera Concita De Gregorio, una brava giornalista (l’elogio non vorrebbe danneggiarla presso i ministeriali addetti della cultura popolare, tenutari dei libri neri) faceva proprio pena quando a «Primo piano» del Tg3 tentava di far domande all’onorevole Bondi e lui, con l’atteggiamento del bambino cattivo colto sul fatto, negava senza pudore ogni verità documentata.

Negava anche come un adulto in ipnosi, tra ira e disperazione. E lei, paziente, riprovava a dire, a chiarire, a contestare, a smentire, a cercare di far capire l’accaduto ristabilendo un minimo di rapporto umano. Questo è successo a proposito di Telekom Serbia e delle sue vergogne, ma accade a proposito di tutto, economia, finanza, Iraq, imposte e tasse, carovita, scuola, pensioni, Istat e prodotto interno lordo.

E quando il ministro Tremonti fa trasparire la possibilità di cambiare la rovinosa legge sul falso in bilancio e butta là un ironico «udite, udite», perché conosce benissimo i guasti prodotti da quella legge, suscita gli entusiasmi dell’Ulivo: il successo dell’opposizione, la politica ritrovata, il dialogo possibile.

È un gran chiacchierare, nel cortile della Repubblica. Rutelli tira fuori d’improvviso, all’insaputa dei Ds, una vecchia proposta della Margherita sul problema delle carriere dei magistrati, sulla riforma della giustizia. Piace al Polo. Scompagina idee e programmi del centrosinistra. Non si parlano tra loro i leader alleati? Forse non hanno tempo.

In una sola sera li trovi su tre tv diverse e visto che l’ubiquità è da escludere e le trasmissioni sono il più delle volte registrate, significa che il pomeriggio l'hanno dedicato alla visibilità mediatica.

La mattina è dedicata invece alla radio, a scrivere qualche intervento per i giornali, a concedere qualche intervista. E poi c’è da guardare la rassegna stampa. Un vero disastro il tempo che fugge.

Le parole scoppiano, dunque. Giuliano Amato, in un convegno organizzato dalla Cgil, ha detto che «anche noi dobbiamo fare un contratto con gli italiani». Chi farà il Vespa? Qualcuno scelto con sagacia per non spaventare il ceto medio. Un terzista, magari con un piede di qua e la testa di là.

C’è anche Fassino nel cancan delle parole. Il segretario Ds ha commentato l’approdo di Cirino Pomicino al centrosinistra, tramite Mastella, citando la parabola del figliol prodigo. Sorretto dal presidente D’Alema: «Cirino Pomicino fa parte di un fenomeno di massa: il distacco dalla destra, la sfiducia in Berlusconi.

Perciò non trovo un solo motivo per dispiacermi, né per imbarazzarmi». Significa che il centrosinistra acquisirà di certo nuovi voti dalla palude di ’O ministro (libro-inchiesta di Andrea Cinquegrani, Enrico Fierro, Rita Pennarola, pubblicato nel 1991 da Publiprint-la Voce della Campania). Ma quanti voti perderà tra i dispiaciuti e gli imbarazzati, poco tattici che resteranno a casa il giorno delle elezioni?

E poi la Lega che attacca il Papa per le parole in romanesco rivolte ai parroci. Chissà perché.

Non è una prova dell’amato localismo, anche se antagonista, un test da spettacolo di paese che dovrebbe piacere ai leghisti dei dintorni di Bèrghem? Bossi attacca invece l’otto per mille. Non sa bene cos’è. Da ministro della Repubblica è stato favorevole ai provvedimenti clericali del governo in favore della scuola privata e alla legge sulla fecondazione assistita e dovrebbe essere prudente. Non si pretende che abbia letto almeno Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni di Arturo Carlo Jemolo, ma qualche nozione sul potere temporale, sulle lacerazioni, conflitti e dolori dei cattolici e dei non cattolici potrebbe pur averla.

Il problema è sempre quello, irrisolto, della classe dirigente italiana. Un sommo banchiere e grande umanista, Raffaele Mattioli, creatore della collana della Ricciardi, fondamentale per nostra cultura, La letteratura italiana. Storia e testi, venduta con profitto l’anno scorso dalla Einaudi di Berlusconi all’Istituto dell’Enciclopedia italiana, fondò nel 1972 l’«Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita». Il progetto che si proponeva analisi e ricerche restò senza seguito per la orte di Mattioli avvenuta l’anno seguente. Nessuno, dopo, ha pensato di riprendere quell’idea essenziale per la conoscenza di un paese.

Trent’anni fa, Mattioli definiva così la classe dirigente italiana: «È gente che non sa di che cosa parla. Si è appropriata di una serie di slogan e di una terminologia più o meno repellente di cui non capisce il significato. Oggi tutti parlano in modo incomprensibile: quando ti hanno detto quel po’ di balle, se tu gli chiedi che cosa significa, non lo sanno. “Più non dimandare”, è il loro motto. L’ignoranza democratica non è ancora diventata cultura popolare».

Che cosa direbbe oggi il presidente della Banca Commerciale, il grande amico di Benedetto Croce, della politica quotidiana di parole che volano?

Rossana Rossanda pone, sui nuovi movimenti, le domande dal suo punto di vista cruciali: sono antiliberisti o anticapitalisti? Sono «antipolitici» o intendono «ridiscutere la rappresentanza»? E siccome evoca «i miei amici e compagni di Carta», ecco che sentiamo il dovere, oltre che il piacere, di interloquire. Lo facciamo, però, da un diverso punto di vista. La nostra domanda non è se tutti i pezzi di «sinistra radicale» riusciranno a sommare le loro percentuali di elettori, fino a raggiungere quel 15 per cento che consentirebbe loro di condizionare «da sinistra» il 30 o poco più per cento della «sinistra moderata». E' questa una aritmetica non solo legittima, ma necessaria, considerata la rapidità con la quale il berlusconismo si frantuma. Se, però, a questa urgenza si fa seguire la domanda «come si fa a coinvolgere i movimenti?», allora si commette, secondo noi, un errore di prospettiva. Sono piuttosto i movimenti a coinvolgere la politica, fenomeno che noi abbiamo chiamato «terzo movimento»: dopo l'insorgenza (tra Seattle, Porto Alegre e Genova), dopo il consolidamento (dall'11 settembre alle manifestazioni globali per la pace), oggi il movimento ha tanto allargato le sue reti, ci pare, da voler influire anche nelle elezioni. Questo è avvenuto nei voti spagnolo, francese, indiano, ecc. E lo si può vedere facilmente nella proliferazione di programmi, liste e candidati «partecipati», ispirati all'iniziativa della Rete del nuovo municipio, nelle recenti amministrative, nonché nel successo di certi candidati in certe aree del paese alle europee.

Il punto non sta nel fatto che «finalmente» il movimento è diventato «politico» e quindi affronta il problema della rappresentanza. Quel che succede è appunto l'opposto. Se il «movimento dei movimenti» è apparso assai tiepido sulla rappresentanza è perché la considerava secondaria, in confronto a come fronteggiare la guerra e le politiche di organismi come Wto e Fmi, e a come promuovere, in quelle che Marco Revelli chiama le reti «di prossimità», la resistenza agli effetti locali del liberismo e la sperimentazione delle alternative pratiche (la cessione dell'acqua alle multinazionali è stata più ostacolata dalle centinaia di iniziative territoriali, o dalla sinistra in parlamento?). Oggi, nel momento in cui una massa critica di nuove relazioni sociali è stata raggiunta, il movimento diventa «costituente»: tende a creare un nuovo rapporto tra società e istituzioni date, specialmente i municipi. Non è «antipolitico», ma «neopolitico». Constatata la debolezza dei governi nazionali nella globalizzazione, cerca altre vie, quella globale dell'opposizione alla guerra e quella locale della ricostruzione di una legittimità democratica di ciò che è pubblico. Senza per questo rinunciare a utilizzare quel che resta della sovranità nazionale.

Ora siamo tutti impegnati, mi pare, a cercare la maniera per sconfiggere Berlusconi e, insieme, per impedire a un centrosinistra di nuovo al governo di esibirsi nei suoi tristi numeri da circo, come la guerra in Kosovo, l'istituzione dei Cpt, la proto-riforma Moratti, e così via. Per questo scopo, bisognerebbe domandarsi che cosa sia, come si esprime, che cosa fa tutto quel che c'è tra il 15 per cento della «sinistra radicale» e il 60 per cento che secondo i sondaggi (per stare a questo metro un po' demenziale) è contro la guerra in Iraq. Ecco un metodo che è anche sostanza. Un conto è procedere tracciando linee per terra: di qua gli elettori della «sinistra radicale», di là tutti gli altri; un altro conto è vedere che, dal punto di vista della coesione della società, del suo ben-essere (e non alludo al Prodotto lordo, anzi), la pace è meglio della guerra, l'acquedotto municipale è meglio di quello in mano alla Lyonnaise des Eaux, lo Stretto è meglio senza il Ponte, la scuola è meglio se non è una variabile dipendente dalla competitività, l'immigrazione è meglio accoglierla che respingerla, e così via. Ed è, questa, una sostanza perché, oltre a una critica dello «sviluppo» (altro tema su cui le sinistre sono ferme all'Ottocento, salvo lo spreco dell'aggettivo «sostenibile»), implica una ri-creazione democratica, un nuovo «spazio pubblico».

Il nostro amico e collaboratore Raúl Zibechi, che vive a Montevideo ed è un gran narratore dei movimenti sociali latinoamericani, consiglia di guardare «le lotte sociali da una prospettiva di `immanenza' (cioè senza attribuirgli intenzioni, ma deducendole dalla loro attività)». Se si accetta questo consiglio, si constaterà che la «neopolitica» è prima di tutto e sostanzialmente municipale; che le Province, istituzioni per decenni ritenute inutili, stanno ritrovando un loro ruolo come strutture di servizio dei municipi; che le Regioni sono piccoli stati neocentralisti; che, come nelle elezioni spagnole, si vota per esercitare pressione su un punto, in quel caso la guerra, punendo le destre più che premiando le sinistre.

Se questa è la situazione, si può fare un passo ulteriore? Come si può cioè suscitare quella «costituente dei movimenti» che, come Rossana ricorda a Bertinotti, non si è stati in grado di avviare, dato che «nessuno delega nessuno»? Forse, lo si può fare nelle città, dove la «non delega» assume la forma positiva del dialogo. Un esempio utile è quello del «Forum per Firenze», cui parteciparono per mesi, in gruppi di lavoro tematici, centinaia di persone: singoli, reti e associazioni, militanti del sindacato e di tutti i partiti del centrosinistra. La visione di città che ne uscì aveva concretezza e allo stesso tempo radicalità di proposte: infatti il candidato del centrosinistra, Domenici, rifiutò di prenderne atto (con il risultato di essere costretto al ballottaggio).

E' possibile immaginare, città per città, tanti «Forum per Firenze», auto-promossi, cui partecipi la maggior quantità possibile delle persone e dei soggetti di molti tipi, culture ed età che sono parte dei tanti movimenti? Forum in cui ci si pongano domande su come l'esperienza locale possa fare da laboratorio per le politiche nazionali? In questo modo, la «sinistra radicale» potrebbe interpretare - non rappresentare - non solo l'elettorato «di sinistra», ma ambiti sociali assai più ampi e plurali, che a loro volta terrebbero a che quella certa politica, elaborata sulla base delle esperienze diffuse, diventi qualcosa con cui anche il centrosinistra, oggi drogato dalla certezza di vittoria e in marcia verso il mitico «centro», dovrebbe per lo meno fare i conti. In fondo, Cofferati ha esplicitamente contrapposto il modello bolognese di apertura alla società civile, alla chiusura di Domenici: dunque, un varco c'è anche nel centrosinistra. Non è certamente facile, saper parlare a tanta gente, e saper ascoltare. Ma la somma di gruppi dirigenti, e delle percentuali, non servirebbe che a ritagliarsi una fettina del «mercato» politico, da giocare nel flipper in cui le palline rimbalzano da D'Alema a Rutelli, o da Follini a Berlusconi. Ma a chi interessa? Se la sinistra fosse di sinistra, ricomincerebbe dal punto di partenza, come quando nel gioco dell'oca si finisce nella casella sbagliata. Il punto di partenza è la società. Come essa è.

E finalmente, dopo tre anni di bugie, di barzellette, di malgoverno e di non governo, di propaganda demagogica, che hanno portato il paese al punto più basso della sua storia morale e politica, anche per la spettabile ditta Berlusconi-Tremonti è arrivato il momento della verità. Delle spalle al muro.

Della scelta senza appello. Un doppio appuntamento, politico-elettorale ed economico-finanziario. Affrontati entrambi, bisogna dirlo, con intelligenza e furberia; due scommesse molto rischiose e strettamente legate l´una all´altra, sulle quali la spettabile ditta gioca il tutto per tutto. O la va o la spacca, questione di settimane. Il 13 giugno sapremo se la giocata uscirà dalle urne vincente o perdente. Del resto non avevano alternative.

Tutto è cominciato dal rapporto deficit/Pil e dalla lettera di ammonimento che la Commissione di Bruxelles ha l´obbligo d´inviare ai governi di quei paesi che hanno superato la soglia del 3 per cento del suddetto rapporto, imposta dal patto di stabilità europeo.

Secondo il nostro governo quella soglia è ora stimata al 2.96 per cento; basterebbe un peggioramento minimo, di appena 140 milioni di euro (280 miliardi di vecchie lire) per varcarla. Secondo le valutazioni della Commissione di Bruxelles ne siamo già oltre, al 3.2. Secondo il Ragioniere dello Stato, massima autorità in materia, siamo già al 3.5.

Altri Paesi europei, Francia Germania Gran Bretagna per nominare i più importanti, si sono trovati e alcuni ancora si trovano in analoghe condizioni, ma con una differenza fondamentale rispetto a noi: il loro debito pubblico è molto inferiore a quello italiano. Inferiore al 60 per cento del Pil che è il limite massimo fissato dal trattato di Maastricht. L´Italia è al 106 per cento, il doppio. Perciò l´Italia (non per malizia di Prodi e della Commissione da lui presieduta) è in libertà vigilata. Qualora superasse la soglia del 3 per cento e ricevesse la lettera di ammonimento già scritta e in attesa di essere spedita a Palazzo Chigi subito dopo il 13 giugno, le conseguenze sulla nostra posizione finanziaria sarebbero molto gravi. Le agenzie di "rating" abbasserebbero la valutazione dei titoli emessi dal Tesoro. Il loro prezzo sul mercato registrerebbe uno scossone al ribasso. Gli oneri degli interessi aumenterebbero contestualmente. Tutta l´opera paziente e tenace di risanamento effettuata a suo tempo da Ciampi ne uscirebbe distrutta come in parte è già avvenuto per quanto riguarda l´avanzo di bilancio delle partite correnti, passato in tre anni dal 5 al 2 per cento

Ecco perché questa complessa vicenda è cominciata da lì: dalla necessità urgente d´intervenire per trattenere il rapporto deficit/Pil al di sotto della soglia per noi fatale e non superabile. Prima del 13 giugno. Prima che la lettera imbucata a Bruxelles con destinazione Roma arrivi a destinazione.

Tremonti sa che continuare con i giochi di prestigio della finanza creativa gli è precluso per due ragioni: Bruxelles non li considererebbe validi ai fini del patto di stabilità e l´ha già fatto sapere in accordo con le valutazioni del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea. E poi non c´è più granché da inventare in tema di finanza creativa: tutti i condoni possibili sono stati già effettuati, tutta la legna è diventata cenere. Questa volta bisogna fare sul serio: tagliare spese effettive in misura adeguata. E strutturale. Non si possono però toccare né la spesa sociale (sanità, assistenza), né la scuola, né la sicurezza, né le spese militari, né le pensioni in corso di erogazione. Ne risulterebbero effetti sociali e politici devastanti. In più, anzi in sovrappiù, Berlusconi per rimontare la china d´una fiducia che da mesi è in caduta libera, deve assolutamente tagliare le tasse prima del 13 giugno poiché questo è il solo strumento rimasto nelle sue mani per evitare la catastrofe elettorale, la sconfitta alle elezioni europee, la sconfitta alle regionali in Sardegna, alle comunali di Bologna, di Padova, forse di Bari, forse alla Provincia di Milano. Insomma una débacle che continuerebbe poco dopo a Catania alla Regione Liguria, alla Regione Piemonte.

Perciò bisogna tagliare le imposte e prima tra tutte l´Irpef.

Dai primi calcoli sembrava che l´operazione potesse esser contenuta nella misura di 6 miliardi di euro. Ma Fini e Follini avvertirono: con quella cifra si possono a stento alleggerire le imposte sui ceti più deboli, quelli al di sotto dei 20 mila euro di reddito annuo. Se si vuole dare un sia pur modesto acconto ai contribuenti dei ceti medi, dai 20 ai 60 mila euro di reddito annuo, bisogna raddoppiare la cifra complessiva: non 6 ma 12 miliardi. Il rebus è stato a questo punto girato a Tremonti. Risolverlo sembrava impossibile anche per la sua mente fertile di grande «imbroglione».

* * *

E invece no. La trovata del grande «imbroglione» è stata la seguente.

Un decreto-legge con effetto immediato taglierà la spesa per incentivi alle imprese private e pubbliche per 12 miliardi di euro. Per le pubbliche il taglio riguarda soprattutto le Ferrovie. Per le private, tutte quelle che hanno accesso alle varie formule e leggi incentivanti a cominciare dalle dazioni a fondo perduto sui nuovi investimenti, sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sull´emersione dal "sommerso", eccetera.

Un taglio secco di 12 miliardi e mezzo con effetto immediato sulla cassa del Tesoro e in gran parte anche sulla competenza dell´esercizio 2004.

Bruxelles ne sarà felice, il rapporto deficit/Pil resterà decisamente sotto il 3 per cento, la lettera di ammonimento non partirà, gli oneri del servizio del debito pubblico non aumenteranno.

Certo le imprese strilleranno a più non posso. La Confindustria per la prima volta nella sua storia di un secolo dissotterrerà l´ascia di guerra contro un governo in carica. E la diminuzione delle imposte, altro essenziale elemento del rebus affidato al ministro dell´Economia? Tranquilli. Bisogna distinguere nettamente tra le impellenti necessità dell´esercizio finanziario 2004 e quelle dell´esercizio 2005. Nel primo si fa il decreto sul taglio degli incentivi con effetto immediato. Nel secondo, con decorrenza dal gennaio 2005, si tagliano le tasse per 12 miliardi e si apre una linea di crediti ventennali e trentennali dalla Cassa Depositi e Prestiti Spa (ormai messa fuori dal bilancio dello Stato pur essendo posseduta interamente dallo Stato) verso le imprese che beneficiavano degli incentivi a fondo perduto.

Lo sgravio fiscale sarà finanziato in parte con il taglio già effettuato degli incentivi, in parte con la vendita del patrimonio immobiliare per l´ammontare di 21 miliardi, in parte con la sperata crescita del Pil e quindi del gettito fiscale provocato dal taglio dell´Irpef.

Tutti contenti: i contribuenti che pagheranno meno tasse, le imprese che riavranno, sia pure sotto forma di prestiti a lungo termine e a basso tasso d´interesse (mezzo percento) gli incentivi tagliati nel 2004, il Tesoro che avrà evitato in curva lo sfascio finanziario, Berlusconi che avrà potuto mantenere il punto più delicato e più atteso del suo contratto con gli italiani, la Casa delle libertà in tutte le sue componenti che utilizzeranno questa messe di argomenti favorevoli per riguadagnare il consenso degli elettori. E infine Tremonti: risolvere un rebus gremito di ostacoli e di incognite con questa eleganza formale e sostanziale non era da tutti. Lui ci è riuscito, alla faccia di chi gli vuol male.

Dov´è l´imbroglio?

* * *

Tra il taglio degli incentivi (immediato, entro il corrente mese di maggio) e il taglio delle imposte che scatterà nel gennaio 2005 ci sono sette mesi.

Egualmente sette mesi passeranno tra il taglio degli incentivi e l´entrata in funzione del fondo per i prestiti alle imprese gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti.

Tremonti punta sull´ipotesi che la congiuntura cominci a tirare anche per l´Europa e per l´Italia e quindi che aumentino i consumi, gli investimenti, le esportazioni, l´occupazione, la produttività.

Naturalmente ci vuole un tempo tecnico di almeno un anno. Diciamo che i primi effetti di queste misure si potranno vedere a fine 2005, inizio 2006.

Nel frattempo Tremonti spera che si capovolgano le aspettative in seguito all´effetto d´annuncio dell´intero piano. Se le aspettative passeranno dalla sfiducia alla fiducia entro maggio, ci sarà un effetto politico positivo di carattere elettorale e un effetto economico positivo sugli investimenti in previsione dell´aumento dei consumi. Questa è la scommessa della spettabile ditta B. T.

Naturalmente occorre che nel frattempo non ci sia un aumento dei tassi di interesse in Europa e neppure in Usa, che l´inflazione resti sotto controllo, che il prezzo del petrolio scenda almeno da 40 a 30 dollari al barile, che il dollaro non si deprezzi ma anzi si apprezzi riportando il cambio sull´euro per stimolare esportazioni e competitività.

Se tutto andrà così, tutto andrà bene. Per loro, ma anche per l´economia italiana. Bisognerà dirgli bravi, sia pure a denti stretti.

* * *

Ma ci sono anche elementi negativi e sono i seguenti.

Nei setti mesi che passeranno tra il taglio degli incentivi e il taglio delle imposte ci sarà, oggettivamente, un effetto restrittivo sulla domanda.

Dodici miliardi di spese in meno non sono bruscolini: 24 mila miliardi di vecchie lire rappresentano in un´economia senza crescita un elemento deflattivo non da poco.

Gli imprenditori che si vedranno diminuire l´ossigeno degli incentivi cambieranno le loro aspettative da negative in positive? Ho fondati dubbi che questo avvenga. Sette mesi all´addiaccio sono una notte piuttosto lunga da passare in fondo alla quale la prospettiva è poi quella di doversi ulteriormente indebitare sia pure ad un tasso simbolico. Ma se nel frattempo il livello dei tassi in Usa e in Europa dovesse aumentare, il che è abbastanza probabile? Quali diverse aspettative si metteranno in moto in quel momento? Puntare sulle esportazioni, come ha fatto la Germania nei mesi scorsi con notevole successo per il sostegno della domanda, è molto rischioso in un´Italia precipitata in tre anni al 51? posto nella classifica mondiale della competitività. Le speranze vanno concentrate dunque su consumi e su investimenti. Ma quali sono le politiche di sostegno? Il taglio degli incentivi, sia pure sostituiti in seconda battuta da prestiti, non è propriamente un sostegno, al contrario. L´effetto restrittivo delle spese tagliate nei sette mesi di vuoto non è propriamente un sostegno, al contrario.

La riduzione fiscale di 350 euro l´anno sui redditi da 10 a 20 mila euro e i 590 sui redditi da 20 a 30 mila euro sono gocce. Serviranno a rilanciare i consumi? Con 590 euro si comprano un paio di magliette o un pullover. Con 350 ci si paga un paio di cene di famiglia in pizzeria.

I vantaggi sono più consistenti per i redditi da 40 mila euro in su, ma non per cifre da euforia, siamo a 5 milioni di vecchie lire annue di risparmio d´imposta, che diventano 9 milioni oltre i 60 mila euro di reddito. Ma a quei livelli il numero dei beneficiari si assottiglia fino a diventare sottile ai livelli ulteriori.

Che cosa ne farà la platea dei beneficiati di queste cifre risparmiate sull´imposta? Aumenterà i consumi? Rimborserà i debiti? Aumenterà il risparmio? Comprerà le obbligazioni che intanto avranno invaso il mercato per assicurare i finanziamenti, i prestiti, le sofferenze bancarie sempre più numerose e pesanti?

Se queste saranno le aspettative, come non è affatto da escludere, la scommessa della spettabile ditta B. T. farà flop e allora non ci sarà un´altra prova d´appello perché questa è l´ultima che il calendario politico economico e finanziario le accorda.

Ecco dov´è l´imbroglio: nell´estrema fragilità e rischiosità della scommessa. Ho chiesto ad un economista italiano che è anche un alto dirigente di Autorità monetaria e quindi uomo di pratica oltre che di teoria: tu a quanto la dai? Ci ha pensato un momento e poi ha risposto: al 50 per cento.

La spettabile ditta B. T. gioca dunque al rosso e nero con l´economia nazionale. Questa è la loro politica, da sempre. Così inviarono le truppe in Iraq nella speranza che finita la guerra, il dopoguerra si svolgesse all´insegna del pane e delle rose. Lì purtroppo la scommessa è andata malissimo. Ora vediamo questa e sia l´ultima.

Durante i processi di Mani pulite colpivano le espressioni esterrefatte dei carabinieri di servizio nelle aule dei tribunali quando giudici, avvocati, imputati facevano un po’ di conti sull’entità delle ruberie, il gran ballo dei miliardi delle tangenti. Non potevano non far confronti tra la loro magra busta paga e quelle somme ingenti che ministri, segretari di partito, manager di Stato e non di Stato avevano messo in tasca. Non era necessario aver frequentato scuole di alta finanza per capire quanto era costato alla collettività nazionale il ladrocinio generalizzato, per sé stessi e/o per il partito, di quei personaggi che ora rispondevano con visi simili a Madonne addolorate alle domande dei magistrati e, persa l’antica alterigia, tentavano maldestramente di spiegare cos’erano mai quei numeretti scritti su un’infinità di documenti che provavano le loro malefatte. (Un chilometro di passante ferroviario a Milano veniva a costare, fino al 1992, 80 miliardi di lire; dopo il 1992, 45 miliardi).

Adesso quelle ruberie sembra che non siano mai esistite e la corruzione sembra non sia più un reato. In dieci anni non è stata approvata alcuna legge per contrastarla. Pare che non sia più neppure un peccato da confessare al penitenziere, mentre prosperano i condoni, le agevolazioni, le facilitazioni, gli abbuoni e si allungano i termini dei provvedimenti di clemenza inventati per cercar di sanare e di tamponare il dissesto della finanza pubblica. Il governo ha bisogno di soldi e avalla istituzionalmente in questi modi borbonici l’illecito offendendo le persone oneste. Il presidente del Consiglio suggerisce paternamente di non pagare le imposte se sono troppo elevate.

E si guarda bene dal promuovere miglioramenti dei servizi e delle prestazioni pubbliche come avviene nel Nord Europa dove a una pressione fiscale elevata corrispondono da parte dello Stato servizi adeguati.

Che cosa succede in un Paese dove il governo non sembra il gran maestro della legalità? Il rapporto tra il cittadino e lo Stato, da sempre precario qui da noi, è di nuovo peggiorato. Lo Stato non è nemico, come si dice, ma è ancora peggio, complice, maniglia utile per aggirare la legge. Tutti i vizi nazionali antichi e nuovi che, tra la fine degli anni Ottanta del Novecento e gli inizi degli anni Novanta, parevano essersi attenuati, si sono ora aggravati, ingigantiti.

Il conflitto di interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio, rimasto irrisolto dopo due anni di governo, dieci anni dopo l’ingresso in Parlamento - se si pensa poi che risale al 1957 la legge 361 che prevede l’ineleggibilità per chi è titolare di concessioni dello Stato, come, ad esempio, le frequenze televisive, caso macroscopico - ha provocato una cascata di illegalità imitative. Protagonisti cittadini che si sentono protetti da un clima istituzionale in cui le regole sono considerate nemiche, i magistrati «figure da ricordare con orrore», i rappresentanti eletti dal popolo ladri.

L’eterna arte di arrangiarsi è sempre più di attualità. Non soltanto a livello necessitato dalla sopravvivenza, visto che le condizioni di vita si sono appesantite, le promesse si sono rivelate degli imbrogli e non serve a nulla l’ottimismo di maniera diffuso a piene mani. I caratteri negativi degli italiani, il familismo amorale, l’apoliticismo settario, il rifiuto della politica come incontro-scontro di idee e di progetti, il qualunquismo, il rigetto della morale che disturba il manovratore, un gioioso «liberi tutti» in nome del mitologico mercato, incontrollata bestia rampante, sono diventati i simboli dell’era berlusconiana.

L’ambiguità è un altro dei caratteri che soprattutto nei tempi grami della depressione economico-culturale trova nutrimento nel bel Paese. Ci sono quelli che guardano da dietro le persiane; c’è la «zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi», secondo la definizione di Primo Levi («I sommersi e i salvati»). Ci sono quelli del «però», che non rinunciano a rimarcare il bene anche dove il male è chiaramente trionfante; ci sono quelli che fanno il doppio o triplo gioco, un colpo di qui, l’altro di là, con l’illusione o la falsa coscienza dell’oggettività; ci sono gli opportunisti, i trasformisti, gli equilibristi.

Nel 1938, 96 professori ebrei, tra i più illustri, furono cacciati dalle università italiane a causa delle leggi razziali del fascismo: 96 colleghi presero il loro posto. Con qualche problema di coscienza? Con qualche moto di vergogna?

Poi, in ogni tempo, ci sono gli altri, quelli che pagano per tutti in nome della dignità personale e collettiva. Forse è sufficiente ricordare la quindicina di professori (su 1250) che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà imposto dal fascismo e furono espulsi dalle Università italiane. E i 600mila soldati e ufficiali catturati dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 che rifiutarono anch’essi il giuramento di adesione alla repubblica di Salò e in nome dell’onore preferirono i rischi del lager, la fame, il dolore, spesso la morte.

Anche oggi sono infinite le generosità sconosciute che fruttificano in una società infinitamente lontana dalle istituzioni. La grande informazione «indipendente» che dovrebbe raccontare i fenomeni sociali preferisce occuparsi della rivoluzione di Armani. Ignora, come lo ignorano i politici, quel che succede nei piccoli paesi, nei quartieri delle grandi città, nelle aree metropolitane dove nasce, rinasce, si muove una società minuta, complessa, ricca di vitalità, non rappresentata. Una rete enorme di energie nuove.

Non sono sicura che l´importanza della cosiddetta liberazione delle donne sia stata bene percepita. Eppure l´espansione così rapida delle lotte femminili in tutto il mondo ne è una testimonianza.

Ma siccome si tratta di un passaggio epocale della storia dell´umanità, la cosa è difficile da immaginare.

Ognuna, ognuno ne coglie un aspetto solo, inoltre a partire da sé e da oggi. Bisognerebbe anzi saltare in un altro tempo, o anticipare il futuro. E non solo come nella fantascienza ma come un altro mondo possibile, non nell´aldilà ma quaggiù.

Diventare degli uomini. L´interpretazione più immediata della liberazione femminile corrisponde alla sua identificazione con l´uguaglianza all´uomo. Questo non ha bisogno di nessun cambiamento nel modo di pensare, di nessuna (r)evoluzione culturale. Basta far entrare la donna in una categoria esistente - gli operai, gli schiavi, gli oppressi. Rimaniamo così nella stessa logica padrone-schiavo, con il volere dello schiavo di diventare il padrone e, al massimo, con una certa accondiscendenza del padrone rispetto allo schiavo, a meno che accada un capovolgimento del rapporto. Ma siamo sempre nella stessa economia, un´economia a cui le donne accettano di partecipare, sacrificando la loro libertà per perpetuarla, e ricevere per questo qualche compenso dal padrone.

Ma lei non parla di uguaglianza - mi obietterete. Vi chiederò allora di dimostrare che la strada dell´uguaglianza possa sfuggire alla logica padrone-schiavo. Vi suggerirò anche di comprarvi, per festeggiare l´otto marzo, un album Mafalda (fumetti dello scrittore argentino Dino). Mafalda è una maestra in liberazione femminile! Se siete fortunati, troverete in questo album la risposta di Mafalda a suo padre che sostiene che «l´occhio di Dio ci vede tutti uguali»: «Ma chi è il suo oculista?» lei gli chiede.

Notate, in questa occasione, che, per argomentare a proposito dell´esistenza dell´uguaglianza, il padre ha bisogno di ricorrere a Dio - quello con cui la parità rimane sempre impossibile. In ogni caso, prendere l´uomo come modello della propria liberazione non è una scelta che testimonia una grande autonomia né immaginazione. Il successo dell´uguaglianza è basato sul fatto che il metodo già esiste, che fa parte di una cultura al maschile e che è mantenuto dal risentimento fuori da un reale cambiamento, cosa indispensabile per compiere la liberazione delle donne.

Diventare delle donne. La cosa è già più complessa perché difettiamo di mezzi culturali per compiere questa evoluzione. Inoltre essa richiede che le donne preferiscano essere donne e non uomini. E´ il primo, e più decisivo, passo per incamminarsi verso la propria liberazione. Ma poche donne l´hanno già superato, nemmeno sospettato. Per esempio, le famose parole di Simone de Beauvoir: non si nasce donna ma si diventa donna, non manifestano una grande stima per l´identità femminile, che sarebbe soltanto il risultato di stereotipi sociali imposti alle donne. Lo stesso vale nell´affermare che l´altro è necessariamente il secondo rispetto all´uno, come attesta il titolo Il secondo sesso. Non voglio con questo disprezzare il lavoro che Simone de Beauvoir ha compiuto ma dire che esso non basta per assicurare la liberazione della donna in quanto tale. E´ necessario capire che: se sono nata donna, devo anche diventare la donna che sono, e che questa donna è differente, ma non seconda, rispetto all´identità maschile. Certo, diventare donna, sviluppare un´altra identità umana non può ridursi a trasferire nei luoghi pubblici tutti gli affetti e passioni che avevano luogo in casa, in parte perché la donna non godeva di altri mezzi di espressione. Si tratta di elaborare un´identità culturale nuova, che permetta alla donna di fare sbocciare tutte le sue capacità, sia nell´intimità che nella vita pubblica. La prima mediazione indispensabile è il diritto a un´identità civile appropriata. E´ il mezzo che può assicurare la svolta dallo statuto naturale, in cui la donna è stata confinata, a uno statuto civile che consenta alla donna di essere riconosciuta come libera e autonoma nella vita pubblica - cioè che conferisce alla donna un diritto paritetico, pur essendo differente, alla cittadinanza. Una piattaforma civile appropriata alle donne è anche ciò che permette di costruire una democrazia mondiale al femminile.

Diventare degli umani. Questo passaggio dalla naturalità alla civiltà è pure necessario per superare la parte di animalità che troppo spesso regola le relazioni uomo(ini) donna(e). Se queste si fondano solo sull´istinto - sia a livello dell´attrazione sessuale che su quello della procreazione - non possono essere realmente umane. E´ vero nei rapporti amorosi e parentali ma anche nel resto della vita. E´ dunque decisivo che le donne sfuggano a uno stato di semplice naturalità non solo per loro ma per l´insieme dell´umanità. D´altronde chiedere cambiamenti a livello economico e sociale senza modificare i rapporti sessuali non conduce a un granché. Si constata, per esempio, che in certi paesi dove la parità sociale è migliore che altrove, le donne sono più violentate. Manca il riconoscimento della donna come persona, per di più portatrice di valori diversi.

Ma quali sono questi valori, domandano quelli e quelle che pensano che l´essere umano è unico e che la sua cultura è necessariamente al neutro (per non dire al maschile)? Per rispondere a questa interrogazione, ho raccolto tante parole e disegni di ragazze e ragazzi, di donne e uomini. L´analisi di questo materiale non permette nessun dubbio sul fatto che fra i sessi esiste una differenza. Questa differenza non è solo biologica o sociale, come si è immaginato. Si tratta piuttosto di un modo diverso di essere in relazione con sé, con l´altro, con il mondo.

Questa identità relazionale propria di ciascun sesso corrisponde a una maniera specifica di costruire passaggi fra natura e cultura. Non è il sintomo di un´alienazione, come ho sentito dire a proposito del discorso delle ragazze. Questo discorso si dimostra, d´altronde, molto più precoce e creativo che quello dei ragazzi, una ricchezza che si può spiegare per il fatto che la vita relazionale della ragazza è più vivace di quella del ragazzo. La differenza fra identità relazionali interviene nell´attrazione fra i sessi in un modo più umano che la semplice attrazione fisica. Essa rappresenta una fonte di energia, di creatività, di cultura che merita di essere considerata e coltivata per lo sviluppo e la felicità dell´umanità.

È rimasto quasi senza voce il professor Giovanni Sartori, girando fra trasmissioni tv, partecipando ai dibattiti, rispondendo alle telefonate dei tanti fan. Più Berlusconi procede nella sua marcia fracassona, più questo arguto politologo di sicura ispirazione liberale, accademico dei Lincei in Italia e professore emerito alla Columbia University negli Stati Uniti, che ora manda il libreria il suo ultimo saggio, 'Mala tempora' ( box a pag. 59), diventa un'icona di quella sinistra a cui non ha mai appartenuto, se non addirittura un simbolo di resistenza girotondina.

Professor Sartori, Berlusconi ha aperto la sua personale campagna elettorale accusando i politici di essere ladri e irrompendo in un club di tifosi come la 'Domenica sportiva'. Che cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi?

"Se vogliamo capire quel che sta succedendo dobbiamo sapere che tutto quel che fa Berlusconi ha una sua razionalità. Lui è il tipico esempio di uomo politico eterodiretto dai sondaggi, che prima di aprire bocca aspetta di conoscere come batte il cuore italico. Non ci sono strappi o improvvisazioni, né quando parla di politici che rubano, né tanto meno quando si butta su un tema trasversale come il calcio. Sapendo benissimo che il 70 per cento degli italiani si occupa solo di sport, Berlusconi gioca una carta demagogica sicura".

Però c'è un'insofferenza crescente nella gente, ci sono intere categorie in rivolta e non solo per ragioni economiche.

"Una metà di questo paese che non ne può proprio più, ed è il popolo di sinistra, sempre più irato e ferito. E poi c'è l'altra metà, quelli che avevano votato per il Polo. È gente disincantata, perplessa, ormai convinta che le promesse non sono state mantenute. Per ora è un popolo che si astiene, che non pensa ancora di passare dall'altra parte. Questo spiega perché Berlusconi si è buttato alla ricerca spasmodica del loro consenso".

Non sembra che tutto il popolo di destra accetti volentieri questo disprezzo crescente di ogni regola.

"È vero. In questo senso ha fatto benissimo Lucia Annunziata a intervenire subito alla 'Domenica sportiva'. Senza le sue parole in diretta l'intervento di Berlusconi sarebbe stato solo un discorso più lungo del normale. Così invece ha creato il caso, ha fatto risaltare una scorrettezza clamorosa".

È un'esagerazione da estremisti dire che in Italia c'è un regime?

"Non credo mi si possa classificare come un sovversivo, eppure lo sostengo anch'io. Ma regime non vuol dire dittatura. Questa è un'invenzione dei media, che pure avevano parlato per tanto tempo di regime democristiano. In un regime c'è una forte personalizzazione del potere, come nel gollismo. C'è un leader che conta più dei meccanismi della democrazia".

Quali meccanismi sono più indeboliti nel caso italiano?

"È la garanzia della pluralità dell'informazione a essere fortemente amputata. Quando l'informazione è praticamente in mano a un monopolio, il cittadino sa solo quel che gli vuol far sapere il potere. In questo senso anche le elezioni, che una dittatura non consentirebbe e a cui invece Berlusconi si sottomette, sono meno libere di quel che sembrano, data l'altissima manipolazione delle opinioni dei votanti".

Perché secondo lei una parte dell'opposizione continua a ripetere che non bisogna alzare i toni della polemica? "All'Ulivo non conviene replicare al Cavaliere", ha detto nei giorni scorsi Giuliano Amato.

"Dissento decisamente. Se vedo qualcuno che ammazza un uomo mi metto a gridare 'assassino, assassino'. Invece Giuliano Amato, che ama i toni bassi, dice: 'C'è qualcuno che ha dato una martellata in testa a un altro'. È assurdo non chiamare le cose con il loro nome. È il tatticismo di una classe politica senz'altro competente, ma che è così coinvolta nei giochi di potere da pensare di poter ottenere qualcosa da ogni situazione".

Lei ha mai provato a dare qualche buon consiglio al centro-sinistra?

"Quando erano al governo avevo cercato in tutti i modi di convincerli che bisognava regolare il conflitto d'interessi. 'Se non fate adesso una legge siete fritti per sempre, non avete neanche idea del volume di fuoco mediatico che vi cadrà addosso', dicevo. 'Ma come si fa, così si antagonizza troppo Berlusconi, sembrerebbe una legge ad personam', mi rispondevano. Come se tutte le leggi non si facessero ogni volta in funzione di circostanze precise, anche se poi valgono per tutti. E lì le circostanze erano gravissime, si sapeva dai sondaggi che il padrone di Mediaset stava per vincere. Il brillante risultato è che le elezioni le hanno perse lo stesso, e Berlusconi ha conquistato quasi il 100 per cento dell'informazione di massa".

Come giudica l'operazione della lista unica alle prossime elezioni? Crede che aiuterà l'opposizione ad andare avanti?

"Ho pensato fin dal primo momento che creava più problemi di quanti ne risolvesse. In elezioni proporzionali come sono le europee non c'è bisogno di liste uniche, che fra l'altro in Italia non hanno mai avuto risultati brillanti. Spero che la regola questa volta venga smentita. Ma intanto, a dimostrazione di quanto la mossa fosse incauta, si è verificato il paradosso che alle elezioni Prodi non si presenterà, ma Berlusconi sì. Ha preso a pretesto la situazione per candidarsi per davvero, e si è garantito quell'effetto di traino che non è detto che Prodi riuscirà a esercitare".

Intanto il listone si è trovato alle prese con la grana dei soldati italiani a Nassiriya.

"Ormai è il tema della pace la grossa mina vagante della sinistra. Negli ultimi anni si è saldato un pacifismo che si potrebbe definire cattocomunista, che è destinato a creare problemi continui, a disunire le coalizioni. Penso che mostrarsi divisi e conflittuali, come è appena successo, sia disastroso. Dà un vantaggio colossale a Berlusconi perché la gente, a torto o a ragione, di liti non ne può proprio più".

Il popolo di sinistra però si è dimostrato nella grande maggioranza contrario alla guerra.

"Lo sono stato anch'io. Ma adesso il no alla missione in Iraq sarebbe irresponsabile. Se gli Stati Uniti fossero costretti ad andarsene, può saltare in aria tutto il Medio Oriente. L'astensione era l'unico modo per tenere insieme il centro-sinistra".

Le divisioni hanno riguardato soprattutto i Ds. Cosa ne pensa della leadership di Fassino?

"Non è che Fassino sia un indeciso. È che non può fare più di tanto, con un partito che stranamente è ancora controllato da D'Alema, con la conflittualità della Margherita, con questi cespugli micidiali. È un miracolo che riesca a tenere in piedi la baracca".

Che effetto le fa sentirsi indicare oggi dalla destra come una specie di sovversivo, come un guru di tutte le opposizioni?

"Non sono di sinistra, ma le circostanze mi hanno portato certamente a sinistra. Credo che nell'Italia di oggi sia quasi un dovere, soprattutto per uno studioso della politica, opporsi ad un sistema che sta distruggendo lo Stato costituzionale, che scivola verso la democrazia totalitaria. E poi c'è una cosa che non posso sopportare".

Quale, professor Sartori?

"Che Berlusconi pretenda di insegnare a me che cos'è la democrazia. Questo, me lo lasci dire, è veramente troppo".

10 anni di mala tempora Il nuovo libro di Giovanni Sartori

Un libro di 'storia vissuta', dove gli avvenimenti sono raccontati quando ancora si stanno svolgendo, e nessuno sa come andranno a finire. È la definizione che Giovanni Sartori dà del suo ultimo libro, 'Mala tempora', uscito da pochi giorni da Laterza e già arrivato alla seconda edizione dopo aver bruciato 14 mila copie. Eppure 'Mala tempora', titolo che allude al pessimo periodo che sta vivendo l'Italia, è un volumone di più di 500 pagine, che per di più raccoglie articoli già apparsi sui giornali, ma scelti e riordinati in modo da dare una lettura piuttosto intrigante degli ultimi 10 anni. Definito da Claudio Magris un manuale di resistenza, il libro di Sartori smonta giorno dopo giorno i meccanismi del Palazzo, racconta l'occupazione del sistema Italia da parte del Polo e le condizioni che rendono possibile una seconda vittoria di Berlusconi, a cominciare da quel Mattarellum, indicato come la fonte di molti mali. Ma è soprattutto nel racconto puntuale e senza sconti dei numerosi errori della sinistra al governo, dalla Bicamerale al ribaltone a un federalismo troppo frettoloso, che 'Mala tempora' si accredita come un utile vademecum per un'opposizione che vuol tornare a vincere.

FINO AL 10 marzo tutti i sondaggi davano il partito di Aznar certo vincitore delle elezioni politiche e probabile detentore della maggioranza assoluta. Il giorno dopo, quel fatale 11 marzo, dopo le primissime notizie della strage sui treni e prima ancora che cominciasse lo sconcio balletto dell’attribuzione del massacro, la reazione automatica dei poteri dentro e fuori dalla Spagna - ma presumibilmente anche d’una parte degli elettori - fu quella di stringersi attorno al governo, al suo leader e al delfino da lui designato.

È sempre avvenuto così ed è una delle turpi ragioni che spinge i poteri mal certi a cercare nei conflitti esterni ed interni e financo nelle guerre lo strumento per recuperare un consenso in via di disfacimento.

Ma nei successivi tre giorni quelle previsioni sono diventate sempre più incerte fino al tracollo elettorale del 14 marzo. In tre giorni il Pp è crollato al 37 per cento dei voti; in tre giorni una super-maggioranza sbriciolata e travolta; in tre giorni capovolta la geografia politica della Spagna con ripercussioni non dappoco su quelle dell’Italia, della Gran Bretagna e perfino degli Usa e delle sorti del duello tra Bush e Kerry. Tutto ciò perché il governo Aznar ha usato la menzogna e la reticenza nell’indicare gli autori del massacro dei treni. È possibile spiegare in questo modo la sorprendente vittoria del socialismo spagnolo?

Dico francamente che questa lettura non mi convince affatto. Questa lettura, tra l’altro, riconoscerebbe ai macellai di Al Qaeda il potere di intervenire nella politica con effetti mirati e decisivi e presupporrebbe nel popolo spagnolo una dose di viltà che è smentita da un storia secolare: è un popolo fiero, orgoglioso, tenace nelle sue convinzioni. No, non mi convince affatto una giravolta così improvvisa nell’arco di poche ore e dinanzi ad un lutto collettivo di quella tragica intensità. La menzogna del governo ha certamente provocato indignazione, ha certamente scatenato rabbia e disprezzo, ma le ragioni della vittoria di Zapatero sono più profonde.

Qualche giornale ha titolato: «Non ha vinto Zapatero, ma ha perso Aznar». No, non è andata così.

Ha vinto Zapatero, ha vinto l’onda lunga di un’opinione pubblica che giusto un anno fa invase le piazze e le strade di Spagna per dimostrare contro la guerra americana in Iraq, contro una decisione unilaterale che umiliava l’Onu e la legalità internazionale, contro il proprio governo che si affiancava alla superpotenza senza alcun rispetto della volontà chiaramente espressa dal 90% del popolo spagnolo. Il popolo è dunque sovrano soltanto quando il potere decide che lo sia? Quest’onda lunga nella pubblica opinione ha aspettato un anno. Ha assistito al fallimento manifesto dell’impresa irachena. Ha visto il terrorismo, che doveva essere sconfitto o almeno indebolito da quell’impresa, uscirne moltiplicato come un’idra dalle molte teste ruggenti e sanguinose. Infine ha raccolto con dignità dolorosa e silenziosa i suoi morti e tre giorni dopo ha votato. Il risultato l’abbiamo visto: il popolo spagnolo ha riassunto nelle sue mani la sovranità, ha tolto la delega a chi aveva tradito la delega e l’ha affidata a chi aveva fin dall’inizio condiviso le scelte del popolo.

Questo è accaduto nella giornata del 14 marzo e chi ancora non l’ha capito avrà presto altre occasioni per rendersene conto.

* * *

In realtà non fu solo il popolo spagnolo a schierarsi contro l’avventura americana in Iraq, basata su una tesi priva di fondamento e preparata prima ancora dell’attentato alle torri di Manhattan. Non fu solo il popolo spagnolo, anche se in Spagna la percentuale della protesta fu quella massima; ma tutti i popoli europei si schierarono in quella decisiva occasione: in Italia, in Gran Bretagna, in Germania, in Olanda, in Belgio, in Svezia, in Norvegia. E lo fecero quale che fosse la posizione dei propri governi, lo fecero indipendentemente dai propri governi.

Mi permisi di scrivere in quei giorni che forse, proprio su quel delicatissimo terreno e in quella delicatissima circostanza, era nato il popolo dell’Europa. Sono stato criticato per averlo scritto e accusato di enfasi pericolosa, di corta vista, di mente debole e demagogica come tutti i pacifisti.

Ebbene io non sono pacifista, il nostro giornale non è pacifista nel senso della pace comunque e a ogni prezzo, anche se ti ammazzano il fratello, anche se ti aggrediscono, anche se calpestano i tuoi diritti e i tuoi più radicati valori. Io non sono per porgere l’altra guancia dopo il primo schiaffo. Non a caso, noi prendemmo posizione per la fermezza contro le Br ai tempi del rapimento Moro, convinti come eravamo e come siamo che il terrorismo si combatte con la fermezza e non con la trattativa.

Che cosa significa scegliere la fermezza? Temo che si sia fatta molta confusione e dette molte, troppe parole vaghe su questo punto capitale.

Perciò conviene parlar chiaro mentre l’ombra del terrorismo globale si stende ormai nel cielo dell’Europa democratica.

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È fin troppo evidente che il terrorismo non si combatte con i carri armati, con gli elicotteri, con i bombardamenti, con le divisioni di fanteria di cavalleria di marines. Ed è sommamente vero fino al punto d’essere ormai diventato un luogo comune che si combatte invece con l’"intelligence", con il controspionaggio, con le misure di sicurezza preventiva nei modi in cui è possibile adottarle.

Ma si tratta comunque di strumenti parziali e non risolutivi; improponibili comunque in ambienti nei quali il terrorista sia allevato, istruito, predisposto e coperto da un diffuso consenso e da una diffusa omertà. Se i pesci grandi e piccoli del terrorismo nuotano in un’acqua nutritiva e abbondante saranno imprendibili, comunque si riprodurranno, allargheranno il loro raggio d’azione, si diffonderanno come una cancrena fino ad inquinare e uccidere l’intero organismo sociale.

Perciò esiste una sola valida ricetta per combattere il terrorismo: prosciugare l’acqua che lo circonda lasciandolo a secco e lì, una volta a secco, estirpare il fenomeno alle radici.

Così fu distrutta la prima e la seconda generazione terrorista nell’Italia degli anni di piombo. Quando ancora oggi si parla, a proposito del terrorismo brigatista, di album di famiglia per mettere allo scoperto le derivazioni leniniste di quel fenomeno (peraltro discutibili sul piano ideologico-culturale) si crede di mettere in imbarazzo i figli e i nipoti della politica di Berlinguer. Si dimentica che la vittoria sulle Br fu dovuta soprattutto, ma vorrei dire quasi interamente, alla fermezza con la quale il Pci di allora e il sindacato di allora prosciugarono l’acqua nelle fabbriche e nella classe operaia intorno al pesce brigatista.

Non credo che vi sia altro modo. Esso presuppone che sul terrorismo non ci siano né perdoni né silenzi. Tanto più si è per la pace - pacifisti o non pacifisti - tanto più si deve essere contro il terrorismo poiché esso è l’esatto contrario della pace: infatti semina guerra, morte, terrore, servitù al terrore, fanatismo, duplicità.

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In che modo si prosciuga l’acqua in cui prospera il terrorismo? Con il dialogo, con la comprensione dei bisogni materiali morali psicologici di quei popoli, etnie, nazioni nei quali il terrorismo cerca di metter radici perché vi ravvisa un humus fertile dove le sue radici velenose potranno più facilmente attecchire.

La lotta al terrorismo si fa dialogando con quei popoli, con quelle nazioni, con quelle etnie e non bombardandoli e massacrandoli. Ecco perché i popoli d’Europa dimostrarono grande saggezza un anno fa opponendosi alla guerra americana e alla cosiddetta pax americana che non è mai diventata pace. Si opposero perché avevano capito che la guerra americana avrebbe infiammato e stimolato il terrorismo, avrebbe reso purulento un tessuto che conosceva arretratezze dittatura tribalismo ma non conosceva il terrorismo e anzi gli si opponeva.

Diciamo la verità: la guerra irachena di Bush, di Blair e dei loro alleati-satelliti è stata il più grande e manifesto errore che si potesse compiere dopo l’attentato di Manhattan. Ha giovato solo alla popolarità d’un presidente male eletto e rafforzato da un lutto nazionale e mondiale.

Quel presidente aveva bisogno della sua guerra e l’ha avuta. Ne ha tratto giovamento politico. Probabilmente effimero, probabilmente quel giovamento è arrivato al capolinea. Ma nel frattempo non ha prodotto che nuovi guai, nuovi lutti, nuovo e rafforzato terrorismo.

I pacifisti debbono dire alto e forte no al terrorismo se vogliono essere credibili. Sicché non esiste contraddizione alcuna a marciare sotto le bandiere della pace e dell’antiterrorismo poiché si tratta della stessa bandiera e anche questo deve essere ben chiaro.

* * *

Zapatero non ritirerà subito i soldati spagnoli dall’Iraq; una cosa è mandarli - ha detto - un’altra ritirarli. Ma subito prima e subito dopo la vittoria elettorale Zapatero ha ribadito l’impegno: se il 30 giugno l’Onu non avrà assunto la piena e totale responsabilità, anche militare, del dopoguerra iracheno, i soldati spagnoli saranno ritirati.

Anche l’Ulivo e i Ds in particolare hanno preso lo stesso impegno. Sicché restano incomprensibili gli insulti che gli sono stati rivolti da alcuni arruffapopoli che hanno promesso schiaffi umanitari e hanno definito quei dirigenti politici come delinquenti. Chi parla in questo modo manifesta solo faziosità e vaniloquio.

Per il resto: non si vince il terrorismo soltanto marciando ma se proprio si vuol marciare, marci ciascuno con le proprie insegne senza promiscuità che generano solo confusione e cattiva coscienza. I socialisti spagnoli hanno ben dimostrato di essere per la pace e contro il terrorismo ed hanno cacciato dal governo Aznar. Basta essere chiari come loro sono stati per realizzare lo stesso obiettivo.

Secondo me per arrivare all’Europa unita e dotata d’una sola voce e d’un appropriato peso politico bisogna cambiare alcuni governi. Uno di essi è cambiato il 14 marzo. Mi sembra un ottimo inizio.

In una lettera del 1872 indirizzata al paleontologo scozzese Hugh Falconer, Charles Darwin scriveva che «la sua teoria dell´evoluzione sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish)». Centocinquant´anni dopo, la profezia, almeno qui da noi, si è avverata, e la teoria darwiniana dell´evoluzione, che oggi neppure il magistero ecclesiastico contesta, ha rischiato di essere eliminata dai testi scolastici che, alla spiegazione scientifica dell´evoluzione, avrebbero dovuto preferire la narrazione mitico-simbolica della creazione.

Di questo si è discusso ampiamente in questi giorni sui nostri giornali, per cui non vale qui la pena di ritornare, se non per rimarcare l´enorme fatica che fa la scienza a prendere piede nella nostra cultura, per una sorta di malinteso "umanismo" che, sotto la falsa apparenza di nobilitare l´uomo, nasconde almeno due truci intenzioni che qui vorremmo evidenziare.

La teoria creazionista, concependo l´uomo a immagine di Dio, gli conferisce il privilegio del dominio incontrastato sull´intera natura. Leggiamo infatti nel primo libro della Bibbia: «Poi Iddio disse: facciamo l´uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza; domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie» (Genesi 1,26).

Per la mentalità greca antica questa concezione sarebbe stata considerata la più alta espressione di Hybris, di tracotanza, di inaudito oltrepassamento del limite. E questo perché, per il greco antico, la natura «che nessun uomo e nessun Dio fece» (Eraclito) rappresentava quello sfondo immutabile le cui leggi, regolate dal vincolo della necessità (ananke), costituivano il punto di riferimento da cui trarre indicazioni per il governo della città e per la buona conduzione di sé. Qui Platone è stato chiarissimo: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell´universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi 903 c).

All´opposto della mentalità greca, la tradizione giudaico-cristiana concepisce la natura non come lo sfondo immutabile su cui l´uomo deve regolarsi, ma come il prodotto della "volontà" di Dio che l´ha creata a disposizione della "volontà" dell´uomo, a cui è concesso l´incontrastato dominio.

Questa concezione del "dominio", che non è greca ma giudaico-cristiana, se un tempo era compatibile con le dimensioni della terra e la scarsa densità della popolazione umana, oggi, a rapporto invertito, non è più praticabile. E sulla base della tradizione giudaico-cristiana, che ha sempre concepito la morale come una regolatrice dei rapporti fra gli uomini, non disponiamo di una morale che si faccia carico degli enti di natura, come la salvaguardia dell´aria, dell´acqua, della vegetazione, del clima, del mondo animale, con particolare riferimento alle specie in via di estinzione non per selezione naturale, ma ad opera dell´uomo.

E allora a me viene il dubbio che la teoria evoluzionista darwiniana, che, al pari del pensiero greco, colloca l´uomo nella grande catena dell´essere senza accordargli alcun privilegio rispetto alle altre specie viventi, sia messa a tacere a favore della teoria creazionista non tanto per salvaguardare la dignità dell´uomo fin dalla sua origine divina, quanto per garantirsi, in nome di Dio, il dominio incontrastato sulla terra come vuole l´insensibilità del profitto, del denaro e del mercato oggi globalizzato.

A fianco di questa prima malcelata intenzione, che vuole legittimarsi su base religiosa, ce n´è una seconda, ancora più truce, che utilizza impropriamente la teoria evoluzionista di Darwin per giustificare gli stessi risultati a cui è approdata, probabilmente suo malgrado, la teoria creazionista.

Volendo riassumere in una formula la teoria di Darwin potremmo dire: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri viventi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque un´unica causa dell´evoluzione, il cui meccanismo, per dirla in modo un po´ truculento, è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi che pazientemente si possono identificare.

Questa teoria, che Darwin aveva limitato all´ambito biologico, è stata impropriamente estesa all´ambito sociale e, sotto la denominazione di "darwinismo", si è fatta passare per "legge naturale", per cui anche nella società il pesce grosso può mangiare il pesce piccolo.

Equiparare l´evoluzione sociale all´evoluzione naturale significa riconoscere libertà illimitata a chi è più forte, accettazione indiscussa della disuguaglianza, nessun intervento dello Stato per aiutare i più svantaggiati, con tutto ciò che ne consegue praticamente in ordine all´assistenza agli anziani, lo sfruttamento delle donne e dei minori, le cure mediche a chi non dispone di risorse, l´istruzione a chi non può permetterselo, fino alla malattia, la fame e la morte per chi non ha denaro. E´ evidente che qui a garantire la «sopravvivenza del più adatto» non sono più le risorse biologiche come prevede la teoria di Darwin, ma le risorse economiche, ossia la ricchezza e la potenza che la ricchezza garantisce.

Il capitalismo non controllato, il mercato non regolato, la mancata distribuzione della ricchezza attraverso la tassazione che garantisce lo stato sociale sono le espressioni più evidenti della teoria biologica darwiniana impropriamente applicata alla società. Marx (che proprio a Darwin intendeva dedicare Il Capitale) propose di correggere il darwinismo sociale con il progetto comunista che, naufragato nella sua versione integrale in Russia e in Cina, ha consentito in Europa la creazione di uno stato sociale che oggi vediamo sottoposto a una continua limatura nei paesi capitalisti, e del tutto assente nel resto del mondo.

A questo punto risulta a tutti evidente che gli esiti finali della teoria creazionista, che prevede il dominio incontrastato dell´uomo sulla terra, e l´impropria applicazione alla società della teoria evoluzionista di Darwin vanno perfettamente d´accordo, perché l´astuzia della ragione, coniugata alla malafede, fa sotterraneamente camminare in perfetta armonia gli esiti pratici di teorie che in superficie vengono presentate come opposte e inconciliabili.

L´assenza di cultura, di pensiero e di riflessione critica del nostro tempo, mescolata all´egoismo individuale completano il quadro desolante di un´umanità che all´uso della terra ha sostituito l´usura, e al rispetto dell´uomo il diritto della forza. La storia a questo punto ribolle, come sempre accade quando il suo artefice, l´uomo, regola la sua vita sul registro animale.

Chi è Charles Darwin

Dirò cose forse sgradevoli e se qualcuno dovesse personalmente dolersene me ne scuso fin d´ora. D´altra parte la retorica di pronto uso, l´esagerazione piagnona, la demagogia impudente, l´acquiescenza complice dei mass media nei confronti degli aspetti più deplorevoli del nostro carattere nazionale hanno raggiunto negli ultimi tempi una intensità di proporzioni tali da indurre chi, come il sottoscritto, ne prova disagio, ad un modesto richiamo alla realtà delle cose, più che alla loro rappresentazione.

Prendiamo la scelta di apporre la qualifica di «eroe» a tante povere e rimpiante vittime di incidenti, di malori o anche di azioni belliche o terroristiche. Ora, se le parole hanno un senso, la definizione di eroe andrebbe applicata con sorvegliato spirito di limitazione a «chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti». Così recita lo Zanichelli che, non a caso, ricorda come l´eroe rappresentasse nelle mitologie antiche un essere intermedio fra gli dei e gli uomini che interviene nel mondo con imprese eccezionali. Ma anche nella storia politico-militare moderna gli eroi, anche il modesto fante in missione volontaria che salta in aria tagliando i reticolati sul Carso, innalzato ad esempio nei testi scolastici della mia adolescenza, erano personaggi eponimi che simboleggiavano le virtù patrie, cui pedagogicamente ispirarsi. Ora, invece, la definizione si allarga fino a perdere senso o, peggio, viene utilizzata per facilitare operazioni di copertura strumentale così che, ad esempio, il perché e il come quella vittima ha perso la vita non sia oggetto di accertamenti critici o chiamate di correo.

Per contro, assunta nell´empireo degli eroi, la sua morte acquista un sigillo di sublimazione che la rende «indiscutibile», oggetto solo di omaggio, venerazione e, al massimo, rimpianto.

Prendiamo, ad esempio, la morte di Pantani. Un campione di grandissimi successi e di rovinoso declino, imputabile in grande misura all´uso prolungato di droghe eccitanti assunte per vincere le gare e che, alla fine, ne hanno fiaccato il corpo oltre allo spirito. Orbene che senso ha avuto l´inondazione mass-mediatica che ha riempito pagine e pagine di ogni giornale e ore di trasmissione tv? Quale "eroe" si è celebrato in questo caso con sì ridondante espressione di lutto e rimembranza? Non andava, piuttosto, con più misurata cronaca, indicato soprattutto come quella fine esemplificasse il decadere dello sport, di tutte le discipline, dove i soldi, gli alti ingaggi, i premi miliardari e le molte speculazioni alle spalle e sulla pelle degli atleti hanno trasformato stadi, piste e altri luoghi di certame sportivo in bacini di corruzione e decadenza?

Un caso tutto diverso è la caduta dei tre cardio chirurghi in volo per Cagliari con un cuore da trapiantare. Il cordoglio è sincero, ma anch´esso è venato da una qualche retorica di troppo, compresa quella nobilitata dalle lodevoli intenzioni del presidente Ciampi e dalla medaglia d´oro che Sirchia propone di conferire a questi «eroi di oggi». Crediamo che non fossero, non si sentissero, non volessero essere chiamati eroi ma riconosciuti in tempo quali persone impegnate fino in fondo nel servizio pubblico, come tantissimi loro colleghi. Meglio ricordare che quel chirurgo, subentrato da nove anni al professore diventato deputato, attendeva da allora invano la nomina a primario e che ogni qualvolta si trovava un cuore da impiantare doveva darsi personalmente da fare per organizzare in un battibaleno il trasporto. Vogliamo gratificare le migliaia di medici presenti in corsia oltre ogni orario di lavoro, gli infermieri che accudiscono i malati depositati nei corridoi per il taglio dei letti, i ricercatori che studiano senza mezzi, distribuendo loro tanti bei certificati di «eroi del giorno d´oggi»?

E, infine, il più controverso degli «eroismi», quello dei Caduti di Nassiriya. Si dirà che il mestiere delle armi comporta potenzialmente il rischio della vita. È vero ma in questo caso l´impegno per il quale erano stati ingaggiati era formalmente una missione umanitaria e non bellica.

Eppure si sono trovati in piena guerriglia e con il terrorismo scatenato, non certamente predisposti ad azioni di combattimento. Non per questo erano stati mandati o avevano scelto di partire. Sono martiri ma non eroi. Eppure, in nome della sacralità dell´eroismo non si dovrebbe parlare del sacrificio loro imposto, delle responsabilità del profilo mendace della missione, del permanere di un quadro d´assieme incerto e pericoloso. Un caso tipico di retorica governativa multiuso

Caro direttore, il presidente Ciampi ha sollevato con forza il problema della scarsa presenza femminile nella rappresentanza politica. Il caso italiano è, in effetti, scandaloso. Purtroppo, nell’imminenza di una scadenza elettorale, bisogna registrare un avvio di discussione tra le forze politiche con deformazioni caricaturali delle proposte in campo per aumentare la rappresentanza di genere.

E’ stata dunque opportuna la pubblicazione su questo giornale dell’articolo di Dahrendorf "Le quote e le ingiustizie", nel quale il grande studioso ricolloca la discussione sulle "quote" nei suoi più ampi termini filosofici e sociali.

I pari diritti, dice Dahrendorf, non bastano a garantire la partecipazione di tutti i cittadini ai beni sociali più ambiti - l’istruzione è l’esempio che gli sta particolarmente a cuore - ed in generale per garantirne la partecipazione alla vita pubblica. Una barriera invisibile separa dall’accesso alla cittadinanza attiva interi gruppi di cittadini diseguali o diversi: la storia del XX secolo è stata anche storia del tentativo di «dare sostanza sociale al concetto astratto di parità di diritti». E proprio la difficoltà di questo compito ha dato origine, in primo luogo negli Stati Uniti, a quella che Dahrendorf definisce la coraggiosa innovazione politica dell’affirmative action (di cui le quote sono un aspetto): una politica che agisce contro la discriminazione e che, con il fine dell’eguaglianza di fatto, deroga all’egual trattamento formale degli individui, favorendo gruppi di svantaggiati o di diversi. Fin qui dunque Dahrendorf loda questa esperienza, inscritta nella vicenda della cittadinanza liberal-democratica. Poi però esprime delle riserve sulle quali vale la pena di soffermarsi, proprio perché propongono in forma alta gli stessi interrogativi che confusamente si aggirano nel dibattito italiano attuale.

Non si rischia, con azioni mirate a promuovere chi appartiene a certi gruppi, di creare nuove ingiustizie? O di promuovere chi è meno capace? Insomma, si interroga Dahrendorf, «può la parità coesistere con l’eccellenza?». Dahrendorf rievoca un famoso caso giudiziario americano, lo studente bianco che non fu ammesso ad una prestigiosa facoltà di medicina a numero chiuso, pur avendo titoli più alti di suoi concorrenti afroamericani che potevano usufruire di una quota. Dahrendorf non ricorda però il dibattito che ne è seguito, un dibattito in cui intervennero non solo politici, ma anche grandi filosofi come Rawls e Dworkin. La Corte Suprema vi pose fine con una sentenza mediatoria: le quote sono legittime, purché non siano rigide, ma semplici orientamenti quantitativi verso i quali tendere. E’ dunque giusto derogare dai trattamenti uguali per creare un’uguaglianza futura: non si crea con ciò ingiustizia, non si impoverisce la qualità della vita sociale e ne può risultare un beneficio d’insieme per tutti. In un recente studio di grande impegno l’ex rettore dell’Università di Harvard, Bok, ha ricostruito con altri studiosi i percorsi e gli ottimi esiti professionali degli studenti che avevano avuto accesso alle Università più prestigiose degli Stati Uniti in virtù delle quote: la parità non è andata contro la qualità. Ma è anche stato rilevato che, se lo stimolo della promozione viene meno, quegli stessi studenti smettono di provare: è accaduto in California, quando 5 anni fa sono state abolite le quote di accesso ed è rapidamente caduta la presenza dei candidati afroamericani e delle donne, gli stessi che avevano avuto successo in precedenza, nel regime protetto.

Questo ci porta a considerare un altro dubbio di Dahrendorf, quello che lui chiama la clausola di temporaneità, la "sunset clause", secondo cui l’azione positiva dovrebbe essere un rimedio temporaneo. Lo studio di Bok ed altri suggerisce che la "sunset clause" non va applicata, se la società continua a riprodurre condizioni di svantaggio: l’affirmative action, l’azione positiva come diciamo in Europa e in Italia, dura finché ce n’è bisogno, di fronte al riprodursi delle diseguaglianze e in mancanza di altri rimedi. Ma cosa accade dell’affirmative action e della sua durata di fronte alle differenze? La domanda ci porta a considerare un altro dei dubbi di Dahrendorf.

Il superamento degli svantaggi è altra cosa dalla cancellazione delle diversità: le differenze possono essere ineliminabili anche perché volute e valorizzate; ciò vale per il genere, le etnie, le religioni. Ha ragione Dahrendorf a non auspicarsi una società meccanicamente omogenea. Ma dimentica che nell’affirmative action vi è anche un messaggio di rispetto della differenza, certo più difficile da realizzare che non quello del superamento della diseguaglianza. E’ più difficile perché porta ad interrogarsi su quali differenze vadano rispettate, e fino a che punto. Ci sono differenze che possono entrare in conflitto con i principi di cittadinanza universale in modo assai più grave delle quote, quando ad esempio alcune minoranze chiedono rispetto per una cultura che lede i diritti degli individui ? si pensi all’infibulazione - in un modo che la società ospite trova intollerabile.

Ma torniamo al punto di partenza. Si tratta di diseguaglianza o di differenza quando si discute di rafforzare la rappresentanza delle donne in politica? Dahrendorf "rabbrividisce" al pensiero di un Parlamento i cui membri siano scelti in base al criterio di appartenenza ad un gruppo, e la preoccupazione è condivisibile. Ma ritengo che Dahrendorf semplifichi troppo un problema complesso quando suggerisce che volere più donne in politica si giustifica solo con la teoria della "democrazia a specchio", mirror democracy, secondo cui ogni gruppo sociale dovrebbe aver titolo ai suoi "naturali" rappresentanti: una teoria che risale alla democrazia corporativa, ed è impropria per una democrazia liberale. Ma è anche improprio per una democrazia liberale che interi gruppi sociali si allontanino dalla partecipazione politica: una massiccia sotto-rappresentanza rappresentativa indica un deficit di democrazia. Come trovare modi per far sì che diseguaglianze e differenze non si traducano in esclusione? Certo, le elezioni sono un punto d’arrivo e bisognerebbe intervenire prima, nel momento in cui si formano le carriere politiche, i gusti per la partecipazione politica. E se non ci si riesce? Quali lezioni trarre dalle esperienze di altre democrazie, in cui spesso le quote sono state efficaci? Sarà meglio studiare e discutere di un problema che si riconosce complesso, piuttosto che liquidarlo con giudizi troppo facili.

(L’autrice è docente di Sociologia del lavoro. Nel 2001 ha pubblicato per Feltrinelli "Donne in quota")

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Ralf Dahrendorf, Quando le “quote” provocano ingiustizia

Credo che una sensazione molto diffusa fra gli italiani premoderni, quelli della lotta di classe, dei diritti civili, del miracolo economico, che era poi il mettere assieme il pranzo con la cena, della morale comune che era poi il comune pudore, la comune decenza, sia di galleggiare nell'aria come gli astronauti senza più peso di gravità. Senza più capire in che mondo viviamo, indefinibile, ingiudicabile, inafferrabile, ma certamente mediocre, certamente osceno, riempito dal vuoto della televisione, delle immagini, del virtuale e della prostituzione universale.

La cosa più difficile da sopportare è l'oscenità diffusa senza limiti. Esempio: la televisione pornografica trasmette due servizi: uno è sulla moglie di un famoso cantante che pur di far carriera nello spettacolo posa seminuda per uno dei soliti servizi da calendari, da casalinga porcacciona; il secondo di una, come chiamarla?, meteorologa di Retequattro che per affermarsi tra le fanciulle con la fritola al vento, posa anche lei per le fotografie del tipo sesso a sonda. Sesso che non solo si infila fra tette e glutei ma che penetra in una libido anatomica, in tutti i fori corporali, se permettete il linguaggio, non le fotografie di un sedere ma di un buco del sedere, di un retto, di un colon. E il mondo degli addetti ai lavori, fotografi, sceneggiatori, registi, coreografi, pubblicitari, direttori di reti è perfettamente d'accordo su questo modernismo da pervertiti: "Ma via che c'è di male? Cosa è questo moralismo da parrocconi? Sono fotografie normali".

Domina lo spettacolo l'ambiguità da suburra di Renato Zero. Un po' di frociaggine con contorno di coda alla vaccinara e di pappardelle, la Roma trasteverina, la Roma del Testaccio in cui l'Italia del Risorgimento si illuse di creare una capitale.

La televisione come strumento principe del potere berlusconiano non è nulla al confronto della televisione plebea che affonda le sue radici nei vizi antichi di un'Italia minore del tira a campare, unta, mezzana che celebra le fanciulle in fiore che fanno carriera vendendosi ai direttori e agli onorevoli. Ma che brave! Non sanno cantare, recitare, ballare ma sono già dive del reality show che sarebbe la negazione del realismo sostituito da zuccherose favole per analfabeti.

Non è piacevole, anzi è decisamente sgradevole e spesso soffocante, vivere in un paese che non ha più il coraggio di essere se stesso, partigiano ma schierato e fedele, un paese che preferisce nascondersi nel trasformismo dei fascisti che fanno i democratici e di democratici che si comportano come fascisti. La sola cosa certa è che in questo paese hanno pochissima fortuna, pochissima popolarità gli eroi civili come l'avvocato Ambrosoli e gli altri che sono morti combattendo la mafia e il malaffare. Un paese pronto a recuperare il peggio, il falso patriottismo, la falsa beneficenza, con il rimpianto del colonialismo.

L'ideologia vincente che guida il governo è un furbesco carpe diem. La 'missione' in Iraq di cui parla il nostro presidente è un opportunistico stare dalla parte del più ricco e del più forte che non è neppure un buon calcolo, perché nel pantano iracheno ci sta pure lui e non sa come tirarsene fuori. Di cosa capiterà agli iracheni e quale sarà il futuro prossimo dei soldati di occupazione americani e nostri, ai governi importa assai meno che le prossime elezioni.

Francamente non è piacevole galleggiare senza peso in questo tempo senza saggezza e senza morale.

Qualcosa si sta guastando nel motore nelle democrazie, anche nelle migliori. Non si tratta di raffreddori passeggeri, ma di malanni cronici che riguardano le strutture portanti: diffuso discredito dei politici, insoddisfazione verso i governi, scarsa partecipazione degli elettori alle elezioni e alle discussioni, invasività dei poteri economici, declino delle idee egualitarie, scarsa capacità del sistema politico di rappresentare settori sociali non tradizionali. Nello spirito del tempo ritorna qualche cosa che ricorda l´era pre-democratica, quando idee dirompenti con il marchio dell´uguaglianza, come il diritto di voto per tutti, dovevano ancora affacciarsi. La lista delle doléances è molto pesante.

Cominciamo da una moda: l´abbandono dell´egualitarismo come anticaglia. Il fatto che ci siano stati eccessi di segno opposto nel sindacalismo europeo degli anni Sessanta e Settanta non giustifica che lo Zeitgeist sposi l´idea che tutto quel che ha odore di uguaglianza sia da buttare. Ci voleva Paul Krugman, dalle colonne del New York Times e nel libro che raccoglie i suoi articoli (The Great Unravelling) per far presente che una società e una economia in cui una pattuglia di tredicimila famiglie raduni lo stesso reddito di venti milioni di famiglie povere è meno stabile e moderata di quella rooseveltiana con una forte classe media e manager meno inclini a falsificare i bilanci per giustificare i loro prelievi devastanti.

Proseguiamo con uno stile: il trasimachismo dei neoconservatori al governo a Washington. Trasimaco è rimasto famoso per il detto breve ma molto denso: giusto è quel che conviene al più forte. Fine del detto. Se la cosa funziona, va. Se ce la fai, è andata. Santificata dalla legge. Spiega Shadia Drury, politologa canadese, una specialista di neocons, autrice di Leo Strauss and the American Right, che per gli ideologi alla Wolfowitz la naturale condizione umana non è quella della libertà ma della subordinazione e che celebrare il diritto naturale significa rendere omaggio non alla parità ma alla dominazione.

Approfondiamo con una teoria: la bugia come dovere dell´élite. Ha spiegato Christopher Hitchens in un articolo di feroce critica alla Casa Bianca su Slate.com (Machiavelli in Mesopotamia): per gli straussiani verità e libertà non si addicono alle rozze masse, premesse e obiettivi di una scelta politica (come la guerra in Iraq) non possono essere pubblicamente confessati, l´arcano è indispensabile, niente perle ai porci, l´élite ha il dovere di proteggersi. E poi chi ha le posizioni di comando sulla base di una selezione "naturale" dei "migliori" tende a percepirsi perennemente come vittima di una persecuzione in agguato, deve proteggersi.

E veniamo alla sintesi di Colin Crouch, in Postdemocrazia (Laterza, pagg. 154, euro 14), un pamphlet destinato a provocare un check-up dei nostri sistemi politici e che vuole mettere uno stop agli assalti alla cultura da cui la democrazia è venuta fuori. Crouch è un sociologo inglese che ha studiato l´Europa e vede nel disprezzo per l´eguaglianza un segno dei tempi da prendere sul serio perché è un termometro del declino della democrazia. La parola stessa, postdemocrazia, contraddice l´idea corrente che le sorti della formula politica di maggior successo nel mondo siano magnifiche e progressive. È vero che continua a crescere il numero dei paesi nei quali si svolgono elezioni ragionevolmente libere, ma nei luoghi del pianeta dove la democrazia dovrebbe sfolgorare nella sua splendida maturità (Europa occidentale, Stati Uniti, Giappone) il suo tracciato storico assomiglia di meno a una linea ascendente e di più a una parabola la cui linea tocca due volte la stessa altezza, una volta in salire e una seconda volta in scendere. Ora si sta scendendo.

Che cos´è la postdemocrazia in cui stiamo per calarci? È un regime perforato e teleguidato da poteri esterni alla rappresentanza politica, da plotoni di specialisti delle transazioni al vertice che tendono a diventare inamovibili, mentre il dibattito elettorale diventa uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione. Questa scarsa circolazione e competizione delle élites più che il modello realistico schumpeteriano ricorda epoche pre-democratiche.

La storia del New Labour è descritta da Crouch come una tipica manifestazione di postdemocrazia imminente. Con la base operaia costretta a un ruolo difensivo, il partito di Blair ha dovuto distaccarsene cercando di affermarsi "nel vuoto", diventando una forza fresca e vincente con il riavvicinarsi all´economia. Il grande, esemplare enigma dei laburisti era quello di trovare una base sociale sostitutiva. Le contraddizioni della postdemocrazia sono dannatamente difficili da domare. Accade così che le sinistre che si spingono meno in là di Blair – come i Ds italiani, i socialdemocratici belgi, francesi e tedeschi – non lo fanno perché abbiano trovato il modo di rappresentare gli interessi della nuova popolazione dei lavoratori subordinati postindustriali (il terzo inferiore della popolazione attiva, il mercato dei "flessibili"), ma perché continuano a dover fare più compromessi con i vecchi sindacati e gli altri rappresentanti della società industriale. Queste sfuggenti e scivolose contraddizioni spiegano perché, nel deficit di rappresentanza, prenda piede in vari settori sociali l´unica identità disponibile: quella nazionale di fronte alle minoranze etniche in arrivo con l´immigrazione. Fenomeni alla Fortuyn, Haider, Le Pen, Bossi rispondono più che a spinte autenticamente razziste al bisogno di avere politici rivolti ai bisogni della gente al di fuori del quadro delle élites consolidate.

Che cosa diventeranno i partiti nel XXI secolo? Se nel partito di massa del XX il gruppo dirigente era un piccolo cerchietto intorno al quale c´erano i circoli più larghi dei funzionari, dei militanti, degli elettori fedeli, nel partito postdemocratico al centro ci sarà una ellissi, risultante dall´abbraccio permanente tra i dirigenti, i consulenti professionali, i lobbisti. Il cerchio si stira in direzione del denaro, scavalcando i ranghi intermedi del partito. Ma d´altro canto il contributo degli esperti di opinione è indispensabile perché, nelle nuove condizioni, molto più utile dell´entusiasmo dilettantesco dei militanti, che nel partito di massa era funzionale alla costruzione del consenso.

Se dunque la democrazia non è più un destino garantito come la freccia del tempo che non torna mai indietro, se corriamo il rischio di confermare le teorie dei cicli con i loro corsi e ricorsi, che cosa possiamo tentare per contenere le tendenze postdemocratiche? Crouch prende a prestito vari suggerimenti in circolazione che spingono in tre direzioni: la prima, politiche che taglino le unghie alle élites economiche più aggressive e invadenti; la seconda, politiche che riformino la prassi politica stessa; la terza, iniziative rivolte direttamente ai cittadini. In sostanza si tratta di mantenere i benefici della dinamica del capitalismo senza consegnargli tutte le chiavi della politica. Va escogitato un compromesso, geniale come fu quello escogitato da Keynes e Beveridge, e questa volta bisogna scendere a patti non più con il capitalismo industriale ma con quello finanziario globalizzato. Servono dunque nuove regole per prevenire o contenere i flussi di denaro tra partiti, gruppi di consulenti e lobbies. Sul finanziamento legale dei partiti, Crouch appoggia la proposta di Philippe Schmitter: una somma fissa sul reddito di ciascun cittadino viene assegnata al partito politico scelto ogni anno dal cittadino stesso (il che vale anche per finanziare associazioni e gruppi di interesse). Un´altra proposta si ispira alla cultura "deliberativa", vale a dire alle teorie che valorizzano la discussione pubblica tra i cittadini: istituzione di un´assemblea, da mettere in carica per un mese, di persone estratte a sorte per esaminare un piccolo numero di disegni di legge loro sottoposti da una minoranza (un terzo) del Parlamento. L´assemblea avrebbe il diritto di approvare o respingere la legge.

Ma la premessa di ogni azione di contenimento della postdemocrazia è che si rimettano sobriamente in valore le idee egualitarie e liberali che portarono a inventare il diritto di voto per tutti e che si concordi un minimo denominatore di decenza per cui se un governo inganna i cittadini con bugie questa non è una raffinatezza ma una mascalzonata. E così via ridisegnando meglio i confini tra realismo e utopia.

Prefazione, L’Europa contro le nostre paure

Siamo entrati nel XXI secolo sentendoci intorno un mondo profondamente cambiato; un mondo nel quale buona parte dei nostri punti di riferimento si sono spostati e il futuro che ci aspetta è incerto e non è affatto detto che per noi europei sia migliore.

Certo, la scienza sta aprendo speranze prima impensabili per il miglioramento della vita, ma varca limiti sino a ieri invalicabili nella lotta alla malattia e alla fame e ci pone dilemmi etici che mai avremmo pensato di dover risolvere. Gravano poi su di noi l’insicurezza e gli incubi che nascono da un terrorismo che stentiamo a capire, ma che avvertiamo come un portato di quella globalizzazione, che negli ultimi decenni ha abbattuto confini a cui eravamo abituati da secoli. E poi le ansie legate ai cambiamenti climatici, al deterioramento dell’ambiente, alla sicurezza dei cibi che mangiamo. E infine le incertezze che vengono da un’economia che smuove imprese,capitali e persone da una parte all’altra del mondo, che genera in tal modo opportunità sinora sconosciute, ma elimina anche vecchie sicurezze di lavoro, di reddito, di identità stessa delle nostre città, dove oggi ci troviamo a vivere con persone tanto diverse, ed espongono così a cambiamenti e tensioni da cui si rischia molto spesso di uscire più da perdenti che da vincitori.

Sono rischi, tensioni e paure, che risalgono a cause che sentiamo lontane da noi, matasse di cui non possiamo afferrare il bandolo. Ma non è così. Nulla di ciò che speriamo, ma anche nulla di ciò che temiamo, accade per cause estranee a1le nostre ‘scelte ‘e alle nostre azioni. La scienza, l’economia, il modo in cui le nostre società sono organizzate e in larga misura lo stesso clima sono ciò che noi li facciamo essere, anche quando hanno dimensioni planetarie e globali. Se vogliamo cambiare in meglio, occorre solo che ci portiamo all’altezza ditali dimensioni. Le trasformazioni del mondo entrano infatti nelle nostre case, ma non è certo da lì che le possiamo orientare. E’ l’Europa che ci permette di farlo.

Grazie alla lungimiranza della generazione che ci ha preceduto, noi europei abbiamo la fortuna di averla l’Europa. Nel corso del XX secolo essa ci ha dato la pace fra noi, un mercato comune, una moneta unica. Ora sta a noi adeguarla alle nuove sfide e renderla più forte davanti ad esse, e tuttavia anche più vicina ai suoi cittadini, più trasparente. E’ un’Europa con la quale entrare fiduciosi nel futuro quella di cui abbiamo bisogno e per realizzarla è necessario che tutti sappiano compiere delle scelte: le istituzioni europee, i nostri Governi, ma anche noi cittadini.

Occorrono scelte perché nel mondo vinca la pace, e questo vuol dire battersi affinché le guerre finiscano, non semplicemente tirarsene fuori; per rilanciare una crescita che dia lavoro e non distrugga l’ambiente, i dire saper rinunciare a molte comode posizioni di rendita; per avere servizi migliori, e questo vuole anche dire imparare a guardare al di là dei propri cancelli e dei propri steccati. Diritti e responsabilità. Condividere le politiche della Lista Prodi significa contribuire a realizzarle, perché per un’Europa al servizio di tutti serve l’impegno di ognuno.

La Lista Prodi ha ascoltato tutti e ciascuno, ha chiesto il contributo degli esperti e della gente comune, ha mobilitato associazioni di cittadini e parti sociali. E nel farlo ha percepito quanta attenzione ci sia in esse all’interesse collettivo, quanto esse siano capaci di elaborare proposte lungimiranti, quanto lavoro comune la politica possa intraprendere con loro. Perciò oggi siamo sicuri di avere un buon progetto complessivo e proposte concrete efficaci.

Il programma che presentiamo in queste pagine - con una prima parte dedicata al disegno generale e una seconda alle proposte specifiche per ciascuna figura sociale e per singoli temi - si articola intorno a un preciso filo conduttore: più libertà e più iniziativa, ma anche più governo o, meglio, migliore governo per promuovere e valorizzare le capacità di tutti e di ciascuno. Perché l’Europa, dalle imprese alla ricerca, dall’agricoltura alla finanza, dal welfare ai sistemi formativi soffre per un uso sbagliato e distorto delle sue risorse e per un eccesso di cattiva regolamentazione, molto spesso nazionale, e a volte anche europea: vincoli imposti non per stupidaggine, ma per difendere questo o quell’interesse. La ripresa della crescita e una politica sociale giusta e promotrice essa stessa di crescita cominciano da qui: dal buon governo, dalla capacità di scrivere regole intelligenti, nell’interesse di tutti, non per favorire pochi.

Non ci sono, ricette miracolose. Quando. le. Ferrari perdevano il Gran Premio i meccanici di Maranello non hanno pensato neppure per un minuto che fosse possibile tornare a vincere solo usando una benzina più potente: hanno smontato il motore e poi lo hanno rimontato pezzo per pezzo, sostituendo quelli che non funzionavano. Così sono tornati a vincere. Questo è l’impegno della Lista Prodi: dare all’Europa, e all’Italia, un buon governo.

1. Per tornare a crescere

“Costruire l’Economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Era il marzo del 2000 quando il Consiglio europeo di Lisbona si poneva questo obiettivo. Sono passati quattro anni. Ma come una palla da tennis sgonfia che ad ogni lancio rimbalza sempre meno, così l’Europa, ogni anno, vede arretrare la sua competitività e la sua capacità di creare crescita e posti di lavoro. Con l’Italia del Governo di Silvio Berlusconi che si distingue in termini negativi in quasi tutti gli indicatori.

Servono palle nuove. Serve una classe dirigente che sappia esercitare la sua 1eadei serve un disegno complessivo per creare sviluppo e sicurezza, servono progetti concreti per centrare l’obiettivo.

Questa è la sfida della Lista Prodi. L’Europa non può più aspettare: deve tornare a crescere e deve rafforzare la sua posizione nel mercato globale. Deve liberarsi dalla trappola in cui è finita, stretta tra la grande capacità innovativa dell’economia americana e i successi asiatici spinti dall’imitazione e dai bassi salari. Solo con più crescita e più qualità nella crescita potremo affrontare i problemi di una società che invecchia e trasformare, rafforzandolo, lo Stato sociale: per tornare a creare sviluppo nella sicurezza di tutti.

Più governo meno dirigismo. Tagliare le tasse non basta. Il centro-destra in questi anni ha teorizzato un assoluto liberiamo sia sociale sia economico, lasciando gli italiani soli davanti a uno dei peggiori cicli economici del dopoguerra. Un liberismo a parole, che in realtà non ha neppure realizzato l’uguaglianza delle opportunità: ha semplicemente privilegiato i più forti e gli interessi corporativi, dalle leggi ad hoc per le squadre di calcio alle liberalizzazioni bloccate, in primis quelle dei servizi pubblici locali

L’Europa ha bisogno di più mercato, di più concorrenza, ma questo richiede una forte capacità di governo. Il che non vuol dire statalismo o dirigismo, ma regole - in primis per abbattere rendite e monopoli - e politiche pubbliche capaci di incidere sui fattori decisivi della crescita, senza le quali neppure una riduzione delle tasse può generare una crescita solida e duratura. I tagli fiscali sono positivi solo se davvero aumentano la capacità di acquisto dei cittadini e non generano, invece, una riduzione dei servizi a loro disposizione o un aumento nel costo degli stessi servizi e delle tasse degli enti locali. Ma non basterebbero comunque da soli in un’Europa dove il costo di troppi servizi risente ancora della mancanza di concorrenza, dove la ricerca e l’innovazione sono insufficienti a renderci competitivi, dove per molti, a partire dalle donne, sono di altra natura gli ostacoli che impediscono di lavorare.

Un nuovo “Patto di stabilità” per mettere i denti al processo di Lisbona. Per tornare a crescere vanno innanzi tutto messi i denti al processo di Lisbona, che si occupa appunto di questi problemi. La nostra proposta è collegare tali politiche al Patto di stabilità, estendendo anche ad esse il sistema di vincoli e sanzioni che oggi protegge l’equilibrio dei bilanci europei.

Il Patto va rafforzato ponendolo maggiormente al servizio della crescita. L’obiettivo del bilancio in surplus o vicino al pareggio va mantenuto, ma bisogna fare sì che, nella valutazione dei saldi, da un lato una attenzione speciale sia riservata alle voci di spesa che contribuiscono direttamente alla crescita, come gli investimenti in formazione superiore, ricerca, innovazione, infrastrutture; dall’altro siano penalizzate le entrate che sono frutto di misure una tantum, come i condoni, che indeboliscono nel medio periodo la sostenibilità dei bilanci. Insomma: meno incentivi ad abbellire artificialmente i conti, e più incentivi a fare le riforme e a investire nel capitale umano.

In questo contesto, i paesi della zona euro potranno procedere con maggiore coordinamento degli altri, definendo criteri comuni per i rispettivi bilanci in modo da potenziare gli effetti positivi delle loro azioni e da prevenire invece divergenze di politiche nazionali, dalle quali tutti sarebbero danneggiati proprio in ragione della moneta che condividono.

Nuove regole per l’Europa della ricerca. Quando un’economia diventa ricca, come è oggi l’Europa, tre soli fattori possono consentirle di continuare a crescere: miglior capitale umano, e cioè più istruzione, e poi ricerca e innovazione. L’investimento in istruzione, ricerca e innovazione è oggi il motore fondamentale della crescita. L’Irlanda, che a tale investimento ha prioritariamente destinato le stesse risorse dei fondi strutturali europei, è il paese che è cresciuto di più In molti altri Paesi d’Europa, invece, davanti alle difficoltà dei conti pubblici, è proprio questo il primo capitolo di spesa ad essere penalizzato. Ma sarebbe un’illusione ritenere che sia solo una questione di soldi. Possiamo spendere quanto vogliamo, ma se prima non abbatteremo le barriere, nazionali e corporative, dietro le quali, in nome delle ricerca, si difendono interessi particolari , non andremo lontano.

La priorità è trattenere in Europa i migliori e anche attrarre i migliori dal resto del mondo. Ma per riuscirci, nell’università come nella ricerca bisogna saper fare delle scelte. Creiamo lo spazio europeo dell’università e della ricerca, in modo da spingere le Università a uscire dal loro localismo e da consentire alla comunità scientifica di convergere sui migliori centri di ricerca europei, senza interferenze burocratiche.

Le università devono tornare ad essere, come avveniva alle loro origini medioevali, una rete del sapere senza barriere tra Stati. Va resa possibile la mobilità dei professori al di là dei confini nazionali, e soprattutto va introdotta un po’ di sana concorrenza fra le università, eliminando le barriere e le nicchie oggi esistenti. In Europa non esistono centri di eccellenza come Boston o Stanford negli Stati Uniti: non solo perché mancano le risorse, ma prima ancora perché quelle poche di cui disponiamo si disperdono in mille rivoli per l’incapacità di scegliere e dire qualche no. Vanno creati centri di eccellenza, avendo il coraggio di concentrare le risorse su pochi istituti di alta qualità. Vanno create cattedre di ricerca europee da assegnare sulla base di una selezione che non guardi alla nazionalità, ma garantisca che vengano scelti i migliori; va fissato un sistema comune di riferimento per la valutazione dei professori e dei risultati della ricerca, basato non su strumenti burocratici, ma semplicemente sulla qualità delle pubblicazioni scientifiche internazionali prodotte; i finanziamenti devono essere assegnati in funzione della capacità degli atenei di attrarre studenti da luoghi anche lontani.

La ricerca europea, però, non andrà lontano senza una profonda revisione del bilancio dell’Unione, che oggi destina alla ricerca solamente un decimo delle risorse destinate all’agricoltura. Vanno, poi, incentivati gli investimenti privati attraverso una legislazione che favorisca la cooperazione tra Università e imprese, attraverso crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, attraverso una nuova disciplina comune della proprietà intellettuale, attraverso incentivi a brevettare - ad esempio prevedendo il rimborso del costo delle pratiche necessarie per ottenere un brevetto in funzione dei risultati poi ottenuti - che alimenti i processi di spin-off, attraverso una più favorevole disciplina per il venture capital, attraverso la completa deducibilità fiscale di tutti i contributi privati a titolo gratuito alla ricerca e all’istruzione.

Oggi molti giovani promettenti debbono abbandonare gli studi, mentre il costo vero dell’istruzione non è addebitato neppure a chi potrebbe pagarlo. Per questo è imprescindibile un’altra priorità: la promozione e la valorizzazione dei talenti, indipendentemente dalla loro provenienza sociale. La Lista Prodi ne fa uno dei suoi obiettivi principali. Ne parleremo anche più avanti, ma da subito va sottolineata la nostra determinazione a far pagare chi può e al tempo stesso allargare il sistema delle borse di studio, utilizzando anche il prestito di laurea, da rimborsare solo dopo il conseguimento di un reddito da lavoro non inferiore a un dato ammontare. Un programma da estendere anche a studenti scelti all’inizio dell’ultimo anno della scuola media superiore, perché è lì che spesso si decide il futuro dei talenti.

Sostenere le imprese d’avanguardia, non proteggere i monopoli locali. Ci sono ambiti nei quali la ricerca europea è all’avanguardia e ha alimentato imprese d’avanguardia. Su questi settori dobbiamo puntare con forza per una crescita che sia insieme innovativa e ispirata alla tutela dell’ambiente per l’oggi e il domani. Perché la protezione dell’ambiente non solo può essere in armonia con la crescita economica, ma è anche strumento di promozione di nuove tecnologie. Ed è con tali tecnologie, prima ancora che con i vincoli, che potremo assicurarci la qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, di un habitat dal quale non scompaiano né le foreste né le biodiversità; per non parlare dei nuovi e tanti lavori di cui abbiamo bisogno.

Vogliamo Stati che incentivino gli imprenditori coraggiosi a rischiare, non Stati che consentono l’accumularsi di rendite e quindi offrono agli imprenditori l’incentivo perverso a catturare quelle rendite anziché a competere sui mercati globali.

Servono investimenti nelle biotecnologie e nelle scienze della vita, nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nelle fonti d’energia rinnovabili, nell’industria aero-spaziale, nelle grandi reti europee. Qui gli Stati hanno un ruolo importante da svolgere: non attraverso la proprietà delle imprese, che devono stare sul mercato, ma attraverso una regolamentazione intelligente e investimenti pubblici nelle tecnologie. D’altronde tra principali successi economici dell’Europa unita ci sono proprio due imprese — due “campioni europei” - il Consorzio Airbus nell’aeronautica e la STMicroelectronics nei semiconduttori, nate in virtù di una cooperazione transnazionale e cresciute lungo quel delicato crinale che è il rapporto fra la ricerca e l’industria.

E servono investimenti nell’innovazione applicata ai processi produttivi, organizzativi e amministrativi di industrie più tradizionali. Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante per l’Italia. Perché c’è una specificità del nostro settore industriale, che è quella dei prodotti di alta qualità che può trarre grandi vantaggi dall’innovazione applicata ai processi.

Una buona politica deve saper “accompagnare” le imprese sui mercati del mondo con una efficiente rete di servizi, incéntivandole a “fare squadra”; deve proteggere i marchi del Made in Italy dalla concorrenza sleale; deve offrire una burocrazia amica che dia risposte in tempi certi; deve favorire il merito e la qualità anche attraverso norme che facilitino la contendibilità delle imprese a livello europeo; deve utilizzare ogni margine possibile per incentivi fiscali mirati a favorire la crescita delle aziende.

Non più una giustizia poco civile. Una giustizia civile efficiente è una formidabile infrastruttura per lo sviluppo. La sua celerità e la sua affidabilità, non solo garantiscono meglio i diritti di tutti i cittadini, ma incidono sulle scelte di lungo periodo delle aziende.

In questo senso la Lista Prodi sostiene una rapida approvazione della Costituzione europea che introduce il principio del mutuo riconoscimento tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziarie e della loro esecuzione; e prevede la promozione della compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri.

Il nostro Paese ha il record di durata dei processi: oltre 9 anni e mezzo per tutti e tre i gradi di giudizio, circa il 70% in più della media UE. Questo danneggia fortemente la possibilità dell’Italia di tenere il passo delle economie degli altri Paesi Ue.

Occorre perciò istituire tribunali specializzati in materia commerciale e occorre intervenire sulle inutili farraginosità delle procedure, sulla eccessiva ampiezza delle impugnazioni e sulla dimensione e distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Ma anche liberalizzare la professione di avvocato nell’Unione, permettendo ad avvocati provenienti da nazionalità diverse di lavorare insieme uniformando le professionalità. Per l’Italia non potrà che essere un vantaggio. La liberalizzazione, infatti, accompagnata dalla determinazione forfettaria dell’onorario - non legata quindi al numero delle prestazioni fornite in ciascun processo - induce a non abusare delle garanzie processuali e costituisce un forte incentivo per l’avvocato a chiudere rapidamente la controversia con una transazione.

Una finanza a supporto della crescita. Le imprese europee hanno bisogno di un sistema finanziario che assicuri al più ampio insieme di soggetti un accesso immediato al credito.

La vicenda Parmalat, e ancor prima la Cirio e i bond argentini, hanno gravemente danneggiato un gran numero di risparmiatori e pericolosamente scosso la fiducia in tutto il sistema creditizio e produttivo italiano. La Lista Prodi è dalla parte dei risparmiatori: qualunque ipotesi di riforma deve partire dalla necessità di difendere il risparmio dei cittadini. Anche perché solo partendo da qui, sarà possibile ricostruire la fiducia necessaria intorno a tutto il sistema del credito.

In questo senso c’è una riforma complessiva del sistema dei controlli italiani da portare a termine in tempi rapidi, ma il caso Parmalat ha anche evidenziato come davanti a questi problemi l’Italia da sola non basta più, serve più Europa.

Molte transazioni economico-finanziarie oggi avvengono su scala continentale o mondiale. E’ necessario, dunque, dotarsi di strumenti di controllo almeno di livello continentale. Le resistenze nazionali sono ancora forti, ma sempre più miopi: bisogna creare in tempi brevi una “centrale dei rischi” europea, per poi far nascere una vera e propria Commissione di Vigilanza europea.

Ma senza una maggiore concorrenza fra le banche europee, che superi la segmentazione nazionale dei mercati, difficilmente si centrerà l’obiettivo di avere un sistema del credito che finanzi progetti e idee vere, e non scatole vuote. Vogliamo che imprese e consumatori possano servirsi di banche efficienti, indipendentemente da quale sia la loro nazionalità, non che siano costretti a pagare i costi di banche inefficienti solo perché battono bandiera nazionale. Alle banche italiane dobbiamo chiedere di mettersi alla testa di aggregazioni europee, non di difendersene o di subirle. E le istituzioni devono avere l’intelligenza di saper accompagnare tali processi.

Il parlamento europeo non è ancora riuscito ad approvare una legge sulle acquisizioni societarie. Troppi interessi costituiti, travestiti da sentimenti patriottici, hanno ostacolato ogni iniziativa in questo senso. La Destra italiana e’ corresponsabile di questo fallimento. Una priorità per il nuovo parlamento europeo e’ quella di approvare una legge che non discrimini contro le acquisizioni estere e metta tutte le imprese europee sullo stesso piano.

Le liberalizzazioni da completare: un’arma per fermare l’inflazione. Al di là delle banche c’è tutto il ciclo delle liberalizzazioni da completare. Dal settore delle utilities , alle professioni, all’energia, vi sono beni e servizi fondamentali per i cittadini e le imprese che continuano ad essere gravati da rendite di posizione. Non si può più restare in mezzo al guado. Solo una compiuta liberalizzazione potrà andare incontro alle esigenze de consumatori e degli utenti, garantendo loro beni e servizi migliori e più economici, ed eliminando uno svantaggio di costi che oggi è tra le zavorre che più frenano la competitività delle nostre aziende.

L’Italia continua ad esser il grande paese europeo con l’inflazione più elevata. Il governo Berlusconi non è stato capace di completare le liberalizzazioni e quindi dice che è colpa dell’euro. Lo Stato ha una sola arma per combattere l’inflazione: la concorrenza. Inizi ad usarla e vedrà quanto rapidamente scenderanno i prezzi.

Esistono ancora troppe differenti barriere all’entrata nei diversi paesi europei. In Francia ci vogliono 16 permessi diversi, che richiedono almeno 66 giorni, per iniziare una qualsiasi attività economica. In Inghilterra i permessi sono solo 7 e i giorni 11.

Queste restrizioni rappresentano una forma di protezione delle imprese esistenti ed un ostacolo alla forma one di nuove imprese. E’ compito del parlamento europeo uniformare queste misure, cercando di ridurre i costi all’entrata.

Ambiente e agricoltura. La qualità ambientale è la condizione imprescindibile del progresso economico. La Lista Prodi la considera come parte integrante di una modernizzazione strutturale dell’economia e come una dimensione trasversale di ogni politica settoriale. La politica nei confronti dell’ambiente può essere un fattore determinante per la ripresa della crescita economica. Ciò richiede di ribaltare in la visione tradizionale che considerava l’ambiente come un freno allo sviluppo economico.

Le politiche agricole, innanzi tutto, vanno viste in questo contesto. La Lista Prodi promuove una maggiore competitività del settore agricolo europeo attraverso la qualità, la sicurezza alimentare dei consumatori e la sostenibilità ambientale e territoriale delle attività rurali, non con l’accettazione incontrollata e acritica di tecnologie produttive, di cui non sia comprovata la compatibilità con tale sicurezza e con tale sostenibilità.

Ma anche qui si devono compiere delle scelte. L’iperprotezione di cui godono alcune produzioni agricole europee è francamente inconciliabile con il giusto obiettivo di una globalizzazione più democratica. Anziché difendere produzioni anacronistiche di commodities, gli agricoltori devono avere il coraggio di puntare sulla capacità di aggiungere valore alle produzioni esaltando la qualità storica dei propri prodotti e le potenzialità, anche turistiche, dei territori. Uno strumento essenziale per la modernizzazione, in primo luogo della catena alimentare, sono le grandi cooperative agricole, che rafforzano i produttori e difendono gli stessi consumatori dalle speculazioni che si annidano nell’intermediazione. Gli agricoltori sanno che lungo la strada della modernizzazione l’Europa guidata da noi non li lascerà soli.

Il rilancio dell’agricoltura può avere un ruolo cruciale nella difesa del territorio e dell’ambiente. Ma non basterà l’agricoltura a contrastare il degrado degli equilibri naturali e soprattutto le profonde alterazioni climatiche indotte dalle emissioni di gas serra. La Lista Prodi rilancerà in questo senso il ruolo dell’Europa nella promozione e nel coordinamento di politiche sostenibili di consumo energetico e di protezione del territorio.

Politiche che passano per l’attuazione degli accordi di Kyoto, ma anche per una nuova sfida: l’uso generalizzato dell’energia prodotta dall’idrogeno e dalle altre fonti non inquinanti. L’Europa deve dare a se stessa, ed estenderlo al mondo, l’obiettivo di un progressivo abbattimento dell’uso dei combustibili fossili per generare energia Per questo dovrà dedicare grandi risorse allo sviluppo di programmi di ricerca per lo sviluppo di fonti energetiche di tipo rinnovabile, con la speranza che un giorno essa possa davvero trasformarsi in un’economia libera dai fossili.

Il Mezzogiorno è Europa. La crescita dell’intera Unione Europea, nei prossimi decenni dipenderà in gran parte dalla capacità delle sue regioni più deboli di camminare con le proprie gambe.

Non servono trasferimenti improduttivi, ma investimenti nei fattori di competitività: ricerca e innovazione, infrastrutture fisiche e immateriali, capitale umano. E’ una strada che l’Ullivo e la stessa Europa hanno già intrapreso con successo: ora bisogna soprattutto vigilare che le risorse per le politiche di coesione vengano adeguatamente finanziate anche dopo 1’ allargamento, semplificare ulteriormente le procedure, accrescere la sussidiarietà, rafforzare la diffusione delle buone pratiche.

Dopo i tanti errori del passato, il Mezzogiorno d’Italia ha davanti a sé la possibilità concreta di un futuro diverso. Nella globalizzazione, infatti, l’atout di un patrimonio storico, culturale e ambientale come quello del nostro Sud può trasformarsi in un grande vantaggio competitivo. Se sapremo valorizzarlo con un’organizzazione efficiente, il Mezzogiorno potrà davvero diventare un ineguagliabile fornitore di servizi tradizionali e avanzati all’intera Europa, con straordinarie possibilità di crescita.

C’è poi un’ulteriore occasione. E’ quella determinata dai mutati scenari geopolitici che possono fare del Sud un ponte dell’Europa nel Mediterraneo. E’ interesse del Continente intero valorizzare il Mezzogiorno come avamposto per intercettare commerci, possibilità imprenditoriali, nuovi mercati che nel Mediterraneo possono aprirsi. E sarà senz’altro utile, in questo senso, l’istituzione della Banca euromediterranea, come strumento di finanziamento di infrastrutture e di promozione delle imprese in questa direzione.

Il patrimonio storico dell’Europa, le sue città, la sua cultura: straordinarie leve di crescita civile. Nell’economia “globale” i paesi ce la fanno solo se sanno trovare una propria specializzazione, aree nelle quali eccellere e distinguersi dagli altri. Abbiamo già parlato di innovazione e capitale umano, ma vi è un’altra area nella quale l’Europa ha un forte vantaggio comparato: la sua storia, la sua cultura, le sue città.

La valorizzazione del patrimonio storico e culturale dell’intera Europa può essere uno straordinario volano per la crescita di tutto il Continente. Le città, i territori, i paesaggi, i monumenti, le tradizioni, i borghi antichi sono valori primari della nostra riconoscibilità, della nostra memoria e della nostra cultura, ma sono anche un’infrastruttura d’importanza decisiva per la qualità ed il futuro del nostro sviluppo.

L’Unione deve riconoscere che questo capitale diffuso, ma spesso soffocato o degradato, è una grande risorsa per rilanciare un modello europeo capace di coniugare realmente innovazione economica e coesione sociale. In questo senso i fondi europei dovranno essere impegnati sempre meno in interventi settoriali e sempre più in progetti integrati urbani e territoriali. Anche così le risorse per le politiche di coesione territoriale potranno sviluppare il massimo delle potenzialità locali.

Molte delle città europee - Barcellona, tra tutte - hanno intrapreso questo cammino mostrando formule attraverso cui far lavorare insieme finanziamenti comunitari, politica ed imprenditoria locale. I successi sono stati evidenti e li vogliamo replicare potenziando le azioni a favore dello sviluppo urbano.

Ma, su tutto, va promosso un programma straordinario per ristrutturare e restituire ai propri abitanti i centri storici degradati delle città di alto valore storico-culturale (con quelle del nostro Mezzogiorno in primo piano). Perché è lì, da Palermo a Lisbona, che c’è la nostra storia e la nostra identità. Ed è da lì che l’Europa deve ripartire per trovare un nuovo senso al suo stare nel mondo.

Per valorizzare al meglio questa risorsa, e in considerazione della specificità italiana, la Lista Prodi si farà anche promotrice dell’istituzione di un”Agenzia europea per la conservazione e il restauro” con sede nel nostro Paese. Un istituto che avrà come missione, appunto, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico degli Stati membri nel proprio contesto ambientale e naturale, attraverso il finanziamento di centri di studio di eccellenza, la catalogazione dei beni, il controllo qualificato sulle aggressioni ambientali e la valorizzazione del turismo.

Dobbiamo difendere le tante specificità culturali locali, ma dobbiamo anche essere capaci di metterci insieme per creare quella massa d’urto necessaria per imporre il nostro patrimonio e la nostra produzione culturale in giro per il mondo. Dall’invadenza dell’industria culturale americana ci si difende anche così, non erigendo inutili barriere.

Le città, luoghi di convivenza. Le città non sono soltanto una parte del nostro patrimonio storico e culturale. Sono anche i luoghi dove si rende concreta la globalizzazione facendo vivere le une accanto alle altre persone di etnie e di culture diverse. Sono i luoghi dove crescono la maggior parte dei nostri bambini, dove gli adulti lavorano e sono alla disperata ricerca di più distesi tempi di vita, sono i luoghi dove molti dei nostri anziani passano i loro ultimi anni in un crescente bisogno di servizi che funzionano.

Città sicure, città nelle quali sia possibile spostarsi con facilità, trovare case a basso costo e di buona qualità, avere spazi verdi dove i bambini possano giocare e strade sicure perché possano andare a piedi a scuola; servizi sanitari e assistenziali per chiunque né abbia bisogno e, in primo luogo, per gli anziani: tutto questo non è e non può essere un sogno, deve essere un impegno comune delle città europee, a garanzia irrinunciabile della civile convivenza tra diversi e del modello sociale di cui i ‘Europa vuole essere espressione e paladina nel mondo.

Più pluralismo e migliore servizio pubblico nei mezzi di comunicazione. Della nostra cultura e della nostra democrazia, infine, fanno parte anche i mezzi di comunicazione di massa e, in particolare, le televisioni. In questo settore, purtroppo, l’Italia non dà un buon esempio all’Europa.

La Lista Prodi intende perciò chiedere al nuovo Parlamento europeo un forte impegno perché il futuro dei media sia più democratico e più ricco. Promuoverà, dunque, politiche tese a rafforzare il pluralismo informativo, ad allargare il mercato dei media e a qualificare il ruolo del servizio pubblico, che va riportato agli standard che ne sono la ragion d’essere e che legittimano lo speciale finanziamento che esso riceve dai cittadini. Ma si farà anche promotrice di una disciplina europea del conflitto di interessi contenente una chiara separazione tra proprietà o gestione di imprese radiotelevisive e l’esercizio di rilevanti funzioni istituzionali.

2. Lavoro, Welfare e risorse umane

Un’Europa in cui si lavori di più, perché si può lavorare di più. Troppe donne oggi sono prigioniere di una doppia vita che le costringe a rinunciare o alla maternità o al lavoro, troppe donne e troppi uomini restano fuori dal mondo del lavoro perché non hanno professionalità adeguate o semplicemente non trovano l’occasione giusta, troppi bambini e troppi giovani sono condannati sin dalla prima infanzia a un destino di esclusione.

Il risultato è che in Europa troppo pochi lavorano. Il 60 per cento delle persone tra i 15 e i 64 anni, contro il 70 per cento negli Stati Uniti e obiettivo che i capi di Governo dell’Unione si sono dati per il 2010. E qui l’Italia ha il primato del tasso di occupazione più basso d’Europa, il 55 per cento. E’ questo il primo vincolo alla nostra crescita, sono queste le priorità che in campo sociale una buona politica oggi deve affrontare e risolvere.

L’orgoglio di una società diversa da quella americana. Purché funzioni. Siamo orgogliosi di essere europei per le istituzioni di sicurezza sociale che l’Europa si è data e molti, anche negli Stati Uniti ci invidiano. Tuttavia le sfide dei nuovi tempi, l’allungamento della vita media, l’accesso delle donne al mondo del lavoro, la diffusione di percorsi più liberi ma anche più individuali e flessibili, sino alla precarietà, la difficoltà a creare nuovi posti di lavoro hanno reso quelle istituzioni inadeguate a rispondere ai nuovi bisogni.

Perciò, pur nella consapevolezza che non esiste e non potrà esistere un unico modello di Welfare europeo, il riformismo non può sottrarsi alla sfida di riformare le istituzioni sociali, nella certezza che tale sfida e quella altrettanto prioritaria per il lavoro si intrecciano oggi a doppio filo. In un tempo nel quale la stessa crescita dipende largamente dalla valorizzazione del nostro capitale umano, riformare il welfare significa renderlo non un peso, ma un fattore propulsivo della stessa crescita attraverso la valorizzazione di ogni giovane, di ogni donna, di ogni adulto. Vanno rimossi gli ostacoli che oggi cancellano progetti di vita e ciascuno va messo in condizione di formarsi, di aggiornarsi e di lavorare. E vanno difesi coloro che non possono difendersi da soli.

Il Welfare inclusivo. Paradossalmente, lo stato sociale europeo, da strumento di inclusione sociale, sta diventando sempre più una ragione di esclusione di chi sta fuori, anche nell’ambito dei confini europei. Per evitarlo ecco le nostre proposte, cominciando dalla rete di protezione minii loro che sono i veri esclusi di oggi.

• Tolleranza zero nei confronti della povertà minorile e delle disuguaglianze che già nell’età pre-scolare predispongono all’esclusione i bambini poveri. Bisogna contrastare il peso dell’eredità familiare e sociale in modo da rendere indipendenti le potenzialità di successo nella vita dai privilegi sociali ed ereditari. Per questo l’Unione dovrà aderire alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, secondo la quale bambine e bambini, ovunque siano e da qualunque parte del mondo vengano, devono essere trattati tutti allo stesso modo e avere tutti gli stessi diritti. Per questo una rete di servizi educativi e di assistenza familiare per i bambini da O a 3 anni è un obiettivo prioritario, non solo per conciliare il lavoro della madre e del padre con la cura dei figli, ma prima di tutto per favorire la piena formazione degli stessi figli, così come avevamo cominciato a fare in Italia con la legge del 1996 che riguardava la promozione dei diritti dei bambini. La Carta di Barcellona ci chiede di accogliere negli asili nido almeno il 33% delle bambine e dei bambini. E’ un obiettivo minimo che l’Europa dovrà realizzare.

• Coordinamento tra le reti di protezione sociale di ultima istanza fra i paesi europei, facendo sì che gradualmente il diritto a un reddito minimo, conformato sia pure da ciascun paese in ragione delle proprie specificità (e quindi come reddito minimo garantito da alcuni, come reddito di inserimento da altri) diventi comunque una delle istituzioni cardine di cittadinanza europea. Sono, infatti, proprio queste le componenti dello stato sociale che rischiano per prime di venire ridimensionate dalla concorrenza al ribasso tra gli Stati al fine di attrarre capitali. Coordinarle al livello europeo serve non solo a proteggerle dalle pressioni competitive ma anche ad evitare che i flussi di immigrazione si concentrino sui Paesi che hanno le misure di protezione più generose.

In Europa ci sono 18 milioni di immigrati regolari che hanno fatto dei nostri paesi il loro progetto di vita. Sono donne, sono bambini, sono famiglie. Loro per primi sono tra le risorse umane che dobbiamo imparare a valorizzare, soprattutto oggi, alla vigilia dell’allargamento. Ci aiutano a crescere di più perché vanno dove il mercato del lavoro ne ha più bisogno, compensando la scarsa mobilità di noi europei. Le restrizioni ai flussi migratori non servono a impedire l’immigrazione. Possono solo renderla più graduale. Barriere anacronistiche come quelle contemplate dal Governo italiano (30.000 ingressi nel 2004 quando le imprese nei chiedono 4 volte tanti) ci impediscono di crescere e finiscono per alimentare l’immigrazione clandestina. Gli immigrati arrivano comunque, anche senza permesso di lavoro, e finiscono per lavorare in nero, il che significa che possono solo ricevere e non contribuire allo stato sociale. La clandestinità fa arrivare i meno qualificati e poi, con l’immancabile sanatoria, ci troviamo con persone che hanno una più alta probabilità di dovere in futuro ricorrere alle prestazioni dello stato sociale. Serve una politica europea dell’immigrazione e serve che sia l’Europa a stabilire le garanzie minime dei diritti degli immigrati, dalla cittadinanza di residenza ai limiti di quella vera e propria reclusione che è la detenzione nei centri di permanenza temporanea. Dovrà uscirne un patto che insieme ai diritti preveda precisi doveri, in nome della condivisione di regole e valori, che sono alla base della nostra convivenza in Europa.

Il Welfare al di sopra della rete di protezione minima. Al di sopra della rete di protezione minima l’asse del Welfare europeo dovrà essere la riduzione delle diseguaglianze attraverso le politiche attive del lavoro e la formazione permanente, grazie alla progressiva convergenza di tutti i nostri Stati verso esistenti all’interno dell’Unione.

C’è molto da imparare dai paesi più piccoli dell’Unione, che riescono a ridurre di più le disuguaglianze in proporzione a ciò che spendono in politiche sociali. Questo significa che molte politiche sociali possono essere meglio gestite su piccola scala e, quindi, per i grandi paesi, a livello locale. Importante è avere politiche attive, che spingano i beneficiari a cercare un lavoro, pena la riduzione del sostegno loro offerto, mentre ha funzionato con successo nel Regno Unito e in Svezia legare la concessione di sostegni al reddito al fatto di avere un lavoro. I sussidi o i crediti di imposta condizionati al lavoro facilitano anche il reinserimento nella vita attiva di quel 30 per cento di donne che in Italia non rientrano nel mercato del lavoro dopo la maternità. Mentre è essenziale è che i contratti di lavoro per gli adolescenti fino a 18 anni abbiano un contenuto prevalentemente formativo.

Altri paesi dell’Unione hanno fatto importanti passi in avanti nella formazione permanente che consente di aggiornare le proprie competenze oltre gli anni degli studi scolastici: formazione per i giovani che interrompono gli studi per un lavoro spesso non qualificato e che rischiano così di condannarsi alla serie B per il resto della vita, per i lavoratori adulti che prima ancora dei cinquant’anni rischiano l’espulsione perché hanno conoscenze obsolete, per le e donne che interrompono la vita lavorativa per crescere i figli o per altre ragioni di cura familiare.

La trasparenza su chi paga e chi riceve, infine, è condizione necessaria per migliorare il welfare. Proponiamo di introdurre una contabilità generazionale delle spese sociali che renda chiaro a tutti come la spesa sociale viene ripartita per età.

Il Welfare che libera tempo. I genitori hanno la necessità e il diritto di non sacrificare il lavoro per la famiglia. E i bambini hanno bisogno del tempo dei genitori. I paesi del Nord Europa si distinguono per il loro più alto tasso di occupazione femminile e per il più alto tasso di natalità rispetto all’Italia ed altri Paesi dell’Europa del Sud. Ci sono pratiche che da loro dobbiamo imparare e di esse fanno parte interventi mirati per aiutare donne e uomini a conciliare lavoro e cura di sé e della famiglia, vita professionale e vita privata, attraverso reti di servizi, dagli asili al pieno tempo scolastico, e reti di cooperazione sociale e collettiva, che liberano le persone “producendo tempo”.

Il Welfare che incoraggia la mobilità. Oggi in Europa muoversi, cercare lavoro in un paese diverso è difficile e spesso non è la lingua l’ostacolo maggiore. Ma della mobilità abbiamo bisogno non solo per ragioni economiche (abbiamo fortissimi divari nei livelli di produttività, dunque possiamo diventare molto più ricchi con una diversa distribuzione territoriale della forza lavoro), ma anche politiche. I cittadini che hanno vissuto in più di un paese dell’Unione sono quelli maggiormente favorevoli all’integrazione politica in Europa.

Il Welfare per chi ha diritto all’assistenza. Nessuno sarà lasciato solo. Uno Stato sociale che sia davvero universale ed inclusivo non esaurisce i suoi compiti nell’aiutare le persone ad aiutarsi. C’è infatti chi - o perché troppo anziano, o perché troppo isolato, o perché semplicemente malato o gravato da handicap permanenti — non saprà che farsene della formazione permanente, degli incentivi a trovare lavoro, dei servizi che “liberano” il tempo. E’ questa una condizione che col passare degli anni colpisce soprattutto le donne, che vivono più a lungo, rimangono sole con redditi spesso bassi, sono esposte alla violenza. Il fondamentale diritto ad una vita serena e dignitosa va assicurato anche a loro.

Il potenziamento dei servizi sanitari e l’assistenza domiciliare e non degli anziani sono diventate, anche in considerazione dell’evoluzione demografica dei prossimi anni, vere e proprie emergenze sociali. E davanti ad esse le istituzioni pubbliche di tutta Europa devono abituarsi, o riabituarsi, a considerare i destinatari dei servizi non soltanto come consumatori, ma come cittadini che fanno valere diritti essenziali di cittadinanza. A questo fine, reti integrate fra pubblico e privato, basate ovunque possibile sul perno ‘essenziale dell’impegno volontario del terzo settore, dovranno offrire insieme più risorse, più energie, più libertà di scelta per gli stessi cittadini.

3. L ‘Europa nel mondo

Europa potenza civile. In un’epoca dominata da rischi globali e dalla minaccia del terrorismo internazionale, gli europei chiedono anzitutto all’Europa più sicurezza e più protezione. E sappiamo che per averle occorre attorno a loro un mondo di pace e di maggiore giustizia.

Sanno che l’Europa è stata in grado di offrirla la pace e lo ha fatto attraverso l’integrazione politica ed economica, che è l’eredità principale dell’ultimo mezzo secolo di storia europea. Attraverso l’Europa, gli Stati nazionali hanno rinunciato alla guerra e posto le basi di uno sviluppo economico e democratico che ha gradualmente coinvolto l’intero Continente. L’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale, infatti, è il compimento di questo processo.

Tutto questo, però, non è più sufficiente. Gli europei sanno anche — e gli attentati a Madrid lo hanno drammaticamente ricordato — che la loro pace non reggerà se non riuscirà a fare progressi anche altrove. L’Europa non è già più un’isola di stabilità; e lo sarà sempre meno se il mondo attorno ai suoi nuovi confini continuerà a precipitare nei conflitti e nella arretratezza. In un mondo globale, l’insicurezza esterna diventa la nostra stessa insicurezza, la fine della pace interna.

L’Europa deve quindi imparare ad occuparsi del mondo per riuscire ad occuparsi di sé: dovrà diventare una potenza civile con una influenza globale e non solo regionale.

I valori condivisi dell’Unione rappresentano la nostra identità collettiva: la democrazia come metodo di buon governo, la sicurezza attraverso l’integrazione, sono tratti fondanti dell’esperienza comunitaria. Un’esperienza che i paesi europei non devono dimenticare, dividendosi nuovamente di fronte alle sfide globali; ma devono invece valorizzare, trasferendola in un’azione internazionale comune.

Europa-potenza civile non significa una politica estera priva di strumenti militari. Significa una potenza che sceglie di integrare interessi e valori; e che subordina l’uso della forza all’esterno, necessario in casi estremi, ad obiettivi politici democratici, alla difesa dei diritti umani e a regole multilaterali. Proteggere i diritti umani e rafforzare il diritto internazionale sono in realtà l’unica speranza per dare a un mondo che appare fuori controllo, e dominato da rischi globali, speranze di sviluppo, di giustizia, di stabilità. Costruire un multilateralismo efficace è per l’Europa potenza civile un obiettivo strategico da raggiungere e insieme una condizione per esistere sul piano internazionale.

Se parlerà con una voce sola, anche se non sempre unica, l’Europa potrà incidere: lo dimostra il peso europeo nella Organizzazione mondiale del Commercio. Se parlerà con voci nazionali in contrasto, l’Europa non peserà affatto.

Per contare di più sarà importante, anche, poter contare su industrie della difesa maggiormente integrate. Investire nella creazione di un’industria della difesa europea non significa essere guerrafondai: significa piuttosto dare all’Europa l’opportunità di giocare un ruolo indipendente nella soluzione dei conflitti mondiali, senza restare alla mercé degli Stati Uniti.

Contro il terrorismo. Il terrorismo internazionale, nel tragico nesso che unisce l’11 settembre americano all’ 11 marzo europeo, costituisce per i popoli di entrambi i lati dell’Atlantico un terribile nemico comune da contrastare con uguale determinazione e convinzione. Questo non significa che i paesi europei, a cominciare dall’Italia, debbano per ciò stesso appoggiare le scelte internazionali compiute dall’amministrazione Bush. Compito dell’Europa, e di una nuova politica estera italiana, è anzi di puntare a costruire una strategia multilaterale più efficace di lotta al terrorismo.

L’Europa potenza civile deve attuare concretamente una strategia unitaria contro il terrorismo. Deve evitare rimozioni, ma deve anche evitare l’illusione che il terrorismo internazionale possa essere sconfitto solo con la forza militare. E deve riuscire a chiarire in che modo combinerà maggiore sicurezza e continua difesa delle libertà democratiche. Se le società democratiche sono bersagli privilegiati del terrorismo internazionale, è solo mantenendo le nostre caratteristiche di società democratiche che possiamo sconfiggerlo.

La lotta al terrorismo è la priorità: ma richiede, proprio per potere avere successo, che le tensioni politiche e sociali esistenti sul piano internazionale vengano affrontate e non trascurate. E’ la priorità che sottolinea l’importanza delle altre priorità: la lotta alla povertà, alle malattie, all’emarginazione, all’esclusione dalla formazione e dalle risorse.

L’Europa deve credere in una battaglia globale e a lungo termine per l’uscita di milioni di persone da condizioni di miseria. E deve trovare, per poterla vincere, nuovi e più efficaci strumenti di azione: deve coinvolgere il settore privato negli aiuti allo sviluppo (per esempio, con meccanismi simili all’8 per mille); deve azzerare il debito degli Stati più poveri, deve liberalizzare i mercati e abolire un protezionismo agricolo che d’altra parte impedisce una riforma indispensabile del bilancio ‘dell’Unione, deve essere in prima linea per l’affermazione dei diritti democratici là dove essi sono negati, per i diritti delle donne (una chiave essenziale per la modernizzazione delle società islamiche), per i diritti dei bambini e degli adolescenti e contro il loro sfruttamento nel lavoro, contro la prostituzione minorile, la tratta, l’abuso, la violenza, il loro uso nelle guerre.

Nei rapporti transatlantici, vanno discusse le condizioni perché possa esistere una “comunità d’azione” transatlantica rinnovata, non puramente rivolta al passato ma in grado di identificare le priorità comuni di oggi. Storicamente, la politica americana ha avuto successo quando è stata internazionalizzata, coinvolgendo anche l’Europa: questo significa che un ruolo globale più solido dell’Europa offre un’alternativa multilaterale agli Usa che fondamentalmente riflette gli interessi sia degli americani sia degli europei.

Ciò vale anche per il futuro del Medio Oriente e del Mediterraneo, e cioè della vasta area che costituisce - assieme ai Balcani e all’Asia centrale - una priorità geopolitica decisiva dell’Europa allargata. L’allargamento, che già è andato oltre i loro confini, è destinato ad includere gli stessi Balcani, mentre nei confronti di altri paesi vicini l’Europa dovrà creare l’anello degli amici, attraverso speciali rapporti di partnership privilegiata. Verso il mondo arabo essa dovrà impegnarsi per rispondere alle tre ragioni principali che secondo i rapporti delle Nazioni Unite sono alla base del suo mancato sviluppo: assenza di libertà, esclusione delle donne dalla vita civile e scarso accesso alla conoscenza. Un ampio settore del mondo arabo è tuttavia in movimento, alla ricerca di spazi di libertà e di crescita. Questo fermento va incanalato, favorendo la creazione di una rete tra associazioni dei paesi dell’area, e incentivando così la nascita di sindacati e partiti politici, in quei paesi dove le uniche forme assembleari avvengono nelle moschee. E’ vitale, per il destino del mondo arabo e per l’integrazione di milioni di persone nelle società europee, che l’Islam moderato prevalga sul fondamentalismo.

E’ altrettanto vitale, per il futuro di quest’area, che i conflitti ancora aperti vengano risolti in modo pacifico ed equo: l’Europa ha un interesse comune alla soluzione del conflitto Israelo-palestinese, sulla base di due Stati reciprocamente sicuri; alla stabilizzazione di un Iraq democratico e governato dai propri cittadini; alla graduale evoluzione di un Iran che rinunci a dotarsi di armi nucleari.

La democrazia non deve essere imposta dall’alto, ma deve essere un processo che veda protagonisti gli arabi stessi. Non c’è nessuna vera incompatibilità tra Islam e democrazia, e l’avvicinamento della Turchia all’Unione potrà dimostrarlo. Il conflitto, piuttosto, è tra regimi autoritari e stato di diritto.

In nome di un multilateralismo efficace, l’Europa deve contribuire ad una riforma complessiva dell’ONU — composizione del Consiglio di sicurezza, criteri di intervento, strumenti a disposizione — che permetta di fondare sulla forza del diritto internazionale azioni collettive a difesa della sicurezza e dei diritti umani. La responsabilità di proteggere i popoli, che è parte. integrante degli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, deve prevalere sulle barriere degli Stati nazionali. In un sistema di sicurezza collettiva adattato alle sfide del dopoguerra fredda, le Nazioni Unite, l’UE e la NATO si rafforzeranno a vicenda.

Una leadership politica europea. La prima condizione perché l’Europa riesca a compiere questo salto di qualità — da area regionale a potenza civile globale — è la convergenza e coerenza delle posizioni nazionali: un “ministro degli esteri” europeo, come disegnato dal Trattato costituzionale, costituisce un elemento-chiave in tal senso. La Costituzione europea permette quindi dei passi avanti importanti, ma che andranno consolidati attraverso dei passi ulteriori: creazione di un servizio diplomatico europeo, integrazione crescente delle forze militari, armonizzazione delle posizioni nelle Nazioni Unite, fino a un seggio europeo nel Consiglio di Sicurezza.

La seconda condizione di una Europa attore globale è la chiarezza dei valori e dei principi internazionali su cui orientare la posizione dell’Unione: giustizia, pace e democrazia non possono più rimanere confinati alle politiche nazionali. L’Unione europea non può quindi abdicare alla responsabilità di difendere questi valori, quando vengano violati diritti umani fondamentali, anche attraverso l’uso della forza sotto mandato delle Nazioni Unite: ma la forza sarà sempre, per l’Unione, una risorsa ultima.

La natura complessa dei processi di globalizzazione richiede, infatti, forme di intervento ad ampio spettro e con strumenti diversi ma integrati. Non si fronteggiano i grandi dilemmi legati all’evoluzione demografica e ai flussi migratori, al degrado ambientale, ai grandi divari di reddito e condizioni di vita, alle grandi reti criminali e al terrorismo con istituzioni parcellizzate e prive di bussole e di obiettivi davvero prioritari e comuni.

L’Europa, da questo punto di vista, ha almeno tre vantaggi comparati, che deve sfruttare al meglio: dispone di strumenti di azione e di influenza ad ampio raggio (dalla diplomazia al peso economico, dai legami culturali alla forte presenza nelle principali sedi internazionali); è forte di una sorta di “legittimità intrinseca” derivante dalla sua natura di organizzazione multinazionale democratica con una forte componente sopranazionale; e infine è parte integrante di una più ampia comunità di Stati e di popoli, che ha un enorme potenziale di influenza su scala mondiale.

Abbiamo di fronte a noi un mondo gravido di rischi, vecchi e nuovi; ma anche di opportunità. L’Europa è una tipo di potenza “adatta” per contribuire a trasformare i rischi in opportunità: per aiutare a governare, in modo equo e democratico, i processi di globalizzazione. Ma bisogna che l’Unione europea voglia farlo e che sia in grado di farlo, come del resto chiedono i cittadini europei.

La premessa indispensabile è una nuova leadership politica europea, che sia conscia di due verità molto semplici: nessuno degli Stati nazionali, preso singolarmente, è più in grado di esercitare una vera influenza all’esterno e quindi a proteggere i suoi cittadini all’interno; non ci sarà vera sicurezza europea senza sicurezza e giustizia globali.

4. La Costituzione europea

Rimettiamoci al lavoro per la Costituzione europea. E’ questa la nostra carta di identità: quella che ci permette di indicare a tutto il mondo i valori in cui crediamo.

Con la Costituzione noi offriamo a noi stessi la possibilità di organizzare con decisioni condivise la nostra sicurezza e il nostro sviluppo. Ma è anche la maniera di dire al mondo intero che è possibile vivere concretamente, in un grande spazio di mezzo miliardo di persone, la democrazia, la sicurezza, lo Stato di diritto: garantendo con la nostra Carta fondamentale diritti e principi che valgono non solo per i nostri cittadini ma per ogni persona umana che si trovi nel nostro territorio.

L’Unione europea propone così un ordinamento politico che supera le divisioni fra gli Stati nazionali. Esso è un modello, già imitato, per una democrazia internazionale basata su regioni multistatali. Dimostra che non vi è una deriva incontrollabile alla globalizzazione, ma che la globalizzazione si può governare con politiche adeguate alle sue dimensioni. E soprattutto con un’azione politica costante dell’Unione che abbia al suo centro, come dice la Carta dei diritti approvata a Nizza, la persona. La Carta dei diritti costituisce una vera e propria carta di identità dell’Unione, perché disegna un modello sociale europeo diverso da altri propri dell’Occidente democratico -basti pensare al valore attribuito ai diritti sociali e al divieto assoluto della pena di morte- e permette una civile convivenza fra persone di diversa nazionalità, cultura, lingua e religione, assicurando a ciascuno il rispetto della sua identità della sua dignità, della sua libertà, della sua diversità. La lai delle istituzioni e di tutti i poteri pubblici è lo strumento per garantire equamente i diritti di ciascuno. E su tale garanzia è fondato lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune dell’Unione.

Il progetto costituzionale elaborato dalla Convenzione non è fino in fondo quello che avremmo voluto e che avrebbe voluto la stessa Commissione Prodi. Eppure l’approvazione del progetto da parte della Convenzione rimane il segno di un nuovo inizio della comune impresa europea, da cui non si può più tornare indietro. Tutti sanno che le attuali istituzioni, pensate per una comunità di Stati molto più ristretta di quella che prospetta con l’allargamento, non sarebbero in grado di fronteggiare le sfide che attendono l’Europa fuori e dentro i suoi confini. D’altra parte, la prospettiva di club ristretti di Stati che decidono per tutti - cosa diversa dalle speciali “cooperazioni”, previste e in qualche caso auspicate dal progetto della Convenzione - ha il fiato corto, riflette un’epoca che è alle nostre spalle. Solo l’approvazione della Costituzione può evitare la paralisi decisionale dell’Unione.

Nessuno, alla Convenzione, ha pensato a un “Superstato” europeo. Al contrario, l’obiettivo che la Convenzione si è dato è stato quello di disegnare istituzioni concentrate su funzioni chiaramente delineate, in modo che la loro forza non contrasti con quella delle istituzioni nazionali, ma sia una risorsa comune a disposizione di tutti.

La grande, storica avventura dell’allargamento a 25 Stati, guidata dalla Commissione europea di Romano Prodi, si è rivelata ogni giorno di più una necessità più che una opportunità. Ma l’allargamento significa anche che l’Unione deve poter contare su istituzioni forti ma non rigide. Istituzioni che devono consentire la flessibilità necessaria per tenere insieme tutti. gli Stati membri intorno a comuni obiettivi, ma rispettandone i diversi ritmi di integrazione.

Il governo delle “differenziazioni” fa parte di questo nuovo ordinamento della Grande Europa, reso coerente e “uguale” dal grande quadro istituzionale unico: un solo Parlamento, un solo Consiglio, una sola Corte dì giustizia, soprattutto una sola, indipendente Commissione europea.

Rimettiamoci al lavoro per riportare l’Italia in Europa. E l’Unione europea in Italia.

IL LIBRO di Will Hutton ( Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa) costituisce un mosaico quasi perfetto della maggior parte, e certo per noi la più importante, delle tessere che compongono lo stato del mondo attuale. Ignora e non è succube dello "spirito dei tempi", togliendo così ogni banalità alle sue argomentazioni; stabilisce con vigore intellettuale e stilistico alcuni principi di riferimento, basati su vasta cultura e conoscenza approfondita della storia politica e delle idee dell’Occidente. Ogni prefazione o presentazione che non fosse un semplice invito alla lettura, potrebbe dunque rivelarsi superflua. Ma è difficile sottrarsi alla tentazione di indicare alcune osservazioni, risvegliate a latere della lettura, che riguardano la situazione soprattutto culturale italiana ed europea, oltre a qualche possibile minore divergenza di valutazioni critiche. Tutto ciò in ordine sparso o senza pretese organiche che risulterebbero in ogni caso inadeguate. Ed è perciò quel che farò.

Le tesi di Hutton sono un macigno che cade nella palude delle provinciali e stantie elucubrazioni di molti nostri autoproclamati riformisti di sinistra e di destra. Il riformismo nostrano è, infatti, spesso appiattito sull’esaltazione di un acritico e malinteso trapianto di istituti e ideologie proprie del nuovo capitalismo finanziario nordamericano, che nel "dio mercato", nella deregolamentazione, nell’unica regola posta dall’economia privata, nella privatizzazione del diritto, in cui tutto si affida alla volontà delle parti, hanno prosperato prima e sono naufragati poi con il fallimento della dittatura dei mercati finanziari. Mercati senza regole, senza freni e che obbediscono solamente alla volontà e agli interessi di individui sempre più spregiudicati. E tutto avviene in un gioco capace solo di creare squilibri difficilmente correggibili e irrimediabili ingiustizie sia a livello di economia mondializzata, sia nelle vicende di politica internazionale. La presunta razionalità assoluta dei mercati, già storicamente contestata da Fernand Braudel, sta alla base di queste nuove tendenze e costituisce peraltro l’armamentario intellettuale delle tesi più conservatrici e retrive oggi in voga negli Stati Uniti.

Anticipiamo parte della prefazione che ha scritto per il volume di Will Hutton Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa (Fazi, pagg. 400, euro 21,50 con un saggio di Massimo Panarari) il libreria da domani

Quelle, per intenderci, che hanno portato al fallimento di Enron, Arthur Andersen, WorldCom e via dicendo, e, mentre scrivo, al ben più grave fallimento del vertice di Cancun.

Singolare destino quello del nostro finto riformismo che trova radici culturali solo nel superficiale conservatorismo d’oltreoceano, contro il quale l’autore dispiega una sfilata di critiche severe con una sequela di argomenti che mettono a nudo la società americana.

La seconda lezione che Will Hutton ci impartisce riguarda l’impostazione europea dei problemi ed è una lezione che viene da un cittadino del Regno Unito, paese che conta il maggior numero di euroscettici.

La mondializzazione dell’economia, e più genericamente i fenomeni, non solo economici, che si qualificano nella globalizzazione, comportano un superamento dello Stato-nazione. A una cultura esclusivamente americana, Will Hutton contrappone un bagaglio di alternative, che affondano radici profonde nella civiltà europea. Queste radici si sono sviluppate nell’humus del Cristianesimo, formalizzato o meno nella nuova Costituzione europea, in principi di solidarietà che trovano la loro filosofia di base nelle spinte del socialismo democratico. Radici, infine, che uniscono tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e che si contrappongono al selvaggio individualismo americano, del quale questo libro ci offre una descrizione precisa e a volte spietata sia nei confronti della vita interna della società americana (e perché non ricordare anche che oltre cinque milioni di americani sono rinchiusi nelle carceri?), sia della politica estera del governo USA. Entrambe sono accomunate da utilitaristiche quanto grossolane - ancorché oggi vincenti - credenze neoconservatrici, le quali sono riuscite a sommergere almeno parzialmente la pur nobile tradizione di tutela delle libertà individuali e dell’associazionismo che Alexis de Tocqueville aveva individuato come la più solida piattaforma della democrazia americana.

La contrapposizione fra la cultura europea e quella conservatrice e dominante d’America risulta impietosa. La ricostruzione attenta dell’influente pensiero politico di Robert Nozick svela le profonde ingiustizie sociali, conseguenziali a un’ideologia che considera qualsivoglia intervento pubblico di giustizia redistributiva nei confronti delle classi meno abbienti come una minaccia allo Stato di libertà che ogni individuo deve considerare come l’unica suprema virtù da tutelare, per evitare derive totalitarie.

La tesi keynesiana che gli uomini pratici, che pretendono di essere liberi da qualsivoglia influenza intellettuale, sono in genere schiavi di qualche defunto economista è ancora corretta. E lo è anche perché lo stesso Keynes considera sul medesimo piano le idee degli economisti e quelle dei filosofi politici.

Cade qui un riferimento alla suprema ipocrisia, decantata da Bernard de Mandeville nella sua opera La favola delle api del 1728, quella cioè che consiste nel fingere di fare la felicità dei bisognosi rifiutando loro ogni assistenza. Ma certamente la «mano invisibile» di Adam Smith o il laissez-faire dei fisiocrati che presuppongono un’armonia e un ordine naturale degli interessi privati accompagnano questa visione dell’ideologia conservatrice americana, che sta permeando non solo la storia contemporanea del capitalismo, ma gli stessi meandri di una globalizzazione condotta secondo profonde sproporzioni fra paesi poveri e paesi ricchi, come Joseph Stiglitz ha dimostrato una volta per tutte.

Certamente non sono solo gli europei, aggiunge poi Will Hutton, ad avere il monopolio dell’idea di eguaglianza e di giustizia sociale. Anzi, contro il conservatorismo degenerativo del capitalismo finanziario che permea la vita materiale e intellettuale americana, si erge l’elaborazione filosofica di un nuovo contrattualismo sociale da parte di John Rawls, il quale nella sua Teoria della giustizia del 1971, vede la stipula di quel contratto sociale nella originaria posizione di chi è condizionato da un «velo di ignoranza» e non conosce nulla né della sua vita passata né delle chance future, ma desidera vivere in una società nella quale le libertà di tutti siano rispettate e il principio di uguaglianza imponga che sia favorito il più debole. Questa teoria è decisamente influenzata dalla più autentica tradizione europea e si contrappone decisamente alla vincente filosofia minimalista, estranea a qualsiasi principio di welfare state teso a garantire libertà e uguaglianza.

Il conservatorismo ha avuto il suo centro di irradiazione nelle grandi corporation che non solo hanno portato l’intero sistema economico a una morbosa dipendenza da Wall Street, ma hanno ridotto la cultura totalizzante della società americana alle valutazioni di Borsa e ai sofisticati meccanismi del capitalismo finanziario.

Le ideologie che si sprigionano dalla formuletta della ricerca del «valore per gli azionisti» (shareholders’ value), assurta a unico obiettivo della corporation, hanno portato alla grande rinuncia a ogni principio che non sia quello del profitto, sia nella vita economica che in quella politica. Manca qui, forse, il rilievo che le vicende delle corporation, pur così attentamente esaminate, hanno subìto il distruttivo paradosso di essere spinte prima a uno sviluppo inarrestabile per poi essere travolte dalla stessa matrice, cioè il conflitto di interessi generalizzato che ha colpito, senza che se ne sia trovato un rimedio efficace, i gangli vitali della civiltà materiale americana.

La dittatura dei mercati finanziari, infiacchiti dal virus del conflitto di interessi, ha distrutto buona parte degli altri poteri dello Stato e sta minacciando ogni principio della tradizionale grande democrazia americana, privandola di quell’equilibrio che un sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) garantiva in modo esemplare. Le regole dei commerci internazionali sono ormai elaborate dalle grandi corporation multinazionali. Il governo americano e gli altri governi coinvolti nel processo di globalizzazione, all’insegna del libero mercato, seguono, e dove possono favoriscono, il nuovo centro di potere sovranazionale, svincolato da qualsiasi limite o condizionamento politico.

Non è un caso che anche i più acuti intellettuali americani inizino a paventare e a denunciare la perdita o l’offuscamento degli stessi diritti di libertà, che possono velocemente portare a una zoppa democrazia illiberale. Citerò solo, rinviando ad esso, il libro di Fareed Zakaria, The Future of Freedom, del 2003. Inoltre, basterà ricordare la mancanza di ogni diritto alla difesa e al giusto processo ai presunti terroristi rinchiusi nella base americana di Guantanamo.

Insomma, la strategia intellettuale del neoconservatorismo americano che ha avuto in Robert Nozick l’estremo e più accreditato profeta, sembra ingoiare se stessa in una sorta di irreversibile cupio dissolvi. Non mancano neppure nel libro gli accenni ai tentativi da parte degli Stati Uniti di riportare indietro la situazione, come se queste marce a ritroso fossero possibili in una stagione storica di movimenti tellurici mai sperimentati prima con tale accelerazione. E qui potremmo citare da ultimo il tentativo di rimettere in pista una legislazione che aveva avuto in altre epoche - e il riferimento d’obbligo è alla crisi del 1929 col New Deal roosveltiano - un indiscusso successo. Ma il Sarbanes-Oxley Act del 2002 frettolosamente approntato dal Senato americano subito dopo lo scoppio dei grandi scandali finanziari sopra citati, si è subito rivelato un’arma spuntata e inefficace per combattere il virus del conflitto di interessi che insidia, ancora oggi indisturbato, la dittatura dei mercati finanziari. La possibilità del passo indietro è inesorabilmente impedita dall’espansione dei processi di globalizzazione che hanno mostrato finora una caratteristica univoca, quella cioè di essere null’altro che un’appendice del capitalismo finanziario americano e della sua politica.

Da un lato il processo di globalizzazione, dettato dalla dittatura dei mercati finanziari, e dall’altro l’abbandono, all’interno di singoli Stati membri dell’Unione, delle loro radici culturali e storiche, hanno condotto spesso anche in Europa a una sorta di scimmiottamento delle regole e dell’ideologia del conservatorismo americano. L’autore parla del micidiale abbraccio dell’orso che stringe la Gran Bretagna, sempre più contigua alle direttive d’oltreoceano. Ma la situazione italiana sembra ancora peggiore.

E veniamo dunque al trapianto in Europa delle mode americane.

Inizio subito con qualcuno dei miti che costituiscono il cascame dell’ideologia del «dio mercato» senza regole. Primo fra questi quello che va sotto il nome di corporate governance. Più di quaranta codici di corporate governance sono stati elaborati nei paesi dell’Unione Europea e ognuno di essi, come ho cercato di dimostrare altrove, ha rivelato inefficacia e inconsistenza. D’altra parte negli Stati Uniti le cosiddette regole di corporate governance hanno dimostrato la loro assoluta inutilità di fronte alle crisi finanziarie di Enron e di quelle che l’hanno seguita: inutilità quasi pari a quella dei codici etici.

Ma vi è una ragione di più per rifiutare il trapianto Europa delle mode americane di corporate governance. Basta infatti rendersi conto che l’esigenza di avere una disciplina societaria, ancorata, più che a norme, a regole di autoregolamentazione, è dovuta alla situazione del tutto particolare presente negli Stati Uniti. Va infatti considerato che il diritto societario americano è di appannaggio dei singoli Stati, mentre il diritto dei mercati finanziari è federale. Siccome le leggi statali lasciano la massima libertà agli statuti societari nel disciplinare ad libitum i rapporti fra gli organi sociali (assemblee dei soci, amministratori, manager), il raccapricciante risultato è stato che ogni società quotata aveva una disciplina diversa, a seconda dello Stato in cui era incorporata e degli articoli del proprio statuto creati in totale libertà. Dopo l’ubriacatura delle scalate societarie degli anni Ottanta, si rese necessario cercare un minimo di uniformità per le società quotate che facevano appello al pubblico risparmio, alla ricerca di una sorta di correttivo alla deriva nei mercati finanziari della deregolamentazione selvaggia. Ed ecco che nacquero le regole di corporate governance, le quali, per la maggior parte, quando non si limitano ad affermazioni generiche, sono già contenute nelle legislazioni societarie europee. Il trapianto in Europa non solo è inutile, ma anche dannoso, perché mina il rigore normativo tradizionale al diritto europeo e favorisce l’affievolimento delle norme giuridiche ad esclusivo vantaggio dell’autoregolamentazione contrattuale degli interessi privati all’insegna del neoconservatorismo liberista. Non è però un caso che la recente riforma del diritto societario italiano sia stata impostata sulla piena libertà e autonomia statutaria, con un impianto che si rivela intempestivamente ispirato all’ideologia neoconservatrice americana, nel momento in cui, fra l’altro, viene abbandonata negli Stati Uniti col Sarbanes-Oxley Act del 2002 e, soprattutto, dal diritto comunitario europeo. [...]

In conclusione, quella di Will Hutton è una ricerca che affonda i suoi artigli nelle più riposte radici della cultura europea. Più riposte perché vive soprattutto in quei settori che l’opinione pubblica anche colta tende a trascurare. Ed è ancora un inno all’Europa, per il quale dobbiamo essere grati all’autore, che ci ha consegnato una testimonianza di giustificato ottimismo sul nostro destino.

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