loader
menu
© 2024 Eddyburg

Introdursi nel cantiere più importante e delicato di Torino, quello del grattacielo Intesa San Paolo, in un piccolo gruppo misto eterogeneo e un po' improvvisato e occupare la gru più alta non è cosa facilissima. Soprattutto se non ci si arriva come emanazione di un corteo più ampio. La cosa più difficile, comunque, è stata quella di restare tante ore sulla gru, incalzati da polizia, vigili del fuoco e responsabili del cantiere che volevano, minacciavano, imploravano di farci scendere il prima possibile ma sapevano di non poter salire a tirarci giù fisicamente.

L'idea di occupare la gru era circolata nell'ala più militante del nostro compassato e timido Comitato «Non grattiamo il cielo» di Torino, era un'idea che emulava proteste di gru e tetti di operai, immigrati, precari e studenti ma in questo caso con un taglio più ideologico che sociale. Salire in alto, mettersi a repentaglio, rendersi visibili non per reclamare i propri diritti sociali ma per difendere il paesaggio e una concezione da"beni comuni" della urbanistica. L'idea giaceva in un cassetto, ed è tornata attuale dopo l'osservazione casuale - dagli adiacenti uffici della Provincia - di come è fatto il cantiere, e soprattutto dopo che la recente acutizzazione del conflitto No Tav ha un po' risvegliato il movimentismo torinese.

Alla vigilia dell'entrata in vigore della manovra economica, è sembrato ad alcuni di noi che la battaglia contro il grattacielo - difficile e dimenticata dopo che il cantiere è iniziato - potesse validamente legarsi al tema No Tav, ed entrambi al No Ticket.

La preparazione

Ma praticamente, preparare l'occupazione di questa super-gru è stato al tempo stesso faticoso e divertente. Avete presente un film che racconta come si mette insieme un gruppo e un piano per una rapina? Avete presente quello che ti dice che l'idea lo entusiasma ma non sa come funzionerà il suo ginocchio tra due giorni, o come starà la mamma, o che dirà la moglie, o qualunque altra variabile? Senza contare quelli che erano andati bellamente a sfidare i lacrimogeni a Chiomonte ma in questo fine settimana dovevano proprio andare al mare oppure non erano convinti di qualcosa.

Avessimo potuto spargere la voce tra centinaia di persone, forse ne avremmo raccolte almeno una trentina. Ma non era prudente. E da certi telefoni parlavamo in codice, come se davvero ci intercettassero in tempo reale per motivi di ordine pubblico. Con un paio di avvocati avevamo capito che il nostro eventuale problema legale si chiama articolo 633 del codice penale. Limitato però a eventuale querela di parte se il gruppo che invade la proprietà privata è composto da meno di dieci persone. Non bisognava però sovraccaricare il modesto rischio della querela penale con il rischio civile, economico, dei danni dovuti alla interruzione dei lavori.

Con alcuni sopralluoghi avevamo capito che il cantiere lavora il sabato fino all'ora di pranzo. Quindi abbiamo deciso l'azione per le 14. I due più tecnici di noi si erano procurati quattro leggerissime scalette di alluminio portatili, per scavalcare il recinto di due metri. Avevamo già da tempo uno striscione verticale «Non grattiamo il cielo di Torino», esposto un giorno (ovvero 10 minuti) dalla Mole. Dalla terrazza della Mole lo fanno subito tirar via. In questo caso sulla gru - ovvero sulla scala della gru - saremmo stati padroni del campo. Negli ultimi giorni le riunioni sono state piccole ma quotidiane. A una ditta amica abbiamo ordinato due striscioni verticali - No Tav e No Grattacielo - e uno orizzontale - No ticket - stampati su materiale molto leggero per portarli su facilmente negli zaini sulla ripida scala a pioli della gru.

Ai partecipanti - agli aspiranti o aspirati tali - si chiedeva di portare acqua, k-way per il fresco e possibile pioggia, qualche cibo, e cellulari ben carichi. Eravamo una quindicina, di cui metà decisa a salire, gli altri a collaborare all'avvio della invasione alle 14 di sabato. Tutto pronto ma imprevedibilmente ci sono tre gruisti operativi sulla gru, che avrebbe dovuto esser libera e vuota già da un'ora . Riunione un po' concitata, c'è anche ci si offende perché non lo avevamo previsto, e se ne va. C'è chi sospetta che abbiano deciso di lavorare il sabato pomeriggio proprio perché ci aspettavano. Ma non c'è polizia.

L'azione

Decidiamo di ritrovarci alle 18. Due dei "salitori" non si presentano, uno per improvviso piccolo incidente del figlio bambino. Per fortuna si decide invece a salire anche uno studente non previsto. I gruisti continuano a manovrare ancora un po' dopo le 18, poi finalmente li vediamo scendere e dopo qualche minuto ci facciamo sotto. Qualcuno poggia le scalette. Io salgo e scendo quei due metri goffo e un po' affannato. Avevo immaginato (decine di volte, ormai) di correre verso la scala della gru mentre qualcuno mi avrebbe gridato «che fate, fermatevi». Invece non succede. Inizio a salire la più lunga scala a pioli mai salita in vita mia. Ci sono rampe, e piccoli pianerottoli, e non si pencola nel cielo ma in mezzo a sbarre dritte o curve a mo' di cerchio protettivo. La spinta e l'entusiasmo di salire sono più forti della inquietudine a guardarsi in giù.

L'orizzonte si allarga e giù a terra è ancora tutto quieto. Persino dopo che viene calato il primo striscione nessuno nel cantiere si è ancora accorto di noi. Tanto che - previo un breve colloquio telefonico con uno di noi già all'altezza del (futuro) decimo piano - un altro studente si aggiunge. Tenero e fantastico, scavalca da solo senza scaletta portatile e ci raggiunge in alto. Intanto ho cominciato ad avvisare i giornali, ma solo dal Tg 3 c'è risposta e viene mandata una troupe. Il caporedattore di turno della Stampa mi dice che siamo i soliti quattro gatti che dicono la solita cosa. Sotto, in corso Inghilterra, è rimasto un gruppetto dei nostri. Quando finalmente viene dato l'allarme, arrivano volanti della polizia e alcuni di loro vengono identificati. Poi arrivano a sirene spiegate i pompieri. I cancelli del cantiere vengono aperti e da un'auto della polizia ci parlano con un megafono: è pericoloso, dovete scendere, questa è un'intimazione.

La resistenza

Telefono al dirigente Ferrara della Digos per informarlo di chi siamo e delle nostre pacifiche intenzioni, solo dimostrative. Otteniamo un po' di pace, per goderci l'imbrunire e lo sbucare della luna piena. Così: quasi sospesi nel vuoto, stretti nelle piccole piattaforme tra le rampe della scala a pioli. È più emozionante che da quello che sarà un ufficio alto blindato dai vetri. Riunione a 55 metri dal suolo, confermiamo di voler continuare l'occupazione della gru almeno fino alla fine del mattino di domenica, ora per la quale convochiamo un incontro-conferenza. Digos, pompieri e soprattutto responsabili del cantiere ci rimangono malissimo, speravano scendessimo a fine serata. A quel punto cominciano una serie di pressioni - attraverso telefonate della Digos e missioni di uno-due pompieri che salgono fin da noi a parlare - con argomenti che si accavallano. E talvolta si contraddicono, come quando la polizia dice che se qualcuno di noi si fa male il cantiere potrebbe essere chiuso per accertamenti e che se non scendete potrebbero ordinarci di salir su a prendervi a forza. Dal punto di vista tecnico apprendiamo cose che all'inizio ci sembrano incredibili ma che nelle varie puntate successive coi pompieri si rivelano non del tutto infondate.

La presenza di non addetti ( cioè noi) su una gru come quella - la più alta gru con braccio mobile operante in Italia - viene considerata così pericolosa da mobilitare più di venti pompieri. La metà della forza di turno in quel momento in città, per cui rischiamo di mandare in crisi altre situazioni. Sempre a causa della nostra presenza alla gru è stata tolta l'elettricità - anche se abbiamo giurato di non salire nella cabina dei comandi. Di conseguenza non è attiva la luce di sicurezza in alto, obbligatoria per sicurezza del traffico aereo e di elicotteri. Fino a questo punto comunque non ci smuoviamo. Neanche quando il passaggio delle pizze comprate da nostri sostenitori, passaggio preso in considerazione dai pompieri, viene stoppato dalla Digos. Prima motivazione: se non ci bloccano i viveri finisce che non scendiamo più. Più tardi un pompiere dirà invece che non si possono prendere la responsabilità che «il cibo sia abbastanza salubre» per la nostra delicata posizione lassù.

Ore una: tre dei nostri ragazzi - i tre ventenni - vogliono scendere. Si sentono solidali, promettono addirittura di tentare di risalire alla chetichella in mattinata, ma è meglio che passino da casa. Mentre controlliamo dall'alto che vengano solo identificati e non trattenuti, l'ennesima salita del pompiere porta la novità a cui inizialmente non crediamo. Operai specializzati devono salire sulla gru per metterla in sicurezza tra poche ore, la mattina di domenica. Sono gli stessi che hanno lavorato il sabato pomeriggio! Se non scendiamo non salgono e ci possono dare la responsabilità di aver fermato il cantiere. Mi sfogo al telefono col consigliere comunale Michele Curto, che si è tenuto informato da quando è iniziata l'azione: possibile che non ci lascino concludere la manifestazione alle 12? Michele parla con la Digos, decide di venire e dopo vari dialoghi a distanza si capisce che la faccenda della messa in sicurezza straordinaria domenicale è vera. Non sono stati capaci di spiegarcela subito, non se la sono inventata. Il pompiere ipotizza che ci possano lasciare gli striscioni appesi. Mi invitano a scendere per parlamentare direttamente. Tra responsabili della sicurezza dell'impresa e della banca, Digos, pompieri e consigliere comunale: un bello squadrone mi attende alle due di notte. Com'è delicata una gru, soprattutto del più alto grattacielo della più grande banca. Prende corpo una mediazione eccezionale. Noi scendiamo quasi all'alba per lasciare libera la gru ai manutentori. Loro ci lasciano stare nel cantiere per accogliere dalla base della gru i nostri sostenitori alle 11 e ci lasciano stare appesi gli striscioni fino alla fine degli interventi. Quando questo avviene, alcune ore più tardi, saranno addirittura due guardie del cantiere a portarci il megafono prestato da Paolo Vinci del movimento 5 stelle.

Il giorno dopo

Attorno alle 12 una piccola folla - tra cui finalmente cronista e fotografo della Stampa - ci accoglie. Almeno per i presenti il legame tra i tre temi No Ticket, No Tav, No grattacielo è chiaro e sensato. La Digos cataloga ma ci restituisce gli striscioni. Che sarà della identificazione di noi scalatori? Confermate le nostre valutazioni: prendono i nomi ma non ci denunciano d'ufficio, eventualmente è la proprietà che querela. La Banca ha già detto che non ci querela (stavolta...) l'impresa edile molto probabilmente neanche. Qualche ora dopo l'impresa della gru sento i muscoli un po' provati e riguardo le foto dall'alto e dal basso. Difficilmente impediremo lo stravolgimento del paesaggio di Torino. La sproporzione di mezzi e risorse tra noi e loro - i potenti della gru - è plateale. Ma questo corpo a corpo, questo presidio del cielo, sono pratiche di intervento sulla città. Oltre che prove di lotta tanto pacifica e testimoniale quanto radicale.

“Oggi so che la mia voce è la voce di ciascun siciliano sensato, di ciascun italiano di buon senso, di ciascun uomo al mondo consapevole se dico: non si può continuare così. Il vecchio mondo è finito (..). Con tutto il rispetto, l'affetto e la gratitudine per chi ha faticato e pensato prima di noi cercando di rendere più civile il mondo, migliorare la vita, non possiamo non vedere che un nuovo mondo ci occorre.” (D. Dolci, 11 marzo 1967, piazza Kalsa, Palermo).

Con queste parole, si concluse nel 1967 un lungo corteo conosciuto come “marcia della protesta e della speranza per la pace e lo sviluppo della Sicilia Occidentale”. Parteciparono, con Danilo Dolci e Lorenzo Barbera decine di centinai di contadini, famiglie e lavoratori, intellettuali come Carlo Levi, Bruno Zevi, Lucio Lombardo Radice, Ernesto Treccani. La marcia del 1967 fu il culmine di un lavoro di pianificazione dal basso che per anni aveva coinvolto pubbliche amministrazioni, sindacati, lavoratori, donne e uomini, nell'elaborazione di un “Piano di sviluppo condiviso per le Valli del Belice, del Carboj e dello Jato”.Fu un evento storico di partecipazione e mobilitazione popolare per i diritti. Una di quelle storie italiane che si devono non solo ricordare ma riprendere e portare avanti, nella loro forza e attualità.

Per questo nel 2011 un gruppo molto variegato di associazioni e persone ha deciso, insieme al laboratorio Stalker, di ripercorrere il tragitto in sei tappe a piedi da Menfi (Agrigento) a Palermo passando per Santa Margherita, Montevago, Salaparuta, Poggioreale, Camporeale, Partinico, Borgetto, S. Martino delle Scale. Una nuova camminata per attraversare il territorio, ascoltarne le istanze, tessere nuove relazioni e sviluppare un agire comune.

I temi su cui lavorare sono quelli dei beni comuni e della difesa dei diritti inalienabili della persona, come scelte etiche che mettono al centro la collettività. Oggi come ieri rimane centrale il tema dell'acqua, nel 1967 si trattava della costruzione delle dighe oggi l’impegno è contro la privatizzazione dei servizi idrici. Si affronteranno temi come l'accoglienza ai rifugiati, la tutela del paesaggio, la salute pubblica e i rischi ambientali, le soluzioni possibili per la crisi dell'agricoltura, il sostegno alla magistratura nella lotta alla mafia.

L'arrivo a Trappeto, dove Danilo Dolci iniziò negli anni ‘50 la sua azione non violenta, vuole essere un punto di inizio per rimettere al centro temi oggi fondamentali come la mobilitazione popolare, la pianificazione partecipata, la cittadinanza attiva proponendo un progetto di recupero del Borgo di Dio affinché possa diventare di nuovo un centro di ricerca e azione sulla democrazia partecipativa e l'economia solidale.

Vuole essere un'occasione nuova per tutti coloro che a diverso titolo sono impegnati in forme di resistenza per chiedersi insieme quale può essere il presente e il futuro dei diversi movimenti e per partecipare a un evento collettivo di interazione e ricerca.

DOPO MARGHERA

L'ambizione di un'alternativa

di Luca Casarini e Gianni Rinaldini

Dopo la straordinaria due giorni di Marghera, potremmo lasciarci cullare dalla soddisfazione collettiva che ha invaso i luoghi del meeting e che ha accompagnato ognuno nel viaggio di ritorno verso casa. Non è cosa da niente, di questi tempi, poter essere soddisfatti di una scommessa politica e culturale che per noi si chiama uniticontrolacrisi. Ma indugiare troppo non ci è concesso, sarebbe come premere il tasto della pausa e trasformare un film appena iniziato in una fotografia: bellissima, ma ferma. Sia chiaro, non foss'altro per tutti quelli che si sono dannati per far riuscire l'appuntamento al meglio, la prima cosa è essere contenti di com'è andata. l numero delle persone che sono state «attratte», e non cooptate o obbligate, a partecipare (perché la nostra pratica della democrazia non ha niente a che fare con le pratiche di Marchionne), è un fatto importante. La qualità di questa presenza, espressa non solo attraverso quasi duecento interventi, ma anche e soprattutto in un modo di stare insieme fondato più sulla pazienza che sulle pretese, animato dalla disponibilità e non sul pregiudizio, ha creato il «clima». È opera di tutti quello che è potuto succedere: di un modo di pensarla, prima, questa occasione di incontro, e di come di essa ci si è collettivamente appropriati poi. Se la pratica del comune è innanzitutto esemplarità e non linea o modello, va da sé che Marghera segna una tappa di riferimento fondamentale. La formalità rituale che queste cose si portano dietro, anche se uno non vuole, perché è difficile e complesso trovarsi in tante e tanti e discutere, prendere delle decisioni, essere aperti ma non vaghi, includenti e non ambigui, ha avuto come correttivo la fiducia reciproca.

Un'altra cosa che, come la pazienza, non assume mai la dignità di categoria della politica, restando confinata nel recinto delle cose che si dicono per intendere il contrario. A Marghera no. L'abbiamo tutti voluta usare, la fiducia, in dosi massicce, come precondizione per poterci parlare, di nuovo o per la prima volta. È l'intelligenza collettiva che ci dice di fare così. La situazione che stiamo vivendo impone di mettersi sul serio a costruire una storia nuova, e se non ne sentiamo l'urgenza, o se pensiamo che per farlo basti allargare le nostre biografie di partenza, allora non c'è nulla da fare: non incontreremo mai nessuno in mezzo alla folla, e continueremo a chiederci perché la gente non capisce e le cose non cambino mai. Abbiamo, dopo Marghera, iniziato un percorso di accumulo che deve diventare amplissimo: sensazioni, contatti, scambi, confronti, questioni, obiettivi, linguaggi. Tutto ciò che concorre a costruire un sentire condiviso dove il rapporto tra singolarità e collettivo sia non solo possibile, ma visibile. Come diavolo dovrebbe fare ad esserlo? Non c'è solo il rifiuto condiviso della privatizzazione, ma anche un'evoluzione che arricchisce il concetto di pubblico: il discorso che abbiamo cominciato è immediatamente rivolto dentro di noi, alla soggettività che contribuisce a formarlo, e fuori di noi, a una società intera.

Ha l'ambizione di essere una proposta di alternativa. A Marchionne e alla Gelmini, alla privatizzazione dell'acqua e al nucleare. Alle ingiustizie che costruiscono, tragedia dopo tragedia, la crisi e la rendono, nel suo incedere senza uscita, insopportabile. Ma anche un'alternativa a noi stessi, a come abbiamo fatto e pensato fino ad ora, a come abbiamo subito e ci siamo arresi. Sta in questo il grande interrogativo che ci siamo posti sulla democrazia, che ha attraversato ogni riflessione, ogni dibattito. E sulla politica, che come la crisi, pretenderebbe di risolvere i problemi riproponendo i meccanismi che li hanno generati, invece che tentare di superarli.

La pratica di un comune sociale che vive dentro le modificazioni epocali del lavoro, del suo divenire vita messa al lavoro, del suo essere espropriato di ogni diritto e ogni garanzia, e che vuole definire un comune politico capace di dire di no come a Mirafiori e di dire di sì come per l'acqua bene comune, di tracciare degli obiettivi che disegnino la traiettoria di un'alternativa al capitalismo della crisi e dello sfruttamento, è anche, un'alternativa al modo di rapportarci con la rappresentanza e la sua crisi. Senza delegare niente a nessuno, semplicemente perché la posta in gioco è più alta e più seria. La crisi di questo paese, la delegittimazione delle istituzioni, la crisi della politica, devono diventare l'occasione, anche qui, per costruire una nuova storia, dove il protagonismo sociale delle lotte non sia affidato a chi lo dilapida in cose già viste e già sconfitte.

Ci siamo lasciati con appuntamenti importanti: primo fra tutti il 28 gennaio, a fianco della Fiom. Non diamo per scontato che tutto sia semplice, e inventiamoci, ognuno e tutti insieme, come far sì che ogni piazza, ogni presenza a sostegno di questa battaglia, diventi anche un contributo alla costruzione di un percorso includente. Per far questo ci vuole l'umiltà di chi non ha nulla da insegnare e molto da offrire, di chi ha chiaro che parlare e farsi capire da decine di migliaia di persone in carne e ossa, non è la stessa cosa che discutere tra amici di vecchia data. Ma siamo certi che con questo atteggiamento, anche le fabbriche diverranno luoghi dove gli studenti andranno a fare assemblee, e all'università i delegati operai non saranno come gli ospiti stranieri.

Siamo convinti che di riconversione produttiva in senso ecologico cominceremo a parlare con chi lavora dentro le industrie che inquinano, come di mobilità sostenibile con gli operai dell'auto. Ma niente è facile o già fatto, e tutto dipende da noi, sia che siamo dentro la Fiom o in un centro sociale, sia che militiamo in un'associazione ambientalista o contro il razzismo. Ecco, Marghera è già passata, non abbiamo tempo. Il film riprende e nessuno ha ancora visto il finale. Dovremo scriverlo insieme.

MARGHERA

Il 28 gennaio inizia il viaggio contro la crisi

di Loris Campetti

La cosa più grave di questa stagione non è tanto la crisi globale, di sistema, quanto piuttosto la ricetta scelta dai poteri forti mondiali e dai governi per uscirne fuori. I criteri, e le persone fisiche che guidano il processo di redistribuzione dei poteri, delle regole e della ricchezza sono gli stessi, neoliberisti, che l'hanno provocata. C'è un solo pensiero - per semplicità lo chiamiamo pensiero unico - dietro l'operazione autoritaria che cancella i diritti sociali, del lavoro e di cittadinanza e al tempo stesso riprone un modello di sviluppo energivoro diventato incompatibile con l'ambiente e con la democrazia. Un modello che inquina il territorio (fino a militarizzarlo con il nucleare, a cementificarlo con Tav e ponti improbali, ad armarlo con le basi americane) e l'ambiente con il suo percolato di veleni e di mafie.

Se fosse così, e se la percezione di questo disastro fosse diffusa, sarebbe normale che alla preparazione e alla realizzazione di uno sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici a cui si vuole cancellare dignità e soggettività, partecipassero tutti i soggetti e le figure sociali colpite dalla crisi e schiaffeggiate dalle ricette autoritarie neoliberiste. Qualcosa di simile sta realmente avvenendo intorno all'appuntamento di venerdì della Fiom. Ma non è normale bensì straordinario, quasi rivoluzionario, che la Fiom partecipi alle assemblee nelle università con studenti e precari, o che indìca manifestazioni insieme ai comitati che si battono contro le discariche, o propongono diversi consumi, diversa mobilità e la salvaguardia dei beni comuni. Altrettanto straordinario è che una città, Torino o almeno la sua parte migliore, torni in sintonia con i suoi operai e prepari in grande il ringraziamento ai carrozzieri di Mirafiori che con i loro no - e persino con molti sì costretti - hanno difeso la dignità di tutti dai diktat di Marchionne. O che gli studenti romani della Sapienza si organizzino per andare a Cassino a manifestare insieme agli operai della Fiat in sciopero, o quelli partenopei a Pomigliano, o quelli siciliani a Termini Imerese. È straordinario che in tanti centri sociali, da Jesi a Palermo al Nordest, si riuniscano in affollatissime assemblee le vittime della crisi per far crescere la partecipazione alle manifestazioni della Fiom in ogni regione italiana, in ogni luogo della crisi produttiva o democratica.

Certo, non è la prima volta che gli studenti vanno a volantinare davanti alle fabbriche, o che gli operai e i sindacalisti intervengono nelle scuole e nelle università. Ma è la prima volta che questo avviene non per pura solidarietà, sentimento peraltro nobile e da valorizzare come ha precisato Maurizio Landini a Marghera, ma per condizione sociale. La distruzione del lavoro, dei diritti, del sapere, della cultura, della libera informazione, la precarizzazione di massa che impedisce a più di una generazione ormai di progettare il proprio futuro, se da un lato tenta di scatenare una guerra tra poveri, tra generi, tra lavoratori dei nord e dei sud dei mondo, dall'altro lato rende più simili figure diverse colpite allo stesso modo.

Questo piccolo miracolo sostenuto dall'esperienza di Uniti contro la crisi è solo l'inizio di un cammino che potrebbe essere lungo, sicuramente difficile e contraddittorio. A renderlo difficile è il suo pregio: non punta sulla sommatoria di culture esperienze e sigle diverse, non è l'ennesimo, stucchevole intergruppi. Come dicono oggi sul «manifesto» le due persone che più hanno lavorato alla costruzione di questo «caravanserraglio» (luogo di accoglienza di chi migra e dunque cammina), bisogna costruire una cultura, dei linguaggi e delle pratiche nuove comuni. Buon viaggio e buon 28 gennaio.

FRONTE DEL PORTO

Ora Marghera progetta futuro

di Rocco Di Michele

Il «modello Marchionne» mette in movimento anticorpi sociali imprevisti. Prende il via un percorso di unificazione delle lotte: metalmeccanici, centri sociali, No Tav, No dal Molin, precari, ambientalisti... Perché i beni sono «comuni»

Tirare le somme del meeting di Marghera può esser semplice o difficilissimo. Nel primo caso si rischia di perdere il dettaglio, nel secondo il dato unitario. Fortissimo.

Mettere insieme i metalmeccanici della Fiom, i centri sociali, gli abitanti de L'Aquila, i No Dal Molin, i No Tav, gli ambientalisti di lungo corso e i «guerrieri di Chiaiano», era una scommessa quasi azzardata. Ma un passo deciso in avanti, sulla strada del «conoscersi reciprocamente» - anche lasciandosi alle spalle pezzi di «identità», evidentemente non decisivi - è stato fatto. Due giorni di discussione hanno messo in primo piano i molti «no» che ogni soggetto sociale aveva pronunciato nella sua lotta, ricavandone però il senso di diversi «sì» che ora diventano quasi dei punti di programma.

Partendo per forza di cose dalla Fiat e dal «modello Mirafiori», tutti hanno capito che prima di poter dire qualcosa in positivo bisogna opporsi a un modello di produzione che cerca di imporsi come modello di società, di stampo apertamente autoritario. Quel «no», insomma, è «costituente». Detto in altro modo, sulla linea di demarcazione tracciata da Marchionne non c'è spazio per gli equilibrismi: si accetta in blocco o la si rifiuta. «Chi sta con lui è contro di noi», ormai è senso comune.

Quasi l'intera politica italiana non ha perciò più nulla da dire a questo popolo che fa i conti ogni giorno con la crisi: «il nostro è un percorso che non delega più nulla alla politica, vogliamo costruire un'alternativa sociale». E un progetto che sappia fare i conti con la realtà brutale di fronte a tutti. «La risposta del capitale alla crisi è un grande rilancio dello stesso modello che ha portato alla crisi», sintetizza Gianni Rinaldini. Una strada che prevede aumento della disoccupazione e - non è un paradosso - aumento dei carichi di lavoro per chi conserva il posto; generalizzazione della precarietà (a livello europeo, «non è diverso da quel che succede nell'Italia di Berlusconi»), superamento dei diritti universali con operazioni corporative (gli asili o la sanità aziendale, il collocamento privato, scuola e università a misura d'azienda, enti bilaterali impresa-sindacato che gestiscono forme di welfare). Un incubo.

Proprio sul welfare la discussione è stata complessa. Tutti d'accordo che occorre avere l'obiettivo del «reddito di cittadinanza», ma «attenti a dire che va sostituito il welfare lavorista con uno tutto diverso, perché questo lo dicono anche Boeri e Ichino». Argomento direttamente connesso alla lotta alla precarietà e che implica una «politica fiscale», non agevole in un paese dove «i padroni» le tasse quasi non le pagano. Un esempio in positivo viene dall'Ilva di Taranto, dove gli operai «stabili» si sono battuti per l'assunzione degli interinali in scadenza.

Più semplice individuare i «sì» partendo dai «beni comuni», categoria che «ha fatto accendere una lampadina nel cervello di tutti noi». Beni che non sono «cose», tantomeno merci; ma ciò che viene individuato come tale nella «pratica» dei movimenti popolari. L'acqua, certamente, su cui ci sarà necessità di organizzare la partecipazione al referendum «accompagnando la gente a votare». Ma anche il ciclo di rifiuti, che ha scosso un Mezzogiorno dalla «subalternità», senza però innescare derive «leghiste» all'incontrario. Beni che hanno e favoriscono un «linguaggio comune», permettendo di aggregare un mare di iniziative altrimenti diverse, ma che bisogna sapere spiegare in modo comprensibile «alla zia Titina». Beni che sfuggono alla trappola della «legalità formale» (a là Repubblica, insomma), «troppo spesso complice del saccheggio» delle risorse o dell'ambiente. Beni che spingono alla partecipazione perché disegna un modello decentrato, mentre - col nucleare, per esempio - il potere cerca la centralizzazione e la militarizzazione.

La formula non è nuova («agire locale, pensare globale»); è nuova la concretezza con cui viene messa in pratica. Dai beni comuni a «contro la proprietà privata» il passo è davvero breve, e si incarna in due nodi: «giustizia sostanziale» e «democrazia». Ma siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini, le «organizzazioni politiche ed istituzionali» di questo percorso sono necessariamente diverse da sindacati e partiti per come li abbiamo conosciuti finora.

Le «cose da fare» sono un collante e un discrimine. C'è ovviamente la partecipazione allo sciopero dei metalmeccanici questo venerdì (giovedì per l'Emilia Romagna). Subito dopo la battaglia referendaria sull'acqua, una legge di iniziativa popolare per L'Aquila; e poi un momento specifico per affrontare i problemi dei migranti, l'idea di un seminario internazionale («euro-mediterraneo, visto quel che che sta montando qui vicino a noi»). Con l'orizzonte a Genova, in luglio, quando in tre diverse giornate - 22, 23 e 24 - «oltre alle manifestazioni, dovremo organizzare altri momenti di approfondimento come questo». Insieme ai tanti altri soggetti che, nel 2001, avevano dato vita a una stagione intensa ma purtroppo breve. Stavolta, però, per costruire una continuità ambiziosa: verso un nuovo modello di sviluppo sociale.

Alberto Asor Rosa, Disastro Italia, ma l’alternativa è possibile

Piero Bevilacqua, Saperi e politica per il bene comune del territorio

Paolo Baldeschi, L'infrastruttura della democrazia partecipata

Pierluigi Sullo, Autonomie locali nella corrente

Roberto Barocci, Poteri forti e «nemici occasionali»

Disastro Italia, ma l'alternativa è possibile

di Alberto Asor Rosa



Se un semplice articolo è in grado di scatenare una risposta così ricca e articolata, vuol dire che i temi in esso sollevati dovevano avere qualche rilevanza (desidero ricordare che, prima di queste quattro risposte, c'erano state quelle di Enzo Scandurra il 20 novembre, e di Paolo Berdini, il 21 novembre, da rileggere insieme con queste; e prima ancora c'erano stati gli interventi di Guido Viale, ai quali mi richiamo nel mio articolo, che anch'essi andrebbero riletti all'interno della medesima sequenza logica e politica). È troppo presto per tirare conclusioni, e anche un bilancio provvisorio sarebbe prematuro. Mi preme invece fissare un paio di punti, affinché il dibattito vada avanti, ma insieme con esso anche un'agenda preparatoria.

1. Tutti sono d'accordo nel segnalare la profonda novità partecipativa e democratica rappresentata in tutta Italia (ripeto: in tutta Italia) dall'esperienza dei Comitati. È bello e importante quel che scrive al proposito Pierluigi Sullo. Affinché le lotte dei Comitati non restino isolate o incomunicabili fra loro, la Rete dei Comitati per la difesa del territorio propone di indire nei prossimi mesi una Conferenza nazionale dei Comitati, con l'obiettivo eventuale, oltre all'interesse estremo di un confronto più ravvicinato e diretto, di mettere in piedi una Rete di Reti. Ci è del tutto evidente al tempo stesso che tale obiettivo potrà essere il frutto solo di una concertazione e preparazione comuni, alle quali ci dichiariamo fin d'ora totalmente disponibili.

2. Le analisi presentate in questa occasione (Scandurra, Berdini, Bevilacqua, Baldeschi) confermano la gravità della situazione ambientale italiana, più esattamente gravità estrema, che può portare al disastro vero e proprio; e al tempo stesso confermano che esistono ingenti forze intellettuali in grado di supportare e integrare efficacemente una risposta che nasca dal basso e si ramifichi ampiamente e con caratteri unitari sull'intero territorio nazionale. A convogliare insieme la ricca esperienza intellettuale dei Comitati e quella degli specialismi «militanti» dovrebbe servire il Convegno nazionale sul «Disastro Italia», che in questi anni stiamo vivendo. Ma, con un occhio ben aperto sul disastro generale, intendiamo sollevare ovunque e con chiunque i temi e gli obiettivi propri del «disastro ecologico e ambientale», ben persuasi che senza di questi neanche il più generale «Disastro Italia» potrà essere opportunamente affrontato e risolto.

Se c'è accordo su questi due punti, non c'è che da mettersi seduti allo stesso tavolo e parlarne. I soggetti ci sono, e quanto mai autorevoli, sia dal punto di vista della presenza e dell'azione sul territorio, sia dal punto di vista delle competenze dispiegate. Da questo punto di vista mi sembra un po' sfalsato l'intervento di Roberto Barocci. Se le cose stessero come dice lui, sarebbe inutile il nostro agitarsi: avrebbero già vinto gli altri. Invece non è vero: bisogna picchiare sodo perché le cose cambino. Ma le cose possono cambiare, e forse stanno già cambiando.

RISORGIMENTO VERDE

Saperi e politica per il bene comune del territorio

di Piero Bevilacqua



Un nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative, centralistiche per lo più (ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare la salute degli abitanti.

Di queste centinaia di esperienze - che qui non si possono enumerare - credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo - da quello contro la centrale a carbone di Civitavecchia alla «comunità» No-Tav della Val di Susa, per intenderci - il movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare politica. Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una prolungata resistenza. La seconda novità consiste nel ruolo che competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le minacce ambientali ed anche, spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili.

Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati, rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro. A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano.

Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi, possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da parte delle popolazioni. , la definiva Cattaneo, ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi che ci attendono nei prossimi anni. Com'è noto, stagioni di grande caldo e siccità e altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione.

Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa l'Italia e continua anche in Sicilia. Come ben sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le attività produttive, le infrastrutture, i servizi.

Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne - per creare una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e frane di eccezionale gravità. Si è operato cioè perché la ricchezza accumulata in decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il presente e per l'avvenire dei nostri figli.

Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde, capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni, sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti.

Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità agricola (soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi ecologiamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività produttive e uso del territorio. I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. E ovviamente un diverso e meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille «tesori sconosciuti» del nostro Appennino.

Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie. Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale quanto nazionale ed europeo. È ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista, finita nell'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per per la generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua «libertà» nel giro di un ventennio non avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale, di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia.

Occorrono nuove leggi, imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri dominanti.

L’articolo di Piero Bevilacqua è stato postato in eddyburg.it nelle “Opinioni” il 25 novembre 2010



STATUTI E MOVIMENTI

L'infrastruttura della democrazia partecipata

di Paolo Baldeschi



Ovunque in Italia, in molteplici circostanze urbane e territoriali, per motivi simili, fioriscono e sono attivi comitati, a volte effimeri, a volte consolidati localmente come quasi mini-partiti politici. Questa Italia migliore - perché più altruista - esprime quanto esiste nel nostro paese in tema di democrazia partecipata. Dall'altra parte, da parte delle forze politiche, tutte, stanno risposte negative, l'indifferenza o l'ostilità, un comportamento che deriva prima di tutto dall'interesse di una classe ad auto perpetuarsi.

Veniamo alla parte propositiva. È essenziale l'idea che il passaggio sia considerato «bene comune», già lo è secondo la Costituzione. Per questo, una delle proposte cardine della Rete dei comitati per la difesa del territorio è di amministrare questo bene comune sulla base di una carta statutaria, uno «statuto», appunto, fatto delle regole di uso e trasformazione del paesaggio e dei «paesaggi».

Statuto del territorio a livello regionale, perciò, da articolare in tanti statuti locali, a livello di «ambiti», distinti e sovraordinati ai piani, da cui discendano politiche urbanistiche comunali coerenti. Questa potrebbe essere una proposta unificante per la costellazione neo-ambientalista. Una proposta da praticare in forme di democrazia diretta - un esempio in Toscana è lo statuto partecipato di Montespertoli coordinato da Alberto Magnaghi - e da adattare a seconda delle realtà regionali, delle leggi, della qualità delle rappresentanze politiche.

Statuti e movimenti, termini apparentemente contraddittori, ma in realtà i primi possono prefigurare lo sfondo politico, unificante dei secondi, non fosse altro per un conseguente spostamento di potere decisionale verso il basso. Tenendo conto che i secondi, i comitati, ma anche movimenti, associazioni, costituiscono nel complesso una cittadinanza politicamente delusa, propensa ad astenersi dal voto perché non rappresenta se non combattuta dalle forze politiche di destra e di sinistra.

Ma le forze politiche perché sono così sorde? Alla base - come sottolinea Asor Rosa - c'è un capitalismo oligopolistico, colluso con il potere politico, che in Italia si esprime nei grandi gruppi di costruzione e si sostanzia negli appalti, nei sub appalti, nelle ditte mafiose, nelle amministrazioni conniventi, nelle valutazioni ambientali fasulle, nei mancati controlli ... tutte cose note, a su cui è necessario insistere. E alla base della base ci sono le banche che finanziano le grandi opere, le Tav, le autostrade, le ferrovie, i trafori; tanto più costano meglio è, più corrono interessi: rendite sicure perché tutte le perdite sono a carico dello Stato. Business che deve andare avanti, mal che vada a spesa del contribuente.

Ma allora, ci si può chiedere, di fronte a questo moloch cosa possono fare i comitati? In realtà quello che possono fare non è poco, prima di tutto resistere come fece il popolo vietnamita, che conosceva il suo territorio, di fronte allo strapotere militare americano. Poi, come dice Asor Rosa «allargare attorno a sé il consenso popolare». Aggiungo, da professore universitario, svegliando la coscienza dei giovani, non con la propaganda ma mostrando la bellezza (nel senso più pieno del termine), la profondità identitaria del paesaggio, l'unico vero bene non esclusivo, non riservato, aperto all'esperienza di tutti, bene comune appunto.

Tuttavia non si possono omettere i punti deboli della proposta federativa dei comitati. Il fatto è che qualsiasi federazione, qualsiasi coordinamento con finalità in qualche modo politiche richiede un'infrastruttura. E questa infrastruttura suppone ruoli, organizzazione, risorse finanziarie, tutto ciò che in realtà i comitati non possiedono e che è, oltretutto, lontano dal loro modo di essere. Il volontarismo è una fiammata, non un fuoco continuo. Si capisce perciò la decisione (nel convegno tenuto a settembre a Sarzana) del movimento «no consumo di territorio» di rimanere allo stato di movimento - una decisione accompagnata, però, dalla dichiarazione della stanchezza per un lavoro volontario alla lunga insostenibile.

Qui, a mio avviso, potrebbero entrare in gioco le amministrazioni di sinistra, se sono tali non solo a parole e se capiscono che dare ascolto e supporto a movimenti e comitati è l'unica o quasi chance di rinnovamento. Iniziando da fatti semplici: rendere gli atti urbanistici trasparenti e accessibili, in particolare le «conferenze di servizi» dove si consumano i peggiori crimini contro il territorio, sostenere processi partecipativi non istituzionali, rivedere le leggi e i piani - la Rete toscana ha fatto molte proposte circostanziate in proposito, come d'altronde le associazioni ambientaliste tradizionali. In Toscana, l'assessore al territorio, Anna Marson, si sta muovendo in questa direzione e ora la questione fondamentale è se la giunta regionale le darà quel supporto politico che nasce da una condivisione di valori.

Su un piano più generale ognuno può fare le considerazioni che crede. Certo sarebbe interessante se almeno un partito di sinistra non marginale fosse capace di rappresentare questa cittadinanza non rappresentata - diciamo il 10% degli elettori, ma forse sottostimo. Non per tatticismo o per opportunità locale, ma per reale adesione al principio che paesaggio e territorio sono beni comuni. Quindi con un conseguente cambiamento di programmi e di uomini.



DAL BASSO

Autonomie locali nella corrente

di Pierluigi Sullo



La frase chiave dell'articolo sul neoambientalismo italiano è: «... i comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana». Finalmente si parla di politica. Già, perché quel che ostinatamente, a sinistra, si connota con il termine di «politica», appartiene sostanzialmente a un altro circuito, separato e superiore a quello dell'azione reale dei cittadini nel paese reale: è il circuito, o circo, della «democrazia dello spettacolo», come dice Mario Pezzella. O, per dirla con Alberto Magnaghi (in Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, importante saggio ripubblicato dopo dieci anni in una versione aggiornata da Bollati Boringhieri), «l'agorà e la politica si allontanano vertiginosamente dalla vita quotidiana, agiscono in un iperspazio globalizzato sempre più inaccessibile, fortificato, un altrove in cui non sono più riconoscibili le forme del comando sul lavoro, le decisioni sui consumi, sulle informazioni, sulle forme riproduttive della vita». A questo comando separato, opaco, corrisponde la politica-marketing affetta, scrive Asor Rosa, da «pressoché totale sordità» nei confronti delle istanze dei cittadini organizzati e, aggiungerei, pressoché totale complicità nei confronti dei «poteri forti dell'economia». Ed è da questo fossato tra vita quotidiana e democrazia dello spettacolo che nasce la resistenza capillare, tenace, paziente (che sa cioè costruire se stessa scartando dai tempi nevrotici della politica politicante) e sapiente (proprio nel senso indicato da Asor Rosa, ossia la raccolta e la creazione di una intellettualità del bene comune) di cittadini, di comunità, che si organizzano e che infine - cito sempre l'articolo di Asor Rosa - decidono di «crescere dal basso» per creare «una nuova cultura e una nuova politica ».

Si può non essere d'accordo con Magnaghi, quando nel suo libro scrive che «il conflitto, nel contesto dell'Occidente postfordista, riguarda solo parzialmente la relazione tra capitale e lavoro, incentrandosi maggiormente sulla contraddizione tra le forme crescenti di eterodirezione della vita e istanze locali di autonomia e autogoverno del proprio futuro» (la «coscienza di luogo», appunto, invece che la «coscienza di classe»), ma non si può ormai non vedere, come suggerisce Asor Rosa, che quella del «salto di scala», cioè della connessione delle reti di comitati in una «rete di reti», «potrebbe essere una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme alla salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia». Lo dico, questo, perché anche l'alleanza tra diverse aggregazioni sociali - dalla Fiom agli studenti, ai centri sociali - nata dopo la manifestazione del 16 ottobre, che giustamente mette il fuoco sulla democrazia e dignità del lavoro, sul precariato e sulla spesa sociale, dovrebbe prestare attenzione a quest'altro, parallelo fenomeno di ri-democratizzazione dal basso che si basa sulla tutela del bene comune. Una alchimia - complicata - tra queste correnti potrebbe dare ancor più sostanza alla ricerca di una nuova politica.

A Grottammare, nelle Marche, il 6 novembre, un paio di centinaia di persone provenienti da molte regioni italiane partecipava al secondo incontro della rete «Democrazia chilometro zero», nata un anno fa alle Piagge di Firenze. Persone e comitati per i quali - detto in estrema sintesi - un «cambiamento dal basso» - come auspicano Asor Rosa e Guido Viale, che per altro era a Grottammare - comporti prima di tutto non solo ristabilire, ma creare ex novo un modo di restaurare la sovranità dei cittadini sui loro luoghi. Infatti, all'incontro hanno partecipato persone che questo tentativo hanno cominciato a farlo creando liste di cittadinanza (le chiamiamo così per non confonderle con le «liste civiche»), fenomeno in forte crescita e che ha già fatto le sue prove positive: a Firenze, ad esempio, nella Vicenza che resiste alla base militare, in Valle di Susa e così via. Non che la via elettorale sia la sola possibile: esistono molte altre forme di pressione, o di decisione, extra-istituzionali, forum e movimenti, «parlamenti dei cittadini» paralleli, ecc. Quel che accomuna tutte queste forme è la percezione di come una democrazia effettiva la si possa ricreare nei luoghi dove i cittadini vivono, dove possono incontrarsi, conoscersi, praticare la democrazia del consenso invece che quella delle maggioranze: questi luoghi sono il comune, il municipio, la comunità. Insisto a scanso di equivoci: la democrazia cittadina locale forse non è sufficiente, esistono i «salti di scala» necessari e bisogna trovare il modo di confliggere con l'«iperspazio» di cui parla Magnaghi (ciò che il movimento per l'acqua sta facendo efficacemente, ad esempio), ma di sicuro è indispensabile, è il fondamento su cui tutto il resto - che si scoprirà via via - deve poter basarsi.

Ad ogni modo, credo di poter proporre alla rete Democrazia chilometro zero di partecipare alla costruzione della «rete di reti» di cui parla Asor Rosa (oltre tutto, i confini di una rete con l'altra sono assai mobili e molte persone e gruppi partecipano a diverse esperienze di questo tipo). Mi azzarderei anche di suggerire che ai due incontri che il Consiglio scientifico della Rete dei comitati ha deciso - una Conferenza nazionale dei comitati e un convegno sul «disastro Italia» - si potrebbero aggiungere o mischiare quelli che a Grottammare abbiamo individuato: seminari sul tema della democrazia, dei beni comuni, della protezione sociale, e un convegno sul municipalismo e il federalismo nella storia italiana. Quest'ultimo per far notare, nell'anniversario dell'unità italiana, come dai liberi comuni del Medioevo a Pisacane e Cattaneo, al Gramsci della «repubblica soviettista federativa» delle Tesi di Lione, sia ben esistita nella storia italiana una corrente che intendeva l'autonomia locale come sostanza della democrazia: proprio l'opposto di quel che la Lega va facendo.

CONFLITTI APERTI

Poteri forti e «nemici occasionali»

di Roberto Barocci

Forum Ambientalista Toscano / Coordinamento dei comitati della provincia di Grosseto

Collaboro volentieri con Asor Rosa nell'analisi dei problemi locali e nelle iniziative della Rete dei Comitati sul territorio toscano, perché ritengo positivo il ruolo svolto dalla Rete. Tuttavia, dopo aver segnalato in tre punti gli ostacoli sempre presenti nelle attività del movimento ambientalista, egli propone le modalità per superare i conflitti.

Sintetizzo gli ostacoli indicati da Asor Rosa: il conflitto insanabile con i poteri forti; una opinione pubblica distratta; la sordità di tutte le forze politiche di governo, sia quello centrale che quelli locali. Su questi conflitti siamo tutti d'accordo. Ma mentre il primo viene ritenuto da Asor Rosa naturale per coloro che vogliono difendere i beni comuni, gli altri due protagonisti dei conflitti vengono ritenuti «nemici occasionali» del movimento ambientalista.

D'accordo per quel che riguarda l'opinione pubblica, ma non per le forze politiche ritenute «recuperabili» in questo modo: «Allargando intorno a sé (cioè intorno al movimento dei Comitati) il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura». L'esperienza concreta di questi ultimi venti anni ci ha dimostrato alcuni fatti, che elenco e che chiedo di valutare:

1- i poteri forti sono sempre più in difficoltà ad estrarre profitti in Italia dal lavoro produttivo di manufatti. Se da una parte stanno delocalizzando le industrie di manufatti, in Italia stanno sempre più concertando con i governi locali e nazionali i modi per estrarre rendite parassitarie dal reddito complessivo delle famiglie. Hanno ottenuto dai partiti, di centro destra e di centro sinistra, la gestione, in termini monopolistici, di servizi a domanda rigida alle famiglie (acqua, rifiuti, trasporti, viabilità, energia...), realizzando un accordo politico nazionale, spartitorio a livello regionale, che ha già prodotto dalla fine degli anni '90 forti cambiamenti strutturali.

2- Si sono nel paese strutturate molte decine di società miste di gestione di tali servizi «pubblici», che stanno distribuendo una parte delle rendite percepite a molte centinaia di uomini e donne in carriera politica nei partiti di governo locale, sotto forma di lauti stipendi nei consigli di amministrazione di tali società e, in modo più penetrante nella società, di stipendi garantiti ad una moltitudine di giovani «clienti politici», collocati in uffici di progettazione tecnica o di amministrazione, costituitisi in Spa di Servizio alle pubbliche amministrazioni, sempre più prive di personale e di trasferimenti finanziari dallo Stato.

3- I gruppi dirigenti nazionali dei partiti nel frattempo hanno cambiato la loro pratica, garantendo la carriera politica solo ai fedeli, scelti per cooptazione dai vertici nazionali e premiati con gli strumenti sopra rammentati. Non è un caso l'eliminazione concordata delle preferenze alle elezioni, la scelta del candidato unico nei collegi elettorali del maggioritario, la diffidenza verso le primarie ecc. ecc.

Questi tre fenomeni hanno strutturato nel paese una realtà materiale e un legame molto forte, organico, tra i partiti e il padronato finanziario. Se questi fenomeni non vengono visti, denunciati e destrutturati, quindi combattuti senza compromessi con chi li vuole invece alimentare, allora ci si può anche illudere di poter condizionare, cammin facendo, le scelte di questi partiti, di cambiarne la natura, ma credo che si rimanga nel mondo delle speranze e fuori dalla storia.

C'è una riflessione preliminare da fare, a proposito delle giornate di relazioni e discussioni che si sono svolte a Teano tra il 23 e il 26 ottobre. E non riguarda il loro contenuto, ma quanto è avvenuto all'esterno e dopo il loro svolgimento. Dell'assenza della tv sarebbe francamente ingenuo lamentarsi, e non lo farò. Ma il comportamento della grande stampa democratica merita almeno un cenno, perché illustra un fenomeno, certo non nuovo, ma sempre più marcato e grave. Di cose anche culturalmente e politicamente importanti che avvengono nel Paese si dà notizia al loro annunzio, quando esse appaiono nuove, vendibili come prodotti freschi al pubblico dei lettori-consumatori. Dopo si tace, perché la merce-notizia è diventata già obsoleta, come ogni prodotto del capitalismo vorace del nostro tempo. E soprattutto non si dà conto dei contenuti. Credo che cada ormai sotto l'esperienza di molti un fatto sempre più generalizzato: non ci sono giornalisti a dar conto di iniziative culturali o politiche se non vi sono presenti grandi leader o vedette di una qualche notorietà, che consentano di rendere appetibile la notizia, farla apparire come un leggero gossip. Laddove c'è puzza di serietà, i giornalisti non vengono inviati. Col risultato che gli organi di stampa che lottano contro un'Italia che si va disfacendo, contribuiscono all'opera dando conto solo delle mosse dei leader, dei loro maneggi e litigi. L'immagine dominante dell'Italia, così, è quella che parla attraverso il politichese delle piccole e frantumate oligarchie di quel che resta dei partiti.

A Teano, una delle esperienze più originali e più singolari sono state le testimonianze dei sindaci dei piccoli comuni. Un primo dato sorprendente: la loro giovane età. Ragazze e ragazzi, già sindaci. Nei loro comuni, costoro hanno avviato, spesso con successo, importanti attività: dalla raccolta differenziata a pratiche di accoglienza degli extracomunitari, dalla difesa dell'acqua pubblica a politiche attive di difesa del territorio e dell'ambiente. Un'Italia della buona amministrazione, del rispetto della legalità e del bene comune è sfilata sotto i nostri occhi, avanguardia di una nuova cultura politica che i media non sanno intercettare. Erano sindaci del Nord e del Sud, ma anche del Centro. E sottolineo il Centro non solo per riprendere una saggia riflessione fatta da Asor Rosa sulle pagine di questo giornale. Ma anche per continuare a mettere in discussione questa divaricazione dualistica dell'Italia, fondata sull'economicismo del Pil e su una stantìa retorica novecentesca. L'Italia è molto più intrecciata e composita di quanto possa dire questa scolastica contrapposizione. Nord e Sud, nella misera esemplificazione mediatica dei nostri giorni, sono ormai Bianco e Nero, Progresso e Arretratezza, Vizio e Virtù Ma è davvero così? Se rimaniamo a questa schematica geografia dei valori, dovremmo chiederci: quanto Sud c'è al Nord? Non è meridionale la pratica di tante industrie del Nord di affidare alla criminalità i rifiuti tossici destinati alle campagne della Campania o della Calabria? Non è meridionale la cementificazione e la distruzione del territorio del Nordest, oggi ampiamente verificata dal suo sprofondamento nell'acqua dopo alcuni giorni di pioggia? E non è nordica la raccolta differenziata dei rifiuti messa in atto in tanti comuni della Campania o della Puglia, o il coraggio dei giovani meridionali nel manifestare in massa contro la criminalità organizzata, la dignità umana e civile degli operai di Pomigliano, che hanno espresso il 37% dei no al referendum voluto dalla Fiat?

La permanenza di una visione dualistica non solo cattura poco della realtà effettuale del nostro Paese, ma comincia a diventare pericolosa. Chi non si è accorto di ciò che sta montando oggi nel Sud della penisola? Un tardivo e recriminatorio leghismo meridionale si sta diffondendo in molti ambiti della società - destinato a creare nuove lacerazioni - per invocare antistoriche autonomie, per consegnare pezzi di società a nuove oligarchie politiche che hanno perduto il loro ruolo nazionale.

A Teano è stata elaborata e sottoscritta una Carta di principi irrinunciabili. Non va gettata nel dimenticatoio, ma fatta valere come un documento vivo, attorno a cui raccordare le forze sociali e politiche realmente preoccupate della tenuta della compagine nazionale e al tempo stesso impegnate a ricucire la tela frantumata della sinistra italiana. Questo doppio registro può fare anche delle ristrette forze che hanno organizzato l'iniziativa nel comune campano un punto di riferimento importante, portatore di valori politici e civili di ampia risonanza. Esso può diventare un centro promotore di iniziative unitarie, che concorrano a due fini distinti ma fortemente coincidenti. Occorre ricordare che la frantumazione della sinistra è anche una lacerazione dell'Italia? Che la difesa dell'unità del Paese non è una nostalgia patriottarda, né una difesa del centralismo, ma la condizione di una visione classista dei problemi del nostro tempo? Che lo Stato-nazione è ancora una trincea importante per combattere in Europa e nello scenario mondiale?

Ma ciò che nelle dirigenze dei partiti è litigiosità, divisione, rissosità incomponibile, nei movimenti, nelle vertenze locali, nei mille comitati che pullulano nel Paese è solo scollegamento, assenza di comunicazione, isolamento. Sui problemi reali le forze attive nei vari territori sono largamente concordi. Si pensi alla questione dell'acqua pubblica, al lavoro precario, all'aggressione al territorio e all'ambiente, al cibo «buono, pulito e giusto», come dice Petrini. Occorre perciò un grande sforzo di raccordo nazionale su questi singoli temi. Inventare momenti di unificazione su questioni determinate in cui confluiscano tutte le esperienze e le competenze maturate a livello locale. È ora che questa Italia nuova in incubazione appaia nella sua unitarietà, si imponga come nuovo progetto di società all'immaginario collettivo degli italiani. È ora che gli attivisti e i leader formatisi nelle lotte, numerose e talora sconosciute, di questi ultimi anni, emergano come nuovi gruppi dirigenti, locali e nazionali, portatori di visioni generali. L'esperienza di Teano e la sua Carta dovrebbero mettersi al servizio di questo processo.

http://www.amigi.org

Per almeno dieci anni, a partire dagli anni '90, la Lega e il suo sogno di una Padania libera sono stati liquidati come bizzarri. Oggi,il partito di Umberto Bossi è l'unico in Italia che sta uscendo fuori bene dal caos politico» così commenta,sull'ultimo numero, il prestigioso settimanale britannico The Economist. Molti altri analisti stranieri si stanno interrogando su dove andrà a finire il nostro paese e si moltiplicano le ipotesi di secessione “morbida”, di due o tre Stati Confederati sul modello della Svizzera.

Molti ignorano il fatto che, come ha scritto più volte su questo giornale Silvio Gambino,le Confederazioni o gli Stati federatisi sono formati attraverso processi consensuali che portavano ad una unità più vasta, come è nata ad esempio l'Unione europea. Il processo in atto in Italia è invece analogo a quanto è successo in altre parti dell'Europa e del mondo in cui un'area dello Stato nazionale, in genere la più ricca,ha imboccato la strada della secessione con esiti anche tragici come nel caso della ex Jugoslavia e di alcune ex-repubbliche dell’ex URSS. Ma, come finirà in Italia, con quale configurazione istituzionale questo paese uscirà fuori dalla pesante crisi in corso?

Diciamo subito e con chiarezza che il debito pubblico italiano - ormai vicino al 120% del Pil - è insostenibile, per qualunque governo, salvo operare una rivoluzione sociale di cui non si vedono i segnali e le forze in campo. L'insostenibilità del debito è ben chiaro ai leader della Lega Nord che ormai puntano decisamente alla devolution passando da tre fasi: a) federalismo fiscale, b) federalismo istituzionale, c) secessione e forma confederale dello Stato italiano (ipotesi minima) o Stato nazionale indipendente(ipotesi più condivisa dal popolo leghista).

In questo modo,il debito dello Stato italiano verrebbe ripartito pro-capite per le tre grandi aree – Nord, Centro, Mezzogiorno, con un peso sul Pil di queste macroaree profondamente diverso: nel Nord il rapporto debito Pubblico/Pil scenderebbe al 60-65% del Pil, per il Centro si può stimare un 85-90%del Pil, mentre nel Mezzogiorno salirebbe ad oltre il 200% del Pil macroregionale.

Risultato: il Mezzogiorno uscirebbe dall'area dell'euro e diventerebbe un'area del tutto marginale con pesantissime ricadute sulla sua tenuta sociale e democratica. E' molto probabile che in questa ipotesi il nostro Sud andrebbe a fare compagnia a paesi come il Montenegro,il Kossovo, eccetera dei nascostati totalmente soggiogati ai clan mafiosi. Il Nord risolverebbe i suoi problemi economici momentanei, grazie alla ritrovata possibilità di incrementare la spesa pubblica,ma nel medio periodo sarebbe ridotto ad un piccolo paese (altro che G8 e G20) di nessun peso sul piano internazionale e con una forte dipendenza, direi un cordone ombelicale, con il colosso tedesco.

Fantapolitica? Purtroppo no,ma gli italiani sono molto bravi a nascondere la testa sotto la sabbia,a non voler vedere, a non voler farei conti con la propria storia. Per fortuna esiste anche un'Altra Italia che non si rassegna al degrado presente, che non accetta di restare immobile di fronte ad un paese che si va spappolando, che non vuole uno scontro interno tra Nord e Sud, una guerra fratricida. Questa Altra Italia verrà a Teano dal 23 al 26 ottobre per siglare un nuovo Patto tra i cittadini italiani,a partire dai Comuni che –loro sì- hanno diritto ad una forte autonomia ed autodeterminazione Ci saranno tanti sindaci, operatori sociali e culturali, rappresentanti di associazioni grandi (come Libera, l'Arci, Legambiente) e piccole realtà diffuse in tutto il nostro paese. E faremo i conti con la nostra storia, a partire dal periodo cruciale del Risorgimento, grazie alle relazioni di prestigiosi storici e studiosi.

Una grande assemblea verrà dedicata proprio a questo tema: Verità e Riconciliazione. Vogliamo, come meridionali, che sia fatta vera luce sulla storia d'Italia e sul grande contributo di sangue, braccia e cervelli che hanno dato i meridionali. Allo stesso tempo, siamo assolutamente contrari alla formazione di Leghe del Sud (o partiti del Sud) perché non vogliamo fare il gioco di chi punta a spaccare questo nostro paese costruito con tanti sacrifici. Pari dignità tra Nord e Sud, fine della criminalizzazione del Mezzogiorno, una nuova alleanza Sud/Nord contro la borghesia mafiosa che è diventata la classe dominante in tante aree dell'intero territorio nazionale.

Una Unità d'Italia che punti a creare una unità e collaborazione più vasta con tutti i popoli del Mediterraneo,che diventi il fulcro di una futura cittadinanza euro-mediterranea. Ma, le convergenze ed unità più grandi richiedono una base di partenza compatta: dalla disunità d'Italia non può nascere niente di buono per nessuno. A Teano o si rifà l'Italia, si mette una prima pietra verso una nuova Unità, si inaugura una visione condivisa del futuro, oppure perdiamo tutti.

Tonino Perna è presidente del comitato Pro Teano

La richiesta di uno sciopero generale che i movimenti sociali e quelli studenteschi «uniti contro la crisi» hanno rivolto alla Cgil domenica scorsa a conclusione di un'affollata assemblea alla Sapienza di Roma non è un ritorno all'antico. Nel documento finale (pubblicato sul sito del Manifesto) emerge la necessità di unificare le lotte sui beni comuni: dal lavoro alla conoscenza, dall'acqua ai diritti sociali. «È un elemento di novità - dice Maurizio Landini, segretario della Fiom, il giorno dopo un intervento applaudito - da un lato i movimenti riconoscono nella Cgil il soggetto che proclama lo sciopero, dall'altro lato c'è l'impegno di creare un'azione comune in difesa della scuola, dell'università pubblica e dell'occupazione».

La base dell'intesa tra il sindacato e i movimenti non è soltanto diplomatica. Deriva dalla necessità di cambiare la matrice culturale neoliberista alla quale la sinistra politica ha aderito acriticamente negli ultimi vent'anni. Alla separazione esistenziale, prima ancora che politica, tra questa sinistra e il lavoro operaio, si è aggiunta quella, ancora più tragica, con il mondo del lavoro parasubordinato e quello autonomo. Dopo avere riaffermato la centralità del reddito e della condizione operaia, insieme alla necessità di un'«auto-rappresentazione» dei movimenti sociali, l'assemblea ha ribadito la distanza con quella sinistra che ha introdotto nel mercato del lavoro italiano possenti dosi di lavoro flessibile senza prevedere garanzie sociali. «Sono misure che hanno condannato alla disperazione le nuovi generazioni che oggi chiedono una riforma radicale del Welfare» ricorda Domenico Pantaleo, segretario Flc-Cgil.

Per affrontare una simile richiesta sarà necessario un drastico cambiamento di mentalità, oltre che di paradigmi culturali. «Devo riconoscere che la domanda di un reddito di cittadinanza da parte dei movimenti pone ad un metalmeccanico un problema culturale - ammette Landini - ho sempre pensato che se uno non lavora e viene pagato è un problema. Oggi però mi rendo conto che la richiesta del reddito denuncia la mancanza di un diritto fondamentale e parla agli operai e a chi operaio non è».

La strada da fare è ancora lunga, ma in attesa di iniziare il viaggio c'è chi riscopre un linguaggio che solo l'altro ieri sembrava essere prerogativa esclusiva dei movimenti. Si torna così a denunciare la «società classista» in cui l'81,4 per cento dei laureati proviene dalle famiglie del ceto medio e il 10 per cento della popolazione possiede il 45 per cento delle risorse. Nessuno può ormai ignorare che il 30 per cento dei giovani fino a 24 anni vive con lo spettro della disoccupazione di lungo periodo, intervallata con brevi periodi di lavoro nero o intermittente. Senza considerare le prospettive di chi è vent'anni più anziano e già vive la crisi delle società dell'economia del terziario avanzato in cui l'occupazione tornerà a livelli accettabili solo nel 2015, lasciandosi alle spalle una moltitudine di inoccupati e di lavoratori autonomi sotto-pagati. «In questa prospettiva - ribadisce Francesco Raparelli, uno degli estensori dell'appello «Uniti contro la crisi» - il reddito di cittadinanza non è una forma assistenziale, ma è una garanzia fondamentale che operai, studenti e ricercatori possono usare per rifiutare il ricatto della precarietà». Un lungo calendario di date è stato preparato per tenere alto il «conflitto sociale» al quale tutti, sindacati compresi, aspirano in questo inizio di autunno. Il 30 ottobre gli studenti medi e universitari aderiranno alla manifestazione promossa dai precari della scuola a Napoli, il 17 novembre ci sarà la giornata mondiale dedicata agli studenti e infine l'11 dicembre quando «uniti contro la crisi» tornerà a chiedere alla Cgil di proclamare lo «sciopero generale e generalizzato».

PIAZZE D'AUTUNNO

di Angelo Mastrandrea

In un Paese asfissiato da un potere che usa i dossier al posto del manganello e da una crisi sociale che sempre più a fatica il governo riesce a nascondere, una giornata come quella di ieri può perfino essere considerata particolare. Cos'è accaduto di così rilevante? Che una generazione di giovani, spesso rappresentata come anestetizzata e disincantata, è tornata a riprendersi le strade e le piazze, in un ritorno d'onda forse inaspettato al tempo degli sponsor a scuola e del sole delle alpi messo in qualche aula a competere col crocifisso. È accaduto altresì che nelle strade e nelle piazze riconquistate si sono visti anche i fratelli maggiori, ricercatori precari per definizione e non per scelta, e qualche padre, docente in procinto di scioperare contro l'attacco al cuore della conoscenza sferrato da una destra incapace di pensare a un modello di società che non sia affaristico e privatizzatore. Una boccata d'ossigeno, e pazienza se il traffico cittadino ne ha risentito.

Fosse finita qui, saremmo già moderatamente soddisfatti. Ma contemporaneamente è accaduto qualcosa ancora più meritevole di nota: a Castelvolturno gli schiavi della terra, i migranti bersaglio dei Casalesi, quelli che bisogna ucciderne il più possibile per mandare un segnale (come si legge nelle intercettazioni del clan Setola), si sono presi le strade, anzi le rotonde dove tutte le mattine attendono i caporali che arrivano a reclutarli. No grazie, oggi non lavoro, hanno risposto educatamente proclamando uno sciopero che nessuno riconoscerà come tale solo perché nessuno riconosce il loro mestiere. Nemmeno il locale sindaco del Pdl: in un comune piagato dalla camorra non se l'è sentita di inaugurare la lapide per i sei africani uccisi dai clan e per questo si è meritato la riconoscenza di Forza Nuova.

In un Paese che non riesce a garantire un futuro ai suoi giovani, dove i cinesi non muoiono ufficialmente nemmeno quando li trovano affogati sotto un cavalcavia, ci pare un segnale di risveglio. Toccherà anche a noi provare a interpretarlo e ad alimentarlo, come alle forze della sinistra dargli continuità, perché non sia solo la replica di proteste senza sbocco. Le piazze riconquistate ieri erano 83. Con Castelvolturno fanno 84. È questa l'unità d'Italia che ci piace.

UNIVERSITA’

La distruggono dall'esterno,

la squalificano dall'interno

di Angelo d'Orsi*

Nella logica da condominio - incapacità di guardare lontano, e perseguire l'interesse di un singolo invece che quello generale - che domina il ceto politico non v'è da stupirsi dell'atteggiamento che si manifesta verso il mondo della ricerca e dell'insegnamento universitario: misconoscimento dell'una, svalutazione dell'altro. Quello che, ciò malgrado, un po' sorprende è l'impudicizia con cui si procede, desertificando il territorio della scienza, bloccando ogni possibilità di accesso di giovani studiosi alle professioni cui le loro capacità e aspirazioni li destinerebbero, praticamente cancellando i fondi di dotazione di atenei e strutture superiori e, a guisa di riparo, aprendo le porte a capitali privati, a cui, riconoscenti, ministeri e assessorati concedono il ruolo guida. Impudicizia: non hanno pudore a distruggere non solo università e ricerca superiore, ma l'intero sistema scolastico italiano che non era tra i peggiori del mondo; tutt'altro, specie ai livelli di scuola primaria.

Su tale logica condominiale, si sta materializzando da un paio d'anni il cupio dissolvi: la catastrofe dell'università non è la fine di un settore, magari importante, ma pur sempre un settore della vita sociale nazionale; è, piuttosto, l'annuncio della fine delle speranze di un Paese. Un documento di studenti dell'Ateneo dove insegno - quello di Torino - denuncia, nel governo nazionale, ora spalleggiato da quello regionale, nella mani dei leghisti, proprio la volontà di cancellare il futuro, con una politica demenziale che nega sostegno agli studenti e alle loro famiglie (specie le meno abbienti), ricordando il dettato dell'art. 34 della Costituzione («... I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze...»). E invece, la Repubblica non solo non aiuta, ma deprime, scoraggia, dissuade. Già, perché il primo elemento che balza agli occhi è il ritorno dell'università a luogo per privilegiati; annullando di colpo tutte le faticose conquiste degli scorsi decenni: privilegio, dico, e non élite: chi può permettersi di concludere gli studi e, ancor più, tentare l'accesso alla «vita degli studi», non può che avere alle spalle una famiglia abbiente. La «meritocrazia» di cui straparlano le Gelmini e i Brunetta (ma quali sarebbero, poi, i loro personali «meriti»? Questo lo ignoriamo), è una feroce gerarchia sociale fondata sul censo (e magari sull'obbedienza), e non sulle qualità personali, sulla capacità di lavoro, sulla disposizione all'impegno e anche, quando occorre, al sacrificio.

Naturalmente, analisi come la mia offrirebbero il destro all'esimio editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco (grande sostenitore della Gelmini insieme con il capo della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, la Crui, Enrico Decleva), per altre sparate contro i settori «conservatori» e «corporativi» che resistono stoltamente alla ventata innovatrice e modernizzatrice di cui Mariastella sarebbe intrepida protagonista: e allora per evitarlo, aggiungo, last but not least, qualche riflessione sullo stato presente dell'Università italiana. Non posso fingere che non l'Università in quanto tale, bensì il mondo accademico del Bel Paese, non sia attraversato, non da oggi, da profondi fenomeni di corruzione: morale e intellettuale. Non è solo il nepotismo, il clientelismo, la selezione degli aspiranti ricercatori e docenti, diciamo, poco attenta alla qualità; è una condizione generale, in cui le norme sono fatte per essere eluse o aggirate; le Facoltà e i Dipartimenti sono terreni di guerre per bande, definite non da orientamenti ideali e neppure da affinità disciplinari, ma semplicemente da logiche di appartenenza, per spartirsi le esigue risorse e accaparrarsi fettine di sottopotere; una condizione nella quale la differenza tra destra e sinistra è pressoché inesistente; mentre, a dispetto di tutto il Sessantotto passato e i possibili futuri, vige tuttora, in troppi ambienti, una logica feudale e mafiosa: si procede in base alla fedeltà al capo: e si è premiati se essa è totale, si è messi in guardia o direttamente minacciati se vacilla; infine, se si osa la ribellione, si subiscono pesanti ritorsioni o, semplicemente, si è «invitati» a cercare altrove il proprio destino.

E allora, io ho firmato il documento dei docenti torinesi (e anche quello degli studenti) contro le logiche sciagurate della signora Gelmini; ma non dimentico, e mi batterò con ugual forza contro lo schifo che promana dall'interno dell'accademia.

* Angelo D'Orsi professore di Scienze politiche, ha firmato l'appello contro il ddl Gelmini insieme ad altri 200 docenti dell'Università di Torino e del Politecnico

MILANO

Ventimila in piazza contro i tagli

e i corsi paramilitari del ministro La Russa

(g.sal.)



Make school not war. Gli studenti di Milano hanno tanti buoni motivi per scendere in piazza. I tagli della Gelmini, ovviamente, i favori del governatore Formigoni alle scuole private, il sindaco che era la famigerata «Morattila» - e chi l'avrebbe detto che l'attuale ministro avrebbe fatto anche peggio. In Lombardia c'è la scuola di Adro sfregiata dai simboli leghisti che nessuno ha ancora levato. Non basta? E allora ecco i corsi paramilitari «Allenati per la vita» che Gelmini e La Russa hanno sponsorizzato.

«Facciamo scuola non la guerra», hanno gridato ieri 20 mila studenti medi in corteo da largo Cairoli fino al provveditorato di via Ripamonti, dove il corteo principale guidato dai collettivi studenteschi si è fermato in presidio. Un altro spezzone invece all'altezza del Duomo si è sganciato per andare all'università Statale dove ci sono stati scontri con la polizia.

Erano partiti tutti insieme intorno, tantissimi. A ottobre queste manifestazioni studentesche sono sempre molto partecipate, ma questa volta non si riusciva a camminare per la densità dei ragazzi che occupavano le strade. Con loro c'erano anche gli insegnanti precari che da tempo presidiano il provveditorato, c'era una rappresentanza dei docenti in sciopero di Cub e Flc-Cgil, qualche universitario e l'immancabile gruppo di Retescuole. Al corteo ha partecipato anche il centro sociale Fornace di Rho minacciato di sgombero . «A scuola non abbiamo i professori, manca la carta igienica, non ci sono i laboratori e gli insegnanti di sostegno - grida una ragazza con la faccia colorata - però possiamo andare a giocare alla guerra con gli amici di La Russa». Le fa eco una prof: «Tagliano 140 mila posti di lavoro nella scuola perché Tremonti non ha soldi, però spendono 15 miliardi di euro per comprare cacciabombardieri americani». Nei giorni scorsi alcuni studenti dei Collettivi avevano già manifestato contro i corsi militareschi davanti all'Unuci, l'associazione dei militari in congedo. E avevano anche imparato che cosa vuol dire ordine e disciplina: uno dei militanti si è preso un pugno in faccia dai carabinieri. Anche per questo ieri la manifestazione contro la Gelmini aveva una vena anti militarista. La gran parte del corteo si è diretta al provveditorato dove gli studenti hanno costruito una caserma di cartapesta e hanno affisso lo striscione: «Zona militare, limite invalicabile».

Passiamo alle dolenti note. L'altro pezzo di corteo (molto più piccolo) è andato in Statale con le bandiere dei pirati. Lì alcuni manifestanti si sono scontrati con agenti della Digos in borghese, un agente è finito all'ospedale perché gli è stato spruzzato in faccia uno spray urticante. Poi il corteo è uscito dall'università e circa 200 studenti si sono recati in largo Treves per manifestare sotto l'assessorato all'educazione del Comune. Un altro gruppo invece voleva passare oltre i cordoni della polizia schierata che, come era prevedibile, ha caricato a colpi di manganello.

ALMA MATER

Ricercatori precari, a Bologna nasce il coordinamento

(ro. ci.)

Sono i fantasmi dell'università italiana. Non esistono dati attendibili, ma sembra che siano più di 60 mila. Lavorano come contrattisti, assegnisti di ricerca, borsisti. Sono i precari della ricerca e ieri all'università di Bologna sono tornati a incontrarsi. Hanno fondato il «Coordinamento precari della ricerca e della didattica università» sul modello organizzativo della «rete 29 aprile», il coordinamento nazionale dei ricercatori che ha promosso la strategia dell'indisponibilità in più di 50 atenei italiani. Nomineranno due responsabili per ateneo, a partire da Milano-Bicocca, dalla Sapienza di Roma, il Politecnico di Torino, Bologna, Catania, Firenze, Napoli e Padova. Chideranno ai loro atenei di abbandonare il «metodo Marchionne» e di non bandire le docenze a contratto per sostituire i ricercatori indisponibili, anche se individualmente nessuno di loro si sente in diritto di chiedere ai colleghi di non partecipare ai bandi. In ogni ateneo apriranno vertenze sul modello di Torino e Bologna, dove negli ultimi mesi sono stati aperti tavoli di trattativa con i rettori e le regioni per ottenere i diritti sociali di base: un trattamento previdenziale, l'assicurazione, i buoni pasto. Dopo un'assemblea iniziata di buon mattino, alla quale hanno partecipato più di 200 persone, hanno perfezionato un documento che critica radicalmente l'impianto del ddl in discussione la prossima settimana alla Camera. Quando verrà approvato definitivamente i ricercatori precari rischiano di essere allontanati in massa da un lavoro che hanno svolto, in media, per una decina d'anni. E saranno costretti a una nuova corsa del criceto che il governo chiama «tenure track», ma che in realtà è un nuovo periodo di precariato che minaccia di durare oltre sei anni. Il coordinamento parteciperà all'assedio di Montecitorio previsto per giovedì 14 e formeranno uno spezzone nel corteo della Fiom del 16 ottobre insieme al precariato cognitivo che reclama il reddito, una riforma del Welfare e nuova politica per l'economia della conoscenza.

UNIVERSITÀ · Il rettore dell'Aquila Di Orio

«Scioperi sacrosanti, basta provocazioni»

di Eleonora Martini

«Una gratuita e inutile provocazione, un attacco inaccettabile all'autonomia universitaria». A fare il questurino come gli chiede la Commissione di garanzia sugli scioperi proprio non ci sta, il rettore dell'università dell'Aquila Ferdinando Di Orio. Denunciare quei docenti e quei ricercatori che si dichiarano «indisponibili»? «Francamente un po' troppo». Proprio nel suo ateneo, poi, che viaggia «compatto contro il provvedimento Gelmini». Perciò ieri ha deciso di chiedere formalmente con una lettera al presidente della conferenza dei rettori (Crui), Enrico Decleva, «ogni possibile iniziativa per salvaguardare l'autonomia del sistema universitario».

Cosa le ha risposto Decleva?

Ho ricevuto molti messaggi di condivisione, di docenti che si sentono perseguitati e mi dicono "finalmente qualcuno che parla". È una situazione pesante. Ma finora dal presidente Decleva nemmeno una telefonata.

Lei ha sempre manifestato pubblicamente la sua contrarietà alla riforma Gelmini, cosa non le piace?

Anche dentro la Crui, dove so di essere in minoranza, ho sempre sostenuto un giudizio negativo soprattutto per un motivo: la fine dell'autonomia universitaria che è sempre stata una grande risorsa costituzionale del mondo accademico. L'intero Ddl risente di questo provvedimento assolutamente dirigistico. Ricordiamoci che le università sono sempre state separate dall'esecutivo, solo il fascismo fece giurare i professori universitari.

Decleva, invece, invita ad approvare immediatamente la riforma Gelmini per evitare che si blocchi il turn-over dei docenti.

Vede, sta succedendo qualcosa di simile a Pomigliano: mentre si dà agli operai un posto di lavoro si tolgono loro garanzie fondamentali. Non inganni nessuno, per esempio, la promessa fatta di posti per docenti associati: è l'ennesimo modo per spezzare le resistenze attraverso i soldi.

Questo governo come Marchionne?

Sì, ci stanno togliendo le garanzie istituzionali universitarie in cambio di poche risorse. Briciole, in realtà: la grande elargizione del governo sarebbe di soli 90 milioni di euro a fronte di un taglio di un miliardo e 400 milioni. Certo, in un sistema universitario ormai ridotto alla canna del gas, è cambiata la mentalità e ci siamo abituati a rinunciare alle grandi garanzie: l'autonomia di redigere statuti, la validità di un sistema pubblico che resisteva all'ingresso dei privati nell'università guidandone eventualmente l'investimento...

Nel provvedimento, invece, i privati la fanno da padrone.

Addirittura dentro il Cda universitario. È la fine del sapere critico, dell'autonomia della ricerca: tutto sarà costruito sulla base di investimenti produttivi, saremo una specie di catena di montaggio al servizio dell'industria. D'altra parte non è un caso che il provvedimento Gelmini ha avuto come grande sostenitore Confindustria.

Ma voi li avete trovati gli investitori?

Io questa fila di imprenditori disposti a portare soldi non l'ho mai vista. Viene il sospetto che si voglia appoggiare la strategia di Confindustria: al Nord un'università di ricerca e di insegnamento, con la presenza di imprenditori, e al Sud formazione senza ricerca, che costa. È emblematico di un certa cultura il fatto che il presidente del Consiglio sia andato a inaugurare l'università telematica del Cepu, lui che non credo abbia mai inaugurato un anno accademico.

Un investitore però all'Aquila lo avete trovato: l'Eni, con il quale c'è un accordo per la costruzione di un centro di ricerca interno all'ateneo...

No, lo costruiranno su un terreno di proprietà dell'università ma lontanissimo dal campus; non farà parte dell'ateneo. Era un terreno agricolo: una signora ci piantava i carciofi. E invece darà lavoro a oltre 50 nostri ricercatori e io da rettore e da cittadino aquilano, che vedo andare via i miei giovani laureati, trovo che sia davvero una bestemmia opporsi al progetto, in una città come L'Aquila che ha una vera vocazione alla ricerca. E invece in consiglio comunale, dove devono decidere il cambio di destinazione d'uso di quel terreno, l'opposizione di destra sta facendo un ostruzionismo irresponsabile, malgrado l'accordo sia stato firmato ovviamente anche dal ministro Gelmini.

Cosa riceverà in cambio, l'Eni?

Acquisirà i diritti di proprietà intellettuale sui risultati delle ricerche che si svilupperanno in campo ambientale, energetico e dei nuovi materiali.

L'accordo prevede di realizzare anche uno studio di fattibilità per la realizzazione in loco di una centrale a gas e biomasse.

Sì, però lo studio è stato fatto ed ha prodotto un giudizio negativo. Non c'è alcuna convenienza a costruire una centrale di teleriscaldamento in questa zona, e dunque non si farà.

Per una volta, dunque, è d'accordo con la ministra Gelmini?

Assolutamente sì. L'assunzione di 50 dottorandi e ricercatori per noi è una manna. Qui la situazione è tragica, altro che miracolo aquilano! Abbiamo i bilanci ridotti al minimo, entro un anno avrò difficoltà a pagare gli stipendi, su 20 mila studenti quest'anno già 8 mila fuori sede, costretti ad essere pendolari per la carenza di residenze,non hanno confermato l'iscrizione. E nessuno sa che fine abbiano fatto quei 16 milioni di euro che il ministro Gelmini aveva detto di aver stanziato per ricostruire la Casa dello studente. In queste condizioni, vuole che rinunci ad un centro ricerche?

ROMA

In trentamila assediano il ministero

«Stella ciao, il futuro ci appartiene»

di Giampiero Cazzato

La parola che più ricorre negli striscioni e negli slogan degli studenti romani in corteo verso viale Trastevere non è «tagli», troppo ovvia. La parola, dalle molteplici letture, è futuro. Un futuro da riprendere in mano, un futuro che gli studenti, i precari, gli insegnanti si vedono negato dal governo e da un ministro, che uno striscione irride, strorpiandone il nome in «Gelminator».

Piazzale Ostiense è piena di ragazzi delle scuole superiori. La manifestazione si mette in marcia alle 10. Ma c'è chi di prima mattina ha dato il buongiorno a Mariastella. Sono gli studenti di Uds-Link che alle 6,30 hanno lasciato due striscioni davanti al dicastero dell'Istruzione: «Voi l'incubo, noi la sveglia», e «La paure fa 90... cortei in tutta Italia». Sulle scale del ministero una trentina di studenti indossa maschere bianche, sono quelli del collettivo Senza tregua.

«Siamo 30 mila» annunciano dagli altoparlanti piazzati su una camionetta sgangherata. Il corteo è un caleidoscopio di colori, gonne lunghe stile anni '60, le nuove kefiah sgargianti, t-shirt autoprodotte (ce n'è una che riporta la strofa della Canzone del Maggio di De Andrè), arabeschi disegnati sulle braccia. «La scuola è un bene comune. Studenti, precari e genitori in mobilitazione» recita lo striscione che apre la manifestazione. Su uno è scritto «Chi apre una scuola chiude una prigione». Oggi le scuole sono «come il carcere - dice Tito Russo dell'Unione degli studenti - l'edilizia fatiscente, la didattica vetusta, i costi per studiare insostenibili».

Flavio è all'ultimo anno del liceo classico Socrate, zona Garbatella. La scuola, dice, vanta un credito di oltre 160 mila euro nei confronti del ministero, ma l'algida Mariastella «tanto generosa con le private non intende onorare il debito». E così i soldi che i genitori versano come contributo «volontario» (di fatto obbligatorio) e che dovrebbero servire per attività extrascolastiche vengono usati per per evitare che la didattica si fermi.

La protesta di oggi ripropone «vecchi slogan di chi vuole mantenere lo status quo», ha dettato alle agenzie la Gelmini. Peccato che non possa parlare con Claudia, terzo anno al Russel, gli spiegherebbe che «i muri cadono a pezzi» e che in tre anni ha cambiato 7 insegnati di inglese. Peccato che non ascolti Valerio, del liceo scientifico Labriola di Ostia che racconta come, con la sua riforma, le ore di matematica si ridurranno sempre di più, «come un maglione lavato a 60 gradi».

Già, «Mariastella bla bla bla». «Gelmini saremo il tuo inferno» promette un luciferino striscione. «Non che prima di lei le cose andassero bene - precisa Marco Grandinetti, della Federazione degli studenti - solo che lei e questo governo perseguono lo smantellamento della scuola pubblica con una tenacia che non ha eguali. Parlare di riforma della scuola si può. Noi non abbiamo paura di questa parola e nemmeno dell'autonomia, purché sia vera, realizzata mettendoci risorse, che dia opportunità a tutti».

Il corteo si avvicina al ministero della Pubblica istruzione, le casse sparano a tutto volume i Cento passi dei Modena, si risente Contessa e una versione stracult di Bella ciao: si chiama Stella ciao, è un capolavoro che tiene assieme antifascismo e goliardia.

Lo sguardo di Silvia, dell'Istituto per il turismo, Colombo va oltre la sua classe cadente. «Oggi mi negano il sapere, come domani mi negheranno un lavoro, vero». E ai lavoratori guarda pure Marcello della Rete degli studenti. Sono in piazza con i caschetti, «per proteggerci dalle macerie in cui è ridotta la scuola, ma anche per saldare la nostra lotta con quella che il 16 ottobre porterà in piazza la Fiom».

DA BOLZANO A PALERMO

Scontri a Firenze, «cortei non autorizzati»

Partono le denunce

Quasi un centinaio i cortei, da Bolzano a Palermo ha inondato ieri l'Italia. E «da domani - annunciano gli studenti - partiranno i Cantieri della scuola pubblica, iniziative e assemblee per dare inizio alla ricostruzione della nostra scuola e del nostro futuro. Il 16 ottobre saremo ancora in piazza al fianco dei lavoratori della Fiom per dire che l'Italia non può uscire dalla crisi e immaginare un domani senza i diritti e la democrazia».

TORINO

Studenti delle superiori e dell'Università, docenti, precari e comitati dei genitori, il corteo partito da piazza Arbarello ha visto la partecipazione di 30 mila persone. L'università di Torino, avanguardia della protesta dei ricercatori, ha sospeso le lezioni fino a novembre.

FIRENZE

«Dietro ai banchi automi, nelle strade liberi» così lo striscione che apriva il corteo animato da 5mila ragazzi. Sono scoppiate scintille con gli studenti di destra all'altezza della prefettura. Sul tafferuglio Unione degli studenti e Collettivi di sinistra di Firenze affermano in una nota che «la verità è ben diversa» da quella riferita dal centro sociale di destra Casaggi. Altri disordini, dice la questura, ci sono stati a seguito di due cortei non autorizzati staccatisi da quello principale per dirigersi in percorsi alternativi. Uno, con 70 studenti pisani, è andato a protestare davanti all'ufficio scolastico regionale; l'altro, con 500 persone, ha bloccato il traffico sui viali. La Digos denuncerà alcune decine di studenti ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di manifestazione non preavvisata, interruzione di pubblico servizio, danneggiamento aggravato, rissa e accensioni pericolose di fumogeni e petardi. Le identificazioni sono in corso.

PALERMO

Il corteo degli studenti medi di oltre 5mila persone, partito dal Politeama ha sfilato per le vie di Palermo. In testa al serpentone i manifestanti indossavano abiti da militari, slogan e striscioni per tutto il corteo «contro le scuole-caserme» e in via Ruggero Settimo gli studenti hanno bruciato in piazza un fantoccio raffigurante un soldato, al grido di «vogliamo più cultura e meno guerre». In contemporanea un migliaio di studenti e studentesse universitari, partiti da Viale delle Scienze, sfilavano per il centro storico della città congiungendosi in fine con gli studenti medi. Roberto Lagalla, rettore dell'università di Palermo, sostiene la loro protesta: «Il governo si impegni su ricercatori e finanziamenti».

Gruppi e associazioni in un territorio ricco di cultura e socialità mettono in campo un'altra idea di sviluppo, rispettosa dell'ambiente. Fuori dai partiti tradizionali ma con un'ancoraggio istituzionale legato all'esperienza di Massimo Rossi si moltiplicano nuove esperienze



SAN BENEDETTO DEL TRONTO (AP) - Da un anno è un territorio che ha due province, Ascoli e Fermo, dopo la discutibile scelta attuata tramite legge specifica del 2004, diventata operativa nel 2009. Ma se una logica supercampanilista ha portato alla nascita di due diverse istituzioni, spirito diverso alligna nel vivace tessuto civico che da tempo è protagonista di importanti battaglie nel Piceno che, prima della burocratica suddivisone, comprendeva gli attuali capoluoghi di provincia. Una società in movimento, anzi un Piceno in movimento, che vede protagonisti soggetti sociali, con storie e origini diverse, accomunati dalla critica verso scelte distruttive per l'ambiente, ma anche sempre più insofferenti verso una classe politica e dirigente sorda alle istanze dei cittadini.

Luoghi comuni

Iniziamo questo viaggio da San Benedetto del Tronto parlandone con Olimpia Gobbi. Da sempre impegnata nell'associazionismo di base, insegnante in pensione, con alle spalle una recente esperienza come assessore alla cultura nella giunta provinciale targata Massimo Rossi (2004/2009), Olimpia è tra le fondatrici di «Luoghi Comuni», una delle realtà più vivaci per quanto riguarda i soggetti di cittadinanza attiva presenti in questo territorio. «La nostra associazione nasce nell'autunno del 2009, sull'onda dell'esperienza di liste civiche che nella primavera di un anno fa sostennero la campagna elettorale del candidato Massimo Rossi». Ricordiamo che in occasione del rinnovo del consiglio provinciale il Pd locale decise, irresponsabilmente, di rompere l'unità del centrosinistra che aveva portato Rossi, nel 2004, a diventare presidente della Provincia, e di presentare un proprio candidato con il risultato di far vincere il centrodestra. «Terminata la campagna - prosegue Gobbi - si valutò che fosse opportuno far nascere una realtà che non venisse identificata con una lista. Così ecco Luoghi Comuni, un'associazione aperta a tutti i cittadini, con o senza tessera di partito». E qui sta indubbiamente l'originalità del percorso avviato, perché l'impegno dell'associazione è basato sui contenuti e non sulle appartenenze. Con questo criterio vanno a braccetto persone, per esempio, vicine ai grillini con sindaci di paesi limitrofi, Cossignano, Appignano, Acquasanta, anche loro con collocazioni diverse, dal Pd alla sinistra radicale. Insomma, un arcipelago di storie e culture accomunati dall'idea di dare vita «a un luogo di progettazione concreta per la qualità del territorio, seppur consapevoli che sia necessario ragionare in uno scenario globale».

Tra i soci di Luoghi Comuni, un'ottantina con circa seicento persone che gravitano intorno alle iniziative, c'è la presa d'atto che i partiti non sono più in grado di dare vita ad una progettazione politica e i primi a sostenerlo sono proprio coloro che hanno una tessera in tasca. «Nelle forze politiche tradizionali - sottolinea Olimpia Gobbi - non si fa più politica nel senso più alto del termine, non sono più un ambito dove sia possibile riflettere e confrontarsi sui temi più sentiti». La prima uscita di Luoghi Comuni è avvenuta a novembre sull'acqua, con il convegno «Acqua sangue della terra». Da lì è nato il «Tavolo Piceno dell'acqua» che è poi stato il fulcro per la raccolta di firme a favore del referendum (alla fine ne sono state raccolte 5.870, duemila in più rispetto all'obiettivo iniziale). La presenza di alcuni amministratori ha favorito anche l'impegno affinché negli statuti comunali fosse inserita la dicitura che l'acqua non è un bene di rilevanza economica.

Altro tema su cui l'associazione è impegnata e sta costruendo una importante rete territoriale è quello della green economy. «Noi abbiamo diversi soci impegnati nelle nuove economie agricole e questo ci ha portati ad essere presenti sul territorio per sensibilizzare le persone su come andrebbero declinate le politiche in materia». Da queste parti, infatti, soprattutto negli ultimi tempi, si è potuto verificare come una visione alquanto distorta dell'«economia verde» abbia portato al proliferare di impianti di pannelli fotovoltaici nei campi. C'è un'emblematica cartolina che bene illustra una di queste mostruosità ed è stata distribuita a metà luglio in occasione del meeting della Fondazione Symbola a Monterubbiano dedicata proprio alla green economy. L'appuntamento è stato colto dalle varie associazioni del Piceno per dare vita a un coordinamento che ha promosso delle iniziative di contestazione e un convengo alternativo. «Questa interessante esperienza - dice Olimpia Gobbi - ha rafforzato una spinta democratica dal basso che vede protagonisti, oltre a Luoghi Comuni, altre realtà importanti come la Fondazione «Diverso Inverso» di Monterubbiano dove è attivo anche un comitato locale.

I fiori del territorio

Esiste «Scudo», un comitato che aggrega diversi operatori del biologico, così come vale la pena citare i comitati della Valdaso e della Valmenocchia nati per contrastare le centrali a biomasse ritenute inquinanti visto il contesto; così come va citato, tra gli altri, il comitato «No rumore» di Porto San Giorgio il quale vuole mettere in discussione una visione del litorale basata sulla quantità e non sulla qualità. Un arcipelago che si sta relazionando sempre di più, cercando di superare un grosso limite che Olimpia evidenzia con lucidità: «Questi soggetti non hanno espressamente finalità "politiche" come noi, sono nati su problemi concreti. La questione centrale è proprio questa: passare da un impegno su contenuti specifici a una visione più generale, con un punto di vista maggiormente organico sul modello sociale ed economico del territorio, traducendo il tutto in una mentalità e nuovi comportamenti politici. Come associazione, noi cerchiamo di fare anche questo lavoro culturale nella consapevolezza che se non sciogliamo tali nodi il rischio è che anche in questi ambiti si affermino logiche simili ai partiti. La sfida è creare nuove pratiche e nuova democrazia, perché i cittadini sono stanchi di amministratori che in modo padronale fanno scelte sopra la teste delle persone».

Diverso inverso

Parlando dell'attività di Luoghi Comuni abbiamo citato Monterubbiano, dove ci siamo recati per incontrare Stefania Acquatici, animatrice della Fondazione Diverso Inverso. «Uno spazio libero - afferma - dai conformismi, dalla false ideologie, da tutto ciò che ci ingabbia in una visione monocorde». Paul Ginsborg, intervenendo ad Ancona nella recente campagna elettorale per le regionali, ha lucidamente detto che «piccoli luoghi possono dare vita a grandi progetti». È il caso di Stefania e della sua associazione. La palazzina che si affaccia su una piazzetta, all'inizio del centro storico, oltre ad ospitare l'abitazione è una vera e propria fucina di idee e cultura, punto di riferimento per tutto il territorio. Lo spazio che ha dato vita ad una sala dove sono ospitati spettacoli teatrali e dibattiti, è il fulcro di un'attività ricca quanto varia. «È un luogo dove la "piccola cultura" diventa strumento di confronto e conoscenza, dove l'incontro apre nuovi orizzonti, dove la comune esperienza spesso porta a visioni condivise di un mondo più umano e attento alla Madre Terra».

Recentemente l'associazione di Stefania ha ospitato un'iniziativa con Mario Dondero a cui hanno partecipato Massimo Raffaeli e Angelo Ferracuti. Ma è sul tema dell'ambiente che il centro culturale di Monterubbiano è particolarmente attivo. Abbiamo già citato le iniziative di luglio sulla green economy. Una realtà importante sul fronte ambientalista è il «Comitato tutela ambiente e salute fermano» (Citasfe). «Il fermano - denuncia Stefania Acquaticci, attiva anche all'interno del Comitato - ha mantenuto il suo fascino ma sta rischiando di perdere la sua identità a causa di una politica tanto ignorante quanto avida. A questa logica del profitto a ogni costo si sono opposti con grande determinazione alcun cittadini della zona che, da tempo, si sono costituiti in comitato». E che la zona sia ancora capace di sedurre il visitatore lo conferma la splendida veduta da casa di Stefania sul territorio circostante, con una visione suggestiva che arriva ben oltre i confini del fermano. Un paesaggio che deve subire le aggressioni di progetti pesanti come quello della centrale a biomasse da 15 MW che doveva riconvertire l'ex stabilimento Sadam. Progetto che, proprio grazie alla mobilitazione guidata dal Citasfe, è stato, almeno per ora, bloccato. Come a Monterubbiano si è cerca di fermare la costruzione di un ristorante all'interno del Parco pubblico, vera e propria piccola metafora dell'arroganza del potere amministrativo.

Senza refernzialità

Una prepotenza che non ritroviamo certamente in Massimo Rossi con il quale concludiamo questa inchiesta. Rossi è un borderline della politica. Iscritto a Rifondazione comunista, è da sempre attivo all'interno dei movimenti globali (in particolare nel Forum Mondiale dell'acqua) e locali, vanta una buona esperienza amministrativa prima con due mandati come sindaco di Grottammare, poi, come abbiamo già accennato, come presidente della Provincia di Ascoli. Proprio sulla scia della sua mancata candidatura per la seconda legislatura è nato quel percorso che, oltre a fargli avere un 20% di voti, ha generato Luoghi Comuni. «Dopo le elezioni della primavera del 2009 abbiamo ottenuto tre consiglieri. Come gruppo consiliare (Prc e Sel, ndr) portiamo avanti un lavoro iniziato con la precedente amministrazione. Ci muoviamo in un'ottica non di fazione, quindi non ci limitiamo a delibere o mozioni, ma puntiamo a rendere protagonisti delle nostre iniziative i soggetti in carne ed ossa che promuovo determinati progetti o che si oppongono a scelte disastrose per il territorio». Una relazione proficua tra associazionismo e politica che ha ricadute benefiche per gli stessi partiti: Rossi sottolinea come questo positivo condizionamento ha portato ad un ricambio generazione all'interno di Rifondazione, mettendo da parte «logiche identitarie e autoreferenziali».

Personalità, progetti, contenuti

Tre le tematiche al centro dell'attività del gruppo consiliare, in stretto contatto con la società civile: l'insediamento del fotovoltaico con scelte criticabili, come abbiamo visto, dal punto di vista della collocazione dei pannelli, il progetto di parco marino sulla costa picena e l'acqua. Sulla prima criticità, grazie al lavoro svolto con le associazioni si è arrivati all'approvazione di modiche sostanziali del piano territoriale con il voto favorevole della maggioranza di centrodestra, la minoranza di sinistra e il voto contrario del Pd. «Il partito democratico - dice Rossi - è pienamente garante dei grossi interessi di alcuni soggetti economici privati, cioè alcuni suoi esponenti sono, a vario titolo, dentro società del settore». Anche sul tema dell'acqua, dopo un paziente lavoro diplomatico e soprattutto grazie alla spinta che veniva dall'esterno con la raccolta delle firme e la sensibilità dei lavoratori presenti nel gestore locale, la giunta provinciale ha approvato la specifica mozione sulla ripubblicizzazione del servizio idrico, pur con qualche mediazione. Stessa logica ha caratterizzato il progetto di parco marino, ormai arrivato a compimento. «Si è sviluppato un rapporto fecondo che ha dato vita a un circuito virtuoso tra pescatori, giovani ambientalisti e singoli cittadini». Insomma il «Piceno in movimento» si caratterizza come un felice laboratorio in cui la crescita delle reti di cittadinanza attiva riesce, in alcun casi, a trovare sponda tra alcuni amministratori locali. Una sperimentazione che non ha al centro il protagonismo personalistico (al di là dell'indubbia personalità di Massimo Rossi) ma progetti e contenuti.

Il prolungamento dell’A27 da Pian di Vedoia a Pieve di Cadore potrebbe essere presto una realtà, o così si vuol far credere.

Dovrebbe trattarsi di una infrastruttura lunga 21 km, per metà in galleria, per il resto su rilevato o viadotto, che si svilupperà lungo la stretta valle del Piave affiancandosi alla statale 51 di Alemagna, alle varianti già aperte (alle quali, guarda caso, manca solo il tassello Longarone-Castellavazzo, il nodo più cruciale) e alla linea ferroviaria. Costo dell’opera 1.200 milioni di euro (duemilacinquecento miliardi di vecchie lire!), finanziata da privati (all’inizio si dice sempre così), che puntano sui pedaggi per rientrare con gli investimenti. Lo Stato interverrà con opere complementari. Questo sulla carta.

Il progetto preliminare, denominato “Passante Alpe Adria “, è del luglio 2007 ed è stato presentato a Longarone il 15 luglio scorso. L’elaborato porta le firme Rock Soil, Technital, Idroesse, Hidrostudio; coordinamento progettazione Territorio srl, studio professionale che fa capo all’arch. Bortolo Mainardi (che allo stesso tempo è membro del CDA dell’Anas e della VIA nazionale). La copertura economica è garantita da una proposta di finanza di progetto firmata dalle solite imprese Grandi Lavori Fincosit, Adria Infrastrutture e Ing. E. Mantovani. La concessione avrà una durata di 40 anni a decorrere dalla fine dei lavori.

Alla presentazione del progetto e del relativo Studio di impatto ambientale - redatto dalle stesse imprese proponenti l’opera - sono stati invitati i sindaci dei Comuni direttamente interessati dal tracciato ma, inspiegabilmente, nessun altro sindaco del Cadore, come se la cosa non li riguardasse.

Dalla data di presentazione sono scattati i 60 giorni per le osservazioni, dopo di che sarà la volta della commissione regionale VIA e del CIPE, infine il bando e l’assegnazione dei lavori, che dovrebbero partire nel primo semestre del 2012 per venire completati entro il 2016-17.

Siccome è chiaro a tutti, anche ai bambini, che un’autostrada che finisce alle porte di Pieve peggiorerebbe la situazione della mobilità in Cadore, aumentando le code e intasando la viabilità ordinaria lungo tutta la valle del Boite da una parte e Auronzo e il Comelico dall’altra, contestualmente all’apertura di questo tronco si renderebbe necessario un suo prolungamento, preferibilmente in direzione di Monaco, e proprio a questo mirano Zaia, presidente della Regione Veneto, Muraro e Bottacin,rispettivamente presidenti delle Province di Treviso e di Belluno, nonché le confederazioni degli industriali veneti.

Tutto ciò premesso, cosa centrano la montagna dolomitica, i bisogni e le priorità della gente che vive nelle sue valli? Nulla, a conferma di quello che sappiamo già, cioè che delle Terre Alte e dei suoi abitanti poco importa ai politici di Venezia, di Treviso e – spiace doverlo constatare - anche di Belluno; tutti paladini all’insegna del “Federalismo” e del “paroni a casa nostra” (intendendo per “casa nostra” pure quella degli altri). Montagne, valli, genti, culture (sbandierate, quando fa comodo): in questo caso solo un fastidioso, irrilevante ostacolo fisico da superare. Solo questo. Ad ogni costo.

Sembra di stare in un mondo rovesciato dove le risorse collettive non sono usate per aumentare il benessere dei cittadini (con servizi di trasporto adeguati, sanità all’avanguardia, istruzione di alto livello, infrastrutture tecnologiche) ma dirottati per garantire vecchie rendite di posizione a imprenditori e politici incapaci di innovare e di innovarsi.

I motivi che ci portano a riaffermare che da qualsiasi parte lo si guardi questo progetto non sta in piedi sono, per citarne alcuni:

- l’esigenza, ribadita dall’Europa, di spostare il traffico dalla ruota alla rotaia e di indirizzare gli sforzi economici e tecnologici sulla ricerca di nuovi sistemi di trasporto per persone e merci;

- la Convenzione delle Alpi che impedisce ogni nuovo attraversamento autostradale della catena alpina (anche se l’Italia non ha ancora firmato il Protocollo Trasporti);

- il no deciso di Alto Adige e della stessa Austria;

- il riconoscimento Unesco, non conciliabile con un’infrastruttura così impattante calata sul fragile territorio dolomitico;

- l’urgenza di abbandonare un modello di sviluppo dissipativo che distrugge più valore (economico e sociale) di quello che produce;

- l’arretratezza di un sistema di trasporti pernicioso e insostenibile per quanto riguarda le emissioni che alterano il clima;

- la necessità, dettata dal buon senso, di impedire ulteriore consumo di suolo in un paese dove scompaiono sotto il cemento e l’asfalto 300 metri quadrati di terra al minuto.

A queste ragioni, che da sole dovrebbero convincere a rinunciare al progetto, si aggiunge un problema di insostenibilità economico–finanziaria, che risulta evidente incrociando pochi parametri: costi di realizzazione, flussi di traffico, entità dei pedaggi.

I costi di costruzione sono molto elevati, per le caratteristiche del territorio; i flussi di traffico risultano bassi: lo studio prevede un transito (sul solo tronco autostradale) di 25.000 veicoli al giorno dal 2015, che diventeranno 41.000 nel 2039. Attualmente, se le nostre informazioni sono esatte, nelle domeniche di punta sul Ponte Cadore transitano 11/12.000 veicoli.

Da qui la proposta contenuta nella Bozza di Convenzione inclusa nel Progetto Preliminare che la statale 51 resti a disposizione dei soli residenti, mentre tutti gli altri – mezzi pesanti e leggeri – verrebbero obbligati a percorrere il nuovo tratto autostradale e a pagarne il relativo pedaggio. Allucinante.

Quanto ai pedaggi, riportiamo qui di seguito dal documento di analisi del NUVV (Nucleo regionale di Valutazione e di Verifica degli Investimenti): “.. sotto il profilo tariffario, il pedaggio chilometrico della proposta appare sensibilmente più elevato rispetto ad analoghe infrastrutture autostradali che attraversano regioni montuose e quindi applicano tariffe maggiori in relazione ai maggiori costi di ammortamento delle opere realizzate (gallerie – viadotti) come la A27 nel tratto Belluno - Vittorio Veneto, la A23 nel tratto Tolmezzo – Tarvisio e la A5 nel tratto Aosta – Ivrea, mentre appare più confrontabile con quelli applicati nei trafori del Monte Bianco, del Frejus, del Gran San Bernardo e del Ponte Europa e del Tunnel dei Tauri in Austria”.

Dal Piano Economico si deduce che un autoveicolo per percorrere i 21 km da Pian di Vedoia a Macchietto dovrebbe pagare 6 euro e un mezzo pesante circa 21 euro.

A chi propone un’opera fondata su questi presupposti viene voglia di dire: smettetela una buona volta di farci perdere tempo e denaro e occupatevi delle reali necessità del Paese e del territorio. Ma non è più sufficiente che questa affermazione provenga da PAS Dolomiti o da analoghe realtà a cui sta a cuore la nascita di una vera economia del Benessere: è tempo che si muovano anche le forze politiche più sane, gli amministratori più responsabili, i cittadini più sensibili; i montanari legati alle loro case non ancora violate, alla loro aria ancora pulita, alle loro acque non inquinate.

In altri tempi, di fronte a minacce di questo tipo, i discreti, non violenti abitatori delle valli avrebbero imbracciato i forconi e si sarebbero mossi in direzione di Venezia (ricordate la ferrovia?), facendo magari tappa a Longarone e a Belluno, ma i tempi sono quelli che sono, e il grado di consapevolezza anche, e tutto ciò non si è ancora verificato. Ma non è detta l’ultima parola.

3 agosto 2010

Altre informazioni agiornate e documenti interessanti sul sito del comitato PAS Dolomiti

© 2024 Eddyburg