«L'Espresso online, blog "Piovono rane", 1° ottobre 2016
Di dubbia utilità per chiarire agli italiani su che cosa si voterà tecnicamente il 4 dicembre, il dibattito di ieri tra Renzi e Zagrebelsky è stato invece prezioso per confrontare due approcci cognitivi alla democrazia, ai cittadini, ai media, alla politica, al passato e al futuro. E si tratta di due approcci cognitivi agli antipodi.
A destra sul nostro schermo c'era un signore - Zagrebelsky - per il quale la complessità è un valore. Bastava vedere la quantità di frasi subordinate, bastava vedere lo sforzo (spesso "fisico" e quasi sempre vano) nel tentare di sintetizzare nei tempi televisivi questioni costituzionali sempre in bilico tra il giuridico e il politico, tra la forma e la sostanza, tra il singolo articolo e il quadro complessivo.
C'era, a destra dei nostri schermi, un signore che ha dedicato una vita a spiegare che la democrazia rappresentativa non è il sistema in cui comanda chi ha più consenso in un'istantanea dell'opinione pubblica, bensì è un insieme di regole, comportamenti, soppesamenti, bilanciamenti, garanzie, limiti, collaborazioni e confronti: e questo, secondo lui, è ciò che rende migliore una democrazia diffusa da una plebiscitaria.
A sinistra c'era invece un altro signore - Renzi - che ha come visione e obiettivo la semplicità e/o la semplificazione, il superamento degli ostacoli, la realizzazione rapida di ciò che ha deciso il leader che ha preso più voti.
C'era un signore, a sinistra nel monitor, secondo il quale lo scopo di una riforma costituzionale è il superamento dei (troppi, secondo lui) intralci che la democrazia disegnata dai nostri padri costituenti pone al leader della parte che ha vinto le elezioni, anche se le ha vinte di un solo voto e con una maggioranza solo relativa.
Questa dialettica è stata la cifra - a volte sottintesa - di tutto il confronto, la cui natura mediatica ha ovviamente consentito al secondo di maramaldeggiare: la televisione è infatti per antonomasia il luogo della semplificazione, a iniziare proprio dalla banalizzazione del messaggio, dal tempo ridotto in cui lo si deve comunicare, dal reperimento della frase concisa e sintetica che attira l'attenzione del telespettatore e gli resta dentro.
La televisione è il luogo-medium nel quale la semplicità è regina, anzi è essa stessa semplificazione in sé, per natura: quindi è del tutto contronatura farvi passare una teorizzazione del valore della complessità.
La vittoria mediatica di Renzi è stata pertanto evidente e abbastanza strabordante, direi. Al netto forse di qualche strafottenza di troppo, di qualche paraverbale che per artificiosità e arroganza gli ha creato saltuari effetti boomerang nella ricerca della simpatia, ma si sa che Renzi è fatto così e non lo si cambia.
Se però usciamo dalla logica del ring e del chi "ha vinto", è stato interessante vedere - in controluce, dietro quei due signori, dietro le loro diverse convinzioni e modalità espressive - tutta la crisi della democrazia contemporanea, dagli Stati Uniti all'Europa: un sistema di autogoverno dei cittadini che la cultura occidentale ha elaborato in diversi secoli, con molta fatica e molto sangue, e che adesso attraversa una crisi epocale, svuotata com'è da poteri, meccanismi e dinamiche che nessuno ha eletto.
E l'aspetto interessante stava nelle due diverse risposte a questa crisi: da un lato Renzi, convinto che il problema consista nell'insufficiente perimetro decisionale del leader eletto, quindi nell'eccesso di "intralci"- cioè di distribuzione e bilanciamento dei poteri; dall'altro Zagrebelsky, secondo il quale proprio perché la democrazia decide sempre di meno bisogna renderla più diffusa, più orizzontale, più partecipata, più condivisa, in altre parole più abitata da ciascuno di noi, meno regalata a un "capo".
"Capo" del resto è stata la parola-boa del confronto, a un certo punto.
Con Zagrebelsky che faceva notare come per la prima volta questa parola viene inserita nelle norme fondanti di una democrazia, mentre secondo lui in democrazia non ci deve essere un "capo" come tale, bensì un servizio per la garanzia di tutti; Renzi invece che la difendeva, quella parola, soprattutto dal punto di vista dell'efficacia decisionale, ma anche da quello della legittimità democratica, in quanto capo eletto. In quanto "unto dal Signore", si diceva un ventennio fa, laddove "il Signore" era il popolo, quindi conferiva piena legittimità democratica al comando.
Tutto questo, appunto, pone domande che travalicano i nostri confini, e che hanno a che fare con tutta la crisi delle democrazie rappresentative, con la personalizzazione-concentrazione della politica ma anche con l'utopia-distopia opposta, quella cioè basata sull'assemblea permanente dei cittadini-decisori nell'agorà digitale.
Tutto questo è stato culturalmente prezioso, si diceva: tuttavia mi pare che ieri sera abbia avuto a che fare un po' marginalmente - diciamo, "come sfondo" - con i contenuti della riforma Boschi.
La quale riforma ha soprattutto alcune caratteristiche discutibili che in parte ieri sera sono emerse ma in parte no (almeno se non vogliamo credere che il suo ubi consistam sia nel risparmio di qualche stipendio e nell'abolizione del Cnel).
Ad esempio, l'allontanamento dei cittadini dalla rappresentanza e dai luoghi della decisione. Il Senato - con tutti i poteri che gli sono rimasti, tutt'altro che indifferenti - verrebbe scelto dal ceto politico anziché dagli elettori. E questo è un punto non irrilevante: perché se anche accettassimo l'idea che il "capo" debba avere meno intralci, non pare il massimo considerare tra questi intralci anche i cittadini. Un allontanamento, peraltro, confermato dall'aumento di numero di firme necessarie per una legge di iniziativa popolare.
Altrettanto marginalmente - a parte un passaggio quando davanti alla tivù eravamo rimasti in pochi malati di politica - è emersa la questione del nuovo pezzo di classe dirigente con doppio incarico, amministratori locali e senatori della Repubblica: il che nel migliore dei casi significa che questi svolgeranno male uno dei due incarichi, nel peggiore dei casi vuol dire che tra gli amministratori locali si cercherà di diventare senatori per carriera, per status, per traffico di influenze, per ottenere l'immunità parlamentare.
Ma quello che è emerso in modo ancora meno chiaro è il grande paradosso di questa legge, cioè il maggior livello di complicazione dei meccanismi legislativi, determinato sia dall'articolo 70 sia dal nuovo rapporto Stato-regioni. Riuscire a diminuire la partecipazione dei cittadini aumentando il livello di complicazione legislativa è un record tutto italiano e (altro paradosso) è esattamente frutto di quella cultura da azzeccagarbugli che Renzi ha attaccato per tutta la serata.
Infine, grazie al recente cambiamento di rotta voluto da Renzi, non si è di fatto potuta affrontare la questione del sistema di rappresentanza complessivo che emergerebbe dalla riforma Boschi e dalla futura legge elettorale, insieme. Perché il mix tra Italicum e Senato boschizzato era una cosa da brividi, ma adesso il premier si fa forte del fatto che l'Italicum verrà cambiato, quindi non accetta critiche sul "combinato disposto". Peccato che non si sappia comeverrà cambiato, quindi andremo a votare una riforma costituzionale i cui effetti saranno diversi a seconda della legge ordinaria che verrà fatta dopo, per l'altro ramo del Parlamento.
Andremo a votare, in sostanza, senza avere gli strumenti per sapere quali effetti reali avrà il nostro voto: e anche questa impossibilità di conoscere le conseguenze della nostra scelta dà la misura della sempre maggiore sottrazione di potere ai cittadini, dell'allontanamento tra elettori e decisioni reali.
Non so se tutto questo sarebbe potuto emergere, in televisione, per i motivi di cui sopra.
Probabilmente no.
Il che fa venire il dubbio che il referendum del 4 dicembre sia - culturalmente parlando - anche un referendum su questo: cioè sul valore o disvalore della semplificazione estrema, della "SpotPolitik" (cit. Giovanna Cosenza), della politica post-verità o di messaggi iperpopulisti e distorsivi come questo - peraltro non esclusivi di Renzi, sia chiaro, ma trasversalissimi.
Ecco, forse evitare di precipitare lì - nello "stiam diventando tutti più scemi" cantato da Gaber - è perfino più importante che schivare il pasticcio della Boschi.
12 COMMENTI 8
Eparrei
1 ottobre 2016 alle 11:40
Può essere, ma io lo vedo come un effetto della mancanza di informazione corretta. Siamo in pieno mito della caverna platoniano, insomma. Occorrerebbe rompere le catene....
Piero Filotico
1 ottobre 2016 alle 11:44
Per fortuna siamo in parecchi a pensarla come te.
https://unfilorosso.wordpress.com/2016/10/01/zagrebelsky-una-lezione-di-stile-e-di-saggezza/
Cave Asinus
1 ottobre 2016 alle 12:06
Renzi è disposto a tutto per vincere, anche a passare per ignorante. Ha sentenziato che il bicameralismo paritario statunitense non è come quello italiano perché gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale.
Il bicameralismo paritario è il sistema che regola l'iter di formazione delle leggi ed è indipendente dalla struttura della Repubblica. Il presidente degli Stati Uniti è titolare solo del potere esecutivo (art. 2 Cost.), il potere legislativo è interamente nelle mani del Congresso (art. 1 Cost.), l'equivalente del Parlamento dei Paesi europei, composto dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato, entrambe elette a suffragio universale.
Negli Stati Uniti come in Italia un testo per diventare legge dev'essere approvato alla stessa maniera sia dalla Camera dei rappresentanti che dal Senato. Lo shutdown che paralizzò il Congresso nel 2013 fu causato dal mancato accordo tra le due Camere sul provvedimento Obamacare. Inoltre la Costituzione degli Stati Uniti è "vecchia" di oltre 200 anni.
Renzi ha detto una sciocchezza ed è passata solo una settimana dall'altra freddura "chi vota No mantiene il finanziamento ai partiti", già aboliti da Letta e non disciplinati in nessuna parte della Costituzione. Ovviamente non poteva mancare l'altra pubblicità ingannevole sui 500 milioni di risparmio che nessuno ha certificato. L'unico risparmio documentato è quello della Ragioneria dello Stato ed è pari - sudditi: udite, udite - a 57,7 milioni. Le Province, altro pilastro dell'apostolato governativo, sono già state "abolite" (leggasi sostituite dalla Città metropolitane).
Altreconomia.it, 22 dicembre 2014 (m.p.r.)
È la fine del mondo? Forse no, ma certamente siamo consapevoli di appartenere a una generazione che ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose. Per questo, quando qualcuno dice che per uscire dalla crisi si deve puntare alla crescita e attrarre investimenti dovremmo non solo storcere il naso, ma reagire con decisione. E perlomeno chiedere: la crescita di che cosa?, gli investimenti per fare che?
Il termine “decrescita” ispira sentimenti contrastanti. A molti evoca difficoltà, perdita di benessere, ritorno al passato. Chi, da anni, ne parla, non intende nulla di tutto ciò. Intende ragionevolmente porre l’accento sul fatto che i consumi dell’uomo devono diminuire, se vogliamo un futuro. E tra l’altro, questo potrebbe portare anche maggior benessere e giustizia. Il termine decrescita è una provocazione: finché andrà avanti il vuoto mantra della crescita, ci sarà qualcuno che proporrà il destabilizzante tema della decrescita.
Il manifesto, 31 dicembre 2014
Atene. Apertura al dialogo con Syriza, per i vertici europei la Grecia non è più una fonte di contagio. Ma pesa il pessimismo premeditato dei mercati. Verso le elezioni anticipate del 25 gennaio, Alexis Tsipras lavora da premier. Haircut del debito e cancellazione del memorandum, ma anche rassicurazioni ai creditori
Antonis Samaras e alcuni partner europei alleati del premier greco, in primis la cancelliera tedesca Angela Merkel, continuano a promuovere la strategia della paura. La politica della sinistra greca, secondo loro, porta il paese nel caos. Dietro le quinte, però, a sentire fonti diplomatiche a Bruxelles, «si preparano a un governo di Syriza, perché Alexis Tsipras sta lasciando la retorica rivoluzionaria di due anni fa».
Il taglio del debito pubblico
L’agenzia Bloomberg e alcuni mass-media conservatori europei stanno adottando l’idea di un taglio del debito pubblico greco, proposta avanzata da tempo da Alexis Tsipras, ma di cui, per il momento, non si è parlato a Berlino o a Bruxelles.
L’haircut del debito — il rapporto tra debito e Pil rimane a livelli altissimi, attorno al 170% -, come presupposto per la crescita del Paese, è infatti uno dei due pilastri del programma economico della sinistra radicale, l’altro riguarda la cancellazione del memorandum. E su questo «il governo di Syriza chiederà una conferenza internazionale» afferma Tsipras, secondo il quale «il taglio non andrebbe a penalizzare i crediti detenuti dai privati, ma dovrebbe essere concesso dalla troika, che ha in mano una grossa fetta di questo debito pubblico greco».
Tant è vero che, a sentire gli economisti, questi prestiti ad Atene non saranno mai erogati per intero, quindi è meglio per i creditori un taglio del debito oppure un prolungamento degli acconti, visto che «un fatto simile (il taglio del debito) è avvenuto in Germania nel 1953», come fa notare l’eurodeputato Manolis Glezos.
Tsipras, inoltre, ha promesso di far aumentare ai livelli precedenti alla crisi, il salario minimo mensile (abolizione di alcuni tagli concordati con la troika), la lotta all’evasione fiscale, che arriva al 25% del Pil (la media europea è attorno al 10%) e alla corruzione, la creazione di 300 mila nuovi posti di lavoro puntando su un piano di investimenti per stimolare la crescita e l’alleggerimento fiscale degli strati sociali più colpiti dalla crisi; il leader di Syriza è contrario, invece, a qualsiasi misura aggiuntiva, cioè a una nuova austerity che preveda ancora tagli a stipendi, pensioni e indennità oltre a licenziamenti, come presupposto per l’incasso di nuovi aiuti finanziari dai creditori internazionali.
I mercati sul Grexit
All’atteggiamento ambiguo dei partner europei si sovrappone il pessimismo premeditato dei mercati che temono «il ritorno del default in Grecia» e di «una tempesta nella zona euro», se Syriza «annulerà tutti gli accordi con la troika». «Il 2014 non è il 2012 e quindi non passerà il terrorismo dei mercati», sottolinea Tsipras, ma lo scontro tra un governo delle sinistre e i mercati sembra inevitabile anche nel caso che i partner europei volessero evitarlo. Indicativo è il crollo clamoroso della borsa di Atene proprio nel giorno in cui ufficialmente si anticipavano le elezioni presidenziali, ma anche quello di lunedì scorso, crolli interpretati come un avvertimento nei confronti di chi, leggi Syriza, cerca di deviare da ciò che gli stessi mercati considerano «stabilità politica».
L’incubo del Grexit, dell’uscita della Grecia dalla zona euro viene riprodotto senza scrupoli dai mercati, i quali, a prescindere dalla situazione reale, dai «progressi» sul fronte macroeconomico di Atene, comunque si schierano contro Syriza.
Goldman Sachs e l’agenzia di rating Moody’s valutano negativamente sia la prospettiva di elezioni anticipate, perché diminuirebbe la credibilità del paese, sia l’eventualità di un governo delle sinistre, perché «potrebbe tagliare i ponti con i creditori internazionali».
Secondo analisi pessimiste, riprodotte da alcuni quotidiani, «la conseguenza dell’interruzione dei finanziamenti dalla Bce alle banche greche (nel caso che un governo del Syriza continui a opporsi alle misure aggiuntive) sarebbe la chiusura improvvisa degli sportelli e dei bancomat in Grecia, impedendo così ai correntisti di accedere ai loro soldi» come accaduto nel marzo del 2013 a Cipro. Allora nell’ isola le banche cipriote rimasero senza contanti per parecchi giorni, provocando la reazione dei cittadini e un memorandum pesante per tutti i ciprioti.
Corsa contro il tempo
Il tempo nella capitale greca in effetti stringe. Tra un mese, a prescindere dalle elezioni anticipate e dal governo che si formerà, Atene deve incassare 7 miliardi di euro (sui 230 già concessi) per coprire i propri bisogni. L’Eurogruppo durante la sua riunione a metà dicembre ha deciso di prolungare la validità del programma di risanamento dell’economia greca sino alla fine del prossimo febbraio — la decisione è stata respinta da Syriza — ma sta alla troika e al governo greco trovare un accordo sulle misure aggiuntive (altri 2,5 miliardi di tagli), finalizzate alla conclusione del controllo sull’attuazione del programma stesso. Questa è infatti la condizione indispensabile per l’uscita del Paese dal memorandum e per l’attuazione della linea di sostegno precauzionale (Eccl) finché la Grecia non sarà in grado di tornare sui mercati internazionali.
In altri termini, Bruxelles e Berlino sottolineano che né il denaro, né la linea di credito precauzionale saranno concessi ad Atene fino a quando la Grecia non avrà concluso il piano di risanamento economico nel suo insieme, che vuol dire accettazione da parte del governo greco della nuova austerity.
La domanda che si pone già è come si potranno incassare quei soldi dai creditori internazionali necessari ad Atene per pagare gli stipendi, le pensioni e per rifinanziare il debito (i bond in scadenza), nel momento in cui proprio in quel periodo, in febbraio, ci sarà il ricorso anticipato alle urne e le trattattive per la formazione di un governo? Come si comporterà Alexis Tsipras, tra i critici più severi delle politiche di austerità del Fondo monetario internazionale, dell’Unione europea e della Banca centrale europea? Se come nuovo premier respingerà ogni trattattiva con la troika, lo stato greco rischia di trovarsi senza soldi nelle casse; se accetta avrà fatto una manovra di 180 gradi.
La tattica di Tsipras
Per il momento il leader della sinistra radicale greca rassicura i suoi interlocutori internazionali e soprattutto gli europei che non ha la minima intenzione di uscire dall’euro, sapendo benissimo che l’Ue non può permettersi di far uscire la Grecia dall’Eurozona, non soltanto perché non è previsto nei trattati dell’Ue, ma anche per le ripercussione che avrebbe in tutto il vecchio continente.
Quello che conta per Syriza è guadagnare tempo e non alimentare, senza volerlo a causa della pressione dei mercati, la crisi umanitaria nel Paese. A un passo dal potere Tsipras sta cambiando tattica — altri dicono oltre la retorica, anche strategia politica — per quanto riguarda il memorandum, gli accordi già firmati tra Atene e la troika.
La promessa del leader di Syriza, un anno fa al parlamento, che «l’unica proposta alternativa è l’annullamento di tutte le misure di austerità con una legge che avrà soltanto un articolo» è stata sostituita dall’ eventualità di trattare con i creditori internazionali e comunque di non decidere prima di consultarsi con loro. Anche perché noti esponenti della sinistra radicale, come il professore di Diritto del lavoro Alexis Mitropoulos, parlamentare di Syriza e proveniente dal Pasok, fanno notare che «chi crede che il memorandum potrebbe essere annullato semplicemente con una legge non conosce affatto gli impegni derivanti dagli accordi».
Tsipras con i vertici di Syriza sono già al lavoro per mettere a punto il programma dei primi cento giorni di governo e soprattutto per non trovarsi impreparati a ridosso delle scadenze di febbraio. A questo proposito si è incontrato con l’ex governatore della Banca di Grecia, Jorgos Provopoulos, definito un anno fa «l’ambulante delle banche».
Reazioni interne
Che Tsipras abbia lasciato la retorica, dando spazio al realismo politico, è evidente anche dalla sua visita al Pentagono, il quartier generale del ministero della difesa greco, tradizionalmente roccaforte della destra (la memoria del colpo di stato dei colonelli nel 1967 è ancora viva), dove ha rassicurato la leadership militare, «Ci sarà una continuazione nello stato», ha promesso se Syriza andrà al potere. Il tour del leader della sinistra radicale ha comportato anche la visita ai monasteri di Monte Athos, al Vaticano, dove si è incontrato con il Pontefice, e all’archivescovo della potente Chiesa Ortodossa Greca per accreditarsi fra le gerarchie in vista delle urne.
In questo ambito di aperture politiche Tsipras si è incontrato al Forum di Como con José Manuel Barroso, Jean Claude Trichet, Joaquin Almunia, Mario Monti, Enrico Letta, mentre i responsabili della politica economica di Syriza, Jorgos Stathakis e Jannis Milios, entrambi professori universitari, sono andati alla City di Londra a parlare per illustrare e discutere con investitori e rappresentanti di hedge fund il programma economico del partito.
Queste mosse di realismo politico di uno Tsipras in pole position per la premiership, non vengono viste di buon occhio dai suoi avversari interni, come per esempio Panajotis Lafazanis, capogruppo parlamentare e leader dell’Aristero Revma (Corrente di sinistra), componente comunista di vecchio stampo in seno a Syriza, che «non vorebbe alcun contatto con i rappresentanti del neoliberalismo europeo». «Di poliglottismo degli esponenti di Syriza per quanto riguarda le proposte per uscire dalla crisi» parla anche una parte del elettorato, nonostante si dichiari a favore della sinistra radicale
Cittaconquistatrice.it, 30 dicembre 2014 (m.p.r.)
Nelle trasformazioni dell’ambiente e del territorio, almeno dalla metà del ‘900 in poi, da un lato le possibilità tecniche e le potenzialità sociali si dilatavano enormemente, dall’altro cresceva esplicita e implicita la domanda di partecipazione diretta alle scelte. Spiegava nel 1948 il nostro Giancarlo De Carlo all’attentissima platea londinese della Architectural Association: «The housing problem cannot be solved from above. It is a problem of the people, and it will not be solved, or even boldly faced, except by the concrete will and action of the people themselves» (1). Dove il termine housing, abitazione, era ovviamente estendibile all’idea di città, che nel contesto britannico significa new town, e altrove quartieri integrati e unità di vicinato col cosiddetto “centro sociale” come fulcro di partecipazione.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, lasciando però più o meno le cose come stavano prima: c’è l’imbecille consapevole di essersi un po’ distratto riguardo alla comunicazione dei contenuti, e chi invece ribadisce l’orgoglio di casta e di gergo. Naturalmente c’è anche chi le accetta, queste cose, convinto chissà perché che “non si capisce nulla quando parla, deve essere una persona intelligentissima”. Però è innegabile che cresca anche il fastidio per la difficoltà a capire, e quindi a scegliere ed esprimere consenso. Fastidio letteralmente esploso quando l’accessibilità dei documenti grazie alla rete ha reso molto più evidente la divaricazione fra gerghi iniziatici e linguaggio corrente. Si capisce sempre di più, che non basta riprodurre tecnicamente gli allegati di un processo decisionale di trasformazione, e caricarli in chiaro su un sito istituzionale, per garantire trasparenza delle scelte. Occorre che l’istituzione non sia imbecille di secondo grado, ovvero accetti un’interlocuzione attiva.
Non è detto che ci si riesca al 100%, o al primo colpo, ma l’importante è provare: a non perdere per strada contenuti, e a renderli criticamente accessibili. La trasparenza si potrebbe articolare in quattro punti: sempre un sintetico executive summary (pochissimo usato da noi in Italia), che orienta alla lettura della documentazione vera e propria; poi un buon uso di trasversalità e ipertestualità con links interni a partire da un indice molto articolato proprio a questo scopo; poi un generale approccio amichevole sia di linguaggio che di forme anche grafiche; ultima ma non in ordine di importanza, la coscienza che se di partecipazione si deve trattare, questa deve stare alla base della lettura, dei contenuti, non rappresentare un ripensamento successivo.
Se siamo arrivati a porci il problema delle nuove tecnologie nelle scuole dell’obbligo, o della storia patria spiegata a fumetti, a maggior ragione la multimedialità nella documentazione di piano e programma ci sta proprio su misura: senza nulla togliere alla correttezza dei contenuti ovviamente. E quando comunque non si capisce, non fatevi problemi a dare dell’imbecille a chi ha prodotto quella comunicazione lacunosa, anche se si tratta dell’istituzione. La stessa cosa a maggior ragione vale per chi vi parla ora, va da sé.
(1) «La questione delle abitazioni non è un problema che possa essere risolto dall'alto. Si tratta di un problema che coinvolge direttamente le persone, e non lo si potrà mai risolvere, e neppure affrontare seriamente, salvo farlo attraverso la volontà e l'azione diretta dei cittadini»; la citazione di Giancarlo De Carlo riportata, che marca secondo la critica internazionale l’esordio ufficiale della partecipazione democratica in urbanistica, e implicitamente la domanda di un linguaggio accessibile a tutti, è tratta da Peter Hall, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford, p. 271
austerity che soffoca l’Unione con meno risorse per pagare i debiti pubblici e più sviluppo”. La Repubblica, 31 dicembre 2014
Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?
«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza».
La famosa “rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti?
«Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perché l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro come la Gran Bretagna? Ma perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base per lo sviluppo comune a partire da quella fiscale, e magari riorientare quest’ultima tassando di più le maggiori rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità, e poi vigilare perché tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse, 19 da inizio gennaio con la Lituania, esposta al flagello della speculazione. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita».
Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce più precisamente?
«Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale incoscientemente si è data in mano la commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a una sistematica depredazione dei profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere un giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche rendersi conto di cosa sta parlando.
Il manifesto, 31 dicembre 2014
Molto peggio va l’occupazione. L’Istat parla di «condizioni del mercato del lavoro» che «rimangono difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita». I numeri più neri in campo occupazionale vengono dai disoccupati di lunga durata. Al record del tasso di disoccupazione, che ad ottobre ha toccato quota 13,2 per cento — il governo lo ha motivato con il ritorno sul mercato del lavoro dei molti giovani prima “inattivi” o “scoraggiati”: in realtà il loro numero, sottolinea l’Istat, è aumentato del 6,5 per cento nel 2014 — si unisce infatti «un allungamento dei periodi di disoccupazione: l’incidenza dei disoccupati di lunga durata (quota di persone che cercano lavoro da più di un anno) è salita nell’anno in corso dal 56,9 per cento al 62,3». Per l’istituto nazionale di statistica «questo gruppo di individui, generalmente considerati poco appetibili dalle imprese, costituisce un fattore di freno alla discesa della disoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno». È quindi il Sud il tallone d’Achille del paese. Ma il governo Renzi pare non essersene accorto. Così come sembra non voler far niente per aiutare coloro che perdono il lavoro dopo i 50 anni, i più colpiti dalla crisi e quelli con meno possibilità di trovare nuova occupazione.
Nel frattempo si allontana sempre di più la prospettiva per loro della pensione. Il governo ha infatti approvato il decreto sull’adeguamento dell’età pensionabile dovuto all’aumento dell’aspettativa di vita che scatterà però dal primo gennaio 2016. Si tratta di un meccanismo previsto già dalla riforma Monti che il governo Berlusconi nel 2010 fissò a cadenza triennale. La riforma Fornero lo ha accelerato: lo scatto ora arriva ogni due anni. E per la prima volta dal primo gennaio sarà di quattro mesi — rispetto ai 3 decisi dal 2013. Un salto di quattro mesi che si applica a quasi tutte le “quote” maschili, facendo passare il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia dei dipendendenti del settore privato a 66 anni e 7 mesi — era a 66 anni e 3 mesi, sempre a condizione di avere almeno 20 anni di contributi versati. Allo stesso modo aumenta il requisito per la pensione anticipata a prescindere dall’età ma con una decurtazione graduale anagrafica sull’assegno: da 42 anni e sei mesi a 42 anni e dieci mesi. Più penalizzate le donne, a causa del processo di armonizzazione con gli uomini: dal primo gennaio 2016 nel settore privato il requisito anagrafico aumenterà di ben un anno e 10 mesi: da 63 anni e 9 mesi a 65 anni e 7 mesi. Uno schema che porterà nel 2050 a prevedere un’età di pensione a 70 anni uguale per donne e uomini, senza che il governo abbia men che meno preso in considerazione operazioni di flessibilità in uscita — mentre precarizza ancor di più quella in entrata con il Jobs act — nè di aumentare i coeficenti per i precari a lavoro discontinuo che quest’anno si troveranno recapitare dalla nuova Inps targata Tito Boeri la stima di pensione da poche centinaia di euro.
Il manifesto, 30 dicembre 2014
Il 17 luglio del 1998, ovvero sedici anni prima rispetto alla sentenza della Cassazione nel caso Reverberi, l’Italia aveva organizzato solennemente a Roma in Campidoglio la conferenza istitutiva della Corte Penale Internazionale competente in materia di crimini contro l’umanità. La Corte è nata, seppur stentatamente. L’Italia non si è mai adeguata fino in fondo allo Statuto della Corte voluta dall’Onu. Tra i crimini che la Corte è deputata a giudicare vi è la tortura. Non essendovi il delitto nel nostro codice penale sarà ben difficile arrestare quel militare o dittatore che si è macchiato di questo crimine all’estero e viene a trovare rifugio in Italia. I torturatori di tutto il mondo possono scegliere di venire in Italia come se fosse un paradiso criminale.
Tre anni dopo la conferenza di Campidoglio, nel luglio del 2001, ovvero tredici anni prima della sentenza della Cassazione, c’è stata la tragedia genovese. Un pezzo dell’apparato di Stato organizza e commette violenze brutali contro chi manifestava contro il G8. Partono i processi. Un certo numero tra poliziotti e funzionari viene messo sotto inchiesta. La condanna interviene ma per reati lievi. Manca infatti il delitto di tortura. A uno dei torturati di Bolzaneto gli agenti della polizia penitenziaria, dopo essersi vantati di essere nazisti e di provare piacere a picchiare un «omosessuale, comunista, merdoso», dopo averlo offeso dicendogli «frocio ed ebreo», lo hanno portato fuori dall’infermeria e gli hanno strizzato i testicoli, come nella tradizione tragica della tortura a Villa Triste o a Villa Grimaldi. «Entro stasera vi scoperemo tutte». Machismo e fascismo, come sempre insieme appassionatamente. Tra il 2001 e il 2014 ci sono stati casi che hanno scosso le coscienze di questo paese. Un giudice ad Asti nel gennaio del 2012 ha certificato che la tortura commessa da alcuni poliziotti penitenziari non era da lui punibile in assenza del delitto nel codice. Siamo alla fine del 2014 e il Parlamento resta ancora in silenzio. Antigone, insieme ad Amnesty International, Arci, Cittadinanza Attiva, Cild e decine di altre organizzazioni ha organizzato un minuto di silenzio in Parlamento lo scorso 10 dicembre 2014 sperando di mettere i deputati davanti alle loro responsabilità e volendo stigmatizzare il silenzio colpevole delle istituzioni. L’esito della discussione parlamentare è quanto meno mortificante: è stata rinviata a dopo le vacanze. L’Italia, va ricordato, aveva preso formalmente questo impegno internazionale nel 1988. Nella scorsa primavera il Senato ha approvato un testo non conforme a quanto previsto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: si usa il plurale per le violenze (un’unica violenza non determinerebbe tortura) e si configura il delitto come delitto generico ovvero non tipico di chi ha obblighi legali di custodia. La Camera sta ragionando — lentamente, molto lentamente, troppo lentamente — intorno a possibili miglioramenti. Questa è buona cosa ma lo fa senza verificare cosa potrebbe accadere in Senato nel caso di un nuovo cambio di testo. Infatti, fino a quando resiste il bicameralismo, ad ogni cambiamento il testo torna all’altra Camera.
In Senato non vi sono garanzie che ci siano i numeri per far passare la legge. Ci sono gruppi dello stesso partito che hanno votato o preso posizioni molto diverse, se non opposte, alla Camera e in Senato. A Palazzo Madama il Ncd ha dato il peggio di sé. Gli emendamenti peggiorativi del testo sono tutti suoi. «Accogliamo con grande favore l’introduzione del nuovo reato, che è uno strumento in più per perseguire le violazioni alla tutela dei diritti dell’uomo. L’unica perplessità è nella fase applicativa, non certo in termini di principio. Ci sono alcune criticità nel testo». Così il capo della Polizia Alessandro Pansa audito in Commissione Giustizia alla Camera. Le sue dichiarazioni costituiscono un passo in avanti importante. Dunque ci rivolgiamo a tutti i parlamentari del campo democratico, liberale, cattolico, progressista: se siete contro la codificazione del delitto di tortura abbiate il coraggio di dirlo pubblicamente (alle Nazioni Unite, ai nostri lettori e alle nostre associazioni); se invece siete favorevoli scrivete la migliore legge possibile a approvatela definitivamente nel giro di un mese.
* presidente Antigone
Il manifesto, 30 dicembre 2014 (m.p.r.)
VAROUFAKIS:
«SOLO TANTE MENZOGNE SULLA RIPRESA GRECA»
di Thomas Fazi
La Grecia, che oggi mostra un tasso di crescita economica tra i più alti di tutta l’Unione, viene presentata dai fautori dell’austerità come una dimostrazione dell’efficacia del consolidamento fiscale e della svalutazione interna, che avrebbero reso l’economia greca più efficiente e competitiva. Cosa ne pensa?
Penso che sia una perversa distorsione della realtà. La Grecia è in piena Grande Depressione. Sono sette anni che i redditi e gli investimenti nel paese sono in caduta libera; questo ha determinato una vera e propria crisi umanitaria. E adesso, sulla base di un trimestre di crescita del Pil reale, sono tutti lì a festeggiare la «fine» della recessione! Ma se si guardano attentamente i numeri, ci si rende conto che siamo ancora in recessione, anche in base ai dati ufficiali. La spiegazione è piuttosto semplice: nello stesso periodo in cui il Pil reale è cresciuto dello 0.7%, i prezzi sono caduti in media dell’1.9%. Per chi non lo sapesse, il Pil reale equivale al Pil nominale (ossia calcolato in euro) diviso per l’indice dei prezzi (il cosiddetto deflatore del Pil). Considerando che questo indice è sceso dell’1.9%, e che il Pil reale è aumentato solo dello 0.7%, questo vuol dire che il Pil misurato in termini nominali, ossia in euro, è sceso! Dunque la crescita del Pil reale non dipende dal fatto che il reddito nazionale, in euro, è cresciuto; dipende dal fatto che esso è caduto più lentamente dei prezzi. E ora l’establishment politico, sia europeo che nazionale, vorrebbe vendere ai greci questo piccolo trucco contabile come la “fine della recessione”. Ma non funzionerà.
Pil al –25%, disoccupazione ai massimi livelli dai tempi della seconda guerra mondiale: pensa che questi siano semplicemente gli effetti indesiderati di politiche «sbagliate», o possono essere considerati il frutto di un disegno preciso?
Nessuna delle due, credo. Queste politiche erano le uniche che non comportavano un’ammissione del fatto che l’architettura dell’eurozona è fondamentalmente disfunzionale, e che la crisi era sistemica e non «greca». Ma soprattutto, erano le uniche ad essere compatibili con quello che era l’obiettivo principale dell’establishment: salvaguardare i banchieri da qualunque tentativo di espropriazione da parte dell’Unione europea o degli stati membri. Ed è così che una nazione piccola ma fiera è stata costretta a implementare una feroce politica di svalutazione interna che ha causato e sta causando enormi sofferenze alla popolazione, oltre ad aver fatto lievitare il debito privato e pubblico del paese a livelli insostenibili, e tutto questo per mantenere l’illusione che l’architettura dell’eurozona fosse sostenibile, e per scaricare le perdite colossali delle banche private sulle spalle dei cittadini comuni, dei lavoratori e dei contribuenti. Una volta decisa la strategia, l’hanno poi ammantata di propaganda neoliberista per renderla più appetibile…
Perché i mercati hanno così paura di Syriza secondo lei?
Quello che temono è lo scoppio delle due bolle economiche gonfiate ad arte da Berlino, Francoforte e Bruxelles negli ultimi anni, quella dei titoli sovrani e quella dei titoli di borsa, che avevano lo scopo di alimentare l’illusione della «ripresa greca». Ma questo è il destino di tutte le bolle: alla fine scoppiano. E prima lo faranno meglio sarà, perché ci costringerà a guardare finalmente in faccia la realtà e a darci da fare per migliorare le condizioni di vita di tutti, sia in Grecia che nel resto dell’eurozona.
Pensa che la vittoria di Syriza sia un’ipotesi realisticamente possibile? O ritiene che le forze conservatrici dell’establishment greco - ed europeo - siano disposte a tutto pur di sbarrargli la strada?
Entrambe le cose. Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire. Una vittoria di Syriza al momento sembra sempre più probabile.
Come giudica l’augurio di Juncker affinché i greci non votino «in modo sbagliato»?
Direi che dimostra un profondo disprezzo per la democrazia, e un atteggiamento neocoloniale che si fa beffa dell’idea secondo cui l’Unione rispetta la sovranità dei suoi stati membri. In teoria, è la Commissione europea che è tenuta a rispondere delle sue scelte di fronte ai cittadini degli stati membri, e non i cittadini che sono tenuti a rispondere delle loro scelte di fronte alla Commissione. E per definizione la Commissione non può esprimere alcun giudizio di merito sull’esito di un’elezione. E non può di certo dire quale sia il candidato «giusto» e quello «sbagliato». Con questa affermazione, Juncker ha fatto cadere ancora più in basso la reputazione della Commissione, già ai minimi storici, e ha allargato ancora di più il deficit democratico dell’Ue. Il suo intervento è stata una delle mosse più anti-europee che si potessero immaginare, in quanto è riuscito a delegittimare in un colpo solo sia la Commissione che l’Unione stessa.
Ci può descrivere in breve i punti principali del programma di Syriza?
In primo luogo, un governo guidato da Syriza farà di tutto per far sì che l’Europa affronti i nodi che finora si è rifiutata di affrontare: la disfunzionalità dell’architettura dell’eurozona, e il fatto che i cosiddetti “salvataggi” della troika - che erano tutto fuorché dei salvataggi - sono stati molto deleteri sia per i paesi della periferia che per quelli del centro, inclusa la Germania. In secondo luogo, si sforzerà di ricostruire e di rimettere in moto l’economia sociale della Grecia per mezzo di un «New Deal per l’Europa» finalizzato a tirare tutta la periferia, e non solo la Grecia, fuori dalla depressione. Infine, si adopererà per riformare sia il settore privato che quello pubblico al fine di incrementarne la creatività e la produttività, e per costruire una società migliore.
Il ritorno alla normalità passa necessariamente per un default su una parte del debito pubblico?
Sì, e questo non vale solo per la Grecia. La Grecia farà senz’altro default a un certo punto, ma probabilmente non lo farà in maniera formale, ma con un taglio del debito greco nei confronti del resto dell’Europa. E a quel punto, poco dopo, seguiranno l’Italia e poi la Spagna e il Portogallo. Di fatto rappresenterà il primo passo verso una specie di unione fiscale: quando uno stato ha avuto in prestito dagli altri e non è in grado di ripagare al tasso concordato, è una specie di unione fiscale, ma una specie terribile, la peggior specie, un’unione fiscale per default.
PAPADIMOULIS: «UN VOTO PER CAMBIARE TUTTA L'EUROPA»
di Argiris Panagopoulos
Syriza vincerà le elezioni per cambiare la Grecia e l’Europa, sostiene convinto il vicepresidente del Parlamento Europeo Dimitris Papadimoulis, che si prepara per dare battaglia elettorale e rompere il cerchio dell’austerità in Europa. Papadimoulis crede che la vittoria di Syriza offrirà una grande possibilità alla Grecia e ai paesi della Ue colpiti dalla crisi per cambiare gli equilibri in Europa. Dimitris Papadimoulis, è vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza, con una lunga esperienza anche nel parlamento greco, dove è stato portavoce di Syriza. Proviene dai giovani dei comunisti democratici del Partito Comunista Greco e ha rappresentato per anni Synaspismos nel parlamento greco e nel Parlamento Europeo fino alla nascita di Syriza, di cui è diventato uno dei suoi più noti esponenti.
Come valutate il risultato della terza votazione?
Era quanto avevamo previsto. La sfida ora è di andare alle elezioni con una vera contrapposizione politica tra i programmi e i progetti per il futuro del paese. Senza il mercatino della paura e l’allarmismo, senza un clima politico da guerra civile, perché tutto questa provoca danni al paese e la sua economia. Noi abbiamo lavorato sempre per unire le forze democratiche e il nostro popolo. Non vogliamo divisioni. Il governo è stato costretto ad accelerare per l’elezione del presidente della repubblica perché altrimenti doveva far votare un altro pacchetto di misure di austerità. Sapevano molto bene che dopo le tre votazioni in parlamento dovevamo andare alle urne. E loro sanno bene che perderanno le elezioni. Per Syriza si presenta una vera sfida per cambiare il nostro Paese e non solo. Per questo serve una grande alleanza elettorale con un programma realistico, efficiente e pragmatico. Syriza è coerente con tutto quanto ha detto e fatto. Non fa alleanze occasionali. Gli ultimi anni abbiamo visto di tutto, Nuova Democrazia e Pasok governare insieme, un primo ministro venuto dalle banche senza nessuna legittimità e una pioggia di Memorandum e decreti fuori da ogni legittimità democratica e parlamentare.
Syriza rappresenta un pericolo per l’Europa?
L’obiettivo principale del nostro programma è far diventare la Grecia uno stato membro paritario con pieni diritti dentro l’Unione Europea e dentro l’eurozona. Un paese dove ci sarà in vigore lo stato di diritto e la giustizia sociale, con una crescita economica senza questa atroce disoccupazione e la galoppante recessione. Il programma di Syriza è pieno di proposte per cambiare la situazione, pieno di proposte per vere riforme. Il governo uscente ricorre ad un allarmismo pericoloso. È inevitabile che perderanno le elezioni. Le potevano perdere con dignità e senza cercare di fare ulteriore danno al nostro paese. Le nostre proposte potranno aiutare l’Europa a rialzarsi in piedi, perché dobbiamo risolvere la questione del debito. Ora in tanti ammettono che la sola proposta possibile è la Conferenza Europea per il debito. Quando l’avevamo presentata sembrava che avevamo proposto la fine del mondo. L’unica proposta credibile per salvare l’Europa dal baratro è la nostra. Il voto dei greci sarà anche un voto per salvare l’Europa e risolverà parte dei problemi di tutti i paesi del Sud Europa compresa l’Italia.
I sondaggi dicono che Syriza vincerà le elezioni. Che dirà il giorno dopo all’Unione Europea?
Il governo che avrà come asse principale Syriza si muoverà per cercare risposte efficienti e realistiche a livello europeo, lato debito e politica fiscale. Vogliamo mettere ordine nelle nostre finanze e vedere la nostra economia tornare a crescere. Obbiettivi impossibili da raggiungere quando il debito pubblico vola al 180% del Pil. In tutti i paesi europei che si sono applicate le misure di austerità sono aumentati i debiti e si è distrutta l’economia. Abbiamo bisogno di far ripartire la nostra economia e per questo servono investimenti pubblici. Per questo il patto di stabilità rappresenta un cappio al collo dei popolo europei. Il precedente governo era impegnato ad avere un surplus che doveva arrivare al 4,5% in media per i prossimi anni. Ma per avere un surplus di queste dimensioni in questa drammatica situazione significherebbe di distruggere completamente la nostra società. Dobbiamo liberarci da queste imposizioni e trovare il modo di creare lavoro vero e ben remunerato, ridistribuire la ricchezza e lavorare per la coesione sociale della nostra società. Anche questi non sono solo problemi della Grecia ma di tanti altri paesi europei.
Lei è anche vicepresidente del Parlamento europeo. Crede che una vittoria di Syriza può avviare un cambiamento in Europa tanto nei singoli paesi quando nelle istituzioni europee? Durante la campagna per le elezioni europee abbiamo visto un grandissimo interesse da parte dell’opinione progressista europea per la situazione in Grecia e la vittoria di Syriza nelle elezioni europee. Con Syriza è nata una grande speranza e noi abbiamo il compito di far diventare questa speranza una concreta realtà per cambiare le condizioni di vita dei nostri cittadini. Come valutate la mobilitazione di tanti italiani a favore di Syriza o perlomeno del diritto del popolo greco di scegliere liberamente il suo governo senza le pressioni e i ricatti?
Hanno visto giusto tutti quelli che hanno firmato l’appello «Cambiar la Grecia - Cambiare l’Europa», perché hanno una concezione globale per la dinamica della crisi e una visione solidale per risolvere i problemi dentro l’Unione Europea. Rappresentano tra l’altro una gran parte delle forze migliori dell’Italia. A molti di noi ha onorato il sostegno dei cittadini italiani, di scrittori come Andrea Camileri o medici come Gino Strada. Questo ha molto significato per un paese in piena crisi umanitaria e con una parte della sua popolazione senza nessuna assistenza sanitaria grazie alle politiche di austerità. Siamo contenti che tante persone che lavorano al manifesto, come la sua direttrice, Norma Rangeri, abbiano firmato l’appello. In Syriza, dall’inizio, abbiamo detto che non lasceremo nessuno solo nella crisi. Noi abbiamo il compito di unire tutto quanto viene diviso da queste drammatiche politiche di austerità. E cerchiamo di farlo nel modo migliore, con la solidarietà a livello nazionale e a livello internazionale. Solo così potremo ricostruire l’Europa con i suoi popoli. ll leader di Podemos Pablo Iglesias ha detto recentemente, e ha ragione, che le elezioni in Spagna alla fine dell’anno partiranno dalla Grecia.
Cinque anni fa Alexis Tsipras militava in un partito che raccattava a stento il 4,9% dei consensi. Oggi la sinistra di Syriza è in testa a tutti i sondaggi. E la sinistra (che in Grecia c'è) fa paura al partito dei padroni. Domani anche in Italia?
La Repubblica, 30 dicembre 2014
«L’Europa deve mettersi in testa una cosa. Quello che conta in democrazia è il voto. E il futuro del mio paese lo decideranno i miei concittadini e non i falchi dell’euro », ha esordito. Compito dei greci è scegliere «tra nuovi tagli e la Troika o la speranza». Il 25 gennaio, visto da questa sala che trabocca di passione, è già diventato una sorta di catarsi. «Oggi è l’inizio della fine di chi ha portato la Grecia nel baratro - assicura l’enfant prodige della sinistra europea ai militanti del partito - . Il bello è che il premier e i politici che hanno causato la crisi si presentano come i salvatori della patria dandoci lezioni di europeismo. Ridicolo, visto che arrivano da chi (leggi Samaras, ndr .) è passato in una notte da paladino del fronte anti-Troika a miglior amico di Ue, Bce e Fmi». Applausi.
La strada, lo ammette anche Tsipras in camicia bianca quasi renziana, «non è facile». Prima c’è da vincere le elezioni («ribalteremo i pronostici, la gente non vuol buttare alle ortiche cinque anni di sacrifici», ha detto ieri il presidente del Consiglio). Poi, soprattutto, c’è da cercare alleati per formare un governo e raggiungere in tempi brevissimi - entro fine febbraio - un’intesa con la Troika per sbloccare nuovi aiuti ed evitare il default. «C’è una sola cosa non negoziabile - è il mantra del leader di Syriza - . Noi vogliamo uscire dal memorandum senza nuovi tagli lacrime e sangue». Washington, Bruxelles e Francoforte devono mettersi il cuore in pace. I due miliardi di austerity pretesi in cambio dell’ultima tranche da sette miliardi di prestito resteranno secondo i piani di Tsipras un sogno. Anzi: «Syriza implementerà da subito il programma di Salonicco ». Tradotto: un ritocco all’insù delle pensioni più basse e dello stipendio minimo, elettricità gratis alle famiglie meno abbienti e nuovi investimenti pubblici. In soldoni, una sconfessione degli accordi già presi con la Troika che per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble «vanno rispettati ».
Il braccio di ferro si preannuncia durissimo. Anche perché Syriza chiederà alla Ue un taglio sostanzioso del debito greco, fumo negli occhi per i rigoristi del Nord. Tsipras però ha teso loro ieri anche qualche piccolo ramoscello d’ulivo: «Teniamo alla stabilità del sistema bancario in Grecia e in Europa- ha spiegato-. Non usciremo dall’euro, non prenderemo decisioni unilaterali sul debito e non toccheremo i risparmi dei privati». Lotta senza quartiere invece agli evasori. «E’ un assurdo che Samaras chieda il voto a un ceto medio che ha spinto nella povertà massacrandolo di tasse e di tagli agli stipendi mentre non ha torto un capello ai ricchi che non pagano le tasse».
Clima molto pre-elettorale. Aperitivo di una campagna che si preannuncia virulenta e polarizzata e dove «il concetto di Grexit, l’uscita di Atene dall’euro in caso di vittoria di Syriza, sarà utilizzato da Nea Demokratia come arma impropria di terrorismo mediatico».
Gli ambienti europei sono convinti che al momento di sedersi al tavolo delle trattative i toni saranno meno accesi. E che Tsipras, imbrigliato anche dalla necessità di trovare alleati per varare un governo, abbasserà dopo il 25 gennaio l’asticella delle sue pretese. Il leader carismatico della sinistra ellenica promette invece battaglia: «Il vento in Europa è cambiato. Podemos è in testa ai sondaggi in Spagna. Ho ricevuto messaggi di solidarietà da Italia, Francia, Bolivia e persino dalla Germania». E nessuno, è la sua speranza, avrà il cuore di buttare la Grecia fuori dall’euro. Il finale, nello stile dell’oratore, è pirotecnico. «Samaras e Venizelos saranno buttati fuori dalle stanze del potere - ha concluso Tsipras -. Ma li diffido dal far sparire documenti ed e-mail firmati in questi anni. Specie quelli con la Troika. Li vogliamo vedere tutti uno a uno». Ovazione. Dalla sala e dalle strade intorno al Keramikos, intasate di gente che non ha trovato posto nel teatro. La campagna elettorale è iniziata.
Internazionale.it, 23 dicembre 2014 (m.p.r.)
Il governo, il ministro dell’istruzione, i collaboratori del ministro, i funzionari del ministero decidono che serve qualcuno che insegni agli insegnanti a insegnare meglio, perciò stanziano una certa quantità di denaro per formare questi formatori: il denaro verrà dato alle scuole (una per regione) che organizzeranno dei corsi ad hoc, e da questi corsi verranno fuori dei “docenti esperti” che poi dissemineranno la loro esperienza e le cognizioni acquisite nelle scuole del territorio.
A mio parere non è una buona idea, anzi è un’idea pessima, ma non è di questo che parliamo adesso.
Presa la decisione, stanziato il denaro, restano da curare i dettagli: informare i mezzi d’informazione, mettere la notizia sul sito del ministero, scrivere la circolare che verrà mandata ai dirigenti scolastici. C’è un ufficio per tutto.
L’ufficio che s’incarica di scrivere la circolare deve intanto dare un titolo, un oggetto, al documento che sta per produrre. Potrebbe essere qualcosa come "Formazione degli insegnanti-tutor", oppure "Piano per la formazione di insegnanti che aiutino i colleghi ad insegnare meglio", o persino "Piano per la formazione di personale docente che migliori la qualità dell’insegnamento nelle scuole". È probabile che all’estensore del documento vengano subito in mente formule del genere; ma con la stessa tempestività capisce che queste formule non vanno bene. Ci pensa su un attimo, quindi scrive:
«Piano di formazione del personale docente volto ad acquisire competenze per l’attuazione di interventi di miglioramento e adeguamento alle nuove esigenze dell’offerta formativa».
Risolto il problema dell’oggetto, l’estensore del documento non può passare subito all’informazione, alla cosa che vuole comunicare, non può dire qualcosa come “il ministero ha deciso che bisogna formare dei – diciamo – super-insegnanti che aiutino i colleghi meno esperti (o più demotivati) a far bene il loro lavoro, perciò ha stanziato la somma X, somma che verrà assegnata a scuole che presentino dei buoni progetti di formazione e aggiornamento”. Così è troppo veloce, ci vuole il preambolo. Il preambolo dura circa una pagina, e comincia così:
«I mutamenti verificatisi nell’ambito della società e nella scuola implicano che i docenti acquisiscano e sviluppino con continuità nuove conoscenze e competenze. Occorre perciò avviare e sostenere con apposite attività formative processi di crescita dei livelli ed ambiti di competenza coerenti con un profilo dinamico ed evolutivo della funzione professionale».
Si chiama coazione al dicolon, ed è tipica dei temi in classe. Lo scolaro vorrebbe scrivere “Ci vuole molta cura”, ma è irresistibilmente portato a scrivere “Ci vuole molta cura e molta attenzione”; vorrebbe limitarsi a dire che “Restano vari problemi aperti”, ma la coazione al dicolon lo trascina ad aggiungere “e varie questioni irrisolte”. Nelle cinque righe che ho citato, queste zeppe si presentano con la frequenza di un tic nervoso: «nell’ambito della società e nella scuola», «acquisiscano e sviluppino», «conoscenze e competenze», «avviare e sostenere», «processi ed ambiti», «dinamico ed evolutivo». L’aggiunta di senso è minima, impercettibile, a volte nulla («dinamico ed evolutivo»); e a volte in realtà ad essere aggiunta è una dose di nonsenso: il secondo periodo, da processi di crescita in poi, è quasi incomprensibile, perché la sintassi è slabbrata e i sostantivi astratti formano una nebulosa quasi impenetrabile: cosa sono i «processi di crescita dei livelli»?
I preamboli sono sempre difficili. Il documento migliora andando avanti, le cento righe successive sono meglio di queste prime cinque? Veramente no. Ciò che si potrebbe dire chiaramente in una parola continua a essere detto confusamente in due o in tre. Il dicolon regna sempre sovrano; spuntano qua e là aggettivi puramente decorativi («attivare a livello nazionale percorsi articolati di formazione in servizio…»), o pletorici («predisporre una trama di reciproca cooperazione»); la nebulosa dei termini astratti si fa ancora più fitta, la realtà arretra, gli studenti i banchi le lavagne svaniscono in una calda luce crepuscolare («una base comune di competenza sulla progettazione e sulla organizzazione degli interventi con l’acquisizione di tecniche avanzate e metodi didattici che siano al tempo stesso rigorosi, innovativi e coinvolgenti ed includa l’uso di strumenti pratici indispensabili per gestire aule efficaci»), gli elenchi si fanno onnicomprensivi e scriteriati: «[competenze] di grande importanza per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, l’arricchimento dell’offerta formativa, l’efficienza di tutta una serie di servizi decisivi per la scuola, gli studenti e le famiglie, la comunità di riferimento». Quando salta fuori l’espressione tutta una serie, la patacca non è lontana. E quando dallo sfondo indistinto dei possibili beneficiari si stacca «la comunità di riferimento», potrebbe anche scorrere del sangue.
Che cos’è questo? Non è esattamente quello che si chiama burocratese. Non è esattamente, come recita la definizione del vocabolario, «lingua pressoché incomprensibile perché infarcita di termini giuridici e inutili neologismi, tipica dell’amministrazione pubblica». Nel documento ministeriale c’è anche il burocratese – per esempio:
«Supportare i processi di valutazione e farsi carico del monitoraggio della loro corretta applicazione in base ai criteri definiti dal C.d.D». Anziché, parlando più chiaro: Aiutare nella valutazione e controllare che essa sia in linea con i criteri stabiliti dal collegio dei docenti.
Queste – i «processi di valutazione» al posto delle “valutazioni”, i “«farsi carico del monitoraggio» invece di “verificare”, le problematiche e le tematiche al posto dei problemi e dei temi – queste sono bruttezze abituali, sciocchezze abituali, che ormai non chiamano più l’attenzione: uno potrebbe persino dire che sono i ferri del mestiere, un idioletto non più dissonante e arbitrario degli idioletti di tanti altri ambiti professionali.
Non è neppure esattamente l’antilingua di cui ha parlato una volta Calvino. L’antilingua, secondo Calvino, era «l’italiano di chi non sa dire ho fatto ma deve dire ho effettuato», l’italiano del brigadiere dei carabinieri che, anziché scrivere così la deposizione di un teste: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone”, la scrive così: “Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile”.
La lingua della circolare ministeriale non è esattamente questo. Certo, anche qui c’è quella che Calvino definiva «la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se fiasco stufa carbone fossero parole oscene, come se andare trovare sapere indicassero azioni turpi». Ma la sostituzione di fiasco con prodotti vinicoli, di stufa con impianto termico, di carbone con combustibile, per quanto idiota, non impediva di venire a capo, alla fine, di un senso: ritradotto in un italiano “reale”, il messaggio passava.
Il messaggio della circolare ministeriale, invece, non passa. Non tanto perché la scuola viene chiamata servizio scolastico e la regione diventa l’ambito territoriale, quanto perché, nel suo insieme, la circolare ministeriale non sembra scritta in italiano, o meglio perché le parole che contiene sono certamente italiane, ma i rapporti tra le parole non sembrano produrre un senso compiuto: è come se la pressione delle parole – che sono troppe, e troppo pesanti – avesse fatto evaporare i nessi sintattici (che sono anche nessi logici). Il risultato sono locuzioni senza senso come «processi di crescita dei livelli» (”tentativi di migliorare la qualità degli insegnanti”?), o interi periodi che sembrano scritti estraendo a caso dal sacchetto delle parole astratte, come:
«Reti di istituzioni scolastiche ben organizzate, facendo ricorso ove possibile alle risorse interne, favoriscono la valorizzazione delle specificità professionali presenti nel territorio in funzione di supporto alle esigenze di rinnovamento e arricchimento dei curricoli, di iniziative progettuali, di miglioramento dell’azione educativa e dell’efficienza organizzativa del servizio scolastico».
O come:
«La formazione degli insegnanti contribuisce ad esempio, ad attuare significativi interventi nel campo di un orientamento che guardi alle connotazioni delle professioni, che possono trovare spazio con l’utilizzo delle quote di flessibilità praticabili dalle scuole autonome».
Qui c’è tutto: la punteggiatura messa a caso (la virgola dopo esempio, ma non prima), gli aggettivi esornativi («significativi interventi»), le perifrasi astruse (cosa sono mai le «connotazioni delle professioni»?), i tecnicismi inutili («quote di flessibilità praticabili»); quelli che mancano sono i nessi sintattici: a cosa si riferisce il che di «che possono trovare spazio», agli interventi, alle connotazioni o alle professioni? E cosa vuol dire che gli interventi (o le connotazioni, o le professioni) «possono trovare spazio con l’utilizzo»? Sarà “attraverso l’utilizzo” (vulgo: “adoperando”)? Ma cosa vuol dire, comunque? E una «quota di flessibilità», qualsiasi cosa sia, si «pratica»?
Pare che una volta, mentre era negli Stati Uniti, abbiano detto a Salvemini che stavano traducendo Vico in inglese. E pare che Salvemini abbia risposto: «L’inglese è una lingua onesta: di Vico non resterà niente». Intendendo – non importa se a ragione o a torto – che Vico aveva idee fumose, e che l’inglese è invece una lingua chiara e distinta, che le idee fumose le smaschera, le dissolve.
Chissà se è vero. Chissà se esiste davvero uno spirito delle lingue, che ne rende alcune oneste e altre disoneste, o se invece le lingue non c’entrano, e l’onestà e la disonestà stanno nella coscienza di chi le adopera. Ma l’etichetta è trovata. Né burocratese né antilingua: quella della circolare del Miur del 27/11/2014 (prot. 0017436) è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.
La lingua disonesta. In un suo saggio sull’educazione, Neil Postman sosteneva che la cosa davvero importante era insegnare non tanto a essere intelligenti, quanto a non essere stupidi, e che quindi una buona didattica avrebbe dovuto mirare, più che a riempire la testa degli studenti di buone idee e buone abitudini, a togliere dalla testa degli studenti le idee e le abitudini dimostrabilmente sbagliate o sciocche. Se questo è vero, un’ora di lettura in classe della circolare Miur del 27/11/2014, un’ora di lingua disonesta, potrebbe giovare più di un’ora di Manzoni, e certamente più di tante regole astratte su come si scrive e non si scrive. (Nel frattempo, suggerirei alla ministra Giannini, che prima di essere ministra è una glottologa, di convocare la direttrice generale del ministero, dottoressa Maria Maddalena Novelli, e di rileggere insieme a lei piano piano, parola per parola, solecismo per solecismo, la circolare suddetta, che la dottoressa Novelli ha firmato, così come l’hanno dovuta leggere tutti i dirigenti scolastici d’Italia, una mattina di qualche settimana fa).
La Repubblica, 27 dicembre 2014
VIVIAMO tempi non facili. Quindi cercherò di darvi semplicemente il mio punto di vista su quello che è lo stato delle cose, oggi, qui negli Stati Uniti. E voglio partire da questo: l’America è un paese inondato di armi. Dove bambini di appena 9 anni vengono portati nei parchi giochi a sparare con armi vere per divertimento; dove le cosiddette leggi “ stand your ground for selfdefense ” (che consentono a una persona armata di sparare a un presunto aggressore in base alla mera percezione di pericolo per la sua incolumità) permettono a chiunque di uccidere chi si trovi nella sua proprietà; dove le leggi dette “ open carry” permettono ai cittadini in molti Stati di portare armi nei locali pubblici: ristoranti, teatri, perfino campus universitari. Senza dimenticare poi che la National Rifle Association e i produttori di armi sostengono economicamente molti politici. In una cultura delle armi e del grilletto facile come questa, quindi, il razzismo violento è un’ovvia conseguenza.
Al razzismo si associa la paura: molti poliziotti (non la maggioranza, ma molti) hanno paura. Temono i neri e allo stesso tempo li vedono quindi come un facile bersaglio, sia per mancanza di formazione professionale sia perché sono profondamente razzisti.
La situazione è aggravata dalle scelte di certi media che qui in America amano le storie di violenza, soprattutto quando si tratta di persone di colore. A riprova di questo voglio fare un esempio, ricordando che non vi fu alcuna levata di scudi quando qualche mese fa alcuni bianchi minacciarono di uccidere la polizia al Bundy Ranch. Cliven Bundy, il proprietario del ranch, era un bianco che rifiutava di pagare le tasse e aveva sollevato una protesta armata, minacciando la secessione e la rivolta contro gli Stati Uniti. Fino a quando il governo, che in questa occasione non sparò neanche un lacrimogeno, si ritirò dal terreno conteso. In quell’occasione chi aveva sparato contro la polizia non è stato nemmeno arrestato. E potrei fare un numero impressionante di esempi discriminatori di questo tipo.
Il vero nodo di tutta la questione rimane sempre lo stesso: il facile profitto che si trae dal razzismo. È stato una fonte di guadagno fin dalle sue origini: con lo sfruttamento gratuito e permanente degli schiavi; con le leggi sul “vagabondaggio”, che permettevano la cattura di qualsiasi persona di colore fuori dalla sua casa per costringerla ai lavori forzati; riempiendo a proprio vantaggio le prigioni a gestione privata incarcerando giovani neri per reati per i quali nessun bianco andrebbe mai in galera; con la repressione degli elettori nelle comunità dove i neri sono in maggioranza. Senza dimenticare il deliberato incitamento al razzismo da parte dei ricchi, così che i bianchi poveri si possano sentire superiori agli altri e non pensino a rivolgere la loro rabbia contro la classe che li sfrutta e li inganna.
In questi tempi cattivi, alcuni vorrebbero che il presidente Obama facesse di più. Ma io non credo che il presidente avrebbe dovuto “fare di più”. Che cosa poi? Barack Obama è il presidente di tutti, non il presidente dei neri. Non dimentichiamo che sua madre e chi lo ha cresciuto erano bianchi. Spesso i giudizi e le reazioni politiche, sono il frutto della piaggeria e del desiderio di apparire in tv, per mostrare quanto “si conta”: è il caso dell’ex sindaco Giuliani, che ora si mostra come il protettore dei poliziotti, ma che a suo tempo è stato odiato da loro come tutti i sindaci di New York, compreso l’attuale sindaco de Blasio, che oggi i sindacati di polizia accusano, a torto, di avere «le mani sporche di sangue ».
Nonostante tutto, comunque, la mia speranza è più forte che mai, grazie alle nuove generazioni. Ho assistito a grandi cambiamenti negli anni in cui ho insegnato a Princeton: ho visto adolescenti e ventenni, sconvolti e disgustati dal razzismo sfacciato. Vedo che nelle manifestazioni che si svolgono spontaneamente in tutto il paese ci sono tantissimi giovani: neri, bianchi, ispanici. Non bisogna credere ai media che mostrano proteste violente; la maggior parte di esse non lo è; i manifestanti sono pacifici, sono le loro richieste a essere forti e decise. Naturalmente, ci sono gli outsider che si insinuano nelle manifestazioni e accendono focolai di violenza; ma questo è sempre successo. Dall’altra parte vediamo proteste diverse: come quella di medici, infermieri e tirocinanti che in diversi ospedali d’America si sono sdraiati in massa per terra nei loro camici bianchi per quello che viene chiamato un “die-in”, una protesta pacifica dove ci si finge morti per denunciare il fatto che la polizia non viene mai chiamata a prendersi la responsabilità delle proprie azioni. È questo il tenore della maggior parte delle manifestazioni: ma la stampa tende a ignorarlo.
Davanti a tanta partecipazione, quella di migliaia di americani ovunque e senza distinzioni di classe, sono fiduciosa e ottimista. E nutro l’incrollabile speranza che le cose cambieranno in meglio, con il tempo e con le generazioni che verranno. Ne sono sicura.
(Testo raccolto da Anna Lombardi. Traduzione di Anna Pastore)
In Italia i poveri sono più poveri della media europea: al 40% della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo contro una media del 21,2%» Ma in compenso i ricchi diventano sempre più ricchi. Il manifesto, 24 dicembre 2014
Lasciandosi andare per l’ennesima volta, in questi giorni, a esternazioni politicamente impegnative a sostegno del governo in carica, il presidente della Repubblica ha perorato la causa della stabilità, ritenendo di potere così motivare, alla vigilia delle dimissioni, le proprie scelte e il proprio interventismo, a tanti autorevoli osservatori apparso spesso costituzionalmente discutibile. Sembra un po’ il Sordi della “Grande guerra”, che esortava a «fare i buoni» i soldati che, in fila, attendevano di essere spediti al fronte. Qualora potessimo permetterci di rivolgergli una domanda, gli chiederemmo se la stabilità alla quale si è riferito riguardi per caso anche questo stato di cose
Il manifesto, 24 dicembre 2014
Opporsi alla grande, inutile e dannosa Tav che buca le montagne della Val Susa è ormai, e per fortuna, diventato persino senso comune. Decenni di lotte durissime e solitarie prima di arrivare finalmente al convincimento di una larga maggioranza di cittadini. Anche grazie alla “grande opera” di informazione capillare e autorevole.
Proprio per questo le recenti e continuate azioni di sabotaggio delle linee ferroviarie usate normalmente dagli italiani (e specialmente in questi giorni di feste natalizie) sono il modo migliore per togliere consenso a tutto quello che il movimento NoTav ha saputo costruire negli anni.
Bruciare i cavi nei pozzetti che alimentano la circolazione dei treni sono sì un “atto dimostrativo”, ma di cretinismo politico di rara natura. Che ben s’accoppia con gli allarmismi del nostro ministro delle Infrastrutture che grida al “terrorismo”. Senza che (finora) ci sia stata rivendicazione, e con quella scritta NoTav che non si capisce da quanto tempo fosse lì. Più accorto si è dimostrato il presidente Renzi parlando di “sabotaggio”.
Certo la ribalta mediatica è assicurata, ma lo sono anche le maledizioni delle migliaia di persone che in queste ore si mettono in viaggio con già abbastanza problemi da risolvere e con nessuna voglia di doverne sopportare un carico aggiuntivo. Da parte di chi, magari, pensa di praticare scorciatoie che come sempre nella storia finiscono su un binario morto
Il manifesto, 24 dicembre 2014
Il pacco di natale lo stanno infiocchettando direttamente a palazzo Chigi. Questa mattina sarà il consiglio dei ministri a scartarlo, sebbene il contenuto difficilmente sarà noto subito ai lavoratori italiani in tutte le sue parti: come al solito ci si limiterà agli annunci. Renzi venderà il contratto a tutele crescenti come un modo per dare lavoro ai giovani e combattere la precarietà.
In realtà sostituisce in toto il contratto a tempo indeterminato: c’è già la fila di aziende pronte a licenziare i propri lavoratori e a riassumerli col nuovo contratto. Il primo decreto delega del Jobs act sancirà comunque la cancellazione dell’articolo 18 dalla legislazione italiana.
Dopo 44 anni di vita, il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa rimarrà solo per i licenziamenti di tipo discriminatorio, tutelati dalla Costituzione, che per fortuna non era oggetto della delega in bianco votata dal parlamento al governo.
Per il resto la libertà di licenziamento propagandata dai consiglieri economici di Matteo Renzi - il bocconiano Tommaso Nannicini, Yoram Gutgeld e il responsabile economia Pd ed ex civatiano Filippo Taddei - sarà sostanzialmente totale. Con il ministro del lavoro Giuliano Poletti nel ruolo di mediatore rispetto alle richieste sponsorizzate da Maurizio Sacconi e Pietro Ichino.
Anche l’unica piccola vittoria della minoranza Pd - il ripristino del reintegro in alcuni casi di licenziamenti disciplinari - sarà superato dalla cosiddetta opting out: la possibilità per l’azienda di scegliere di pagare un indennizzo al posto del reintegro. Con il contentino per i lavoratori di ricevere la cifra a tassazione agevolata.
La quantificazione degli indennizzi è già stata fissata e riduce di molto i livelli previsti dalla riforma Fornero: per le aziende fino a 15 dipendenti si prevede una mezza mensilità per ogni anno di anzianità, per quelle da 16 a 200 dipendenti si salirebbe a 1,5 mensilità per anno, sopra i 200 dipendenti si andrebbe a due mensilità per anno. Il tetto massimo per i dipendenti con più anzianità sarebbe invariato a 24 mensilità. Per ovviare al rischio che ai datori di lavoro convenga assumere e poi licenziare dopo un anno, sfruttando gli incentivi sui nuovi assunti previsti in legge di stabilità, il governo sembra orientato ad aumentare a 3 mensilità l’indennizzo per il licenziamento dopo un solo anno.
Ma la novità di giornata peggiore per i lavoratori italiani riguarda la ventilata possibilità di allargare tutta la partita in modo spropositato: la nuova normativa sul contratto a tutele crescenti riguarderebbe infatti non solo i licenziamenti individuali ma anche i licenziamenti collettivi. Andando quindi ad intervenire su tutte le gestioni delle crisi aziendali regolate dalla legge 223 del 1991, ora usata in caso di esuberi. In questo modo c’è il rischio reale che le imprese scelgano chi licenziare scavalcando i criteri che oggi impogono un tentativo di conciliazione di 75 giorni con i sindacati e - soprattutto - criteri precisi per l’individuazione del personale in esubero, tutelando chi ha carichi familiari. Insomma, un colpo di mano che permetterebbe agli imprenditori di disfarsi come e quando vogliono di chi sciopera, di chi contesta, di chi non gli aggrada.
In più nella bozza di palazzo Chigi è prevista una norma che consentirà alle aziende ora sotto i 15 dipendenti che aumentino la loro forza lavoro di applicare a tutti i loro lavoratori il nuovo contratto a tutele crescenti, eliminando quindi per tutti la tutela dell’articolo 18 che derivava dall’aver appunto superato quota 15 addetti. Verrebbe così superato l’ostacolo sempre strombazzato dalla destra liberale: «In Italia le piccole aziende non assumono perché sopra i 15 dipendenti c’è l’articolo 18».
L’ultima beffa per i lavoratori - ieri data per meno probabile - riguarda la possibilità di licenziamento per scarso rendimento. Anche in questo caso a stabilire se il lavoratore sia poco produttivo sarebbe esclusivamente l’imprenditore, mentre al lavoratore non rimarrebbe che dimostrare di essere stato licenziato per discriminazione.
Possibile poi che il consiglio dei ministri vari il secondo decreto delega, quello sugli ammortizzatori sociali. L’Aspi della Fornero dovrebbe essere esteso anche ai co .co .pro - contratto che Renzi ha promesso di cancellare - allungandone la copertura. Ma senza risorse pare una manovra assai complicata perfino utilizzando i fondi - 500 milioni - per la cassa in deroga: anche questi lavoratori dovrebbero esserne coperti e quindi non si capisce come aumenterebbero.
La Repubblica, 23 dicembre 2014
VIVA il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della Curia romana. Il discorso con un’analisi ammirevole e coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il Papa aggrediscono l’organismo di potere vaticano, ma in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le altre nomenclature, a tutte le corti che nel mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Tra le malattie della mente e del cuore dei burocrati vaticani e non, il Papa pone al primo posto ciò che definisce (1) la «malattia del sentirsi immortale o indispensabile», vale a dire l’identificazione del proprio sé con il potere.
«Un partito-ombra, totalmente sconosciuto agli elettori, in grado di gestire i traffici di appalti e tangenti. E perfino di cambiare le leggi e condizionare le decisioni del parlamento per garantire l'impunita».
LEspresso, 25 dicembre 2014
La Repubblica, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)
Stanno seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. «I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola — spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia — sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
A rendere chiaro il quadro c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica. Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. «Sono due prodotti dello stesso sistema — osserva Barbieri — perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo». Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero. «Già oggi - spiega Oxfam - sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino. Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali. Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. «L’esempio della birra — spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza — dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti». Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? «Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori».
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui. Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. «Ma può anche accadere - spiega Baravalle - che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale». È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati. Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi. Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.
L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia premette Baravalle - ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici». Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva? Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile. Anche per i signori del cibo.
Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)
Poste, ferrovie, interi comparti industriali, servizi pubblici locali, patrimonio pubblico: l’Italia del governo Renzi è in vendita e, dietro l’alibi del debito pubblico (peraltro, grazie a Monti, Letta e Renzi, in ascesa verso nuovi record) prepara la definitiva consegna dei beni comuni e dei servizi pubblici agli interessi dei grandi capitali finanzia. Che tutto questo avvenga dietro lo slogan “Cambia verso” ci dice solo delle straordinarie capacità comunicative del premier: cosa c’è di nuovo infatti nell’affrontare la crisi a colpi di privatizzazioni?
Negli anni ’90 l’Italia è già stata investita da un colossale piano di privatizzazioni, al punto che, nonostante il simbolo di quei decenni sia stata Margaret Thatcher, pochi sanno come quantitativamente, l’Italia abbia privatizzato più della Gran Bretagna, risultando seconda solo al Giappone. Abbiamo privatizzato più dell’Inghilterra e senza bisogno di alcuna Thatcher. E mentre la “lady di ferro” dichiarava la propria guerra affermando «La società non esiste. Esistono solo gli individui e le famiglie», in Italia è bastato dire che occorreva modernizzare il paese per poter dare il via al gigantesco processo di espropriazione sociale.
Nulla di nuovo sotto il sole di Renzi, dunque, se non il definitivo affondo che, non solo determina un
drammatico impoverimento di massa, ma rischia di precipitare il paese in un baratro, privandolo degli
stessi mezzi di una possibile ripresa. La miopia delle privatizzazioni è difatti evidente: privarsi di beni e servizi per realizzare un’entrata , perdendo nel contempo asset strategici che diventa quasi impossibile recuperare in una seconda fase. Ciò diviene ancor più grave se si pone attenzione al fatto che, nella grande ondata di privatizzazioni degli anni ‘90, il nostro paese sia riuscito a raggiungere un’ineguagliabile record: la privatizzazione dell’intero sistema bancario e finanziario. Se dal 1990 ad oggi il controllo pubblico sulle banche in Francia è passato dal 36% al 31% e in Germania dal 62% al 51%, in Italia è precipitato dal 74,5% allo 0 assoluto.
Al punto che perfino la Cassa Depositi e Prestiti, l’ente finanziario che sino ad allora aveva il compito di gestire il risparmio degli italiani e consentire il finanziamento a tassi agevolati degli investimenti degli enti locali, oggi è privatizzata e ha nel tempo assunto il ruolo di player preponderante dentro la politica economica del Paese. E oggi tutte le privatizzazioni in corso vedono Cassa Depositi e Prestiti non solo come leva finanziaria, bensì come soggetto ispiratore. Si intitola «Una nuova politica industriale dei servizi pubblici locali: aggregare e semplificare» la relazione svolta dal presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini al convegno di Federutility del 14 ottobre scorso a Roma. Si tratta di 24 pagine in cui Bassanini enuclea le linee guida sui servizi pubblici locali, non a caso divenute poi normative concrete con il decreto “Sblocca Italia” e con la Legge di stabilità.
Qual è la filosofia di fondo? Trasformare i servizi pubblici locali, a partire dall’acqua, da garanti di diritti universali in un mercato redditizio e competitivo al servizio dei grandi capitali finanziari. «L’obiettivo da perseguire è quello di porre le condizioni perché nascano operatori di grandi dimensioni, capaci di competere con i grandi players europei anche nei mercati emergenti» dice Bassanini, rilevando come nei comparti energetico, idrico e rifiuti operino attualmente 1.115 società territoriali che, nel disegno suo e del governo, dovranno divenire non più di 4-5 colossi multiutility.
Tutto questo considerato necessario per garantire 5 miliardi di investimenti/anno nei servizi idrici, altri 5 nell’igiene urbana e 1 nella distribuzione del gas. Impossibile ricordare al “nostro” come gli investimenti, in questi anni di società per azioni e di collocamento in Borsa, siano crollati a meno di un terzo rispetto a quelli che facevano le vituperate municipalizzate, perché Bassanini è troppo concentrato su un altro obiettivo: il taglio drastico dei posti di lavoro: «(..) rispetto agli attuali 1.100 operatori complessivi dei tre comparti, occorre prevedere una loro riduzione a 60-190, ed è auspicabile che si arrivi ad un numero vicino all’estremo inferiore dell’intervallo».
Obbligo alla fusione tra società di servizi pubblici locali, gestore unico per ogni ambito territoriale
ottimale (che vanno ridefiniti su scala almeno regionale), ruolo di “controllo” esterno o con quote
di assoluta minoranza degli enti pubblici e aumento delle tariffe: ecco il puzzle per consegnare tutti i beni comuni territoriali ai quattro colossi collocati in Borsa che già fremono ai binari di partenza: A2A, Iren, Hera e Acea (con la chicca di prevedere per il comparto rifiuti la costruzione di 97 inceneritori!). E per farlo, il governo Renzi ha inserito nella Legge di stabilità la possibilità per gli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità le cifre ricavate dalla vendita delle loro quote nei servizi pubblici locali.
Ma chi investirà nei servizi pubblici locali finalmente consegnati ai capitali finanziari? Cassa Depositi e Prestiti, attraverso finanziamenti diretti (3 miliardi di euro già investiti nel triennio 2011-2013) o con i propri fondi equity FSI (500 milioni a disposizione per favorire le fusioni territoriali) e F21 (già attivo nei servizi idrici, nella distribuzione del gas, energie rinnovabili, rifiuti, in autostrade, aeroporti e telecomunicazioni).
Naturalmente con interessanti joint venture con capitali stranieri, a partire dal colosso cinese State Grid Corporation of China, che, con la benedizione estiva di Renzi, ha acquisito il 35% di Cdp Reti, la società di Cassa Depositi e Prestiti, che tiene in pancia il 30% di Snam (gas) e il 29,85% di Terna (energia elettrica). Come si può intuire, siamo di fronte al più pesante attacco sinora tentato ai beni comuni e alla loro gestione territoriale e partecipativa. Vogliono chiudere definitivamente la straordinaria stagione referendaria. Vogliono consegnare le nostre vite alla finanza.
Occorre reagire in ogni luogo. Il tempo è ora.
manifesto, 17 dicembre 2014
Dopo decenni di esortazioni ossessive sull’austerità espansiva e le cosiddette riforme strutturali, il tema della lotta alle crescenti disuguaglianze sembra tornato centrale per affrontare i problemi non solo di giustizia sociale e di benessere in senso lato, ma anche della crescita economica. Studiosi e accademici (il grande successo del Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty), istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale o l’Ocse propongono studi difficilmente confutabili sulla crescita delle diseguaglianze sfatando alcuni miti del neo (ma anche vetero) liberismo.
Purtroppo questa consapevolezza non ha ancora sfiorato i governi, in particolare quelli europei. La commissione europea insiste con perseveranza del tutto diabolica sul rigore e il rispetto di regole prive di fondamento, mentre qualche governo mediterraneo si agita per mettere l’accento sulla crescita, ma essendosi preclusa per ignavia, per opportunismo o per acquiescenza verso interessi “forti” qualsiasi via efficace, si riduce ad insistere sulle riforme strutturali, che per quanto riguarda la politica economica sono un modo elegante di affermare la volontà di ridurre sempre più il lavoro a strumento, a merce che serve a produrre altre merci.
Come diceva Keynes, gli uomini al potere «sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Il nostro capo del governo afferma spesso di essere a favore dell’uguaglianza ma contro l’egualitarismo. Che questa frase sia più adatta all’epoca del telefono a gettone non sembra turbarlo affatto. Come ricorda Paul Krugman, l’alternativa è tra chi preferisce l’eguale ma estremamente improbabile possibilità per ciascuno di vivere secondo lo stile di vita dei ricchi e dei famosi (una eguaglianza da lotteria) e chi ritiene che tutti debbano avere la possibilità di vivere una vita dignitosa. Renzi da che parte sta?
A differenza del suo ispiratore Tony Blair, non sembra nemmeno che il governo italiano sia particolarmente sensibile al problema della povertà. Per lo meno Blair si proponeva di eliminare la povertà infantile. Non che ci sia riuscito, ma qualche risultato lo ha pur raggiunto, almeno a giudicare dai dati Ocse secondo i quali in Inghilterra il tasso di povertà relativa della popolazione sotto i diciotto anni era nel 2011 del 9,5%. La media Ocse era del 13,9% e il dato dell’Italia il 17,3%.
Ma come giustamente sottolinea l’Ocse, che certamente non può essere sospettata di vetero-egualitarismo, ma che sul tema negli ultimi mesi e ancora pochi giorni fa è intervenuta più volte con focus, rapporti e studi, il problema non è solo la povertà, ma la crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
Non solo da diversi decenni il 10% della popolazione che ha il reddito più basso resta sempre più indietro, ma l’effetto negativo affligge il 40% meno ricco della popolazione. Anche da questo punto di vista l’Italia non brilla tra i paesi europei.
Infatti, secondo dati Eurostat, al 40% più povero della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo, una quota più bassa della media europea (21,2%). L’Italia poi, come è noto, tra i paesi europei ha un alto indice di Gini, che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, più basso solo di Grecia, Estonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Inoltre, per citare un altro dato tra i tanti che mostrano la nostra arretratezza, il rapporto tra la quota di reddito ottenuta dal 10% più ricco della popolazione e quella del 10% più povero è in Italia molto alto (11,18), inferiore, in Europa, solo a Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania e Lituania.
Se a questi dati aggiungiamo che secondo un rapporto del Social Institute Monitor Europe, che si propone di calcolare un indice relativo alla giustizia sociale nei diversi paesi europei, l’Italia si colloca al 23° posto, insieme alla Lituania, nella classifica dei 28 paesi dell’Unione europea, si capisce che ci sarebbe molto lavoro per un governo nel quale la forza principale è un partito che si dichiara di centro-sinistra, ma non sembrano queste le priorità.
La novità delle ultime analisi è che esse provano, attraverso stime econometriche, che la maggiore diseguaglianza causa un rallentamento della crescita economica, soprattutto restringendo le opportunità di ottenere alti livelli di istruzione, per una parte significativa della popolazione, scoraggiando la formazione del cosiddetto capitale umano (ma il termine non mi piace, rimandando ad una umanizzazione del capitale e ad una reificazione delle qualità umane) e ostacolando la mobilità sociale.
Per l’Italia si stima che la mancata crescita del Pil reale per abitante causata dalla crescita delle diseguaglianze sia del 6,6% dal 1990 al 2010. Considerando che la crescita effettiva in questo periodo è stata dell’8%, non è certo poca cosa. Altro che articolo 18!
L’Ocse propone di affrontare il problema della diseguaglianza con misure che fino a poco tempo fa sarebbero state considerate poco meno che bestemmie dalla saggezza convenzionale.
In primo luogo propone di accrescere la redistribuzione del reddito e riformare in questo senso la struttura della tassazione, aumentando la aliquota marginale delle imposte sui redditi più alti, cioè esattamente il contrario di quanto è stato fatto negli ultimi decenni. In Italia, ad esempio, la aliquota marginale era del 72% ancora nel 1982.
Come nota il rapporto dell’Ocse la diminuzione delle aliquote fiscali sui redditi alti non solo deprime l’effetto redistributivo sui redditi disponibili, ma tende a far aumentare la quota di reddito ottenuta dai più ricchi, per i quali diviene più facile, in un circolo virtuoso per loro ma vizioso per tutti gli altri, accumulare capitale e accrescere ulteriormente i propri redditi. Infatti in Italia la quota di reddito di mercato (cioè stimata prima della tassazione) ottenuta dall’1% più ricco della popolazione è passata dal 6,4% del 1982 al 9,38% del 2009.
Ma il rapporto dell’Ocse suggerisce anche di eliminare o ridurre le deduzioni fiscali che tendono a beneficiare i più ricchi e riorganizzare il sistema di tassazione su tutte le forme di proprietà e di ricchezza. In particolare si sottolinea l’importanza di ripensare il ruolo della tassazione sui redditi da capitale. Quest’ultimo punto appare molto significativo per Italia in cui la quota di reddito proveniente dal capitale del 10% più ricco della popolazione è significativamente più alta in confronto agli altri paesi di cui l’Ocse fornisce i dati.
L’altra raccomandazione dell’Ocse, dopo anni di austerity e di attacchi al welfare state, è di incrementare i trasferimenti pubblici a favore non solo dei poveri, ma del 40%, e promuovere e favorire l’accesso ai pubblici servizi di alta qualità, in particolare l’istruzione e la sanità.
Non è il caso di attendere per vedere se queste idee saranno veramente assimilate nel prossimo futuro e ancor meno aspettare che Renzi si accorga che la modernità ha cambiato segno. Anche lui, al di là della retorica, è immancabilmente schiavo di qualche economista defunto. Ma le sparse forze della sinistra politica, nel momento in cui la sinistra sociale e sindacale mostra finalmente vitalità, farebbero bene da subito a organizzarsi attorno ad un programma che abbia al suo centro l’eguaglianza
Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)
Il termine “conversione ecologica” è stato introdotto quasi trent’anni fa da Alex Langer per sintetizzare il percorso necessario per ricondurre l’attività e la convivenza umana entro i limiti della sostenibilità sociale e ambientale. Il termine allude alla duplice dimensione di questo passaggio: da un lato, la riconversione strutturale dell’apparato produttivo per ridurre l’aggressione alle risorse della natura (produrre meno e meglio; utilizzare meno materiali; usare più a lungo quello che si è prodotto e scartarlo meno; recuperare tutto quello che si è scartato) e, soprattutto, per ridurre lo sfruttamento degli uomini e delle donne che vivono e lavorano su questa Terra da parte di altri membri del genere umano; dall’altro lato, quel passaggio comporta la conversione personale del nostro stile di vita, attraverso una riduzione e una qualificazione ecologica dei nostri consumi e un miglioramento dei nostri rapporti con il prossimo, gettando un ponte (Alex amava molto questa metafora) verso chi ci è estraneo, in competizione con noi o nemico.
Associarsi per effettuare insieme degli acquisti, per promuovere insieme dei servizi o per risparmiare, è già oggi possibile; o è comunque possibile inserire questo obiettivo in una piattaforma rivendicativa, che molte organizzazioni, anche di natura molto diversa tra loro, comprese quelle sindacali, potrebbero appoggiare. L’esempio più chiaro di questa condivisione sono per ora i GAS (gruppi di acquisto solidale): un certo numero di famiglie si associa per eseguire insieme gli acquisti, soprattutto, ma non solo, in campo alimentare. Ciascuno continua a comprare e a mangiare quello che vuole (non c’è alcun “collettivismo”), ma gli acquisti si programmano e si effettuano insieme, direttamente dal produttore. In questo modo si salta l’intermediazione commerciale e i relativi ricarichi (insieme ad un sacco di imballaggi inutili, inquinanti e di pubblicità); si rompe l’isolamento proprio della società in cui viviamo. Inoltre ci si può così accordare per condividere molte altre cose, per esempio: la cura di bambini, anziani e malati, la riparazione di apparecchiature e impianti guasti, lo scambio di abiti e beni dismessi, la condivisione di attrezzi e knowhow per il “fai da te”, lezioni, ecc..
Insieme al lavoro, però, essa deve promuovere anche l’impegno e la presenza organizzata di una comunità più larga, delle sue amministrazioni locali, di altre imprese che operano sullo stesso territorio, dei saperi diffusi tra i membri di tutta la comunità; per poi allargare il coinvolgimento ad altre aziende e ad altre comunità, e con esse preparare e sostenere programmi e rivendicazioni di valenza nazionale o europea.
Nelle aziende colpite dalla crisi economica e occupazionale la conversione ecologica è l’unica alternativa praticabile, poiché esse non torneranno mai più ad aprire e a riassumere per produrre le cose di un tempo. Non hanno più mercato. Per salvare l’occupazione, riaprire le assunzioni, rendere accettabile l’ambiente di lavoro, valorizzare l’esperienza e le conoscenze del personale tecnico e operaio, ma anche una parte consistente degli impianti e delle attrezzature esistenti, occorre passare a nuove produzioni. Tra queste bisogna scegliere quelle che hanno un futuro e, quindi, anche un mercato sicuro; che sono quelle che si renderanno sempre più indispensabili mano a mano che gli effetti della crisi ambientale si faranno sentire su tutto il pianeta: impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili; soluzioni per promuovere l’efficienza energetica; veicoli da usare in forma condivisa e sistemi di governo della mobilità e del trasporto sostenibili; sistemi di riciclo totale di scarti e rifiuti; progetti, know-how e strumenti per la salvaguardia e la rinaturalizzazione del territorio; sistemi di coltivazione ecologici a elevata intensità di lavoro qualificato e di tecnologia; progetti per il recupero e l’efficienza degli edifici obsoleti o dismessi; laboratori e capacità tecniche per prolungare la vita dei prodotti con la manutenzione e la riparazione; ecc..
Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità, o un insieme più ampio possibile di comunità, e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono. Ma molte cose si possono cominciare a fare, o per lo meno a discutere e definire, a costo zero. Mentre su altre si può avviare la ricerca o avanzare la richiesta, o una vera e propria rivendicazione, di un finanziamento; ma solo a condizione che siano chiare e definite le cose che si vogliono fare. A quel punto si può aprire una vertenza: sia nei confronti dei governi locali, che, eventualmente, e con il loro appoggio, nei confronti dei governi regionali, di quello nazionale e dell’Unione europea, a seconda della portata della rivendicazione.
Senza un progetto definito, però, nessuna di queste cose può andare avanti. Per esempio, le energie rinnovabili o l’efficienza energetica sul lungo periodo si ripagano da sé, perché fanno risparmiare denaro e combustibili fossili, ma per diffonderle in forme produttive e sensate ci vogliono programmi a livello territoriale, ricognizioni sul territorio e sugli edifici, progetti, tecnici, imprese di installazione e manutenzione; e poi, anche imprese per la produzione degli impianti, di materiali e attrezzature per l’efficienza energetica.
Così, con il coinvolgimento di un certo numero di enti locali, si può cercare di mettere in contatto i potenziali produttori (cioè le aziende che hanno bisogno di riconvertire le loro produzioni) con i potenziali utenti di questo intervento (enti pubblici come Comuni, ospedali, Asl, imprese, ma anche singoli privati, soprattutto se associati. Qui l’esempio dei GAS – il rapporto diretto tra produttore e consumatore – calza a pennello: si tratta di riproporlo su una scala più allargata in campo energetico, nel campo dell’edilizia e della manutenzione del territorio, nel settore agroalimentare o nel campo della mobilità. Se poi a guidare le nuove aziende sarà un imprenditore disposto a farlo sotto il controllo della comunità oppure se ne dovrà promuovere una gestione in forme associative o cooperative, è cosa da decidere in corso d’opera.
Certo, per promuovere una conversione ecologica su larga scala ci vogliono “forze fresche” anche in campo imprenditoriale, perché molti degli attuali manager e imprenditori sono indissolubilmente legati a un modo di fare impresa che non accetta interferenze esterne. Queste forze, però, ci sono e bisogna farle emergere: all’interno delle aziende, nell’associazionismo e nell’imprenditoria sociale, nel movimento cooperativo. L’importante è mantenere, o ricondurre a un ambito territoriale più ristretto rispetto a quello creato dalla globalizzazione, i rapporti tra le diverse fasi di un ciclo produttivo e tra i diversi stadi di una filiera, accrescendo così le possibilità di un controllo dal basso sulle scelte economiche. In una parola, la democratizzazione dell’economia. La conversione ecologica è dunque innanzitutto un processo di “riterritorializzazione” dei rapporti economici attraverso relazioni quanto più dirette possibili tra produttori e consumatori, in un regime di totale trasparenza, per consentire un controllo pubblico delle transazioni in corso.
La “riterritorializzazione” è comunque un obiettivo sempre relativo e mai assoluto, la cui realizzazione può essere concepita solo in progress, come processo. Inoltre, essa riguarda esclusivamente il ciclo di vita dei beni materiali e non quello dell’informazione e dei saperi, la cui circolazione deve invece essere sempre più libera e intensa su tutto il pianeta; riguarda cioè “gli atomi” e non i “bit”. La “riterritorializzazione” rappresenta l’unica risposta adeguata al problema centrale posto dalla globalizzazione liberista che è la competizione sempre più serrata che si svolge a livello planetario e che tende ad allineare ai livelli più bassi i livelli salariali e quelli di protezione sociale e di protezione ambientale.
La Repubblica, 14 dicembre 2014
Beppe Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: «La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c'è più. Oggi un'associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c'è neanche». Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media. Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile? Quindi secondo l'interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe "diventata tridimensionale perché ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori", e perché ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano? Queste sono semplificazioni inaccettabili.
Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così? Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente. Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell'organizzazione è la base di una struttura vincente. Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma. La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l'operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale.
Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo. Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata? È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate. Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni "straccione" persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali. Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche. Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l'anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia. Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti. Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall'imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l'attenzione è altrove, perché è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un'altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà.
Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l'influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma. Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo 'o Nirone' munito di tesserino dei servizi, ucciso nell'83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l'elenco di connivenze sarebbe infinito. Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale.
Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento. Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma. Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie.
Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini. Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d'accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi. È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo. Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l'occhio pigro di Lucky Luciano. Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l'inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari.
Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità, non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile. La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione. Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito. Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c'è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane? Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica. O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l'economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l'economia mafiosa.
Il manifesto, 14 dicembre 2014
La corsa di Salvini non si svolge affatto nel territorio. Non ha nulla di solido su cui camminare il leader dal maglione intercambiabile, a seconda del suolo che calpesta.
Il legame con la terra è sfumato anche per la Lega, come per gli altri pseudo-partiti esistenti, del resto. La penetrazione in Emilia, e il sostegno che sembra ricevere anche in aree del centro e del sud, non rinvia ad alcuna presenza organizzata nel territorio.
Questa mitologia delle radici nel rude paesaggio locale, con un ceto politico a portata di mano e sempre presente, non vale più per la Lega, che sfonda oltre la Padania solo perché è ospitata come non mai nei vecchi media. È con l’occupazione dello spazio televisivo che Salvini penetra anche nello spazio reale, dove manca con una vera struttura organizzata, come tutti gli altri attori.
Media e populismo con toni da destra radicale, questa è la miscela che consente alla Lega una impennata nei sondaggi. La fine della destra di un tempo, affida proprio alla Lega uno spazio politico che nessuno coltiva.
Il richiamo dei miti securitari, e gli echi della rivolta contro l’euro, trovano un’onda lunga già in movimento. E i leghisti la cavalcano, nella speranza di aggregare il cosiddetto «capitalismo della marginalità» e i ceti popolari spaesati.
I media vanno pazzi per Salvini. Per varie ragioni. Un po’ perché fa comodo progettare un duello tra i due Mattei. E c’è chi calcola che, con il Matteo lepenista come principale antagonista, è assai più agevole trionfare.
Da una parte la rabbia, la marea nero-verde che dovrebbe spaventare i moderati e lesionare la capacità coalizionale del leader leghista. Dall’altra la speranza, la bellezza e ricami analoghi che condiscono la retorica del giovin rottamatore.
A bocce ferme, questo disegno, di aiutare la crescita di un nemico dal profilo esagerato, per poi infilzarlo con più comodità, presenta una qualche razionalità. È già capitato con le europee, quando proprio la paura di Grillo e del ritorno alla liretta, ha funzionato come la identificazione di un nemico utile solo per tirare la volata a Renzi.
Ma in condizioni critiche, cioè di ulteriore delegittimazione della politica, per via degli scandali e per l’aggravamento della crisi sociale, questo calcolo di costruire per convenienza un nemico di comodo è grottesco. In casi estremi, il populismo forte, che associa la disperazione e l’offerta di capri espiatori facilmente individuabili, prevale sul populismo mite, con le sue narrazioni edificanti a copertura di ricette economiche sempre in continuità con quelle di Monti.
I poteri forti, ovvero quel poco che rimane di un capitalismo in via di espropriazione da parte del vorace capitale mondiale interessato all’acquisizione di aziende di qualità, quando offrono munizioni illimitate a Salvini, onnipresente nelle loro tv private e pubbliche, lavorano per una radicale soluzione populista all’emergenza. Hanno prima appoggiato Grillo, poi sostenuto Renzi e ora guardano a Salvini. Sperano che funzioni la saldatura tra la crisi, che sprigiona un sentimento di angoscia dinanzi alla prospettiva di una perdita di status, e la mitologia della tassazione unica al 15 per cento lanciata come magica risposta al declino.
Anche se nella sua agenda sfuma sempre più il tema della differenziazione territoriale interna e l’aggancio al nanocapitalismo del nord, la figura di Salvini conserva però dei limiti espansivi.
Non può competere come attore principale capace di sfondare nelle varie realtà del paese. Deve contare su una coalizione eterogenea tanto nell’offerta politica quanto nella copertura territoriale.
E qui affiorano per lui i problemi di convivenza tra una radicalità antisistema e la necessità di negoziazioni con spezzoni di ceto politico in ritirata. Il «centravanti» ha bisogno del «regista» ma Berlusconi, che si è offerto per svolgere questa delicata funzione, non sembra più avere la visione strategica richiesta
Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale di Cgil e Uil è finalmente arrivato a rompere la solitudine delle molte lotte che dentro questa lunga crisi sono state «l’urlo nel silenzio» della politica di un lavoro che non accetta la semplice riduzione a merce tra le merci del lavoro umano. La svalutazione del lavoro come necessità ineluttabile, come condizione permanente dell’economia. Questo, nella crisi, è il tratto ideologico che si è affermato.
Fino ad immaginare che i governi nazionali, dentro la cornice delle politiche d’austerità e dei vincoli di bilancio europei — contro cui fino ad oggi è mancato un vero movimento di massa per modificare trattati e accordi verso il lavoro-, non possano che diventare esecutori disumanizzati. In assenza di qualunque verifica concreta sugli effetti di frantumazione sociale e personale che queste politiche generano sulle comunità e sulle persone, espropriandole, sempre più spesso, anche del senso di una vita, quando le si sradica nel lavoro e dal lavoro.
In questi ultimi giorni assistiamo al dispiegarsi nel nostro Paese di queste politiche «contro il lavoro», il Jobs Act ne esprime a partire dalla forma, con il suo «abuso» di delega al governo, un concentrato significativo. Oggi, anche dopo il decreto Poletti sui contratti a termine, 8 ingressi al lavoro ogni 10 restano temporanei, i nuovi contratti, se paragonati al trimestre precedente, si contraggono di 190 mila unità, un calo che riguarda tutte le tipologie di assunzione, mentre prosegue il trend negativo dei licenziamenti: 217.000 in tre mesi e in presenza dell’articolo 18 light versione Monti/Fornero.
L’ ultimo studio della Uil denuncia che, per il combinato disposto tra lo sconto Irap, permanente, e la riduzione dei contributi previdenziali per i neoassunti, in vigore fino al 2017, l’effetto del licenziamento post art. 18 a indennizzi crescenti (non a tutele crescenti) sarebbe quello di rendere conveniente per le imprese licenziare gli eventuali neoassunti più che stabilizzarli, questo perché si tratta in ogni caso sempre di contributi senza vincoli, senza riserve né a stabilizzare o ad assumere, né per premiare aziende che investono.
Se il lavoratore venisse licenziato a fine anno l’indennizzo, e perciò il costo per l’azienda, si aggirerebbe intorno ai 2.538 euro lordi: il ’saldo’ per l’impresa dunque sarebbe positivo per 4.390 euro. Un vantaggio che aumenterebbe, se il lavoratore, sempre assunto il 1 gennaio 2015, venisse invece licenziato nel terzo anno: i benefici fiscali per l’azienda, su un reddito di 22 mila euro, ammonterebbero a circa 20.790 euro mentre il costo dell’indennizzo sarebbe di 7.600 euro lordi, con un ’vantaggio’ per l’impresa di 13.190 euro. Esattamente il contrario di quello ’stimolo’ all’occupazione stabile sbandierata con il Jobs Act.
Tanta determinazione contro il lavoro grida «vendetta» di fronte all’impotenza nell’aggredire i 60 miliardi all’anno di corruzione delle tante «terre di mezzo» di cui i fatti di Roma rappresentano solamente l’ultimo episodio. È questa incapacità e il livello raggiunto dalla corruzione che bloccano il paese, impediscono gli investimenti e minano la convivenza sociale e la credibilità di politica e istituzioni. Non i diritti dei lavoratori.
Il governo con la scelta di non «ascoltare» le parti sociali, cioè i lavoratori subisce la pressione della «parte più forte», quella delle associazioni d’impresa, si sostituisce nel ruolo di controparte e perde la sua funzione di mediazione tra interessi diversi.
Anche per questo lo sciopero generale di oggi è necessario perché ricostruisce partecipazione e rappresentanza sociale, andando oltre gli insediamenti tradizionali del lavoro sindacalizzato, ridando voce e visibilità al precariato.
Precariato che è sempre più una condizione universale, che ridefinisce rapporti di forza in un conflitto destinato a crescere anche perché ciò che si muove e si mobilita è ancora privo di una rappresentanza politica adeguata, ciò che è accaduto in parlamento al di là delle giuste e generose battaglie o è troppo poco in termini di forza o è troppo manovriero e timido e ragiona su tempi che potrebbero essere troppo lunghi e fuori sintonia con le mobilitazioni in campo.
Lo sciopero generale dà forza alle nostre battaglie e chiederà continuità, contro il pareggio di bilancio, per un piano del lavoro (New Deal), ricostruisce solidarietà per nuovi diritti da conquistare oltre le solitudini. Immaginando un altro mondo possibile che metta al centro le persone, riconosca i limiti energetici e ambientali del pianeta, e il lavoro per il bene comune oltre le diseguaglianze. Buon sciopero generale!
Settis presenta il suo libro a Venezia e spiega come «interventi sbagliati abbiano provocato l'esodo degli abitanti, l'invasione del turismo, la marea distruttiva di progetti assurdi: l'autostrada più inutile del mondo, il ponte che poteva essere costruito pure in Nuova Zelanda, il Mose». La Nuova Venezia, 10 e 11 dicembre 2014 (m.p.r.)
La storia e la memoria. Per non essere omologati a una qualsiasi periferia urbana, alle «neocittà» identiche in tutto il mondo. Venezia è la cartina al tornasole della forma urbis che va scomparendo, travolta da progetti legati al guadagno immediato e allo stravolgimento dell'esistente. E politiche che non hanno la conoscenza del presente né lo sguardo lungo del futuro. Riscuote applausi a scena aperta il professor Salvatore Settis, archeologo e storico dell'arte, noto per le sue battaglie a tutela delle città d'arte. L'aula dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, a palazzo Franchetti, non è abbastanza grande per contenere il pubblico venuto a sentire la presentazione del suo ultimo libro edito da Einaudi Se Venezia muore.
Venezia è un paradigma, un esempio, dice Settis. Un esempio di come gli interventi sbagliati abbiano provocato l'esodo degli abitanti, l'invasione del turismo, la marea distruttiva di progetti assurdi, per fortuna spesso bloccati dall'opinione pubblica. «Cambiare il modello di città, offrire il meglio della storia di Venezia», dice Settis. Che si è battuto contro la vendita del patrimonio ai privati, contro l'idea di realizzare in gronda lagunare il grattacielo più alto di Europa. Settis cita Italo Calvino e le sue Città invisibili, la necessità di tutelare le città storiche malate. E Venezia lo è più di ogni altra.
Settis si spende anche sulla difesa dei palazzi e dei beni culturali che il Comune sta mettendo sul mercato per salvare il bilancio. «Quello che abbiamo detto vale anche per villa Heriott», dice tra gli applausi. «Non è un dibattito elettorale ma un contributo», precisa il professore in apertura. Ma sono in tanti a chiedergli «un aiuto» per salvare una città distrutta dagli scandali e dalle opere sbagliate. «Quello che è successo a Roma è nulla rispetto al malaffare legato al Mose», dice Andreina Zitelli, «il governo venga qui a vedere di cosa la città ha veramente bisogno».
Gherardo Ortalli, professore di Storia medievale a Ca' Foscari e membro dell'Istituto veneto, ricorda che di recente l'Istituto ha rimesso in vita la Commissione di studio sulla laguna. «C'era sempre stata», dice, «cancellata nel 1995 perché in quegli anni non esisteva a Venezia un centro di studio laico e indipendente, ma era tutto in mano al Consorzio Venezia Nuova». Il libro di Settis, dice Ortalli, è una sorta di «anamnesi della malattia. Bisogna prima capire quello che siamo prima di inventare soluzioni distruttive».
Gian Antonio Stella, giornalista, ricorda i tanti progetti assurdi proposti negli ultimi decenni per «rilanciare» la città d'acqua e renderla moderna. Le autostrade in mezzo alla laguna, le monorotaie, fino alla torre Cardin. E al progetto esposto alla Biennale del 2010 in cui si proponeva tra il compiacimento delle istituzioni la difesa della città d'acqua affidata a una serie di grattacieli che avrebbero protetto Venezia dall'acqua. «Ma Venezia deve difendersi anche da molti veneziani», dice Stella, «i veneziani che difendono Venezia sono pochi». «Come nel Ghetto da comunità di esclusi diventiamo comunità che vince», risponde Settis.
Lidia Fersuoch, presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, parla di Arsenale e di restauri privati su palazzi come il Fontego dei Benetton e Prada a Ca' Corner della Regina.
La Nuova Venezia, 11 dicembre 2014
IL NO DI SETTIS ALLE GRANDI OPERE
A Mestre per discutere di paesaggio e territorio: lo storico dell'arte e archeologo Salvatore Settis, già direttore della Normale di Pisa e del Getty Research Institute di Los Angeles, è stato accolto ieri nell'aula magna del liceo Giordano Bruno per una lezione che ha preso spunto dal suo ultimo libro, Se Venezia muore, una disamina sui problemi delle città storiche partendo dall'analisi della situazione lagunare.