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La lettera di

Piero Fassino

Caro Padellaro,

non mi viene in mente nessun Paese democratico, né di quelli governati dai conservatori, né di quelli governati dai progressisti, dove un capo del governo - nel nostro caso direttamente proprietario di un impero mediatico e finanziario - occupi il suo tempo ad attaccare platealmente una testata che non può controllare, né condizionare direttamente o indirettamente.

È un comportamento molto grave che smentisce una volta per tutte la falsa immagine di un leader politico come Berlusconi che vuole presentarsi agli italiani come capo dei moderati. Non c'è nulla di moderato in questo attacco a l'Unità, né nel tentativo disperato di aggredire, offendere, demolire gli avversari politici e gli organi della stampa libera.

Tenete duro, il più grande partito dell'opposizione - e del Paese - è con voi; sono con voi decine di migliaia di cittadini che leggono l'Unità e i tantissimi italiani che trovano incredibile l'aggressione a cui la vostra testata è sottoposta. Continuate nell'opera preziosa di far vivere ogni giorno un'informazione libera e seria.

Nessuna intimidazione vi potrà fermare nel fare onestamente il vostro lavoro e il 9 aprile, ne sono convinto, gli italiani manderanno in archivio Berlusconi e le sue pulsioni autoritarie e populiste.

Buon lavoro.

Perché ci odia

di Antonio Padellaro

Caro Fassino,

Grazie per le tue parole di solidarietà, forti come quelle che in questi giorni abbiamo letto in centinaia di messaggi dei nostri lettori e nelle espressioni dei tanti amici che, domenica, ci aiuteranno a distribuire Unità, con lo stesso slancio ideale che ha segnato i momenti più importanti della storia di questa gloriosa testata. È vero: in nessun Paese democratico c’è un premier che passa il tempo ad aggredire un giornale dell’opposizione. In Francia uno scandalo del genere sarebbe impensabile, ci ha detto Marcelle Padovani, corrispondente in Italia del Nouvel Observateur. Uguale sconcertato stupore abbiamo colto nei giudizi di tante altre firme della stampa internazionale che non sanno più come spiegare questa inarrestabile progressione di minacce e di insulti da parte del presidente del Consiglio.

Due domande ci pongono i nostri colleghi stranieri. Perché Berlusconi odia l’Unità?. Ma, soprattutto: come mai tanto silenzio? Nei loro Paesi, infatti, sarebbe sufficiente un moto d’insofferenza nei confronti di un qualunque giornalista da parte di Chirac o di Blair o di Zapatero o della Merkel per scatenare l’insurrezione di tutti gli altri media. Qui da noi, invece, davanti alle offese e alle intimidazioni che da cinque anni, costantemente, Berlusconi rivolge contro l’Unità (come raccontiamo nel dossier allegato al giornale di domani), praticamente, non si sente volare una mosca. Noi pensiamo che i due interrogativi siano in qualche modo intrecciati poiché scaturiscono da quella grande, devastante, permanente anomalia che è il conflitto di interessi del premier. Che come scrivi, oltre a essere il proprietario dell’impero mediatico e finanziario che sappiamo, controlla, direttamente o indirettamente un’altra larga fetta dell’informazione scritta e radiotelevisiva.

Sia chiaro: nessuno mette in discussione onestà e qualità professionali dei giornalisti che lavorano in quelle importanti testate. Ma, francamente, ci si può aspettare che quei bravi colleghi si mettano a criticare per le accuse rovesciate sull’Unità il loro datore di lavoro? Che è anche il capo del governo. E uno degli uomini più ricchi del pianeta. Dunque, è già molto se dell’argomento evitano di fare cenno.

C’è poi un altro atteggiamento che chiameremo dell’indifferenza voluta e che ritroviamo, spesso, tra le righe di quella libera stampa fortunatamente ancora forte e diffusa nel nostro Paese. È una regola non scritta che suggerisce di non dare troppo spago all’Unità, che resta pur sempre un giornale concorrente. E se Berlusconi insulta il nostro giornale, lo si oscura. Ce lo ha gentilmente spiegato un’autorevole intervistatrice quando le abbiamo domandato come mai davanti all’incredibile accusa del cosiddetto cavaliere di avere noi (comunisti) in qualche modo sobillato un attentato contro la sua persona, lei non abbia replicato alcunché. Risposta testuale: sarebbe stato di scarso interesse per il telespettatori consentirgli di ricominciare daccapo, sempre sul prediletto terreno del «comunismo».

Beh, questa del premier censurato per non fargli dire troppe bestialità la dice lunga sulla credibilità del personaggio; ma anche sul ruolo, qualche volta improprio, giocato dall’informazione. Che in un qualsiasi altro Paese si porrebbe piuttosto il problema di come incalzare il premier; di come replicare punto per punto ai suoi foglietti propagandistici; di come indicarlo esporlo alla pubblica riprovazione nel caso dicesse, mentendo, che un giornale vuole la sua morte.

Ecco che allora Berlusconi ci detesta, non perché siamo comunisti (lo sa bene che è una stupidaggine) ma perché gli mostriamo per intero i suoi fallimenti interferendo con l’inclinazione a falsificare i fatti quando non lo soddisfano. Siamo un’ossessione perché lui legge sull’Unità (la legge eccome) quella evidenza che lo fa soffrire e che gli viene nascosta. Spiega bene lo psicanalista Mauro Mancia che Berlusconi è dominato dall’impulso di manipolare la verità quando è scomoda; di negare la realtà quando non gli piace per sostituirla con una pseudo realtà. Non ci sopporta perchè l’Unità titola che è stato «sbugiardato» sul caso Unipol mentre altrove la figuraccia in procura viene edulcorata. Perché le domande dei giornalisti dell’Unità lo fanno uscire dai gangheri. Perché non abbiamo paura di lui. E forse ci odia perché non lo amiamo.

Questo, caro Fassino, cerchiamo di spiegare ai colleghi della stampa estera quando ci interrogano increduli su quanto ci accade intorno. Fiduciosi con te che tra qualche settimana tutto questo sarà solo un brutto ricordo.

Titolo originale: Bird flu's spread in east Turkey – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

DOGUBAYAZIT, Turchia – Circa tre settimane fa, i polli hanno cominciato a morire in quantità bibliche nella cittadina di Diyadin in Turchia orientale, ha detto lunedì Mehmet Yenigun. In due giorni, racconta l’abitante del villaggio, tutti gli uccelli - migliaia – erano morti.

Gli allevatori allarmati sono corsi dai responsabili locali a riferire della “peste” cercando aiuto e informazioni. Ma uno dei funzionari era in vacanza. Un altro, il veterinario regionale, ha annotato i particolari e risposto che qualcuno sarebbe andato a indagare. Sinora non è arrivato nessuno.

”Potrebbe essere influenza aviaria?” ha chiesto uno degli allevatori. Gli è stato risposto “No, non preoccupatevi di questo”.

Yenigun ha fatto quello che fanno da secoli i contadini in queste alte colline coperte di neve: insieme alla moglie e ai sei figli, hanno macellato e mangiato i loro 12 polli. Ha buttato due piccioni oltre la recinzione. “Non so, forse li hanno portati via i cani” dice. Questo potrebbe aver iniziato a diffondere l’infezione.

Domenica, finalmente, i funzionari riferiscono l’apparire dell’influenza a viaria nella provincia di Agri, che comprende il villaggio di Diyadin, anche se non hanno ancora rilevato il caso di Diyadin stessa.

La lentezza della risposta, dicono gli esperti, ha contribuito al consolidarsi dell’influenza nelle vaste zone orientali del paese. Ha consentito alla malattia di spostarsi da un villaggio all’altro incontrollata e – nell’ultima settimana – di passare dagli uccelli all’uomo. Sinora sono stati confermati quindici casi.

Nessuno dei sei figli di Yenigun si è ammalato. Ma qui vicino a Dogubayazit, Zeki Kocyigit e sua moglie questa settimana hanno seppellito tre dei quattro figli. Tutti morti di influenza aviaria. Il quarto, che si presume abbia contratto l’influenza giocando coi polli della famiglia, è tornato a casa lunedì dopo più di una settimana in ospedale.

”La sfortuna nel caso della Turchia è che le persone hanno iniziato a morire prima che i funzionari scoprissero l’esistenza dell’influenza aviaria nella regione” dice Ahmet Faik Oner, responsabile di pediatria al Van Hospital, che ora sta curando sette persone colpite dall’influenza, e si è preso cura dei tre fratellini morti. “Se lo scoppio della malattia fosse stato identificato prima, e fossero state prese immediatamente le precauzioni necessarie, le cose avrebbero potuto avere sviluppi diversi”.

Nella loro linda casa di cemento di due stanze alla periferia di questa attiva cittadina di confine, mentre aspettava l’arrivo del figlio sopravvissuto, Marifet Kocygit singhiozzava sul letto. Suo marito, Zeki Kocygit, dice che non avevano sentito parlare dell’influenza aviaria alla fine di dicembre, quando loro figlio si ammalò. “Naturalmente i miei figlio giocano coi polli: sono bambini” dice Zeki Kocyigit, disoccupato e che va in città ogni giorno per cercare lavori.

Molti abitanti della regione considerano i bambini come dei martiri le cui morti finalmente hanno attirato l’attenzione sulle loro sofferenze. “È necessario che muoiano dei bambini perché la pubblica amministrazione si occupi di noi?” chiede Yenigun.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che dall’influenza aviaria in Turchia sono state infettate 15 persone. Di questi, cinque casi – riferisce il Ministero della Sanità turco lunedì – sono giudicati “preliminarmente positivi” dato che l’organizzazione non ha ancora ricevuto informazioni sufficienti a riguardo, riferisce Maria Cheng, portavoce della OMS. Un gruppo di lavoro che ha iniziato a indagare si casi ha affermato in un primo tempo che i casi erano causati da “contatto diretto con pollame malato” sostiene Cheng. Ma aggiunge: “Naturalmente stiamo ancora indagando sulla possibilità di trasmissione da umano a umano”.

Il bilancio turco su quante regioni siano state colpite, secondo i funzionari internazionali è incompleto, ma si tratta di quantità in crescita a macchie di leopardo.

La scorsa settimana solo in due o tre località venivano riferiti dei casi. A lunedì, 12 villaggi hanno confermato la malattia, con estensione dalla città di Van nell’estremo oriente sino a Bursa, vicino a Istanbul, a 1.600 chilometri di distanza. Come risposta sono stati abbattuti secondo il Ministreo dell’Agricoltura 106.000 uccelli.

Oltre a questi focolai, ha annunciato lunedì il governatore di Istanbul, Muharrem Guler, è stata diagnosticata l’influenza aviaria su uccelli in tre distretti della città, di 12 milioni di abitanti, anche se non è ancora chiaro se siano portatori della più pericolosa variante H5N1. In queste aree sono già in corso abbattimenti, ha annunciato.

Quando viene individuata l’influenza aviaria, gli animali nella zona colpita devono essere rapidamente eliminati per prevenire la diffusione della malattia. Le persone devono mantenere la massima allerta riguardo ai sintomi della malattia negli animali e prendere precauzioni quando entrano in contatto con essi.

Oltre ai 15 casi confermati, dice il governatore, ci sono oltre 20 persone negli ospedali di Istanbul che potrebbero essere ammalate:tre dei casi sono considerati altamente sospetti dato che le persone colpite sono arrivate da poco in città; avevano avuto contatti coi polli in una zona vicino alla città di Van.

Ma non è chiaro come la malattia si sia estesa in modo così violento nel paese, sostengono i funzionari delle Nazioni Unite. Anche ora, qui nelle aree più gravemente colpite, molti abitanti sostengono che le operazioni di controllo sono ancora casuali.

Mukaddes Kubilay, sindaco di Dogubayazit, dice che i funzionari locali si sono resi conto dell’influenza aviaria solo il 31 dicembre organizzando immediatamente un centro di crisi per coordinare l’abbattimento. Non ci sono più uccelli ora, dice.

In teoria, gli allevatori vengono risarciti per gli animali eliminati: ricevono circa 5 lire turche per ogni pollo, e 20 lire per un tacchino nella provincia di Agri, ad esempio. Ma gli allevatori devono fare richiesta per questi indennizzi dopo che gli uccelli sono stati prelevati, e molti dipendono dai polli per le uova e l’alimentazione quotidiana.

Nella città di Caldiran, alcuni abitanti riferiscono che le persone si tengono i polli nonostante l’ordinanza di abbattimento. “Se si hanno 15 polli se ne danno 10 per far contente le autorità” dice Nesim Kacmaz, che gestisce un negozio per l’alimentazione animale. “Credono ancora che non gli succederà niente”.

Alla realizzazione di questo articolo ha contribuito anche Seb Arsu del New York Times.

here English version

SE SI guarda alla storia del lavoro, i metalmeccanici – le tute blu – non sono una categoria di operai tra le altre. Sono l´Operaio. L´operaio è anzitutto un corpo umano al quale si chiede, da oltre due secoli, di compiere su dei pezzi di metallo alcune operazioni, semplificate al punto da poter essere eventualmente affidate a una macchina. In seguito a ciò diventa possibile costruire una macchina che provvede a render superfluo l'operaio.

Prima dell´operaio - è il caso che riporta Adam Smith in La natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) - uno spillo veniva fabbricato da un solo lavoratore, il quale stirava il filo d´acciaio, lo tagliava di misura, forgiava la testa dello spillo, appuntiva l´altra estremità, lucidava il tutto e lo incartava. Poi qualcuno scoprì che facendo svolgere ciascuna operazione da un singolo lavoratore la capacità di fabbricare spilli – quella che si sarebbe chiamata produttività – poteva aumentare di centinaia di volte. Con la divisione del lavoro applicata in modo spinto alla fabbricazione di spilli era nato il moderno metalmeccanico.

La macchina che fabbricava da sola gli spilli fu inventata davvero qualche tempo dopo, per cui gli operai del settore persero il lavoro. Successivamente un processo analogo si è ripetuto in molti altri campi. Non solo nella fabbricazione di parti metalliche, ma anche nel loro montaggio o assemblaggio per giungere a un prodotto finito. All´inizio del Novecento un ingegnere statunitense, Frederich W. Taylor, perfezionò la divisione del lavoro nelle officine introducendo un nuovo principio: pensare nuoce alla produttività. Chi usa le braccia per lavorare non deve pensare a quello che fa. Questo compito spetta soltanto alle direzioni d´officina. I loro uffici "tempi e metodi" sono centri di scienza organizzativa, incaricati di studiare come far muovere il corpo e le membra dell´operaio nel modo scientificamente più appropriato, allo scopo di ricavare da esse una maggior produttività.

Poco dopo la sua concezione teorica, la divisione del lavoro di tipo tayloristico, nel duplice senso di scomposizione d´un mestiere in operazioni elementari e ripetitive, e di drastica separazione tra ideazione ed esecuzione, veniva applicata su larga scala nelle officine Ford di Detroit sotto forma di catena di montaggio (1913). L´oggetto in fabbricazione – in questo caso un´auto, ma lo stesso sistema verrà presto adottato in ogni settore produttivo – scorre su un nastro meccanico davanti al lavoratore. Questo non deve far altro che compiere alcuni gesti elementari, purché si muova con la rapidità necessaria a non farsi scappare il pezzo che avanza sulla catena. Per vari aspetti i robot di oggi sono stati prefigurati allora. Le attuali braccia meccatroniche non compirebbero i movimenti sapienti che avvitano e verniciano, posizionano e montano pezzi complicati, se non fossero stati prima concepiti come movimenti delle braccia di operai addetti alle catene di montaggio.

Operai che però hanno anche una mente, la quale non ha mai gradito di venire consultata sul lavoro il meno possibile, perché così le manifatture prosperano di più, né di vedere il corpo che la ospita trasformato, insieme con quello dei compagni, in una parte di una grande macchina. Un´osservazione risalente ad un autore che influenzò non poco Marx, Adam Ferguson, il quale nel Saggio sulla società civile del 1767 denunciava pure la «disparità di condizioni e ineguale coltivazione della mente» che derivava da una avanzata divisione tecnica del lavoro.

Ci hanno provato spesso, i metalmeccanici, a ridurre la disparità di condizioni che deriva dal lavoro suddiviso in fasi insignificanti, e a introdurre in fabbrica una maggior possibilità di coltivare la mente. Lo hanno fatto con gli scioperi contro l´organizzazione parcellare del lavoro, dalla Renault di Billancourt del 1912 sino alla Fiat di Melfi del 2004, uno stabilimento in cui il tradizionale ufficio tempi e metodi che stabiliva imperativamente con quale angolo, e a quale velocità, bisogna muovere il braccio sinistro o la gamba destra, è stato sostituito da un computer; non è chiaro se con un tocco di umanità in più o in meno. Si sono opposti al lavoro insignificante, i metalmeccanici, anche specializzandosi in nuove professioni, come quelle che consistevano nel fabbricare parti dal raffinato e complesso disegno guidando a mano, con l´occhio al centesimo di millimetro, macchine utensili come torni e frese, rettifiche e piallatrici. Oppure, ancor sempre a mano, costruendo al banco, a forza di passaggi con lime e altri attrezzi via via più fini, prodigi di precisione come gli stampi destinati alle presse che ricavano dalla lamiera ogni sorta di sagome.

Sono professioni meccaniche durate una generazione o più, ma via via rese ridondanti, e gli operai specializzati con esse, dall´avvento di macchine sempre più indipendenti dall´operatore. Tornitori, fresatori e compagni sono stati quasi ovunque sconfitti, sin dagli anni ´50 del Novecento, dall´arrivo delle macchine utensili automatiche, poi dalle batterie di teste operatrici a trasferimento automatico, infine dai sistemi flessibili di produzione. Negli anni ´60 i mestieri di aggiustatori e attrezzisti sono stati eliminati dal controllo numerico - macchine che eseguono lavorazioni complicate sotto la guida di un programma elettronico. E per i mestieri restanti sono arrivati i robot.

C´è tuttavia qualcosa, nel corpo e nella mente dei metalmeccanici che hanno reso possibile con i loro successivi adattamenti l´industria moderna, che sembra proprio non possa essere trasferito alle macchine. E che forse spiega come siano ancora tanti, più di un milione e ottocentomila, e producano ancora, in Italia, immense quantità di manufatti all´anno: 27 milioni di tonnellate d´acciaio, oltre 20 milioni di elettrodomestici, 1 milione di auto, decine di migliaia di macchine che sanno fare di tutto, da produrre altre macchine a inscatolare biscotti. Tempo fa vi furono tecnici di produzione che puntavano a realizzare stabilimenti dove non c´era nemmeno bisogno di accendere la luce, perché erano interamente automatizzati. Ma quei pochi che riuscirono a costruire si rivelarono un mezzo disastro, e la maggior parte di simili progetti è stato abbandonato. Perché non c´è robot o automatismo che possa sostituire l´occhio e l´ascolto d´un operaio, allenati a distinguere ciò che a un dato momento funziona bene o male in un impianto in marcia; né la sua manualità che sa individuare e riparare difetti di qualità del prodotto. E meno che mai la sua conoscenza implicita dei mille snodi in cui le parti in produzione, i sistemi automatici, i tempi e i cicli e gli arrivi di materiali giusto in tempo dai fornitori si intersecano e si completano, ma non di rado si complicano e si disturbano a vicenda, sino a che l´intero processo s´inceppa. A meno che non intervenga la capacità del metalmeccanico di turno di capire e rimediare in tempo. Ad onta di chi vorrebbe che la sua mente fosse consultata il meno possibile, o di chi pensa che i metalmeccanici siano figure del passato.

Cosa sta succedendo al nostro Presidente? (della nostra Regione ed anche del “mio” centrosinistra). Si profilano all’orizzonte due progetti per impianti di rigassificazione e Riccardo Illy subito li appoggia entrambi, dichiarando ripetutamente che «il gas naturale liquefatto non esplode» (e non è vero). Per il Corridoio V, sposa un tracciato con ben più di 50 chilometri di gallerie triple, così difficile e costoso da rischiare di compromettere la realizzazione dell’importantissima infrastruttura. Per la preparazione del nuovo Piano territoriale regionale i suoi uffici lasciano agli enti consultati (Aziende sanitarie, Arpa, enti di ricerca etc.) quattro ore di tempo, a cavallo della festa del primo maggio, per «presentare eventuali osservazioni» finali.

Fa interpellare questi enti indicandoli pomposamente con termini gergali americani ( stakeholders) ma non sembra ascoltarli. In un’intervista ad un quotidiano nazionale, bacchetta altri che hanno i «soliti amici da sistemare» (ma sorvola su un paio di casi a lui molto vicini). Salto direttamente all’ultimo episodio. Sabato al Ridotto del Verdi, e tre giorni dopo sul Piccolo, Illy entra in dura polemica con il Municipio, con l’Associazione Azzurra, la stampa, il Burlo ed un bel po’ di concittadini. In particolare, a riprova della giustezza delle proprie scelte, rinfaccia all’ospedale di non aver indicato le «malattie rare fra le sue cinque principali linee di ricerca». Ma perché questa polemica? Che poi è di lana caprina, perché il non citarle esplicitamente non significa nulla, e certo non vuol dire né disconoscerle né rinunciarvi.

E’ infatti facile appurare che, da un punto di vista scientifico, le numerosissime malattie rare (vedi D.L. 124 del 29/4/1998) vengono spesso comprese nelle discipline mediche specialistiche che le studiano; ed è quello che ha fatto il Burlo nel suo pieghevole dei 150 anni, il cui secondo punto ne comprende molte (malattie croniche insorgenti in età pediatrica). Ma poi, vi pare che un Presidente regionale debba lasciarsi andare allo scontro duramente polemico? Ma nemmeno se avesse totalmente ragione! Questione di Stile. Viceversa, ha fatto piacere notare che l’Assessore competente, il medico Beltrame, nel suo intervento al Verdi non si è perso in polemiche.

Caro Riccardo, (il Presidente ed io siamo cresciuti nello stesso gruppo scout), pur non essendo un uomo di sinistra, nel 1992 ritenesti di proporti come candidato all’allora cosiddetto “gruppo di saggi della società civile” del nostro centrosinistra; e poi fosti nostro buon Sindaco (a parte certe cubature spropositate consentite dal tuo piano regolatore).

Lavoravi sodo, dando quasi l’impressione di continuare ad ispirarti alla nostra «Carta di Compagnia» di rover-scout, ricordi?: il rover «si rende utile senza chiedere gratitudine [...] fonda sempre i propri giudizi su dati precisi, non su voci od impressioni». La leggevamo in tutte le occasioni importanti. Governare la cosa pubblica è forse - dopo la famiglia - la cosa più importante che ti possa capitare nella vita. Visto che avevi scelto tu quella modalità, non reputi forse che - in vista delle elezioni del 2008 - sia giunto il momento di risottoporti anche al gruppo di saggi di allora? E ancora: saresti favorevole o contrario a che si tenessero le elezioni primarie anche per la Regione?

Livio Sirovich*

* (Livio Sirovich è geologo ricercatore presso l'OGS - Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale ; ha scritto ultimamente per Il Piccolo una serie di articoli, particolarmente approfonditi, sulle caratteristiche e problematiche del Corridoio 5 e sui progetti per gli impianti di rigassificazione. Scrittore, è autore di due bei libri: Cime irredente e Cari, non scrivetemi tutto) (d.v.)

La sparuta pattuglia dei mohicani ha ricevuto un inatteso rinforzo. Si tratta di Alessandro Profumo, massimo dirigente di Unicredit e principale autore del successo di quella banca che è ormai tra le prime in Europa. In un articolo di ieri sul "Corriere della Sera" Profumo ha ricordato e trascritto cifre ben note da tempo ma che acquistano speciale rilevanza quando sono diffuse attraverso giornali di vasta tiratura. Le cifre riguardano l´ammontare della spesa pubblica nelle principali democrazie europee e sono le seguenti: la spesa primaria rappresenta in Italia il 39,9 per cento del Pil, in Germania il 41,2, in Francia il 46,1. Se poi si considera quella voce al netto degli oneri sul debito pubblico, che da noi sono nettamente maggiori che in tutti gli altri Paesi dell´Unione, le cifre migliorano ancora nel senso che la nostra spesa primaria al netto degli interessi è ulteriormente più bassa di quella tedesca con un divario di circa tre punti e di quella francese con un divario di sei.

Ne consegue che la spesa corrente italiana è la più bassa in Europa salvo quella dell´Irlanda e della Spagna che spendono in rapporto al loro Pil ancora meno di noi.

Siete sorpresi da queste cifre? Giustificano il can-can che da mesi anzi da anni viene suonato e ballato da studiosi e politici di indiscussa autorità?

Non siatelo perché una spiegazione c´è. I tagli alla spesa dovrebbero servire a procurare le risorse necessarie per finanziare il risanamento del bilancio e gli investimenti destinati allo sviluppo, più o meno 25 miliardi di euro. In mancanza di quei tagli le risorse vanno reperite attraverso entrate tributarie. Per evitare tuttavia una brusca deflazione si cerca di bilanciare le maggiori entrate con diminuzione di imposte e altre provvidenze (assegni familiari, innalzamento della «no tax area») per risollevare il potere d´acquisto delle fasce deboli.

La differenza tra questa manovra bilanciata e un´altra eventuale concentrata sul restringimento della spesa sta nel diverso impatto sull´economia nazionale. Il taglio secco della spesa – al di là della doverosa eliminazione degli sprechi e dell´indispensabile riforma delle pensioni – creerebbe effetti depressivi sul ciclo economico estremamente perniciosi quando si è appena all´inizio d´una ripresa ancora timida e in presenza di preoccupanti segnali di rallentamento dell´economia americana.

Ricordo infine (per l´ennesima volta) che le maggiori entrate attese dal recupero dell´evasione non vanno considerate nel mucchio delle imposte e tasse che determinano la pressione fiscale e dovranno infatti al più presto essere compensate con diminuzione di imposte di pari importo seguendo lo slogan di «pagare tutti, pagare meno».

Avessimo ereditato un lascito meno sconquassato dalla precedente legislatura questa massima avrebbe dovuto e potuto essere adottata subito; così non è stato ma l´obiettivo della riduzione fiscale a fronte dei recuperi d´evasione deve restare un impegno primario e spetterà all´opinione pubblica di farlo valere ove mai il governo lo dimenticasse.

* * *

Resta da chiedersi il perché di quel can-can sull´ammontare nella spesa pubblica e la sottovalutazione di alcuni obiettivi di contenimento della dinamica delle uscite che compaiono in questa finanziaria. Sono stati indicati ripetutamente dal ministro dell´Economia ma la cavalleria economicistica carica gli sparuti mohicani senza darsi la minima cura di prendere atto di quelle misure che modificano la spesa rispetto a quella determinata dalla legislazione vigente.

Eppure quei provvedimenti non sono da poco. Ci sono risparmi nella spesa regionale, in quella degli enti locali, nella pubblica amministrazione centrale. L´entità complessiva di questa manovra vale all´incirca 10 miliardi.

Se dalle maggiori entrate si tengono distinte quelle imputabili al recupero dell´evasione e quelle imputate al trasferimento di una parte del Tfr alle casse dell´Inps (che serve a rendere possibile il taglio dell´Irap in favore delle imprese) si vedrà che l´insieme del quadro non è affatto così squilibrato come la grancassa della destra vuole far credere e come il qualunquismo nazionale ripete pedissequamente.

La ragione della perdita del consenso che sta mettendo seriamente a rischio la sopravvivenza del governo dipende da varie ragioni e cioè:

1. Gli aggravi dell´Irpef sui redditi da 50 mila euro in su; aggravi modesti ma progressivi con l´aumentare del reddito.

2. Le imposte sulle rendite finanziare.

3. L´aumento dei contributi di categorie autonome.

4. La revisione degli studi di settore da concordare con gli interessati ma in ogni caso orientati al rialzo.

5. L´imposta di successione per i patrimoni superiori a 150 milioni con franchigia di un milione.

6. Il trasferimento all´Inps del Tfr per le imprese con più di cinquanta dipendenti, che ricevono tuttavia da subito una compensazione maggiore del maggior costo per il ricorso al credito bancario.

In sostanza l´Italia "modestamente" possidente è stata chiamata a contribuire "modestamente" al raddrizzamento dei dissestati conti pubblici. Contemporaneamente ha dato incentivi consistenti alle imprese. Tra il taglio dell´Irap, i crediti di imposta, gli incentivi per la ricerca, la compensazione per il trasferimento del Tfr, il sistema delle imprese avrà nel 2007 un beneficio di almeno sei miliardi che nel 2008 supereranno gli undici. Cioè un terzo dell´intera manovra.

Dunque le imprese non hanno alcuna ragione di lamentarsi. Ma gli imprenditori in quanto soggetti individuali sì, sono colpiti. Del resto se ci sono sacrifici da fare chi deve pagarli se non chi può permettersi di pagarli? I pochi ricchissimi, i numerosi semi-ricchi, gli strati superiori del ceto medio e, sia pure "modestamente", gli strati mediani.

Quando, durante i cinque anni della precedente legislatura, avvertivamo che i conti d´una dissennata politica economica sarebbero infine venuti al pettine e che tutti avremmo dovuto farcene carico, non fummo creduti. Da un certo momento in poi, però, i primi effetti di quel disastro cominciarono a materializzarsi. Da quel momento in poi il fascino berlusconiano e tremontiano sparì, gli effetti del miracolo promesso e non mantenuto determinarono un massiccio disincanto che, purtroppo per il centrosinistra, fu in parte dissipato da una campagna elettorale assai poco efficace.

Restava comunque da pagare il conto di cinque anni sciagurati. È un conto salato: 2 punti e mezzo di Pil. Non lo dico io ma tutti gli economisti indipendenti, tutti gli istituti di ricerca internazionale, tutte le autorità europee e il Fondo monetario.

Due punti e mezzo di Pil sono circa 40 miliardi di euro. E poiché l´economia europea e anche italiana sta migliorando, 5 miliardi ci sono arrivati dal cielo.

Lo ripeto: la Finanziaria è riuscita a sostenere lo sviluppo delle imprese oltre ai provvedimenti di rigore indispensabili, ma ha dovuto tassare l´Italia benestante, della quale fanno parte imprenditori, manager, quadri, professionisti, giù giù fino ai redditi da 40 mila euro.

C´era un altro modo?

* * *

Ma c´è la lotta politica e quella sì, è feroce. Usa addirittura lo spionaggio contro le persone. Si dice: robetta, spiavano Vieri, Totti, qualche velina troppo vistosa. Ladruncoli di galline, ricattatori da cortile. È vero, spiavano anche Prodi, ma anche Berlusconi. Dunque pari e patta, non c´è mandante politico, non a caso il Cavaliere ha sentenziato che si tratta di un bidone, una buffonata, un polverone per parlare d´altro. Poi, nella sua longanimità, ha offerto un governo di larghe intese del quale – ha detto – io non farò parte, tutt´al più potrò fare il ministro dei Beni culturali (?) o dello Sport (!).

Una volta ancora ha spiazzato Fini e Casini e li ha rimessi in fila. Bossi protesta perché teme che tra le ali da tagliare, oltre alla sinistra radicale, ci sia anche la Lega, ma sa che Berlusconi alla fine non lo farà.

Intanto il Cavaliere ha iniziato la campagna acquisti tra le anime tremule del centrosinistra. Ce ne sono parecchie. Qualcuno si è già venduto, qualche altro ci sta pensando. Se si tratta di deputati i prezzi sono bassi, ma se si tratta di senatori sono alti. Non si parla ovviamente di denaro ma di influenze, cariche future, salotti buoni, relazioni altolocate. Si vedrà.

* * *

È una stagione altamente istruttiva, quella attuale.

Agitata. Sanguigna. Intrigante. Le corporazioni nazionali sono tutte all´erta perché è il momento più favorevole per far valere i propri favori e le proprie richieste.

Molti amici sono turbati da strani sogni. E lo scrivono. È una maniera comoda per dar forma ad un articolo. Si può fare un sogno rosa oppure un incubo.

Giovanni Sartori ha fatto un incubo l´altra notte e ce l´ha raccontato sul grande quotidiano lombardo. Vaticinava la sconfitta di Prodi per colpa di una Finanziaria dissennata e Prodi, con in mano un coltello a serramanico, si lanciava su di lui per trafiggergli il petto. Per sua fortuna a quel punto Sartori si è svegliato. Bene. Se può interessare anch´io ho fatto un sogno. Senza paesaggio. Ho saputo che il governo era stato battuto al Senato sulla fiducia.

Napolitano aveva aperto le consultazioni. Un nuovo governo si formava. Chiedevo a destra e manca chi fossero i ministri e soprattutto il presidente del Consiglio, ma nessuno voleva dirmelo. Però – sempre nel sogno – gli avvenimenti si succedevano con implacabile logica. Per quel tanto che ricordo, la sequenza era questa:

1. Il governo si dimetteva a metà novembre.

2. Napolitano, dopo aver consultato a tambur battente i gruppi parlamentari, dava l´incarico dieci giorni dopo.

3. L´incaricato perdeva quindici giorni per ottenere un consenso bipartisan e costruire una lista anch´essa bipartisan, impresa difficilissima.

4. A quel punto l´approvazione di una nuova Finanziaria era fuori discussione e perciò si andava all´esercizio provvisorio.

5. La Commissione europea applicava immediatamente all´Italia le sanzioni previste per eccesso di deficit. I mercati spingevano i titoli tagliati al margine delle quotazioni facendo salire di alcune centinaia di punti lo spread tra i nostri titoli pubblici e quelli tedeschi assunti come punto di riferimento bancario.

6. Veniva prescritta all´Italia una cura da cavallo. La nuova Finanziaria era, quella sì, lacrime e sangue.

7. Il contratto del pubblico impiego non veniva firmato.

8. La riforma delle pensioni innalzava l´età pensionabile a 63 anni.

9. I tagli a Comuni e Regioni indicati nella Finanziaria di Padoa-Schioppa venivano mantenuti. La perequazione dell´Irpef abolita. Il Tfr restava interamente nelle mani delle imprese.

10. La Cassa Depositi e Prestiti diventava azionista di Telecom e dell´Alitalia.

11. Sotto la mia finestra passavano senza interruzione cortei vocianti e le sirene della polizia suonavano a distesa.

12. Questo, più o meno. Un governo di moderati riformisti. O di riformisti moderati. Prodi nelle segrete del palazzo di re Enzo a Bologna. Fassino dislocato in Sicilia come commissario di quella federazione del suo partito. D´Alema agli arresti domiciliari a palazzo Borghese col divieto di avere contatti con Condoleezza Rice. Parisi all´Asinara. Bertinotti, Franco Giordano e Curzi obbligati a essere presenti a tutte le trasmissioni di Bruno Vespa. Rutelli e Marini in convivenza continuativa con Ciriaco De Mita. E Pollari? Pollari nominato comandante generale dei carabinieri e della guardia di finanza appaiati.

Don Francis Darbellay, il priore dello Chateau Verdun, lo sa che c'è una legge dello Stato e una legge della Croce, e quando non coincidono non ha dubbi, sceglie la seconda. Lo sa anche una delle due nonne di Maria, che frequenta la letteratura greca e cita le parole di Antigone contro Creonte: «Ci sono delle leggi superiori a quelle degli uomini che io devo seguire». L'ambasciatore bielorusso non lo sa, e perentoriamente domanda che la corte d'appello di Genova riconosca la sovranità della Bielorussia. Le ragioni del sangue contro la ragion di Stato, il ghenos contro la Legge, come a Tebe?

Qui però non c'è un fratello da seppellire, ma una bambina da allevare; la bambina non è una figlia naturale, nelle sue vene circola sangue straniero; e la ragion di Stato non è univoca, trattandosi di una questione di confine fra due stati. Che cosa diventa la tragedia di Antigone sotto queste coordinate?

La legge bielorussa vuole che Maria sia restituita al suo paese d'origine; «senza condizioni», aggiunge l'algido ambasciatore. La legge italiana vuole che Alessandro Giusto e Chiara Bornacin, padre e madre aspiranti di Maria, rispondano del reato di sottrazione di minore. Non è perbene quello che hanno fatto, non ci si può «impadronire» di una bambina sequestrandola, e c'è una lobby di altri aspiranti genitori che non gli perdona di aver bloccato le loro pratiche di affidamento dei figli di Chernobyl rovinando i rapporti con la Bielorussia. Quell'affezione per la piccola Maria non meritava altre e più sapienti mediazioni?

I coniugi Giusto in verità non sembrano due pericolosi sovversivi. A fare le cose secondo la legge ci hanno provato: hanno ospitato Maria per la prima volta nell'estate del 2003, sono andati a trovarla nell'orfanotrofio di Vilejka, ne hanno chiesto l'adozione a gennaio del 2004. Non l'hanno ottenuta, e nel frattempo la piccola ha raccontato violenze fisiche e psicologiche accertate da medici e psicologi e ha minacciato di suicidarsi se la costringono a tornare in quell'istituto. Nascondendola in Val d'Aosta, i Giusto non si sono impadroniti di un giocattolo o di un capriccio: hanno sottratto una bambina a una legge ingiusta e a una procedura irrazionale. Non hanno neanche difeso le ragioni del sangue contro la ragion di Stato: hanno affermato le ragioni di una famiglia meticcia, non consanguinea, contro lo jus soli di una sovranità anacronistica, che si vuole padrona dei suoi bambini dentro i suoi confini, salvo cederli per brevi soggiorni; e che oggi - parola ancora dell'algido ambasciatore - privilegia le adozioni nazionali su quelle internazionali perché si sente insieme minacciata dalla denatalità e rassicurata dalla ripresa economica.

Le vacanze dei bambini bielorussi, si sa, non sono solo una questione di buoni sentimenti ma anche una questione d'affari. A causa delle tortuosità delle leggi sull'adozione, si sa, sui bambini abbandonati si svolgono talvolta loschi traffici. Quando le leggi sono irrazionali, il mercato se ne avvantaggia e non va per il sottile. Ma anche nelle pieghe del mercato nascono e crescono sentimenti, affetti, legami, che la legge colpevolmente tarda a riconoscere. E nelle pieghe della globalizzazione, dei suoi squilibri e delle sue ineguaglianze, nascono relazioni e forme sociali inedite, che la sovranità statuale si ostina a disconoscere. Né la famiglia né lo Stato sono più quelli di una volta: ci sono bambini abbandonati in patria che trovano famiglia fuori, ci sono, nella complessa galassia dei migranti, figli che lasciano madri e padri e madri e padri che lasciano i figli per trovare lavoro altrove, ricongiungimenti familiari difficili, separazioni coniugali inevitabili, amori troncati e amori trovati. E' il ghenos oltre il ghenos di oggi, quando anche lo Stato dovrebbe andare oltre lo Stato. A Genova un amore era stato trovato. Se viene troncato, la colpa è di Stato.

Le province di Roma, Milano, Torino spariranno. Le loro competenze saranno riassorbite dalle Città metropolitane, nuovi enti che si assumeranno responsabilità finora confuse e sovrapposte. È una delle novità più macroscopiche di quello che si chiamerà il Nuovo codice degli enti locali. La prima grande legge di riassetto dei rapporti tra diversi livelli di governo, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, che l'Esecutivo si appresta a varare. Nel quadro di un disegno più complessivo di svecchiamento dello Stato.

STATO PIÙ LEGGERO

Un pacchetto di riforme in arrivo in Parlamento che tende a quella flessibilità a geometria variabile, reclamata sul Corriere della Sera da Roberto Formigoni. E prevede al primo punto, come annunciato ieri dal Sole 24 ore, un ddl sul federalismo fiscale, con fondo perequativo per garantire il riequilibrio del gettito tra diverse regioni e l'avvio di definizioni di standard di spesa e di efficienza. Quindi un ddl sull'unificazione delle conferenze tra Stato e autonomie locali e uno per la riforma dei servizi pubblici locali. Puntando a riformare, con legge costituzionale, lo stesso Titolo V per riportare grandi opere ed energia sotto la competenza dello Stato.

IL CODICE

Il nuovo codice riscriverà da zero le competenze degli enti locali. Nasceranno le città metropolitane. Certe Roma, Milano, Torino e forse Napoli. Le relative province spariranno in un riassetto che ne rimpiegherà il personale. Uno statuto a parte avrà Roma Capitale. Potenziata l'attenzione alle patologie istituzionali e finanziarie degli enti locali. Per infiltrazione mafiosa potranno essere commissariati non solo organi di governo, ma anche strutture amministrative: come le direzioni degli appalti. A verificare la salute delle casse degli enti locali potrebbero essere valutatori indipendenti. Per scoraggiare il dissesto si pensa a incentivare chi si aggrega.

LA RETE

Per dare nuova linfa alle istituzioni verrà utilizzata la rete capillare delle prefetture, che fungerà anche da sensore economico e sociale. Il sottosegretario al Viminale, Alessandro Pajno, sintetizza: «Le prefetture devono diventare il front-office istituzionale del cittadino». L'idea è far nascere una serie di sportelli unici. Simili a quelli per gli immigrati. Dove, su input delle prefetture, le amministrazioni diano al cittadino l'accesso a servizi diversi in un'unica sede. «Il rinnovamento — spiega Pajno — deve partire da qui: garantire che in questo sistema complesso decisioni pubbliche e responsabilità vengano adottate con celerità».

Il taxi è un servizio pubblico di valenza strategica perché è uno dei pilastri dei sistemi di mobilità flessibile che - integrati in soluzioni intermodali con il trasporto di linea - sono l'unica strada percorribile per riportare la mobilità urbana entro un quadro di sostenibilità. Nel momento in cui, grazie al decreto Bersani, vengono ridefinite e negoziate le condizioni generali di esercizio di questo servizio è quindi opportuno inquadrarle in una visione strategica dell'evoluzione futura della mobilità urbana. Anche perché, ove si presentino situazioni di stallo tra le parti, come è avvenuto con gli scioperi dei giorni scorsi, e come potrebbe verificarsi nuovamente nel corso della trattativa, l'unico modo per venirne a capo è quello di allargare l'ambito del negoziato, chiamando in causa altre parti in causa ( stakeholder) dirette o indirette, attuali o potenziali; non solo associazioni di consumatori, e comuni, ma anche grandi utenti: imprese e enti come ospedali, impianti sportivi, scuole, università, strutture del decentramento amministrativo, comitati, associazioni, ecc.

L'obiettivo strategico della ridefinizione del servizio è lo spostamento modale di una quota crescente della mobilità urbana e periurbana dall'auto privata al servizio pubblico e dal trasporto individuale al veicolo condiviso. Condizione indispensabile perché il servizio di linea possa rispondere e fare fronte a un trasferimento ( modal shift) consistente, ancorché graduale, di passeggeri dall'auto privata è la sua stretta integrazione con modalità di trasporto flessibile: car-pooling e car-sharing, rimanendo nell'area del trasporto privato; taxi, individuale e collettivo, nell'area del servizio pubblico.

Il servizio pubblico non può infatti coprire il fabbisogno di mobilità creato dalla struttura e dall'organizzazione della città contemporanea con il solo trasporto di linea: in particolare nelle zone periferiche, nelle fasce orarie notturne e di «morbida» (cioè con poco traffico), o per particolari categorie di utenti, o in svariate circostanze saltuarie che possono intervenire nella vita di chiunque. Ma costringere il cittadino utente a tenere un'auto a propria disposizione per far fronte a questi bisogni è un invito a usarla sempre.

Di qui la necessità di un grande potenziamento dei servizi di taxi; potenziamento che tuttavia, nelle modalità della loro attuale organizzazione, incontra ostacoli quasi insormontabili, tutti riconducibili a tre categorie: il costo, la disponibilità di vetture, le modalità di erogazione.

Il costo del servizio dipende da diversi fattori: il contingentamento - e, conseguentemente, il costo di acquisizione - delle licenze; la congestione urbana - nelle metropoli italiane, maggiore che in qualsiasi altra città europea - che dilata tempi e costi di ogni spostamento; la scarsa trasparenza della tariffa, che non permette di evidenziare i ricavi netti dei tassisti, che non sono tenuti a rilasciare ricevute con valore fiscale.

Partendo da quest'ultimo punto, non c'è nessun comparto in cui sia altrettanto facile accertare costi e ricavi di un'attività economica. I tassisti vendono un solo bene (i chilometri percorsi) certificati per legge dal tassametro e acquistano pochi input (veicoli, manutenzione, assicurazione, carburante e quote associative): tutti fatturati e/o certificabili. Come tutti i lavoratori autonomi, anche i tassisti piangono miseria, ma sapere quanto guadagnano effettivamente è condizione essenziale non solo per la lotta all'evasione fiscale, ma anche per modulare le eventuali compensazioni di una riduzione o di un azzeramento del valore delle licenze. Il quale attualmente è elevatissimo e incide in misura sostanziale sulla tariffa.

E' evidente che se si vuole ridurre al minimo - compatibilmente con la salvaguardia dei diritti e delle condizioni di lavoro dei tassisti - il costo dei taxi, il valore della licenza va azzerato (le licenze vanno assegnate gratuitamente e restituite al comune quando il tassista si ritira). Ma è un'operazione che non si può fare di colpo: richiede almeno due o tre tempi, mettendo in vendita le nuove licenze a prezzi scontati (ma non all'asta: il loro valore tornerebbe su rapidamente) e destinando i proventi - come prevede il decreto Bersani - a compensare chi la licenza l'ha già pagata.

Ma non in eguale misura a tutti. I tassisti che l'hanno comprata da dieci o dodici anni se la sono già ripagata abbondantemente; quelli che l'hanno comprata da poco rischiano invece il tracollo. Le compensazioni dovranno quindi essere differenziate; e per farlo occorre un quadro chiaro dei redditi degli interessati. Dopo di che, il livello della tariffa da praticare ai clienti potrà essere oggetto di una contrattazione collettiva con la controparte, che è il comune, tenendo conto del fatto che nella remunerazione dei tassisti dovrà essere compreso il costo di un'assicurazione che consenta loro a tempo debito un'uscita tranquilla dal lavoro: cosa che attualmente viene assicurata dalla cessione della licenza.

Quanto alla congestione, è evidente che il problema non riguarda solo i tassisti, ma tutti coloro che devono spostarsi, sia con l'auto propria che con un servizio pubblico. Con un traffico scorrevole (basterebbe, per cominciare, sanzionare drasticamente il parcheggio in seconda fila) la velocità - e, quindi, anche la capacità complessiva - dei servizi pubblici, sia di linea che di taxi, potrebbe raddoppiare anche a parità di veicoli e di consumi (meno stop and go). Spostamenti più veloci, minore durata delle corse: cioè più corse e minor costo di ciascuna. Ma anche maggiore disponibilità di taxi liberi: cioè minor tempo di attesa.

La congestione, purtroppo, è un cane che si morde la coda: non si può limitare in misura sostanziale la circolazione di auto private - e, quindi, alleggerire la congestione - se non sono disponibili soluzioni alternative, a minor costo e altrettanto personalizzate (il taxi, in realtà, è più personalizzato dell'auto privata, perché fa un servizio porta-a-porta, mentre nessuno è più in grado di posteggiare la propria auto sotto casa o nei pressi delle sue destinazioni). Ma non si possono rendere disponibili queste soluzioni alternative se prima non si liberano le strade da un buon numero di auto private. Solo la moltiplicazioni di taxi a basso costo può permettere di uscire gradualmente da questo circolo vizioso.

Secondo punto: la disponibilità di vetture in circolazione. I difensori dello status quo - i tassisti - sostengono che i taxi non sono pochi, che la domanda è inferiore all'offerta, tanto è vero che loro stanno spesso fermi per una parte rilevante della giornata. Ma con le tariffe attuali la domanda non può che essere quella che è e non può aumentare: pochi benestanti, più tutti coloro che sono rimborsati da una ditta o da un ente, più qualche situazione di emergenza. Se invece le licenze fossero libere, aumenterebbe il numero dei taxi e le tariffe non potrebbero che scendere fino a ridurre i tassisti alla fame (è la legge della domanda e dell'offerta). L'utenza certo aumenterebbe, ma in questa corsa al ribasso si degraderebbe anche la qualità del servizio.

Tra i due estremi occorre trovare una mediazione a cui il mercato da solo non potrà mai arrivare. Per questo sia le tariffe che il numero di licenze devono essere oggetto di una contrattazione con le autorità municipali. Ma per farlo occorre trasparenza: i redditi dei tassisti devono essere chiari come quelli dei metalmeccanici (e lo stesso vale, ovviamente, per qualsiasi altra categoria). Lo standard del servizio deve essere uguale per tutti i taxi in circolazione: se fosse differenziato per sigla o, peggio, per marchio (nel caso di cumulo delle licenze in capo a un' impresa), la concorrenza sullo standard del servizio segmenterebbe l'offerta e si frantumerebbe la domanda (tra chi aspetta il taxi buono, e chi cerca quello a minor costo) e l'aumento delle licenze non comporterebbe più alcun vantaggio.

Comunque, se si riflette sui costi della situazione attuale, ci si accappona la pelle. Come ha già notato il liberista Giavazzi (ma non lasciamo ai liberisti il monopolio del buonsenso!) l'Italia sta spendendo cento miliardi di euro - in realtà sta solo lasciando un debito in eredità ai nostri figli - per l'alta velocità: un treno che tra Milano e Roma farà guadagnare poco più di un'ora; che poi si perde aspettando un taxi per mezz'ora sia all'arrivo che alla partenza. Lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto senza alta velocità, e con un po' di taxi in più.

Quanto all'organizzazione del servizio, il divieto del cumulo delle licenze è una salvaguardia della qualità del servizio, oltre che garanzia per le condizioni di lavoro dei tassisti. Introdurre in questo campo il lavoro salariato o, peggio, l'affitto a giornata del «medaglione» (la licenza), come succede negli Stati uniti, è come tornare alla mezzadria o alla colonìa in agricoltura: parassitismo, sfruttamento e inefficienza.

Ma per quanto riguarda le modalità di erogazione del servizio, oggi ne esistono praticamente solo due: l'attesa del cliente al posteggio e la chiamata, o la prenotazione, telefonica del radiotaxi. Molti regolamenti comunali prevedono anche soluzioni di taxi collettivo, ma a parte qualche corsa per l'aeroporto, chi le ha mai viste? Nelle grandi città italiane i tassisti non vogliono neppure il numero unico per le chiamate, moltiplicando così - a spese del cliente - i tempi di attesa per l'arrivo di una vettura.

Eppure il taxi collettivo - accanto a quello individuale, che continuerà a esistere per le situazioni di emergenza e per i clienti che se lo possono permettere - è la vera soluzione per abbassare drasticamente il costo delle corse e per rendere il taxi una modalità di trasporto alla portata di tutti: per lo meno nelle situazioni in cui il trasporto urbano e periurbano di linea non è economicamente né ambientalmente sostenibile (i bus che viaggiano vuoti costano, inquinano, e non servono a nessuno). Integrato a un trasporto di massa potenziato lungo le linee di forza della mobilità urbana, il taxi collettivo moltiplicherebbe l'utenza (la domanda pagante) del servizio pubblico: sia quella propria che quella del trasporto di linea; e con essa l'offerta, cioè il numero delle vetture disponibili.

Le soluzioni gestionali (tariffe a ripartizione, convenzioni con grandi utenze, corsie differenziate per destinazione e display per orientare i clienti ai parcheggi, call center unificati, ecc.) e tecnologiche (apparati di localizzazione, connessione a banda larga on board, software di gestione) per riorganizzare i servizi di taxi e consentire la condivisione della vettura tra utenti diversi con percorsi e orari tra loro compatibili sono già tutte pronte. Ma queste soluzioni molti assessori nemmeno sanno che esistono. I tassisti non le vogliono, perché a loro le cose vanno bene così. Gli utenti non le hanno mai viste e non hanno idea di come funzionerebbero.

E aspettando Godot, il prezzo del petrolio continuerà a salire. Fino a che ci ritroveremo tutti a piedi.

Le intercettazioni hanno invaso lo spazio pubblico, e pongono seri problemi di legalità. In due direzioni: la tutela della dignità delle persone (è questa la parola giusta da usare, più del riferimento alla privacy, pur indispensabile); la necessità e l´urgenza di ripristinare il rispetto di regole minime di diritto in aree che sembrano essere sfuggite ad ogni logica di legalità, con un inquietante parallelo con quanto accade in parti del territorio nazionale passate dal controllo pubblico a quello criminale. Se è giusto preoccuparsi della "gogna mediatica", è tuttavia impossibile ritenere secondario quello che, dall´estate scorsa, è sotto gli occhi di tutti.

Le vicende in Banca d’Italia e dintorni, la corruzione nel mondo del calcio e nella Rai, i commerci intorno alla sanità e alle società telefoniche, la simbolica discesa agli inferi di casa Savoia scoperchiano una miserabile Italia degli affaracci e turpiloquio, dove si negozia su tutto, dalle direzioni arbitrali alle prestazioni sessuali, dalle autorizzazioni bancarie all’uso "mirato" di trasmissioni televisive. Si scoprono mondi che si danno regole proprie e incuranti del codice penale, che costruiscono reti di protezioni e complicità.

Le inchieste giudiziarie producono solo «bolle di sapone»? Non direi basta leggere le parole sobrie e severe dedicate dal nuovo Governatore alla situazione che si era determinata nella Banca d’Italia.

Questo, ovviamente, non vuol dire che, se «l’Italia l’è malata», l’unico dottore debba essere la magistratura, costi quel costi. Una volta di più dobbiamo rifiutare la logica "sostanzialista", per cui il raggiungimento di un fine legittimo giustifica smagliature o vere e proprie violazioni delle garanzie dei diritti. Ma questo deve valere sempre, e per tutti. Va certamente rispettata la privacy di politici o veline, ma il garantismo non può scomparire, ad esempio, quando si affrontano i diversi problemi degli immigrati o dei tossicodipendenti. La legalità è un bene indivisibile.

Divenuta sempre più intricata e scottante, la questione delle intercettazioni non può essere affrontata a colpi d’accetta. Servono distinzioni e analisi accurate, soprattutto per evitare che la denuncia degli abusi si trasformi in pretesto per liberarsi di ogni forma di controllo su comportamenti sicuramente illeciti, per occultare la gravità delle situazioni che vengono rivelate.

È la vecchia storia di chi vuol rompere il termometro per non misurare la febbre. Poiché questo rischio è reale, si spiega perché Marco Pannella invochi la pubblicazione di tutto: non è solo una provocazione, è l’indicazione dell’inaccettabilità di una linea che, una volta di più, vuole distorcere le garanzie per occultare l’illecito.

Non è ammissibile, allora, il ricorso ad un decreto legge per riformare la disciplina delle intercettazioni. Il Parlamento sa da molto tempo che la questione è aperta.

Durante il primo governo Prodi, il ministro della Giustizia aveva presentato un disegno di legge; nella passata legislatura erano ben otto le iniziative parlamentari in materia; sollecitazioni precise erano venute dal Garante per la privacy. Il lungo silenzio parlamentare non è edificante, rivela un’evidente responsabilità politica.

Prima di aggredire i magistrati, i politici riflettano sulle loro inerzie. Ora è sicuramente necessario un lavoro rapido: ma la via migliore è quella del disegno di legge, che permette una reale collaborazione di tutti i parlamentari e una più efficace discussione davanti all’opinione pubblica. E, soprattutto, non si può più accettare il ricorso al decreto legge quando si tratta di diritti fondamentali delle persone.

La riforma, peraltro, non può essere ispirata ad una logica punitiva dei magistrati e dei giornalisti. Dichiarazioni preoccupate per le violazioni dei diritti, come quelle di Francesco Saverio Borrelli o di Nello Rossi, mostrano come nel mondo dei magistrati si manifesti un confortante ritorno della «cultura della giurisdizione» in molti casi sopraffatta da inclinazioni poliziesche. Questo punto va sottolineato, perché l’iter dell’annunciata riforma non può cominciare, come pure si era minacciato, da una drastica riduzione dei casi in cui è legittimo disporre intercettazioni. Ammetterle solo per i casi di terrorismo e di criminalità organizzata, infatti, significherebbe privarsi di un importante strumento di indagine, ad esempio in tutta la materia della corruzione, che è poi quella maggiormente evidente nella situazione che abbiamo di fronte. Una riforma non può costruire una nuova rete di protezione dell’illegalità.

Vero è, come ha messo in evidenza Giuseppe D’Avanzo, che il ricorso eccessivo alle intercettazioni rivela pure una inclinazione dei magistrati ad imboccare una via facile, trascurando altre tecniche investigative. Ma si tratta di questioni che non possono essere affrontate con modifiche legislative generali. Servono piuttosto specifiche regole procedurali più rigorose per quanto riguarda tempi e modalità delle intercettazioni, che possono anche favorire una maggiore consapevolezza dei magistrati, e quindi un controllo più attento delle richieste di autorizzazione a mettere i telefoni sotto controllo.

Il cuore del problema sta nella fase successiva, quella che comincia nel momento in cui il magistrato entra in possesso delle intercettazioni. Di questo era stato ben consapevole il legislatore quando, intervenendo nel 1974 proprio a tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni, aveva previsto un intervento del magistrato per stralciare e distruggere quanto appariva non rilevante a fini probatori. È questa parte della disciplina che non ha funzionato, ed è qui che bisogna intervenire.

Considerando le proposte passate e quelle avanzate in questi giorni, si può dire che ci si orienta verso un filtro più rigoroso e selettivo, che appare come la via maestra per evitare che vengano poi messe in circolazione conversazioni irrilevanti o tali da violare la riservatezza e la dignità di persone estranee all’indagine e, in circostanze particolari, degli stessi indagati. I punti da definire sono diversi e riguardano le modalità di acquisizione delle conversazioni ritenute rilevanti, alla cui definizione devono poter partecipare gli avvocati delle parti. Una volta effettuata la selezione, individuate le conversazioni rilevanti e disposta l’acquisizione, il segreto verrebbe meno e i testi potrebbero essere diffusi.

Qui, infatti, l’interesse all’informazione dell’opinione pubblica, spogliato dal puro voyeurismo, potrebbe legittimamente riprendere il sopravvento. Rimane aperta la questione se le conversazioni ritenute non rilevanti debbano essere in tutto o in parte distrutte (come prevede la norma attuale) o se, invece, debbano essere conservate in un archivio riservato.

L’istituzione di uno specifico archivio può consentire l’individuazione di un magistrato che se ne occupa, di un ristretto numero di suoi collaboratori e di procedure controllabili di accesso, facilitando così l’accertamento delle responsabilità nel caso di fughe di notizie. Ma è pure vero che, fatte salve le esigenze di eventuali riscontri successivi su documenti inizialmente ritenuti non rivelanti, proprio l’esperienza di questi mesi ci dice che vi sono conversazioni o loro parti assolutamente estranee, per protagonisti o contenuti, all’oggetto delle indagini, sicché la distruzione diviene la più opportuna forma di garanzia.

Si giungerebbe così ad una più precisa delimitazione dell’area delle conversazioni pubblicabili e si sposterebbe anche l’attenzione sulla fonte della notizia, evitando di concentrarsi solo sull’ultimo anello della catena, il giornalista, l’unico immediatamente individuabile. Ma rimane il rischio della violazione del segreto, della pubblicazione di conversazioni non ancora legittimamente acquisite, e quindi del modo in cui dovrebbe essere sanzionato il comportamento del giornalista.

Opportunamente accantonate le proposte di sanzioni penali, l’attenzione si sposta su quelle pecuniarie (che, tuttavia, possono risultare obiettivamente anche più pesanti). Ma bisogna incidere più direttamente non solo o non tanto sulla deontologia professionale quanto piuttosto sulle conseguenze visibili della violazione riscontrabili sul mezzo dove questa è avvenuta (giornale, rete televisiva, sito web). E in questa direzione il garante per la protezione dei dati personali può avere un ruolo significativo.

In passato, il garante è intervenuto tutte le volte che gli è stata segnalata la pubblicazione di brani di intercettazioni chiaramente irrilevanti per l’inchiesta e lesivi della dignità della persona. Ma questi interventi, pur importanti, non solo arrivano quando la violazione è già avvenuta, perché al garante non può essere attribuito né un ruolo incostituzionale di censura preventiva, né il compito di custode del buongusto. Sono anche poco incisivi, perché non riescono ad assumere adeguata rilevanza pubblica. Che cosa accadrebbe se il garante, accertata la violazione, avesse non il vecchio e stanco potere di imporre una rettifica, ma quello di obbligare il mezzo di comunicazione interessato, ad esempio un giornale, a pubblicare in prima pagina un ampio riquadro in cui si dicesse «abbiamo violato la privacy di tizia/o (senza menzionare il fatto specifico, per evitare l’amplificarsi ulteriore della violazione) e ricordiamo a tutti quali sono i criteri e i principi da rispettare (sintetizzati nel riquadro in modo eloquente)»? Non so se questo potrebbe divenire davvero un deterrente. Ma proprio la novità e la gravità degli attentati alla dignità delle persone esigono che si faccia qualche sforzo di fantasia e si cerchino strade diverse, anche se non proprio nuovissime. E spero che non si registri quell’arroccamento del sistema dell’informazione che abbiamo talvolta conosciuto in passato. Come i magistrati avvertono i rischi di derive che delegittimerebbero gravemente la loro funzione, così il mondo della comunicazione dovrebbe recuperare, insieme, la capacità di rispetto delle persone e l’orgoglio del «difensore civico», indagando sui mali italiani senza attendere d’essere preso per mano dai fornitori di intercettazioni.

Pubblichiamo una sintesi della "conferenza inaugurale" tenuta nei giorni scorsi all´Ecole doctorale de droit comparé dell´università Paris Panthéon-Sorbonne, con il titolo "Diritti fondamentali, globalizzazione, tecnologie".

Verso la fine del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista, Alexis de Tocqueville annotava nei suoi Souvenirs: «presto la lotta politica si svolgerà tra chi possiede e chi non possiede: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell´attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente e l´immateriale.

Il campo di battaglia si è allargato. E´ diventato il mondo intero, e abbraccia molti altri diritti. Viviamo in un mondo che si proietta «oltre lo Stato», dove ritroviamo un «diritto sconfinato». Sopravviveranno i diritti fondamentali della persona in questo nuovo contesto? Proprio la dimensione mondiale, non accompagnata da istituzioni adeguate, li minaccia. L´irresistibile marcia della tecnica sembra svuotarli della loro funzione di garanzia della libertà e dell´autonomia individuale. La transizione verso il post-umano rischia d´indebolirli nella loro stessa natura, nel loro essere diritti dell´uomo, «human rights».

Movimenti contraddittori. La globalizzazione allarga anche la scena sulla quale condurre «la lotta per il diritto». L´innovazione scientifica e tecnologica ha portato ad un allungamento del catalogo dei diritti. L´evoluzione, che si coglie in documenti internazionali e leggi nazionali, induce giustamente a parlare di una «costituzionalizzazione della persona». E l´attenzione sempre più intensa per i diritti fondamentali modifica i termini della discussione, fa affiorare nuove questioni e nuovi soggetti.

Di questo tema non ci si può liberare con una mossa ideologica o guardando ad una realtà in continuo mutamento con schemi giuridici invecchiati. Non si può ridurre la presenza dei diritti fondamentali sulla scena del mondo ad un tentativo di colonizzazione culturale e politica di chi vive fuori del cerchio stretto dell´Occidente. Non si può ritenere irrilevante la previsione di vecchi e nuovi diritti in documenti come la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea solo perché non hanno ancora un formale valore giuridico formalmente vincolante.

Lo stesso modo di affrontare criticamente i problemi della globalizzazione si è, almeno in parte, modificato. Al rifiuto radicale («no global») si va sostituendo una strategia più articolata: non una globalizzazione attraverso i mercati, ma appunto attraverso i diritti. Un segnale chiaro in questa direzione era venuto dalle parole con le quali l´Unione europea aveva motivato la necessità di una carta dei diritti, sottolineando che questi rappresentano una «condizione indispensabile per la sua legittimazione». Conosciamo le difficoltà che la costruzione europea continua ad incontrare. Ma quelle parole vogliono dire proprio che essa non può proseguire se continua a legarsi soltanto alla logica di mercato. Senza una vera fondazione nei diritti, l´Europa non continuerà soltanto a soffrire d´un deficit di democrazia, ma addirittura di legittimità. Un problema, questo, che si avverte ormai nel vero spazio planetario unificato dalla tecnologia, Internet, per il quale si è appena chiesta proprio una carta dei diritti.

La tutela globale della persona, dunque, non può fermarsi agli spazi nazionali, ai soli spazi materiali, e neppure al modo abituale di segnare i confini del suo corpo. Anche questo appare sconfinato, con le informazioni che ci riguardano disperse in mille banche dati nei luoghi più diversi del mondo. Di nuovo la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea può servirci da guida, riformulando le regole sull´integrità fisica e mentale in forme adeguate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche e affiancando ad esse un diritto autonomo, quello alla protezione dei dati personali, che dà evidenza e tutela al «corpo elettronico». Siamo di fronte ad una nuova idea integrale della persona, che ne comprende le tre dimensioni - fisica, psichica, virtuale. Nel mondo mutato, il «doppio corpo» non è più quello rivelato per il re medievale da Ernst Kantorowicz, ma diviene attributo e problema d´ogni persona.

Nuovi spazi, diritti, oggetti. Ma pure soggetti nuovi. Negli spazi giuridici compaiono le generazioni future, portatrici di diritti legati alla biosfera, alle risorse materiali, all´ambiente. E accanto a loro, sulla scena del mondo si materializza l´umanità. Questa è indicata come titolare di nuovi patrimoni comuni, la spazio extra-atmosferico e il fondo degli oceani, l´Antartide e il genoma umano, i siti indicati dall´Unesco; dà il nome al diritto d´«ingerenza umanitaria» e ai «crimini contro l´umanità». Ma immediatamente pone un problema: chi può parlare e agire in nome dell´umanità o delle generazioni future?

Il rischio di derive autoritarie è evidente, testimoniato dall´uso del diritto di ingerenza umanitaria come nuovo fondamento delle guerre d´aggressione. Un´ombra difficile da dissipare, ma che non può cancellare il fatto che il riferimento all´umanità significa anche limite alla sovranità degli Stati, che non possono impadronirsi di una porzione della luna o dell´Antartide, e ostacolo alla rapacità degli interessi economici che vogliono distruggere un ambiente o brevettare il vivente in qualsiasi sua forma. Si trasforma in impegno di solidarietà dei paesi più ricchi. Si affida a corti internazionali competenti per crimini contro l´umanità. Significa allargamento del principio di precauzione, e creazione di nuovi beni comuni e di nuove possibilità di accedervi. Dietro l´astrattezza della nozione di umanità scopriamo così diritti, obblighi e responsabilità di soggetti concreti.

La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato. Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l´acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l´effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di «chiusura» simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.

Dobbiamo ripetere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per l´eguaglianza. Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. E´ un´entità anch´essa nuova che, mimando la formula «economia mondo» di Immanuel Wallerstein, è stata definita «popolo mondo». Un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale sempre più alla ricerca dei luoghi che più offrono opportunità, in un incessante «turismo dei diritti», che dalle sue forme più antiche, l´emigrazione e la ricerca d´asilo politico, si trasforma in turismo procreativo o in richieste d´asilo da parte di donne che, se rimandate nel paese d´origine, rischierebbero mutilazioni sessuali.

Sono dunque persone in carne ed ossa che, anche a prezzo di discriminazioni e persecuzioni, si fanno banditori nel mondo di diritti percepiti come parte dell´umanità di ciascuno. Nasce così una carta dei diritti spontanea e diffusa, specchio di esigenze reali, frutto di un ininterrotto dialogo tra culture, e non imposizione dall´alto. Anche con qualche paradosso. Il turismo dei diritti è reso possibile dal fatto che diversi Stati regolano in maniera diversa le stesse situazioni, rendendo possibile l´accesso alle tecnologie della riproduzione o la ricerca sulle cellule staminali che altri proibiscono. La sovranità nazionale come strumento della globalizzazione dei diritti?

Ma vi è chi percorre il mondo per trovare le maglie deboli della rete di protezione dei diritti. Gli antichi «paradisi» fiscali sono accompagnati da quelli che vanificano la protezione di dati personali. Imprese vanno alla ricerca dei luoghi dov´è facile lo sfruttamento dei lavoratori, nulla la tutela dei minori, agevole la sperimentazione dei farmaci sull´uomo. Astuti agenti di viaggio organizzano l´orribile «turismo sessuale». La prospettiva è completamente rovesciata. La pura logica di mercato aggredisce la persona nei luoghi dove maggiore è la sua debolezza. Si parla di paradisi, si trova l´inferno.

Torna il bisogno di punti fermi di riferimento solidi, di una rinnovata attenzione per dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, nel tempo della tecnica e del mondo globale. Tutto questo evoca un altro soggetto, i giudici e le corti che, in assenza di un governo mondiale, si presentano come quelli che già possono offrire tutele anche in situazioni difficili, ricercando ogni strumento disponibile. Lo stanno facendo quei magistrati che danno più forte tutela ai diritti sociali ricorrendo alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Di fronte alle debolezze della politica, saranno i giudici a promuovere l´Europa dei diritti?

Da mesi assistiamo ad uno scontro davvero duro sul decreto legislativo 152/06 conosciuto come "codice ambientale" che vede protagonista Confindustria contro il Ministro dell'ambiente, impegnato nel tentativo di far rispettare quel punto del programma dell'Unione che prevede la riscrittura delle norme contro l'ambiente varate dall'ex ministro Matteoli.

Viene però difesa la parte più arretrata del sistema produttivo, quella non vuole rispettare le direttive comunitarie in materia di rifiuti, che pensa alle rendite immobiliari su terreni scarsamente bonificati, che vuole valutazioni di impatto ambientale su progetti appena abbozzati, che chiede che vengano cancellati i controlli: ciò che è più negativo è che essa trova ascolto in alcuni settori di peso del Governo. Inizialmente, rispettando il programma di coalizione, è stato presentato in Consiglio dei Ministri uno schema di decreto legislativo correttivo che prevedeva la sospensione di tutto il codice ambientale di Matteoli e il ripristino della normativa precedente, quella ben conosciuta ed utilizzata sia dal mondo produttivo sia dalle amministrazioni e dalle aziende di servizi.

Ciò avrebbe permesso di poter correggere le norme varate dal Governo Berlusconi senza che esse potessero produrre i danni che si stanno verificando nei molti ambiti nei quali essa è già in applicazione.

La vera e propria aggressione di Confindustria contro questa proposta ed il consenso da essa trovata in Bersani e nella Bonino all'interno del Consiglio dei Ministri hanno provocato una modifica del testo inizialmente proposto, che si è limitato a far rivivere le autorità di bacino cancellate da Matteoli con gravi conseguenze per i nostri bacini fluviali sottoposti ad ogni tipo di rischio.

Le commissioni parlamentari e la conferenza unificata nell'esprimere il parere sullo schema di decreto hanno chiesto però al Governo di uscire dalle procedure di infrazione della commissione europea e di eliminare dal testo del codice ambientale le disposizioni che avrebbero sicuramente comportato condanne da parte della Corte di Giustizia UE sulla definizione di rifiuto, sui rottami ferrosi e non ferrosi, sui depositi temporanei, sulla definizione degli scarichi, sul combustibile derivato dai rifiuti, sui cosiddetti sottoprodotti. Inoltre i pareri chiedevano di sopprimere l'autorità di vigilanza sui rifiuti e le risorse idriche, di restituire alcune competenze alle province, di rivedere la normativa sulle politiche delle bonifiche e numerose altre norme di dettaglio.

E' stato pertanto predisposto il nuovo schema di decreto legislativo che rispecchia fedelmente i pareri, ma contro di esso ancora più forte si è scatenata la bagarre con accuse di tutti i tipi: non ascolteremmo nessuno, saremmo nemici dell'industria, in poche parole estremisti nemici del progresso. E' vero tutto il contrario, le consultazioni sono costanti, gli incontri ripetuti, tutti vengono ascoltati ma la novità vera è che non scriviamo, come i nostri predecessori, le norme sotto dettatura. Vogliamo che il nostro paese esca dall'arretratezza in campo ambientale nel quale alcuni vorrebbero rimanesse e vogliamo favorire l'innovazione e non i sistemi arretrati, la salute e non gli inquinatori, gli investimenti e non le rendite.

La cosa che deve maggiormente preoccupare, soprattutto in tema di rifiuti, è il fatto che nonostante che la malavita organizzata la faccia da padrona nello smaltimento criminale dei rifiuti, come dimostra anche la cronaca di questi giorni, si insista nel continuare a richiedere sistemi di favore e riduzione delle regole e controlli.

Avremmo preferito la sfida, che ci venissero proposti sistemi innovativi, ricorso a nuove tecnologie, che ci venisse richiesto di trovare metodi più efficaci per contrastare coloro che alterano il mercato attraverso l'illegalità, ma ciò non è avvenuto.

L'influenza di coloro che stanno cercando di ostacolare il nostro lavoro cercherà di coinvolgere le commissioni parlamentari ed alcune forze politiche, ma ciò non potrà ottenere i risultati che costoro si aspettano, se ci sarà la consapevolezza che non dobbiamo rispettare le normative comunitarie e che gli spazi di manovra sono davvero limitati. Il percorso di riscrittura del codice ambientale è appena agli inizi, le prossime tappe riguarderanno la Valutazione di Impatto Ambientale e la Valutazione Ambientale Strategica e la normativa sull'aria, per poi completare subito dopo le altre parti riguardanti le acque, le bonifiche ed il danno ambientale: siamo consapevoli della necessità di ricercare il maggior consenso possibile da parte dei cittadini, perché una rigorosa normativa ambientale è in loro favore e che solo con il loro sostegno riusciremo a contrastare i nemici della salute e dell'ambiente.

Sauro Turroni è presidente della commissione per la riscrittura del Codice Ambientale.

Prodi in parlamento, dunque. E´ una cosa assai normale, in un regime parlamentare normale, che il presidente del consiglio venga normalmente in parlamento quando il parlamento lo richieda. C´è l´art. 64 della Costituzione che prescrive questo "obbligo" per tutti "i membri del governo". Ed è venuta poi una norma del regolamento della Camera dei deputati che traduce in maniera precisa e vincolante quella prescrizione per il presidente del consiglio (e c´è anche uno specifico richiamo nell´art. 151 bis del Senato).

Perché sono state introdotte quelle norme, mirate sul "primo ministro"? Perché già prima della grande cesura maggioritaria del 1994, la "governabilità dei governi di coalizione" aveva imposto la necessità di assegnare un certo primato istituzionale – fatto di diritti e di doveri – al presidente del consiglio. La legge n. 400 del 1988 sulla presidenza del consiglio ne era stata una prima, chiara espressione di indirizzo.Un indirizzo che naturalmente trova la sua piena conferma ora che, da 12 anni, con la svolta maggioritaria e la contrapposizione elettorale bipolare – due coalizioni capeggiate da candidati alternativi alla premiership – il governo tende fatalmente a personificarsi nella figura del presidente "eletto".

Questa tendenza ha avuto la sua estremizzazione – e la sua netta sconfitta al referendum – con il tentativo del centro-destra di "assorbire" le Camere nel corpo mistico del premier. E di mutare nella sostanza il regime parlamentare, con la teorica giustificazione di voler evitare i "ribaltoni". Ma al di là di questa deviazione senza uscita, non vi è ormai alcun dubbio sulla preminenza istituzionale e politica del presidente del consiglio sul governo tutt´intero. E siccome il diritto costituzionale è fatto di bilanciamenti, non vi è alcun dubbio neppure che a questo surplus di potere istituzionale nel governo debba corrispondere un surplus di doveri istituzionali nei confronti delle Camere. Quando il parlamento dichiara che, per una certa questione, la "competenza delle competenze" spetta al presidente del consiglio, è con la sua faccia che deve quindi andare a rapporto.

Tutto chiaro, tutto pacifico? No. In realtà la decisione dell´attuale presidente del consiglio di andare in parlamento, bongré malgré, è una positiva originalità rispetto alla prassi dell´ultima legislatura. Per capirlo in fretta, basta rileggere il resoconto parlamentare del 24 marzo 2004 e far parlare il presidente della Camera di allora, Casini: «La questione riguarda l´esistenza di una norma del regolamento che prevede la presenza del presidente del consiglio allo svolgimento del question time un determinato numero di volte al mese. Il presidente del consiglio non è mai venuto. Onorevoli colleghi, non dispongo di strumenti coercitivi nei confronti del governo; a me compete richiamare il governo all´osservanza del regolamento e l´ho fatto. Una volta richiamato il governo all´osservanza del regolamento, ciò che resta sul campo è giudizio politico. Non ho altri strumenti».

Ora si cambia, dunque. Ma è sufficiente questo ritorno alla "normalità" per assicurare una legislatura viva e vitale? No, un parlamento che voglia davvero cambiare pagina su tutto, ha bisogno di verificare se stesso su tutto: nelle sue ragioni di indirizzo politico, di legislazione, di controllo sul potere. E per far questo, deve mettersi in gioco nei suoi metodi di lavoro, nei suoi rapporti con il corpo politico elettorale, nelle sue relazioni con gli altri livelli di rappresentanza politica (consigli comunali, consigli regionali, parlamento europeo).

Oggi ci sono due presidenti delle Camere che hanno fatto i sindacalisti. Ai loro bei dì, parlavano di un «nuovo modo di fare le automobili». Il sindacato "vedeva" il post-fordismo prima che lo vedessero i partiti e i politologi. Forse sono le persone giuste per capire che è sbagliato continuare a lavorare "come prima". Che il percorso va cambiato. Certo, i parlamenti vivono soprattutto di tradizioni e di consuetudini. Ma queste sono state sempre tradotte in procedure volte a mantenerne vitale lo spirito: e perciò aperte, come passerelle, ai tempi nuovi. Ora chi ha occhi per "vedere", come i sindacalisti della grande mutazione di fabbrica, capisce che, continuando a vivere "come prima", il parlamento stia in realtà morendo.

Muore il parlamento oggi, che un tempo spropositato è riservato al "premi-bottoni" nell´Assemblea. Mentre sono ridotti in maniera ridicola i tempi di lavoro destinati alle commissioni parlamentari competenti per materia. Cioè ai luoghi dove invece veramente si possono condurre confronti e approfondimenti su leggi e su ispezioni da fare. Possibile che non si riesca ancora a stabilire una riserva obbligatoria di almeno due mattinate alla settimana per il lavoro in commissione? Possibile che ogni studio, ogni confronto, ogni trattativa sulle leggi e sugli indirizzi politici debbano essere affidati a miracoli di acrobazia che, in spazi da strapuntino e in tempi precari, tra una seduta da "premi-bottoni" e l´altra, devono fare – e spesso riescono a fare – gli addetti ai lavori?

Muore il parlamento, oggi che una rilevante quantità di denaro pubblico viene sprecata in doppioni di una Camera sull´altra. A ben vedere lo scandalo del bicameralismo perfetto non è nella duplice procedura (che spesso, nelle condizioni di improvvisazione appena viste, consente di correggere inevitabili errori). Lo scandalo è nel fatto che una vastissima area di servizi di studi e di documentazione vede inutili duplicazioni di strumenti, ricerche e personale tra una Camera e l´altra. Eppure sembrerebbe facile riunire in una zona consorziale intercamerale almeno cinque strutture di documentazione: i due servizi bilancio, i due servizi internazionali e comunitari, i due servizi studi, le due biblioteche con gli annessi archivi storici. L´autonomia di ciascuna Camera (sopratutto quando sarà realizzata la futura "Camera delle Regioni") deve essere assoluta nelle fasi di decisione. Ma, come avviene già nei grandi parlamenti, è impensabile che l´autonomia debba riguardare l´oggettività della documentazione, garantita nella sua qualità e completezza da una tecnocrazia di eccellenza e di elevata indipendenza, come quella parlamentare. Le uniche resistenze possono essere solo di grigio tipo burocratico. Non tali, dunque, da spaventare due vetero-sindacalisti. Che possono, per curioso contrappasso, realizzare loro il sogno di tutti gli imprenditori con cui si sono confrontati: ottenere migliori servizi e risultati con grandi risparmi di risorse...

Muore il parlamento, quando si autoconfina nella mitologia della sua "centralità" e della sua "sovranità". Sono, queste, parole giuste solo se trovano un significato nuovo. "Centralità" significa oggi essere il perno di una rete di assemblee elettive. La rappresentanza politica non è più pensabile parcellizzata. Occorre un lavoro paziente e consapevole di raccordo per ricostruirne la pienezza. Dal parlamento di Bruxelles al più piccolo consiglio comunale, la vita di tutti e di ognuno è oggi più interconnessa di quella delle istituzioni. E queste allora devono inseguire, senza separazioni, senza veti giuridici, la vita densa e molteplice. Essere "centrali" significa la capacità di creare procedure di accoglienza per lavorare con gli "altri" e procedure di incontri per andare dagli "altri": la nuova democrazia di partecipazione. "Sovranità" poi, in questo costituzionalismo del nostro tempo, a molti livelli, può significare solo che non si è estranei alla sfera dove le decisioni massime diventano co-decisioni. E che si è in grado di cogliere le interdipendenze di ogni decisione con l´altra: non più in una scala gerarchica ma in un sistema di convivenze istituzionali.

Tante cose da fare dunque, per un parlamento che non voglia galleggiare (e morire) su se stesso. E dove un presidente del consiglio che si sottopone, infine, a dibattito spinoso (dopo una stagione pluriennale a bassa intensità parlamentare) può addirittura apparire originale. E magari dare un segnale di inversione di quella letale tendenza. Insomma cominciare a fare respirare il parlamento come un "nuovo modo" per far funzionare la Repubblica.

Per quanto sia stato breve, il Novecento è finito troppo in fretta. Lasciandoci in eredità un materiale storico incandescente che è diventato serbatoio d'immaginazione, più che base d'elaborazione. Sì che l'ennesimo paradosso d'inizio millennio è che tutti ci riempiamo la bocca delle inedite novità del mondo globale per poi attivare, quando si tratterebbe d'interpretarle, un immaginario politico bloccato al secolo scorso. L'ultima è quella dell'islamo-fascismo, ennesima categoria-spot tirata fuori dal fertile cappello di Bush II e dei suoi intellettuali di riferimento. Non entro nel merito della polemica, gli argomenti pro e contro essendo stati già ampiamente sviscerati nei giorni scorsi, dall'insostenibile leggerezza delle analogie di Paul Berman (fascismo e fondamentalismo islamico accomunati dalla mitologia di un passato grandioso e dal culto della morte) alle fondate distinzioni di Gilles Kepel (il fascismo è stato un Movimento di massa europeo, il terrorismo islamico è il contrario di un movimento di massa), alla circostanziata ricostruzione di Sergio Romano («Bush sembra dimenticare che nella lunga guerra fra l'Iraq di Saddam Hussein e l'Iran di Khomeini gli Usa furono dalla parte dei fascisti contro gli islamismi»), alle confutazioni di Parlato sul manifesto e di Sansonetti su Liberazione. Osservo solo en passant che è sempre dalla parte degli intellettuali della sinistra liberal-moderata alla Berman, dopo il Novecento alla perenne ricerca dell'identità perduta, che arrivano le onde confusionali più alte (si veda, oltre al pluricitato «Terrore e liberalismo », l'altro suo libro sul ’68 e i suoi esiti ideologici e politici). Meglio un (ex) neoconservatore come Fukuyama, che in America al bivio riconsidera autocriticamente, visti gli alibi che hanno fornito e i guai che hanno procurato, le sue tesi del dopo-89 sulla «fine della storia», consiglia l'amministrazione Bush di farla finita con la guerra preventiva e la democrazia imposta a suon di bombe, prende le distanze dai neocons ricostruendone la storia proprio a partire dalle loro interpretazioni degli snodi cruciali del secondo ’900, dalla guerra fredda al Vietnam, alla caduta del Muro di Berlino.

E qui torniamo all'immaginario politico (americano) inchiodato al ’900 e compulsato come Google: primo tentativo, identificazione dell'Islam come Grande Nemico sostitutivo del Comunismo sconfitto nel 1989; secondo tentativo, identificazione dell'Islam come Grande Nemico sostitutivo del Fascismo sconfitto nel 1945. Anche negli spot politici la dimensione orizzontale, veloce e atemporale della rete vince su quella (novecentesca) della paziente storicizzazione e contestualizzazione degli eventi. Come meravigliarsi del resto di queste leggerezze transoceaniche?

Una apre il Corriere della Sera e ci trova gli anatemi di Panebianco contro lo stato di diritto e quelli che ci credono, rei di nutrire qualche dubbio sull'opportunità di usare la tortura nella guerra al terrorismo e più in generale di prescindere, corrotti dalla fortuna di essersi formati nella lunga pace post-'45, dal «compromesso fra stato di diritto e sicurezza nazionale» su cui le democrazie si baserebbero. In verità a noi corrotti pareva di sapere che lo stato di diritto post-'45 si basa sul presupposto della pace (anzi: sul tabù della guerra) e che se crolla quel presupposto crolla fatalmente e disgraziatamente anche lo stato di diritto nonché la democrazia (come puntualmente sta accadendo); forse avevamo capito male.

Non sapremmo invece come definire e punire, né in base agli standard ideologici di Berman né in base a quelli giuridici di Panebianco, l'assassinio di Hina Saleem, la ragazza pakistana sgozzata e sepolta sotto i pomodori dagli uomini musulmani della sua famiglia gelosi del suo fidanzato italiano e «infedele ». Non scomoderemo il fascismo e non invocheremo la tortura: storia di ordinaria brutalità patriarcale (il cui orrore specifico non faccia dimenticare la recente sequenza di donne italiane morte ammazzate da uomini italiani nella provincia italiana). Però una cosa ci viene da dire, questa: sotto i fuochi d'artificio dei grandi spot politici d'inizio 2000 che hanno preso il posto delle grandi narrazioni del ’900, la gente comune, donne e uomini, di religioni, etnie e latitudini diverse si integra e si disintegra così sotto i nostri occhi nella porta accanto. Prima distogliamo l'ascolto dai grandi spot e lo dirottiamo sulle narrazioni della vita quotidiana, meglio sarà per i destini del mondo globale e per la comprensione delle linee di conflitto, micro emacro, che lo attraversano e lo tormentano.

Faccio parte di quella categoria di persone che non si appassionano al calcio. Alcuni miei amici considerano questa mancanza d’interesse un difetto, soprattutto per un romanziere che ha il ruolo di osservare la società e scrutare negli animi. Domenica sera ho scrutato corpo e anima di un giocatore: Zidane. Ho capito subito di trovarmi davanti a un artista, un uomo fuori dal comune, un genio che scrive con i piedi, che danza con il cuore, che canta e incanta milioni di persone. Mi è capitato di guardare qualche partita di questi mondiali.

Ho imparato come il calcio sia l’unico nazionalismo accettabile per tutti, uno sciovinismo al limite del razzismo. Ho visto come i ragazzini si identifichino in questo o in quel giocatore. È facile, non richiede sforzi, si segue con gli occhi un pallone e quando si avvicina alla zona pericolosa si urla.

Domenica sera non tifavo né per la Francia né per l’Italia, ritenendo che nel gioco le due squadre si equivalessero. Errore! Ho guardato la partita in un bar del Marocco dove tutti tifavano non tanto per la Francia quanto per Zidane. Non potevo far eccezione e soprattutto spiegare alla gente che l’importante è il gioco e «che vinca il migliore». No: tutti gli occhi erano puntati su Zidane e nient’altro che Zidane.

Bisognava tener conto della situazione e, come mi ha fatto notare un vicino, «che cosa significa che nella nazionale francese 9 su 11 sono nordafricani?» Perché 9? Ho contato che c’erano 7 giocatori di pelle nera, Zidane è nato a Marsiglia da una famiglia cabila.. ma il nono chi è? Il mio vicino urla: «Ma il musulmano Ribery! È francese ma si è convertito all’islam sposando una maghrebina». Presto si dirà che è l’islam a farli vincere.

E poi c’è stato il dramma, l’incomprensibile dramma in cui Zidane ha deliberatamente dato una testata a Marco Materazzi, dopo che questi l’ha insultato. Stando al Guardian di ieri, Materazzi gli avrebbe dato del "terrorista". Che importanza ha cosa gli ha detto? In pochi secondi Zidane è precipitato dalla vetta. Dev’essere stato ferito profondamente dalle parole di Materazzi per aver reagito a quel modo. Dopo il cartellino rosso, il silenzio e la costernazione hanno raggelato il bar. Zidane non giocava più, la partita non meritava più. Un uomo con le lacrime agli occhi si alza e ci parla di un filmato che mostra come i giocatori italiani si allenino a sferrare colpi agli avversarsi senza farsi beccare dall’arbitro. Un ragazzo piange e dice che gli italiani hanno fatto cadere in trappola Zidane.

E io? Ammetto che ero arrabbiato. Non vedere più Zidane, il suo sorriso discreto, la sua andatura danzante e la sua simpatia comunicativa mi mancava. Pur ammettendo che entrambe le squadre hanno giocato molto bene, ho seguito la fine della partita con occhio distratto, perché la vittoria non sarebbe più venuta dal gioco ma dal caso, dalla fortuna, da un lancio di dadi.

Ho capito quanto i popoli arabi abbiano bisogno di un leader che non faccia politica. Hanno bisogno di qualcuno in cui identificarsi e che dia loro motivo di fierezza. Ma come mi ha detto mio nipote, maniaco del calcio, «Zidane ha reagito come un subnormale e si è rovinato l’immagine». Sì, è un eroe stanco, ferito dall’insulto.

Un giornale giamaicano, il Gleaner, faceva osservare che «Zidane ha contribuito a unificare l’umanità più di qualsiasi trattato politico, come Diego Maratona, per drogato, imbecille e incontrollabile che fosse, ha riunito intorno a sé più gente di Platone, Kant, Einstein, Gandhi e Mandela!».

Adesso non ho voglia di giocare. Scrittori come Gadda, Mallarmé, Faulkner o Joyce non hanno mai raccolto intorno alle loro opere più di una manciata di lettori, eppure hanno trasmesso all’umanità uno spirito e un immaginario che apparterranno alla storia per secoli. Siamo seri: il calcio è un gioco, un gioco che piace a oltre due miliardi di persone, d’accordo, ma anche un’incredibile macchina per fare soldi, e questo è ben lungi dall’essere innocente o veramente umano. Il calcio è diventato un’industria che macina miliardi di euro. È questo che sta guastando il gioco e lo sta trasformando in un affare con troppi interessi in ballo. Quanto a Zidane, la sua carriera non si riassume in quell’incidente. Dicendogli addio, speriamo di vederlo tornare anche solo per dire ai giovani di non cedere alla violenza. In questo, la sua parola vale mille volte quella di qualsiasi uomo politico.

(traduzione di Elda Volterrani)

Il ritiro italiano dall'Iraq era stato promesso da Prodi ed era la logica conseguenza del giudizio dato sulla guerra di Bush: una guerra sbagliata. Che il ritiro fosse condizionato a tempi tecnici - manifestamente non solo l'allestimento dei camion o degli aerei - era per non somigliare a Zapatero; piccola viltà ma pazienza. Senonché il tempo passa e i «tempi tecnici» si prolungano, col governo iracheno, con gli umori della coalizione e con quelli di Bush. Non irritare Bush, invocano Prodi e D'Alema. Andarsene ma piano e in punta di piedi. Per ora la brigata Sassari è stata sostituita dalla Garibaldi a ranghi ridotti. Il resto si vedrà dopo, in agosto o a ottobre o entro la fine dell'anno. Ma anche Berlusconi prevedeva di andarsene entro l'anno. E, un giorno sì e un altro no, un ritiro lo ventila lo stesso Bush. L'ideale del nostro governo sembra, diciamo la verità, poter andarsene con la sua benedizione, invece che con l'iraconda battuta di Donald Rumsfeld: «E se ne vadano, non cambia niente». Infatti, non siamo mai stati decisivi militarmente, ma qualcuno dei nostri militari ci ha lasciato la vita. E decisivi eravamo per coprire l'unilateralismo degli Usa. Questo è stato grave, e a questo ci si aspetta che il nuovo governo metta fine in modo netto.

Invece non avviene. Anzi ci si appresta a rafforzare la nostra presenza in Afghanistan, con la scusa che quella operazione - che pareva liquidata in quattro e quattr'otto - era avallata anche dall'Onu. Ma sono passati cinque anni dall'arrivo a Kabul e tre da quello a Baghdad, e non vogliamo verificarne i risultati?

In Afghanistan non si è trovato Osama Bin Laden. I suoi santuari sono altrove, probabilmente in Pakistan, alleato così caro agli Stati uniti che gli permettono persino l'atomica. A Kabul è insediato Karzai, dubbia e cedevole figura, per cui sono rispuntati i signori della guerra e sotto la corruzione imperante rifioriscono i talebani, che al sud del paese si muovono come a casa loro. Gli scontri sono sempre più accesi. In Iraq non si sono trovate le armi di sterminio. Nessuna pacificazione è in atto. Il governo non è in grado di controllare nulla, tanto meno le guerriglie fondamentaliste, dovute anche alla scelta della coalizione tutta in favore di Al Sistani. Come in Afghanistan, gli Usa avevano alimentato i talebani per liberarsi dell'Urss, e in Iraq foraggiato la guerra di Saddam Hussein contro l'Iran, per liberarsi di Saddam hanno appoggiato gli sciiti - anzi, una parte di essi. Difficile immaginare scelte di più breve respiro. Risultato, in Iraq sciiti e sunniti, ma anche gli sciiti fra di loro, si fanno a pezzi. In comune hanno solo l'odio per la coalizione che li ha invasi. Muoiono più marines oggi che in tempi di guerra dichiarata, e quanto ai morti iracheni, nessuno li ha mai contati.

Non basta. La razzìa a Bagdad avrebbe dovuto portare a un appeasement fra Israele e Palestina, che è più che mai in alto mare - anche il popolo palestinese, fino a quaranta anni fa il più laico e moderno della regione, sotto l'occupazione ha prodotto i suoi kamikaze e ha finito con il votare per Hamas, sola organizzazione che lo abbia aiutato quando le rappresaglie israeliane hanno demolito ogni infrastruttura dell'Anp. Ma Washington non impara mai nulla. Si azzarda ad aprire il capitolo Iran, che è nazione tutta diversa, mentre sotto i nostri occhi diventa una repubblica islamica la Somalia, altro territorio di interventi a vanvera lasciandovi poi solo desolazione e odio.

Il mondo se ne rende conto. Mai è stato così basso il prestigio degli Stati uniti, ha constatato il sondaggio dell'americana Pez. Mai è stata così bassa la popolarità di Bush. Un dubbio comincia a traversare quell'immenso paese, pronto a perdonargli le morti altrui ma non quelle dei propri figli, che anch'essi tornano nelle bare con la bandiera a stelle e strisce sopra.

E le istituzioni e l'intellettualità si preoccupano ormai della guerra infinita e delle sue molte derive - dai danni collaterali alle crudeltà di truppe spaventate ed esasperate, da Abu Graib a Guantanamo, dal Patriot Act al rinserrarsi del controllo poliziesco sulla loro propria società.

Il nostro nuovo governo non se ne rende conto? Non trova opportuno valutare la nostra politica estera in un quadro che non è più quello del 2001 né del 2003, nel quale si sono moltiplicati i disastri, l'Europa si è distinta per inerzia e ora è in panne, e nessun pericolo appare sventato? Il nostro primo problema non è: non irritare Bush, è: a quale America, a quali Stati uniti parliamo? Ragionevolezza vuole che non si cerchino scontri acuti. Ma ammonisce anche che l'alternativa non è fra l'ubbidienza e lo scontro - i «no» di Zapatero non hanno portato a uno sbarco dei marines a Malaga, né quelli di Chirac all'attacco di Brest. Un poco freddi, i rapporti diplomatici continuano. Un conto è dover incontrare Condolezza Rice, un conto è quel che le si va a dire, altro è tessere un dialogo per domani, delineandone i temi fin da oggi.

Non pare che sia, finora, la scelta né di Prodi né di D'Alema. Ma neanche la sinistra del centrosinistra vi sembra molto interessata: la discussione si limita al ritiro dall'Iraq, affrontando di passaggio il rinnovo della missione in Afghanistan - con relative ripicche fra Rifondazione e Comunisti italiani. E lo stucchevole ricatto: si può o non si può far cadere il governo per Kabul?

Come Washington ha dovuto prendere atto che l'Europa non è tutta vassalla, che nessuna alleanza giustifica l'unilateralismo, che è meglio non tirare la corda, lo stesso avverrebbe nel centrosinistra se il Premier e il Ministro degli esteri -che fino a prova contraria non sono né Bush né Rumsfeld - fossero indotti dalle Camere ad andare fino in fondo nel merito alle Camere. Che io sappia, il nuovo parlamento un bilancio ragionato dal 2001 ad oggi non l'ha fatto.

Eppure si dice che dall'11 settembre nulla è come prima. No, nulla è come prima. Ma neanche come si poteva pensare un mese dopo. È da un pezzo che sulla politica degli Usa e di Blair è arrivato il momento di verità. E d'obbligo guardarlo in faccia.

Etichettare avvocati, medici, tassisti, ricercatori e altre categorie scese in piazza per protestare contro le liberalizzazioni e la Finanziaria come altrettante corporazioni, e le loro azioni come corporativismo, viene naturale. Ci si deve tuttavia chiedere se sia la scelta più idonea per spiegare le loro azioni. Ove si risalga al decreto del 1934 che istituiva 22 corporazioni, tra cui una per le barbabietole e i prodotti dello zucchero, e una per i servizi alberghieri, la corrispondenza sembra piuttosto labile. Ogni corporazione includeva infatti sia i lavoratori che i datori di lavoro, e una delle sue principali funzioni doveva essere l´elaborazione dei contratti collettivi di lavoro. Peggio sarebbe risalire al Medioevo, tante sono le differenze tra le organizzazioni professionali di ieri e di oggi.

Un diverso schema interpretativo potrebbe invece vedere in quel che succede una fase di crisi della modernità. Nel duplice senso del venir meno di quella particolare esperienza che consiste nell´essere e sentirsi moderni, e del declino d´una idea della modernità capace di dare profondità e ricchezza a tale esperienza. Essere moderni, scriveva già vent´anni fa un docente newyorkese di Scienza politica, Marshall Berman, «vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo». Simile esperienza materiale e intellettuale di "unità della separatezza" di processi complementari e nondimeno contrapposti entra in crisi quando uno dei due processi viene separato e assolutizzato, nella pratica come nelle idee, quasi che potesse sussistere in modo indipendente dall´altro.

Vari fattori hanno concorso a spezzare tale unità, in Italia come in altri paesi. Fra di essi bisogna porre la visione oleografica della modernizzazione diffusa dalle scienze sociali sin dagli anni Sessanta del Novecento. Stando a essa, tutte le società del mondo sarebbero immancabilmente avanzate, al pari delle società occidentali, verso una condizione in cui le autorità tradizionali di tipo religioso, etnico e familiare vengono soppiantate da autorità razionalmente costituite in base a un contratto politico di natura secolare tra le masse e le classi dirigenti; la partecipazione politica manifesta un grande sviluppo; l´azione sociale viene sempre più guidata da norme secolari-razionali; il carattere delle persone si trasforma in modo da combinare una maggior capacità di auto-realizzazione con una crescente disponibilità a cooperare con altri.

Oggi tale idea della modernizzazione appare penosamente sfocata, punto per punto, a confronto della situazione del mondo. A onta del suo distacco dalla realtà, essa si ripresenta di continuo, ad esempio in varie riforme che le forze politiche dei due schieramenti propongono sovente allo scopo di modernizzare il Paese. Esse disegnano un lungo cammino felice verso una nuova stabilità sociale ed economica, per poco che si seguano le indicazioni dei governi, intanto che le persone sperimentano ogni giorno la distruzione accelerata di rapporti tradizionali, la scomparsa di tratti di cultura, l´erosione di comunità identitarie. Le proposte dimezzate provenienti dalle forze di governo, insieme con le esperienze dimezzate che le persone compiono, in assenza di adeguati schemi pubblici d´orientamento, restringono l´orizzonte delle persone agli interessi privati e accentuano il solco tra le élite e le masse.

Opera qui nello sfondo, fra le élite come fra le masse, una concezione rozzamente individualistica della società. Poche battute sono politicamente più ottuse di quella di Margaret Thatcher, per cui la società non esiste; esistono soltanto gli individui. Quanto invece è acuta e fertile la concezione che vede nella società, nello Stato, un essere umano in grande, e in ciascun essere umano una società in piccolo. È una concezione che risale quanto meno a Platone, ma alla quale è stata data nitida forma da un sociologo tedesco, Georg Simmel, ormai un secolo fa. Scriveva Simmel: «Tutte le fasi di una lotta, l´equilibrio delle forze che paralizza temporaneamente la lotta, la vittoria apparente di un partito che dà soltanto all´altro l´occasione di raccogliere le proprie forze... tutto ciò rappresenta in egual misura la forma del corso dei conflitti sia interni che esterni». In altre parole la società risiede in noi, siamo noi stessi, perché sin dall´infanzia abbiamo interiorizzato le sue tensioni, i conflitti e i mutamenti, le ambiguità e le certezze. Mentre ciò che si svolge all´esterno, sulla scena pubblica, è una lotta di formazioni sociali e di rappresentazioni reciproche che riproduce in grande la nostra stessa molteplicità, ma insieme la complica e la estende.

La comprensione di questa dialettica tra l´interiore e l´esteriore, tra società e Stato e l´individuo, per farne impegno di arricchimento personale e sociale, è l´essenza stessa della modernità. Quando comprensione e impegno vengono meno, com´è accaduto in Italia, si ha la regressione di masse intere negli interessi privati, siano essi materiali o spirituali, lo squilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica. Che è anche squilibrio tra l´azione privata, che bada soltanto alle cerchie più interne del proprio mondo quotidiano, e l´azione pubblica, con la quale l´individuo non si identifica con persone, etnie o gruppi sociali, bensì con sistemi impersonali di regole intese a rendere praticabile la cooperazione con cerchie via via più ampie di estranei.

Allorché ciò accade, non serve limitarsi a gettarne la responsabilità sulle masse, accusandole ritualmente di comportamenti rozzamente corporativi, o di colpevoli ricadute nella cultura dell´Io – anche quando lo meritino. Esse hanno soggettivamente interiorizzato una scena oggettivamente predisposta, nel corso di decenni, dalle élite politiche, economiche e intellettuali. Per dirla con Christopher Lasch, che una decina di anni fa intitolò un suo libro La ribellione delle élite per contrapporlo a La ribellione delle masse di José Ortega Y Gasset: «le élite, che definiscono... i temi del dibattito pubblico, hanno perso il contatto con la gente normale. Il carattere irreale, artificiale, della nostra politica riflette il loro isolamento dalla vita comune, e la segreta convinzione che questi problemi siano insolubili».

FAUSTO BERTINOTTI non si unisce al coro dei preoccupati: il governo - dice nell’intervista all’Unità - durerà cinque anni. E sulla Finanziaria ha parole di apprezzamento anche se avverte il rischio di non rendere visibile la «visione» sociale che essa contiene. E sul Pd: «Attenzione, anche se non lo condivido».

«I regolamenti parlamentari così come sono venuti definendosi - aggiunge Bertinotti - costituiscono un problema per il governo delle istituzioni. Quello attuale è un sistema che penalizza sia la maggioranza che l’opposizione, perché non consente alla prima di esercitare il suo diritto-dovere di decidere e non consente alla seconda di esprimere il suo diritto-dovere di essere influente nel percorso di formazione delle decisioni. Dunque un problema esiste, ma penso che sia impossibile affrontarlo e risolverlo per la legislatura esistente, mentre si può lavorare a una proposta strutturale per il futuro».

Ma intanto? Ancora una volta potrebbe essere posto il voto di fiducia su una Finanziaria.

«È una consuetudine che tutti lamentiamo. Il ricorso al decreto legge e l’utilizzazione della fiducia come derimenti della controversia parlamentare sono due elementi a cui bisognerebbe far ricorso soltanto eccezionalmente, altrimenti diventano una patologia. È evidente infatti che entrambi costituiscono una limitazione del diritto dell’assemblea».

La maggioranza ricorda all’opposizione che lo stesso avvenne nella scorsa legislatura.

«Non ci si può appellare al precedente quando questo in tutta evidenza è la manifestazione di una patologia».

Dov’è allora la via d’uscita?

«Non c’è altra via che quella del consenso. E per quel poco che vale anche la presidenza della Camera nei giorni scorsi si è adoperata in questa direzione, interloquendo con i capigruppo della maggioranza e dell’opposizione».

Risultato?

«Intanto, si è evitata una precipitazione in questa settimana di una conclusione, cioè che si strozzasse il lavoro della commissione, che invece ha avuto il tempo per poter procedere e concludere i suoi lavori ordinatamente. Questo può definire un percorso che seppure con delle criticità sia da parte dell’opposizione che della maggioranza, può consentire una non belligeranza sulla procedura».

Lo giudica un fatto importante?

«Lo è, perché è evidente che un conflitto procedurale rende opaca la questione dei contenuti».

La non belligeranza può darsi solo se l’opposizione non presenta migliaia di emendamenti e se il governo si mostra disposto al confronto, non crede?

«È chiaro, e penso che in questo senso un terreno di ricerca è la valorizzazione del lavoro di commissione. Un reale confronto in questa sede, non strangolato dai tempi, con la maggioranza non impermeabile alle argomentazioni dell’opposizione, può consentire una conclusione certamente non unanime, ma neanche di contrapposizione frontale. In questo caso, nell’impossibilità di giungere a un’approvazione nei tempi utili si potrebbe ricorrere alla fiducia, che interverrebbe però non su un atto di volontà unilaterale del governo ma sulle conclusioni della commissione».

Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Chiti aveva proposto alle forze di opposizione di sintetizzare le loro posizioni in pochi emendamenti.

«La trovo una proposta giusta. Ma siccome ho un’interpretazione del ruolo di presidente della Camera che non è quella dello speaker, non mi taccio e dico anche che c’è un simmetrico: il governo a sua volta vari dei provvedimenti che abbiano la stessa sinteticità. Perché non si può presentare una Finanziaria di 217 articoli e poi risultare convincente nella richiesta di selezionare gli emendamenti».

Diceva che un dibattito sulle procedure può mettere in ombra i contenuti di questa manovra. Però non sembra che susciti molti consensi questa Finanziaria.

«Faccio una premessa: essendo la Finanziaria materia su cui decide anche il Senato e la Camera, è evidente che non ho titolo per esprimermi. Però un’osservazione politica generale bisogna farla. Penso che l’impianto sia coerente con il programma del governo e che i primi passi sul terreno della politica economica e sociale, pur senza avere la brillantezza dei primi passi in materia di politica internazionale, sono capaci di attrarre un consenso nel paese».

Cos’è allora che non consente il realizzarsi di questo processo positivo attorno alla Finanziaria?

«Diversi fattori. Primo: la mancanza di una percepibile visione di società. Questo non è un elemento di poco conto. Non essere in grado di far valere nei confronti del paese la visione di prospettiva entro cui sono iscritte delle misure vuol dire amputare la loro capacità di organizzazione del consenso. Specie se si deve, come io credo, fare fortemente leva sui ceti popolari, lungamente penalizzati da una distribuzione del reddito iniqua e da una condizione sociale caratterizzata da una crescente incertezza e precarietà».

Gli altri elementi che impediscono il dispiegarsi del consenso?

«Penso che si sia determinata una tendenza da cui bisogna uscire, quella alla polarizzazione della società attorno alla centralità del governo. Il consenso o il dissenso è nei confronti del governo, con una sostanziale marginalizzazione dei grandi soggetti sociali e politici. I sindacati e Confindustria ce la fanno ancora perché in qualche modo svolgono un ruolo o negoziale o concertativo. Ma i partiti, anche per il forte prevalere del sistema maggioritario e per il peso che ha rivestito Berlusconi, sono venuti affievolendosi nella loro presenza. Per una coalizione riformatrice, la presenza nella società civile del dibattito sulle scelte che si compiono è un punto decisivo».

Finite le ragioni che frenano il consenso?

«C’è n’è un’altra, e sono i tanti elementi di disturbo presenti in una Finanziaria così articolata e complessa. Questi tre elementi hanno secondo me finora oscurato l’impianto principale della Finanziaria. Aggiungo che a rendere poi ancora più difficilmente decodificabile l’impianto principale risultano i tanti conflitti che, trascinati, hanno indebolito la possibilità di organizzare il consenso. L’ultimo è quello sul Tfr. Anche se non do un giudizio di valore, dico che è bene che sia arrivato l’accordo con le parti sociali, ma nel frattempo abbiamo assistito a quindici giorni di bombardamento su un elemento determinante della manovra».

Riassumendo?

«Il deficit è di progettazione politica, non è nelle singole scelte compiute con questa Finanziaria».

Prodi, nell’intervista al Pais, ha parlato di pressioni sulla politica. Il quadro attuale le sembra solido o rischia di sfarinarsi?

«Penso che questo governo durerà cinque anni, che sia come quei malati sempre pieni di problemi che però non muoiono mai. Ma questa non è una buona ragione per non intervenire. Le cose che dice Prodi - per altro un po’ singolarmente, in un’intervista a un giornale straniero - sono meritevoli di una discussione politica aperta. Perché non si deve mettere all’ordine del giorno della coalizione gli argomenti proposti dal presidente del Consiglio? C’è stata una reazione del tutto incomparabile con l’ordine della denuncia, per quale ragione non ci deve essere un luogo della coalizione di centrosinistra che affronti i problemi politici?»

La denuncia del premier è meritevole di discussione, ma anche fondata?

«A me pare evidente che c’è un’insofferenza da parte di ambienti politicamente ed economicamente importanti del paese nei confronti della coalizione di centrosinistra. E questo per i contenuti che essa esprime».

Si parla di un peso eccessivo della sinistra radicale sulle scelte di governo.

«La trovo un’accusa del tutto fuorviante. E tuttavia, senza che sia vero che l’asse del governo sia spostato a sinistra, questi ambienti giudicano inaccettabili e non adeguati alla fase del paese gli elementi presenti nel programma di governo, che dovrebbe invece avere, sostanzialmente, una piattaforma neocentrista. Sanno bene queste forze che il problema di avere una maggioranza è reale e per questa ragione io non penso che ci siano forti propensioni a cambiamenti di maggioranza: perché irrealistici prima di tutto. C’è invece un fortissimo condizionamento sui contenuti per un cambio di asse politico-programmatico del governo».

Questi cosiddetti poteri forti, secondo lei vedono Prodi come un ostacolo al loro progetto?

«Mi pare evidente che sia così. Non perché Prodi sia amico delle sinistre, ma perché Prodi può vivere solo realizzando questo programma. In questo senso viene considerato un ostacolo. Se ne discuta pubblicamente, perché forse ne viene anche un elemento tonico nei confronti dell’azione del governo».

Un elemento tonico secondo lei può avvenire anche attraverso una riorganizzazione delle forze politiche in campo?

«Quello che penso è che siamo alla fine di un ciclo, nell’organizzazione dei partiti italiani, e all’inizio di un nuovo ciclo. Fin qui c’è stata l’onda lunga della pars destruens dei partiti della prima Repubblica. Ora comincia una nuova transizione, però in pars construens. Si possono costruire cioè dei soggetti politici più rivolti al futuro che segnati dal passato».

La sua previsione?

«Che tra cinque anni, alla fine di questa legislatura o poco dopo, avremo un panorama politico-partitico tutta affatto differente da quello attuale. Non sono sicuro, però, che allo stato attuale sia prevedibile lo scenario futuro. Vedo la situazione come un grande cantiere edile, con tanti lavori in corso. Ma per capire che edificio sarà alla fine bisogna aspettare di arrivare al tetto, perché in realtà anche questa pars construens ha tanti elementi di incertezza nelle fondamenta».

Prendiamo il Partito democratico.

«Ho verso di esso un atteggiamento di attenzione, seppure non ne condivida né il progetto né l’impianto. Ne capisco la ratio, per due partiti come i Ds e la Margherita. Debbo dire che non sono neanche così sicuro che si realizzi l’esito atteso. Propendo per un sì, ma propendo. Se devo essere onesto, l’impianto riformistico che dovrebbe presiedere a questa costruzione a me sembra troppo sfocato, cioè non vedo i lineamenti che lo dovrebbero rendere vincente».

Una riorganizzazione dei riformisti apre altri fronti.

«È chiaro. Nella nuova epoca anche le forze della sinistra alternativa hanno il problema di ridefinire cosa è oggi una forza che rimetta all’ordine del giorno la questione della trasformazione. Nella mia esperienza, penso che gli elementi di costruzione di cultura politica fatti da Rifondazione comunista siano rilevanti, dal rifiuto dello stalinismo fino alla nonviolenza, tuttavia anche qui penso sia necessario un salto di qualità, anche in grado di aggregare forze le cui energie sono indispensabili nell’intuizione del Partito della Sinistra europea. E penso sarebbe bene anche l’apertura ad altre forze di cultura socialista».

Marini ha definito urgente una modifica della legge elettorale.

«Secondo me bisognerà nel corso della legislatura porvi mano, ma oggi è totalmente immatura la discussione. E quando la si affronterà, bisognerà sbarazzarsi dell’idea, che è stata foriera di danni enormi, che le leggi elettorali fondano la geografia dei partiti».

L’intitolazione da parte del Prc di una sala del Senato a Carlo Giuliani ha suscitato le critiche del centrodestra.

«Mi pare una polemica sconclusionata. Un gruppo chiama con il nome di un giovane ucciso a Genova una sala, mi pare non sia il caso di discuterne. La vera questione è un’altra, ed è scritta nel programma del governo, che bisognerebbe attuare. Parlo della commissione d’inchiesta sui fatti di Genova. Questo è un tema di discussione che andrebbe messo al centro in queste giornate, dal momento che riguarda il problema di costruire una verità condivisa su un passaggio cruciale degli ultimi anni».

«Un colpo di pistola o di fucile alla testa del governatore » pur di fermare lo scellerato piano paesaggistico ordito ai piani alti di viale Trento contro l’autonomia e il potere sovrano dei Comuni sardi. La minaccia e l'invito a imbracciare le armi, seppure in senso metaforico, arriva dal sindaco di Olbia Settimo Nizzi, fiero oppositore «di quella gabbia di matti che sta amministrando la Sardegna» e del suo «temibile tiranno», il presidente della Giunta Renato Soru. Un'antipatia che il primo cittadino della città portuale gallurese non nasconde dietro giri di parole perché, prosegue, «se anche Soru morisse di morte naturale, non dispiacerebbe a nessuno». Sono le parole tuonate durante un convegno sul Ppr organizzato dai Riformatori sardi. Durante il quale l'ospite Nizzi non ha esitato a scagliarsi contro il governatore, accusato di essere capace, «nel suo fervore assolutista, di mettere la corda al collo» persino a un big della finanza mondiale come Tom Barrack, «costringendolo a tessere le lodi di una politica urbanistica sciagurata, che allontana i turisti e si compiace che le barche non attracchino nei nostri porti».

ACCUSE A RUOTA libera che il leader della Regione preferisce non commentare, ma che nell'aula gremita riscuotono gli applausi scroscianti. Il primo cittadino olbiese sale sulle barricate e chiama a raccolta il popolo del centrodestra per una mobilitazione di massa che scuota dalle fondamenta i palazzi cagliaritani. Invoca, Nizzi, non un semplice “no” alla tanto vituperata normativa salva-coste, ma una rivolta di piazza che porti la gente per le strade a manifestare contro la politica della Regione. L’occasione gliela fornisce un convegno «sulle ragioni del no al piano paesaggistico regionale» organizzato ieri mattina all’hotel Martini di Olbia dai Riformatori sardi. Un simposio con tanti ospiti illustri, dal senatore dell’Udc Massimo Fantola ai tecnici Gianni Contu e Giampaolo Marchi, rispettivamente amministrativista ed esperto di urbanistica. Tutti in prima linea nella battaglia anti-Soru. «Il Piano paesaggistico è completamente illegittimo - attacca il professore di ingegneria - si tratta di uno strumento che usa l’ambiente come un semplice pretesto per governare l’economia e limitare le prerogative degli enti locali». La riprova starebbe nei tempi dettati dalla Regione per l’adeguamento dei Puc, i Piani urbanistici comunali, alla nuova programmazione paesaggistica delle zone costiere. «Sono del tutto inadeguati - accusa Nizzi - in pratica la Giunta ci ha cucito addosso una camicia troppo stretta e con poche pieghe, il Puc ce l’hanno già fatto loro».

Con le furiose proteste di tassisti, avvocati, notai e farmacisti che hanno fatto seguito al decreto Bersani, e con quelle più che probabili di domani, se qualcuno oserà mai toccare i privilegi di altri gruppi e ordini professionali (a cominciare per esempio dai primari ospedalieri e dai giornalisti) dovrebbe essere finita per sempre (forse) la breve vita del mito italiano della «società civile».

Un mito che nacque e furoreggiò, come molti ricordano, a cavallo degli anni '80-'90 — gli anni dell'ultimo craxismo e del Caf, un acronimo che designava l'alleanza Craxi-Andreotti-Forlani — e raggiunse l'acme nella stagione di «Mani pulite». Il contenuto del mito era ed è semplicissimo: da un lato ci sarebbe l'insieme dei partiti, raffigurati alla stregua di un covo di clientelismo, di inefficienza, e soprattutto di politicantismo corrotto (la «partitocrazia»); dall'altro invece, e ovviamente contrapposta ai primi, l'Italia operosa degli «onesti» (un tempo si parlò addirittura di dar vita a un «partito degli onesti»), dei difensori della legalità, pensosi del bene pubblico e di quelle istituzioni che i partiti invece avrebbero occupato come terra di conquista. Quindici anni fa quel mito si mostrò efficacissimo nel distruggere il sistema politico della prima Repubblica con i suoi attori (per primi la Democrazia cristiana e il Partito socialista), e nel produrre o rafforzare all'estremo un sentire antipolitico che da allora non ha smesso di dilagare.

Da allora il mito della società civile non è venuto meno, ma anzi è divenuto parte costitutiva del discorso ufficiale della Repubblica, anche se la sua sempre crescente dose di retorica (e di irrealtà) ne hanno progressivamente ridotto sia l'impatto che l'efficacia. A tenerlo in vita, paradossalmente, sono stati quasi sempre, gli stessi uomini dei partiti, i quali, essendo ormai i partiti stessi sbriciolati, e loro rimasti perlopiù privi di legami con qualsiasi quadro ideologico coerente e definito, nonché alle prese con un elettorato sempre più segmentato, hanno cercato la propria legittimazione affannandosi ognuno a presentarsi come espressione della società suddetta, dei suoi ideali, delle sue esigenze, e naturalmente delle sue intrinseche virtù.

Ma dietro la nascita e la fortuna di quel mito c'è stato qualcosa di più del caso o dell'opportunismo. C'è stato, io credo, il desiderio, in qualche modo radicato nell'inconscio politico del Paese, di vedere finalmente cancellata una sua tara storica, l'oggetto di infinite analisi pessimistiche che da almeno due secoli a questa parte hanno accompagnato la nostra vicenda collettiva. Secondo le quali l'elemento decisivo dell'arretratezza storica italiana sulla via della modernità sarebbe da rintracciare, per l'appunto, nello scarso sviluppo della sua società civile. La mancanza di una società civile con solide radici, ramificata, ricca di iniziative, avrebbe costituito, infatti, con il peso del suo potere vuoi una delle principali cause dei limiti e della debolezza del Risorgimento, vuoi della costruzione, dopo il 1861, di una vita nazionale caratterizzata dal ruolo soverchiante dello Stato e di conseguenza della politica. Un ruolo soverchiante dello Stato nell'ambito economico (si pensi al protezionismo prima, e all'industria pubblica poi), ma soprattutto nel costume e per così dire nella vita morale del Paese.

Qui, con il peso del suo potere e delle sue istituzioni, esso avrebbe ancor più rafforzato la propensione italiana al conformismo, all'ossequio almeno apparente verso i «superiori», a stare stretti al proprio «particulare». «In Italia — scriveva intorno al 1820 Giacomo Leopardi, con parole che sarebbero riecheggiate infinite volte, si può dire fino ai giorni nostri — la società stessa, così scarsa com'ella è, è un mezzo di odio e di disunione (...); la società che avvi in Italia è tutta a danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno».

Il mito della società civile diffusosi negli anni '80-'90 e durato fino ad oggi può essere considerato l'ultima versione di quella «riforma intellettuale e morale degli Italiani» che auspicava Gramsci e tanti altri prima e dopo di lui per porre rimedio al principale difetto della nostra storia. Anche questa volta però qualcosa non ha funzionato. Il messaggio trasmesso nelle settimane scorse da tassisti, proprietari di farmacie e avvocati, pronti ad essere imitati domani stesso da moltissimi altri, non poteva, infatti, essere più chiaro: «Del bene generale, della soluzione più razionale e conveniente per tutti, della necessità di rispettare pure nella protesta più accesa le esigenze elementari della collettività, di tutto ciò — ci ha detto quel messaggio — non ci importa un granché. La sola cosa che c'importa è che non vengano toccati i nostri interessi: anche se poggiano su privilegi ingiustificabili». Il che, come si capisce, contraddice alla radice l'idea di società civile; la quale, comunque la si voglia definire nei dettagli, non può però andare disgiunta, secondo tutti i suoi teorici, dall'idea di rappresentare un polo di sostanziale positività, qualcosa che vede sì, magari, la prevalenza degli animal spirits, ma pur sempre tenuti insieme e a freno da qualche forma generalizzata di razionalità e di rettitudine di fondo, di benevolente attenzione per gli altri.

Ma come i fatti hanno mostrato le cose in Italia non stanno per nulla così. Si è visto che quella assenza di società civile che tutta la nostra tradizione si è abituata a lamentare è un'assenza sì, ma a cui corrisponde un formidabile pieno: il pieno delle corporazioni. È questa la vera specificità negativa dell'Italia e della sua secolare vicenda, il peso enorme che da noi hanno tutte le associazioni particolari, dalla famiglia alle molte altre che, a scala sempre maggiore, ne riproducono patologicamente alcuni meccanismi: il carattere originario e obbligatorio del vincolo, il mutuo soccorso sperato e assicurato, la inevitabile limitatezza degli orizzonti. La famiglia (termine non a caso fatto proprio dalla massima associazione criminale del paese), il clan, la comitiva, l'ordine, la corporazione, e poi, e insieme, tutto ciò che ha sapore di «parte», che ha radici nel «locale», nel «paese», negli «amici», nelle cose «di casa»: sono questi da secoli i pilastri poderosissimi intorno ai quali si è costruita la società italiana: ammasso di gruppi organizzati, spasmodicamente presa dai suoi interessi settoriali, avidi ognuno di esclusive e monopoli. La quale società non è in grado di conformarsi ai pii desideri dei teorici della «buona» società civile proprio perché troppo piena di un'altra società, che per il fatto di non piacerci non è per questo meno società dell'altra. Ed è anzi tanto forte, questa seconda, non solo da riuscire ad opporsi vittoriosamente allo Stato e ai suoi poteri, ma da riuscire spessissimo a penetrarlo e a contagiarlo con le proprie logiche, assimilando a sé, al modello familiare-corporativo alcuni degli stessi strumenti della sua modernità democratica, come i partiti e i sindacati.

Anche se forse non è molto di moda dirlo, questa è l'unica, genuina società che c'è oggi in Italia, e sognarne una che non c'è non porta molto lontano; ciò che continua sempre più a mancarci, invece, è uno Stato in grado di fare valere contro di essa l'interesse generale.

L’Italia ha molti guai e tra i suoi guai c’è, senza dubbio, il giornalismo. Nelle democrazie mature d’Occidente, il giornalismo è spesso una parte della soluzione, qui da noi è un problema che rende più arduo venire a capo delle anomalie nazionali. Se questo avviene, un motivo c’è: l’informazione è stata degradata a chiacchiera. In un certo posto, a una certa ora del giorno, qualcuno dice qualcosa. Non è accaduto nulla. C’è uno che ha espresso un’opinione, ma quella diventa la notizia del giorno. Sulla finta notizia si raccolgono pareri, si scrivono editoriali, si titolano le prime pagine, si combinano interviste. Meglio se un tipo del centrosinistra si lancia contro Romano Prodi o uno del centrodestra dà sulla voce a Silvio Berlusconi. Ottimo se in questa routine si possa sistemare, con qualche ghirigoro, un pettegolezzo. Si conoscono tra gli addetti molte frasi famose di questo canone giornalistico. Quella che qui conta suona così: «Non parlatemi di inchieste giornalistiche, ché mi viene l’orticaria».

Un’inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica e anche nell’interesse della politica perché senza fatti la politica annienta se stessa. È per proteggere se stessa che la democrazia prevede nel suo ordinamento costituzionale alcuni «rifugi della verità» garantiti – le università, le magistrature – e difende dai governi la libertà di stampa senza la quale, in un mondo che cambia, «non sapremmo mai dove siamo».

Il giornalismo della chiacchiera e della maldicenza dimentica il suo dovere di raccontare «dove siamo». Non guarda ai fatti, non li cerca, non vuole trovarli, soprattutto non ne vuole tenere conto. Quando si ritrova improvvidamente qualche fatterello tra i piedi, lo trasforma in opinione. Screditata a opinione, la verità di fatto è fottuta perché diventa irrilevante. Ma è appunto in questo "salto" l’astuzia del gioco. Accantonata la realtà, quel che resta si può combinare a mano libera. Ogni cosa è uguale al suo contrario. Ognuno è uguale all’altro. Non contano più comportamenti, responsabilità, abitudini, attitudini, condotte, decisioni, direzioni, orizzonti. Liberatosi dalla inevitabilità dei fatti, questo giornalismo deforme è ora il padrone della scacchiera. Muove torri e pedoni. Nella notte dove tutto è nero, nel vuoto di realtà creato, il lettore è frastornato. «Chi ha fatto che cosa?», non trova mai una risposta.

Accade in queste ore. C’è un giornalista, Renato Farina, sorpreso a trafficare con i servizi segreti che lo pagano con migliaia di euro. Il disgraziato non sa come difendersi. L’ha fatta grossa e lo sa. Ha tradito se stesso, il suo buon nome, l’amicizia di chi lavora con lui, gli appassionati lettori delle sue cronache. Non sa come uscirne con decoro. Gli suggeriscono di lanciarsi all’attacco. Chi se ne importa dei codici deontologici, tu hai combattuto per l’Occidente la IV guerra mondiale. Sei un soldato dell’Occidente cristiano ed ebreo. Sei un crociato. Sei un patriota.

Il disgraziato s’afferra all’argomento come un naufrago al legno. Sistemandosi addirittura accanto a Karol Wojtyla, scrive che ha «cercato di fare di tutto e di più per difendere questo nostro Paese e la sua civiltà cattolica». È la pietosa menzogna di un uomo che prova a proteggersi dal disprezzo. L’espediente miserabile di chi, religiosissimo, vuole rendere accettabile la sua umana debolezza invocando una fede e un’autorità che pure gli dovrebbero essere sacre. Un penoso spettacolo su cui si chiuderebbero volentieri gli occhi. Una brutta cosa che dovrebbe essere relegata in un angolino del discorso pubblico, e presto accantonata. Fino a quando, non sorprendentemente, il direttore del "Corriere della Sera" Paolo Mieli entra nel gioco. Prende sul serio quell’argomento: Farina è un crociato e un patriota. Santifica le ragioni di quel disgraziato addirittura con la legge di Antigone (che Dio lo perdoni). Non giustifica che abbia preso del denaro, ma per tenere a galla l’esercizio deve precipitare nel suo ragionamento, con un venticello calunnioso, anche chi dai metodi di lavoro, la storia professionale, l’opacità morale di Renato Farina è lontano un braccio di mare. La manovra deve accecare il lettore, nascondergli una realtà che, se raccontata, renderebbe l’iniziativa di Mieli un’arlecchinata.

Renato Farina non è stato pagato dal servizio segreto per difendere l’Occidente cristiano o combattere l’Islam radicale. Il Sismi ha chiesto a Farina di mettersi in contatto con un pubblico ministero per carpirgli informazioni e inquinarne il lavoro. Per questo è stato pagato. Il Sismi ha retribuito Farina per vedere pubblicato un dossier falso e screditare Romano Prodi, il candidato dell’opposizione a Palazzo Chigi. Lo ha pagato per spiare gli esiti dell’inchiesta sulle intercettazioni abusive e i dossier illegali raccolti dalla "sicurezza" di Telecom. Le attività di Farina non hanno nulla a che fare con l’Occidente, l’Islam, la civiltà cattolica. Lo si vede a occhio nudo. Le attività di Farina, rivolte contro le istituzioni del Paese (magistratura, governo), sono del tutto anti-italiane, assai poco patriottiche. Se Paolo Mieli non avesse così in uggia il mestiere di informare i lettori che ancora hanno fiducia nel "Corriere della Sera", si rimboccherebbe le maniche anche con l’orticaria per capire perché un’istituzione dello Stato (il Sismi) paga un giornalista (Farina) per mettere a mal partito altre istituzioni dello Stato (Palazzo Chigi e la Procura di Milano). Chiederebbe ai suoi bravi cronisti di raccontare quali interessi nascondono queste manovre oscure. Si sforzerebbe di spiegare ai suoi lettori come, quando e perché questo è avvenuto, e che cosa significa.

Ho lavorato per qualche tempo al "Corriere della Sera" e sono sicuro che un’eccellente redazione saprà riportare nel lavoro quotidiano i fatti là dove oggi ci sono soltanto chiacchiere e maldicenze. Non so se Paolo Mieli l’ha mai saputo, ma so che la sua redazione non ha dimenticato che, senza un’informazione basata sui fatti, la libertà d’opinione è soltanto una beffa crudele.

Per vari motivi il permanere degli incidenti sul lavoro su quote elevatissime - circa 950.000 casi all´anno, che si lasciano dietro 1200 morti e decine di migliaia di persone con invalidità più o meno gravi – è uno scandalo nazionale che non ha attenuanti. Giustamente il Papa e il capo dello Stato hanno richiamato l´attenzione su di esso. È uno scandalo, in primo luogo, perché in merito alle cause materiali degli incidenti si sa quasi tutto. La frammentazione pianificata dei processi produttivi in imprese e squadre di lavoro sempre più piccole, collegate da lunghe catene di esternalizzazioni a cascata e sub-appalti, disincentiva la formazione alla sicurezza. e in molti casi la rende tecnicamente inattuabile. L´elevato numero di datori di lavoro che reclutano masse di lavoratori in nero, connazionali e immigrati, è un altro fattore che dalle due parti fa venir meno la voglia, il tempo, la stabilità dell´occupazione che sono indispensabili per la formazione alla sicurezza. Allo stesso effetto operano i contratti di lavoro atipici, in specie quelli con una durata di pochi mesi. Alle carenze formative si aggiungono i costi dei dispositivi attivi e passivi per la prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro che molte imprese, vuoi perché premute dalle pressioni sui costi provenienti dagli anelli superiori della catena di creazione del valore, vuoi perché nella loro agenda gli investimenti in sistemi di sicurezza non sono una priorità, cercano di limitare il più possibile.

Dal lato delle attività di prevenzione e controllo, un fattore che incide nel mantenere elevato il tasso di incidenti sul lavoro è la perenne carenza del numero degli ispettori del lavoro in servizio effettivo presso il ministero, l´Inail e le Asl. In qualsiasi impresa, un ispettore che non si vede significa, al minimo, uno scarso impegno dei capi nelle misure di sicurezza. Su scala nazionale, gli ispettori del lavoro effettivamente in servizio sono, salvo errore, meno di 2300, a fronte dei quali operano circa un milione e mezzo di imprese non individuali. Ciascun ispettore dovrebbe quindi controllare regolarmente lo stato delle misure di sicurezza in oltre 650 imprese. Poiché una singola ispezione in una piccola azienda prende almeno una giornata, spostamenti compresi, mentre nelle aziende con numerosi dipendenti richiede parecchi giorni, se ne ricava che ogni singolo ispettore può compiere una sola visita approfondita alle "sue" imprese ogni sei anni circa. Pertanto i datori di lavoro non in regola possono, sotto il profilo dei controlli preventivi cui sono esposti, dormire sonni tranquilli.

Alcuni dei fattori che concorrono a mantenere alto il numero degli incidenti gravi sul lavoro potrebbero essere alleviati o rimossi con provvedimenti ad hoc del legislatore. Per dire, mille nuovi ispettori del lavoro potrebbero essere assunti in pochi mesi mediante un decreto. Altri fattori appaiono più ostici nei confronti di un intervento. Non sarebbe facile, ad esempio, invertire la tendenza alla frammentazione dei processi produttivi e delle imprese. D´altra parte tale tendenza è stata accentuata dal decreto attuativo della legge 30, che ha facilitato la cessione di rami d´impresa anche nel caso in cui non erano in precedenza funzionalmente autonomi. Quel che il legislatore ha fatto, il legislatore può disfare o correggere.

Il guaio è che quando si tratta di incidenti sul lavoro il legislatore italiano appare discutere molto, ma concludere poco. Allo scopo di contenere i fattori di incidenti nei luoghi di lavoro occorre una legge complessiva sulla sicurezza del lavoro. La concatenazione di tali fattori ne fa un sistema complesso. Ci vuole quindi una legge di sistema per contrastarli, qualcosa di simile a un ampio testo unico sulla sicurezza del lavoro. Ora, se ben ricordo, di testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si parlava già verso la fine degli anni ´70 del secolo scorso. Per anni non successe nulla. Verso il 1994, la Commissione europea varò una specifica direttiva su tale tema. Il legislatore italiano si prese qualche tempo per riflettere, e nel luglio 2003 – nove anni dopo, governo Berlusconi in carica – emanava una legge che prevedeva un anno per preparare un decreto in materia di sicurezza dei lavoratori. Una bozza di Testo unico fu effettivamente predisposta dal ministero del Lavoro entro il 2004, ma le critiche al suo carattere regressivo levate dalle regioni, nonché da numerosi giuristi e altri operatori del settore, inducevano il governo a ritirarla poco dopo. In compenso veniva istituita una Commissione parlamentare d´inchiesta sugli infortuni e le "morti bianche" che ha concluso i lavori nell´aprile 2006, ribadendo con voto unanime la necessità, nullameno, di addivenire al più presto alla stesura di un Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Siamo così arrivati al governo Prodi. Il nuovo ministro del Lavoro, Cesare Damiano, ha fatto inserire in una legge che tratta in realtà di tutt´altro (la 248 del 4 agosto 2006) un articolo, il 36-bis, il quale contiene misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Misure apprezzabili, che però si limitano alla repressione dell´impiego di lavoratori irregolari, e soltanto nel settore dell´edilizia – un´area di intervento esigua rispetto all´enorme perimetro del lavoro malsicuro. Il problema è stato però prontamente affrontato dalla Commissione Lavoro della Camera. Già a metà luglio 2006 il suo presidente ribadiva l´esigenza di "un rapido intervento normativo volto all´emanazione di un testo unico in materia di sicurezza del lavoro". I membri della Commissione hanno espresso unanimi il loro consenso. I tempi? Forse un anno, un anno e mezzo, stando a dichiarazioni di alcuni membri e sottosegretari. Se tutto va bene, si arriva dunque a metà 2008 per vedere approvato finalmente un Testo unico. A quell´epoca, ricordano crudamente le serie statistiche, si saranno verificati altri 1800-2000 incidenti mortali sul lavoro. Che nessuno può pensare di azzerare, ma che sicuramente è possibile ridurre di molto con una legge adeguata. Forse è davvero giunto il momento di dare una scossa, almeno in questo campo, al processo legislativo.

Se dici, o peggio ancora scrivi, parole che urtano i miei pregiudizi o i miei interessi, io ti ammazzo. O ti faccio ammazzare dai miei sicari. È l´arcaica, insopportabile sentenza di morte della parola, e dell´uomo libero che la pronuncia, con la quale le società democratiche si erano illuse di avere chiuso il conto. Finché la fatwa contro Rushdie, l´assassinio di Theo Van Ghog e numerose altre azioni del fanatismo islamista hanno riportato nel cuore dell´Europa la questione.

Tra i molti evidenti svantaggi, almeno un vantaggio: rendere più acuta, in noi, una percezione della libertà di espressione quasi opacizzata dal suo uso e fors´anche dal suo scialo. Al punto che oggi – ed era finalmente l´ora – riusciamo a leggere per quello che sono, e cioè attentati alla democrazia, offese letali alla libertà di tutti, anche episodi fin qui pigramente ascritti alla cronaca nera, come le minacce di camorra al giovane scrittore napoletano Roberto Saviano.

Mentre i giornali di tutto il mondo stanno dando enorme rilievo all´assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaja, comincia finalmente a prendere corpo anche in Italia, sia pure timidamente e in ordine sparso, la coscienza di un gigantesco e annoso problema di libertà tutto nostro, tutto locale. Le minacce a Saviano, colpevole di avere raccontato Napoli per quella che purtroppo è, e per giunta di averlo fatto in un bel libro, rinverdiscono la tradizione infame di intimidazione, ricatto e assassinio che colpisce chiunque, nel nostro meridione, si ribelli alla dittatura delle mafie. Dalla scomparsa del giornalista De Mauro all´esecuzione del militante politico Impastato, del giornalista Fava, del giornalista Siani, non c´è voce davvero libera che possa esprimersi, nel nostro Mezzogiorno, in legittima libertà e sicurezza. Da più di mezzo secolo, cioè da quando l´Italia è formalmente una democrazia e una Repubblica, pezzi decisivi della Costituzione non sono applicabili in larghe zone del Paese nelle quali la libertà economiche sono sottoposte allo strozzo, al parassitismo e alla violenza delle famiglie mafiose. E la libertà di cronaca e di opinione conta le sue vittime tra i morti come tra i vivi, cioè tra gli zittiti a morte e gli spaventati a vita.

È davvero grave, ripensandoci, che questo particolare aspetto della presenza mafiosa – quello liberticida, che disvela nella mafia la tirannia prima ancora del malaffare – sia stato così scarsamente avvertito, fin qui, dalla classe dirigente così come dall´opinione pubblica. L´allarme di Umberto Eco e di Alberto Scurati, che sulla Stampa giustamente ridefinisce le mafie come antitetiche non solo e non tanto alla legalità, ma addirittura alla libertà, forse è un primo passo per aiutare politici, intellettuali e cittadini a salire di almeno un gradino, quando si parla di mafia, la scala dell´intollerabilità. Parole come oppressione mafiosa, dittatura mafiosa, occupazione mafiosa, rendono molto evidente la necessità non retorica, ma sostanziale, di una vera e propria lotta di liberazione politica, territoriale e culturale. Lo sanno i ragazzi di Locri, lo sa chiunque abbia percepito nella vita quotidiana, nelle strade, nelle case, il plumbeo conformismo dell´assuefazione, che è l´ossigeno che tiene in vita ogni sistema oppressivo.

Oltretutto non guasta, nel mezzo di quel complicatissimo groviglio mondiale che viene convenzionalmente definito "conflitto di civiltà", capire meglio che lo scontro tra arcaismo e modernità (in così larga parte coincidente con quello tra oppressione e libertà) non è certo riducibile alla lotta tra Islam radicale e società secolarizzate (anche islamiche). È presente ovunque logiche di clan, o di tribù, o di cosca, o di conventicola clericale, o di familismo inglobante, tendano a sottomettere i diritti individuali e le libertà formali degli uomini e delle donne, in odio alla libertà dei singoli, alla varietà delle opinioni e delle scelte. Perché i sistemi chiusi, le mentalità arcaiche, sanno benissimo che nessun colpo, per i loro sistemi, è più mortale dell´autodeterminazione delle persone, del loro disporre appieno delle proprie vite e delle proprie parole.

Dire "conflitto di civiltà", dunque, descrive perfettamente luoghi e città di questo nostro Paese nel quale la pubblicazione di un libro costa minacce di morte al suo autore, e giudici, poliziotti, imprenditori, giornalisti e cittadini sono caduti a centinaia perché non volevano vivere sotto la dittatura della malavita, dei suoi sgherri armati, delle sue squadracce punitive.

Per quel poco che vale dirlo, siamo molto vicini a Roberto Saviano, al valore del suo lavoro, all´energia liberatrice delle sue parole. Ci si può anche porre il problema se parlare ad alta voce del suo caso lo aiuti a sentirsi protetto o lo esponga maggiormente. Ma non c´è dubbio che non parlarne esporrebbe tutta Napoli, e tutti gli italiani, al rischio insopportabile dell´indifferenza.

Se Benedetto XVI avesse citato non solo la frase insultante pronunciata dall’imperatore bizantino su Maometto, martedì nella prolusione all’università di Regensburg, ma avesse raccontato come andò l’intero dialogo fra Manuele II Paleologo e il dotto persiano che avvenne una notte d’inverno del 1390-1 o 1391-2, tutto oggi sarebbe un po’ più chiaro, più complicato e forse anche un po’ più triste. Sarebbe più chiaro perché conosceremmo le argomentazioni del Mudarris, il professore teologo musulmano che davanti all’imperatore di Bisanzio difende l’Islam con forza e precisa convinzione. Sarebbe più complicato, perché il dissidio non riguarda tanto la ragione quanto l’essenza della fede, la sua vocazione a sperare, legiferare. Saremmo più tristi, perché in quella notte del XIV secolo il dialogo è una pratica normale, mentre nel secolo nostro non esiste. In quella notte c’è ascolto, voglia d’apprendere, immensa curiosità di conoscere le ragioni dell’altro e di fare in modo che la propria fede prevalga razionalmente anche se molti suoi tratti non sono razionali. Oggi quel dialogo è completamente assente. Se tutti ne parlano, se tanti l’invocano come un valore fine a se stesso che implica nei cristiani dissimulazione della propria identità, è perché tra i due monoteismi il baratro è enorme. Il basileus bizantino non deve scusarsi, il Papa sì.

La lettura dell’intero dialogo fra Manuele e il Persiano ci mostra innanzitutto una cosa: che non sono affatto il logos e l’Ellade a dividere il mondo cristiano dal musulmano. Rifacendosi alla filosofia greca, Manuele denuncia la propagazione delle fede attraverso la spada, vedendo nella guerra santa o jihad non solo un abito «malvagio e disumano» ma un’«assurdità non conforme a ragione», dunque sgradita a Dio «che non si compiace nel sangue». Il Persiano gli risponde che la vera ragionevolezza sta dalla propria parte, essendo l’Islam fondato su moderazione e praticabilità, su misura (métron) e giusto mezzo (mesòtes): categorie aristoteliche centrali. Ambedue sono immersi nella cultura greca. Ambedue si sforzano di poggiare argomentazioni e precetti sulla ragione e su una ragionevolezza «abbordabile». Il disquisire dei conversanti è logico, e in alcuni punti talmente sillogistico da apparire sofistico.

Quel che veramente li divide è in realtà qualcos’altro. Non è la fiducia o non fiducia nella ragione (il dialogo si conclude con la comune constatazione che «la Misura è la migliore delle cose»), ma sono i diversi modi di vivere le leggi, i folli paradossi insiti nella fede e nell’attesa. E la maggior follia non è quella dell’Islam ma del cristiano. Il basileus-imperatore bizantino lo riconosce d’altronde apertamente: in fondo è vero quel che il Persiano rimprovera al credo di Cristo - la sua follia, la non ragionevolezza, la «dismisura», il contraddirsi tormentoso tra poter essere e dover essere. Quel che fin d’allora stupisce più i musulmani - compresi i messianici sciiti - è proprio questa follia cristiana: il credere l’incredibile, il tendere smisuratamente l’anima verso l’alto, il non compromesso con le cose del mondo. Ed è l’insegnamento centrale del Cristo: l’amare il proprio nemico, il porgere l’altra guancia, oltre al disfarsi d’ogni ricchezza e al precetto che ingiunge, se si vuol esser discepoli, di «odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria psyche, la propria anima» (Luca 14, 26): «Qual è l’uomo di ferro, di diamante, più insensibile della pietra - così il Persiano - che sopporterà queste cose?».

Manuele Paleologo non dissimula, non sminuisce: è vero che il cristianesimo mostra al credente una strada infinitamente più difficile, come deplorato dal musulmano. Una strada «dura, esagerata, eccessiva», dunque «impraticabile» (la parola greca abatos impiegata dal Persiano è la via che non si può camminare, l’inattraversabile). Impregnato anch’egli di pensiero ellenico, il dotto musulmano cita la «dottrina degli Antichi» e critica una via, quella cristiana, «contraria alla ragione», «pari a una trappola», «fardello violento» (per esempio sulla verginità). Una via «che in un certo modo forza la nostra natura terrestre a montare verso il cielo». Che raccomanda «cose impossibili, disumane».

Il basileus bizantino non nega tutto questo, abbiamo visto. Sì, la via cristiana comporta - quando è perfetta - una scelta deliberata di «soffrire cose penose, quale che sia la loro qualità e quantità»; di «sopportare con mitezza chiunque ci calpesti»; di «percorrere vie dolorose perché ogni strada in salita lo è». Il basileus non nega neppure che ci sia follia, nella religione della croce. Quest’ultima spiritualizza leggi che nell’Islam sono rigide, troppo semplificate e abbordabili, «copiate dalle sorpassate leggi di Mosè». Ma la follia cristiana ha un possente lievito curativo, come contrappeso: l’illimitata speranza, questa follia che guarisce dalla follia. Ha la speranza-certezza che l’incredibile diventi credibile, che l’insperabile sia sperabile, che i frutti della virtù si rivelino dolci pur essendo la loro radice amara. Questo il paradosso che distingue il cristiano: l’attesa di quel che verrà, la promessa del regno celeste, il presagire un futuro non visto ma sentito vicino. Per il Paleologo è vicinissimo, come lo era per Giovanni. Manuele dice: oggi l’aldilà è ineffabile ma «nel secolo a venire» sarà visibile. Gesù confida a Giovanni, in Apocalisse 22, 20: «Sì, verrò presto».

Questa speranza ineffabile e però vicinissima oggi manca, nel cristianesimo. Di speranza si parla anzi poco, come scrive Luciano Manicardi, monaco di Bose, in un bellissimo saggio che uscirà a settembre ne «La rivista del clero italiano»: questa è epoca di «passioni tristi, narcisiste», che ha perso interesse nel futuro, che non prendendo tempo per pensarlo impoverisce il rapporto stesso col tempo. Eppure proprio questo è sperare: «dar forma al tempo». La ragione fatica a combinarsi con lo sperare, e il Persiano non ha torto quando osserva che «vivere con simili speranze non permette di mantenere la misura» ed evitare il peccato d’orgoglio. Se include le domande religiose sull’essere e sul perché esistiamo, la ragione si rimetterà a cercare: in questo il Papa nuota nel profondo e alla ragione apre più vasti spazi. È la follia dell’attesa che nel suo discorso non c’è. Non c’è l’ossimoro che è la speranza nell’insperabile. Non c’è neanche il riconoscimento che jihad è sforzo individuale oltre che guerra: sforzo non diverso dal combattimento spirituale (agone pneumatico) che il Paleologo esalta come cristiano. Questo è segno di intristimento, ma ancor più triste è la sordità dell’Islam alle parole cristiane, e a ogni alterità. La forza del persiano nel dialogo del ’300 è nell’ascolto, ed è una forza che oggi l’Islam non ha. Non è capace di dialogo e di esame della propria storia religiosa perché è come se avesse perso se stesso, e la scelta del Papa di parlare con massima franchezza (è un’altra virtù greca: la parresia) sarà «tragica e pericolosa» come scrive il New York Times, sarà più professorale che politica come dicono alcuni, ma ha la nobiltà politica dell’impolitica, della profezia. La collera nell’Islam nel mondo è diffusa ma esistono anche voci dissenzienti. Il capo della comunità musulmana in Germania, Aiman Mazyek, non scorge attacchi: le parole pontificali contro la violenza sono indirizzate non alla religione, ma a chi trasforma l’Islam in ideologia estremista. «Sono piuttosto un’incitazione a esercitare con più forza l’autocritica nelle nostre comunità», e a «mettere più apertamente in discussione il nichilismo infiltratosi nell’Islam» (Süddeutsche Zeitung, 14-9). In realtà l’Islam è meno forte di quanto sembri credere il Papa stesso in alcuni momenti. In realtà il vuoto lo minaccia.

Proprio questo svuotamento può tuttavia dischiudere porte, inaspettatamente. In un nitido testo pubblicato il 15 settembre sul Corriere, la scrittrice Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) dice: «Vivere nel vuoto (accade nell’Iran del dopo-Khomeini, ndr) è molto meglio che sentirsi intrappolati da ideologie prefabbricate». Vivere nel vuoto - o come scrive Manicardi: nella disillusione, disperazione - apre a quel che Nafisi chiama «l’emergere d’un nuovo linguaggio». Il linguaggio della società aperta, che presuppone in ciascun individuo la coesistenza di molteplici identità: civili, estetiche, etiche, religiose (fra esse l’identità creata dall’arte: «L’arte consente di vivere molte vite», spiega a Nafisi il regista Mohsen Makhmalaf, che a forza di filmare e guardare ha abbandonato il fondamentalismo). Solo la laicità dà questa possibilità, e quando non è convinzione esclusiva ma metodo inclusivo rende obsolete definizioni riduttive come civiltà islamica, o buddhista, o cristiana. È la debolezza e non la potenza dei monoteismi che schiaccia nazioni e cittadini sulla sola appartenenza religiosa, trasformandola in unico cemento politico. Fare il vuoto perché emerga un nuovo linguaggio non esclude il conflitto, non inibisce l’affermazione della propria fede, non è neppure nichilismo: è l’inizio del dialogo, quello vero.

ROMA - «Basta polemiche. Su questo fantomatico muro sono state dette assurdità di ogni tipo. Mi ha chiamato addirittura la Bbc per sapere che cosa stava succedendo a Padova. La risposta è che questa amministrazione vuole smantellare il supermercato della droga che prospera in quell´area. E tra un anno, quando saranno ultimati gli sgomberi del complesso di via Anelli, la recinzione verrà abbattuta». Flavio Zanonato, sindaco diessino della città di Sant´Antonio, parla con la veemenza di chi non riesce a credere di essere accusato di razzismo sia da destra che da sinistra. Al centro della polemica la costruzione, appena ultimata, di una barriera metallica alta tre metri attorno ad un gruppo di palazzine diventate zona franca di spaccio e immigrazione clandestina, per "difendere" così i condomini limitrofi dal dilagare di degrado e micro criminalità.

Sindaco, il muro è stato appena costruito e lei già parla di abbatterlo...

«Prima di tutto smettiamo di chiamarlo muro, perché si tratta di una recizione di lastre di metallo che nulla hanno a che vedere con il muro di Berlino, o addirittura, con il muro che gli israeliani stanno costruendo attorno ai territori palestinesi. Anche di questo sono stato accusato... Quel "muro" è solo una barriera che impedisce agli spacciatori e ai loro clienti di vendere e comprare droga sotto le finestre di cittadini che hanno diritto a tranquillità e sicurezza».

Sì, ma di fatto così lei separa una zona degradata da una zona "normale". Isolando chi resta nelle palazzine a rischio, abitate anche da immigrati regolari, famiglie con bambini.

«Intanto questa barriera non isola nessuno, perché si può entrare ed uscire esattamente come prima. E poi, al massimo nel giro di un anno, tutti questi nuclei familiari che oggi sono costretti a pagare 600 euro al mese per vivere in 28 metri quadrati, riceveranno un alloggio comunale, così come è già accaduto per 120 famiglie, mentre altri 40 nuclei avranno la nuova casa ad ottobre. Il nostro obiettivo è quello di sgomberare e poi riqualificare. Ultimato lo sgombero di tutte le famiglie butteremo giù anche la recinzione».

Però sindaco, dover ricorrere ad un "muro" contro gli spacciatori sembra tanto un provvedimento disperato...

«Non nego che sia una misura forte, ma la situazione è gravissima. A comprare droga lì arriva gente da tutto il Nord. Non hanno bisogno nemmeno di scendere dalle macchine: abbassano il finestrino e gli spacciatori passano la merce. Una follia. Ecco, la barriera obbliga gli spacciatori a disperdersi, impedisce loro di nascondersi, favorisce i controlli delle forse dell´ordine. Io voglio rendere difficile la vita a chi vende la droga. E´ forse razzismo questo?».

E i check point?

«E´ un´altra esagerazione. Trattandosi di una zona ad alto rischio c´è una vigilanza di polizia e carabinieri 24 ore su 24. Ma non mi possono dire che due camionette di carabinieri sono un check point. E sono proprio gli inquilini delle palazzine circondate dalla recinzione, gli immigrati regolari, che ci chiedono di non lasciarli soli tra spacciatori e criminali».

Come si sente ad essere attaccato anche dalla Sinistra?

«Amareggiato, ma sicuro di quello che sto facendo».

Però lei ha già deciso che tra dodici mesi il Muro di Padova cadrà.

«Senza dubbio. Appena tutti i nuclei di immigrati avranno una casa popolare, il complesso di via Anelli verrà completamente smantellato e ricostruito con criteri "umani". E non ci sarà più bisogno della recinzione. Per adesso comunque ci limiteremo a riempirla di murales».

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