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La lettera di

Piero Fassino

Caro Padellaro,

non mi viene in mente nessun Paese democratico, né di quelli governati dai conservatori, né di quelli governati dai progressisti, dove un capo del governo - nel nostro caso direttamente proprietario di un impero mediatico e finanziario - occupi il suo tempo ad attaccare platealmente una testata che non può controllare, né condizionare direttamente o indirettamente.

È un comportamento molto grave che smentisce una volta per tutte la falsa immagine di un leader politico come Berlusconi che vuole presentarsi agli italiani come capo dei moderati. Non c'è nulla di moderato in questo attacco a l'Unità, né nel tentativo disperato di aggredire, offendere, demolire gli avversari politici e gli organi della stampa libera.

Tenete duro, il più grande partito dell'opposizione - e del Paese - è con voi; sono con voi decine di migliaia di cittadini che leggono l'Unità e i tantissimi italiani che trovano incredibile l'aggressione a cui la vostra testata è sottoposta. Continuate nell'opera preziosa di far vivere ogni giorno un'informazione libera e seria.

Nessuna intimidazione vi potrà fermare nel fare onestamente il vostro lavoro e il 9 aprile, ne sono convinto, gli italiani manderanno in archivio Berlusconi e le sue pulsioni autoritarie e populiste.

Buon lavoro.

Perché ci odia

di Antonio Padellaro

Caro Fassino,

Grazie per le tue parole di solidarietà, forti come quelle che in questi giorni abbiamo letto in centinaia di messaggi dei nostri lettori e nelle espressioni dei tanti amici che, domenica, ci aiuteranno a distribuire Unità, con lo stesso slancio ideale che ha segnato i momenti più importanti della storia di questa gloriosa testata. È vero: in nessun Paese democratico c’è un premier che passa il tempo ad aggredire un giornale dell’opposizione. In Francia uno scandalo del genere sarebbe impensabile, ci ha detto Marcelle Padovani, corrispondente in Italia del Nouvel Observateur. Uguale sconcertato stupore abbiamo colto nei giudizi di tante altre firme della stampa internazionale che non sanno più come spiegare questa inarrestabile progressione di minacce e di insulti da parte del presidente del Consiglio.

Due domande ci pongono i nostri colleghi stranieri. Perché Berlusconi odia l’Unità?. Ma, soprattutto: come mai tanto silenzio? Nei loro Paesi, infatti, sarebbe sufficiente un moto d’insofferenza nei confronti di un qualunque giornalista da parte di Chirac o di Blair o di Zapatero o della Merkel per scatenare l’insurrezione di tutti gli altri media. Qui da noi, invece, davanti alle offese e alle intimidazioni che da cinque anni, costantemente, Berlusconi rivolge contro l’Unità (come raccontiamo nel dossier allegato al giornale di domani), praticamente, non si sente volare una mosca. Noi pensiamo che i due interrogativi siano in qualche modo intrecciati poiché scaturiscono da quella grande, devastante, permanente anomalia che è il conflitto di interessi del premier. Che come scrivi, oltre a essere il proprietario dell’impero mediatico e finanziario che sappiamo, controlla, direttamente o indirettamente un’altra larga fetta dell’informazione scritta e radiotelevisiva.

Sia chiaro: nessuno mette in discussione onestà e qualità professionali dei giornalisti che lavorano in quelle importanti testate. Ma, francamente, ci si può aspettare che quei bravi colleghi si mettano a criticare per le accuse rovesciate sull’Unità il loro datore di lavoro? Che è anche il capo del governo. E uno degli uomini più ricchi del pianeta. Dunque, è già molto se dell’argomento evitano di fare cenno.

C’è poi un altro atteggiamento che chiameremo dell’indifferenza voluta e che ritroviamo, spesso, tra le righe di quella libera stampa fortunatamente ancora forte e diffusa nel nostro Paese. È una regola non scritta che suggerisce di non dare troppo spago all’Unità, che resta pur sempre un giornale concorrente. E se Berlusconi insulta il nostro giornale, lo si oscura. Ce lo ha gentilmente spiegato un’autorevole intervistatrice quando le abbiamo domandato come mai davanti all’incredibile accusa del cosiddetto cavaliere di avere noi (comunisti) in qualche modo sobillato un attentato contro la sua persona, lei non abbia replicato alcunché. Risposta testuale: sarebbe stato di scarso interesse per il telespettatori consentirgli di ricominciare daccapo, sempre sul prediletto terreno del «comunismo».

Beh, questa del premier censurato per non fargli dire troppe bestialità la dice lunga sulla credibilità del personaggio; ma anche sul ruolo, qualche volta improprio, giocato dall’informazione. Che in un qualsiasi altro Paese si porrebbe piuttosto il problema di come incalzare il premier; di come replicare punto per punto ai suoi foglietti propagandistici; di come indicarlo esporlo alla pubblica riprovazione nel caso dicesse, mentendo, che un giornale vuole la sua morte.

Ecco che allora Berlusconi ci detesta, non perché siamo comunisti (lo sa bene che è una stupidaggine) ma perché gli mostriamo per intero i suoi fallimenti interferendo con l’inclinazione a falsificare i fatti quando non lo soddisfano. Siamo un’ossessione perché lui legge sull’Unità (la legge eccome) quella evidenza che lo fa soffrire e che gli viene nascosta. Spiega bene lo psicanalista Mauro Mancia che Berlusconi è dominato dall’impulso di manipolare la verità quando è scomoda; di negare la realtà quando non gli piace per sostituirla con una pseudo realtà. Non ci sopporta perchè l’Unità titola che è stato «sbugiardato» sul caso Unipol mentre altrove la figuraccia in procura viene edulcorata. Perché le domande dei giornalisti dell’Unità lo fanno uscire dai gangheri. Perché non abbiamo paura di lui. E forse ci odia perché non lo amiamo.

Questo, caro Fassino, cerchiamo di spiegare ai colleghi della stampa estera quando ci interrogano increduli su quanto ci accade intorno. Fiduciosi con te che tra qualche settimana tutto questo sarà solo un brutto ricordo.

Titolo originale: Bird flu's spread in east Turkey – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

DOGUBAYAZIT, Turchia – Circa tre settimane fa, i polli hanno cominciato a morire in quantità bibliche nella cittadina di Diyadin in Turchia orientale, ha detto lunedì Mehmet Yenigun. In due giorni, racconta l’abitante del villaggio, tutti gli uccelli - migliaia – erano morti.

Gli allevatori allarmati sono corsi dai responsabili locali a riferire della “peste” cercando aiuto e informazioni. Ma uno dei funzionari era in vacanza. Un altro, il veterinario regionale, ha annotato i particolari e risposto che qualcuno sarebbe andato a indagare. Sinora non è arrivato nessuno.

”Potrebbe essere influenza aviaria?” ha chiesto uno degli allevatori. Gli è stato risposto “No, non preoccupatevi di questo”.

Yenigun ha fatto quello che fanno da secoli i contadini in queste alte colline coperte di neve: insieme alla moglie e ai sei figli, hanno macellato e mangiato i loro 12 polli. Ha buttato due piccioni oltre la recinzione. “Non so, forse li hanno portati via i cani” dice. Questo potrebbe aver iniziato a diffondere l’infezione.

Domenica, finalmente, i funzionari riferiscono l’apparire dell’influenza a viaria nella provincia di Agri, che comprende il villaggio di Diyadin, anche se non hanno ancora rilevato il caso di Diyadin stessa.

La lentezza della risposta, dicono gli esperti, ha contribuito al consolidarsi dell’influenza nelle vaste zone orientali del paese. Ha consentito alla malattia di spostarsi da un villaggio all’altro incontrollata e – nell’ultima settimana – di passare dagli uccelli all’uomo. Sinora sono stati confermati quindici casi.

Nessuno dei sei figli di Yenigun si è ammalato. Ma qui vicino a Dogubayazit, Zeki Kocyigit e sua moglie questa settimana hanno seppellito tre dei quattro figli. Tutti morti di influenza aviaria. Il quarto, che si presume abbia contratto l’influenza giocando coi polli della famiglia, è tornato a casa lunedì dopo più di una settimana in ospedale.

”La sfortuna nel caso della Turchia è che le persone hanno iniziato a morire prima che i funzionari scoprissero l’esistenza dell’influenza aviaria nella regione” dice Ahmet Faik Oner, responsabile di pediatria al Van Hospital, che ora sta curando sette persone colpite dall’influenza, e si è preso cura dei tre fratellini morti. “Se lo scoppio della malattia fosse stato identificato prima, e fossero state prese immediatamente le precauzioni necessarie, le cose avrebbero potuto avere sviluppi diversi”.

Nella loro linda casa di cemento di due stanze alla periferia di questa attiva cittadina di confine, mentre aspettava l’arrivo del figlio sopravvissuto, Marifet Kocygit singhiozzava sul letto. Suo marito, Zeki Kocygit, dice che non avevano sentito parlare dell’influenza aviaria alla fine di dicembre, quando loro figlio si ammalò. “Naturalmente i miei figlio giocano coi polli: sono bambini” dice Zeki Kocyigit, disoccupato e che va in città ogni giorno per cercare lavori.

Molti abitanti della regione considerano i bambini come dei martiri le cui morti finalmente hanno attirato l’attenzione sulle loro sofferenze. “È necessario che muoiano dei bambini perché la pubblica amministrazione si occupi di noi?” chiede Yenigun.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che dall’influenza aviaria in Turchia sono state infettate 15 persone. Di questi, cinque casi – riferisce il Ministero della Sanità turco lunedì – sono giudicati “preliminarmente positivi” dato che l’organizzazione non ha ancora ricevuto informazioni sufficienti a riguardo, riferisce Maria Cheng, portavoce della OMS. Un gruppo di lavoro che ha iniziato a indagare si casi ha affermato in un primo tempo che i casi erano causati da “contatto diretto con pollame malato” sostiene Cheng. Ma aggiunge: “Naturalmente stiamo ancora indagando sulla possibilità di trasmissione da umano a umano”.

Il bilancio turco su quante regioni siano state colpite, secondo i funzionari internazionali è incompleto, ma si tratta di quantità in crescita a macchie di leopardo.

La scorsa settimana solo in due o tre località venivano riferiti dei casi. A lunedì, 12 villaggi hanno confermato la malattia, con estensione dalla città di Van nell’estremo oriente sino a Bursa, vicino a Istanbul, a 1.600 chilometri di distanza. Come risposta sono stati abbattuti secondo il Ministreo dell’Agricoltura 106.000 uccelli.

Oltre a questi focolai, ha annunciato lunedì il governatore di Istanbul, Muharrem Guler, è stata diagnosticata l’influenza aviaria su uccelli in tre distretti della città, di 12 milioni di abitanti, anche se non è ancora chiaro se siano portatori della più pericolosa variante H5N1. In queste aree sono già in corso abbattimenti, ha annunciato.

Quando viene individuata l’influenza aviaria, gli animali nella zona colpita devono essere rapidamente eliminati per prevenire la diffusione della malattia. Le persone devono mantenere la massima allerta riguardo ai sintomi della malattia negli animali e prendere precauzioni quando entrano in contatto con essi.

Oltre ai 15 casi confermati, dice il governatore, ci sono oltre 20 persone negli ospedali di Istanbul che potrebbero essere ammalate:tre dei casi sono considerati altamente sospetti dato che le persone colpite sono arrivate da poco in città; avevano avuto contatti coi polli in una zona vicino alla città di Van.

Ma non è chiaro come la malattia si sia estesa in modo così violento nel paese, sostengono i funzionari delle Nazioni Unite. Anche ora, qui nelle aree più gravemente colpite, molti abitanti sostengono che le operazioni di controllo sono ancora casuali.

Mukaddes Kubilay, sindaco di Dogubayazit, dice che i funzionari locali si sono resi conto dell’influenza aviaria solo il 31 dicembre organizzando immediatamente un centro di crisi per coordinare l’abbattimento. Non ci sono più uccelli ora, dice.

In teoria, gli allevatori vengono risarciti per gli animali eliminati: ricevono circa 5 lire turche per ogni pollo, e 20 lire per un tacchino nella provincia di Agri, ad esempio. Ma gli allevatori devono fare richiesta per questi indennizzi dopo che gli uccelli sono stati prelevati, e molti dipendono dai polli per le uova e l’alimentazione quotidiana.

Nella città di Caldiran, alcuni abitanti riferiscono che le persone si tengono i polli nonostante l’ordinanza di abbattimento. “Se si hanno 15 polli se ne danno 10 per far contente le autorità” dice Nesim Kacmaz, che gestisce un negozio per l’alimentazione animale. “Credono ancora che non gli succederà niente”.

Alla realizzazione di questo articolo ha contribuito anche Seb Arsu del New York Times.

here English version

SE SI guarda alla storia del lavoro, i metalmeccanici – le tute blu – non sono una categoria di operai tra le altre. Sono l´Operaio. L´operaio è anzitutto un corpo umano al quale si chiede, da oltre due secoli, di compiere su dei pezzi di metallo alcune operazioni, semplificate al punto da poter essere eventualmente affidate a una macchina. In seguito a ciò diventa possibile costruire una macchina che provvede a render superfluo l'operaio.

Prima dell´operaio - è il caso che riporta Adam Smith in La natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) - uno spillo veniva fabbricato da un solo lavoratore, il quale stirava il filo d´acciaio, lo tagliava di misura, forgiava la testa dello spillo, appuntiva l´altra estremità, lucidava il tutto e lo incartava. Poi qualcuno scoprì che facendo svolgere ciascuna operazione da un singolo lavoratore la capacità di fabbricare spilli – quella che si sarebbe chiamata produttività – poteva aumentare di centinaia di volte. Con la divisione del lavoro applicata in modo spinto alla fabbricazione di spilli era nato il moderno metalmeccanico.

La macchina che fabbricava da sola gli spilli fu inventata davvero qualche tempo dopo, per cui gli operai del settore persero il lavoro. Successivamente un processo analogo si è ripetuto in molti altri campi. Non solo nella fabbricazione di parti metalliche, ma anche nel loro montaggio o assemblaggio per giungere a un prodotto finito. All´inizio del Novecento un ingegnere statunitense, Frederich W. Taylor, perfezionò la divisione del lavoro nelle officine introducendo un nuovo principio: pensare nuoce alla produttività. Chi usa le braccia per lavorare non deve pensare a quello che fa. Questo compito spetta soltanto alle direzioni d´officina. I loro uffici "tempi e metodi" sono centri di scienza organizzativa, incaricati di studiare come far muovere il corpo e le membra dell´operaio nel modo scientificamente più appropriato, allo scopo di ricavare da esse una maggior produttività.

Poco dopo la sua concezione teorica, la divisione del lavoro di tipo tayloristico, nel duplice senso di scomposizione d´un mestiere in operazioni elementari e ripetitive, e di drastica separazione tra ideazione ed esecuzione, veniva applicata su larga scala nelle officine Ford di Detroit sotto forma di catena di montaggio (1913). L´oggetto in fabbricazione – in questo caso un´auto, ma lo stesso sistema verrà presto adottato in ogni settore produttivo – scorre su un nastro meccanico davanti al lavoratore. Questo non deve far altro che compiere alcuni gesti elementari, purché si muova con la rapidità necessaria a non farsi scappare il pezzo che avanza sulla catena. Per vari aspetti i robot di oggi sono stati prefigurati allora. Le attuali braccia meccatroniche non compirebbero i movimenti sapienti che avvitano e verniciano, posizionano e montano pezzi complicati, se non fossero stati prima concepiti come movimenti delle braccia di operai addetti alle catene di montaggio.

Operai che però hanno anche una mente, la quale non ha mai gradito di venire consultata sul lavoro il meno possibile, perché così le manifatture prosperano di più, né di vedere il corpo che la ospita trasformato, insieme con quello dei compagni, in una parte di una grande macchina. Un´osservazione risalente ad un autore che influenzò non poco Marx, Adam Ferguson, il quale nel Saggio sulla società civile del 1767 denunciava pure la «disparità di condizioni e ineguale coltivazione della mente» che derivava da una avanzata divisione tecnica del lavoro.

Ci hanno provato spesso, i metalmeccanici, a ridurre la disparità di condizioni che deriva dal lavoro suddiviso in fasi insignificanti, e a introdurre in fabbrica una maggior possibilità di coltivare la mente. Lo hanno fatto con gli scioperi contro l´organizzazione parcellare del lavoro, dalla Renault di Billancourt del 1912 sino alla Fiat di Melfi del 2004, uno stabilimento in cui il tradizionale ufficio tempi e metodi che stabiliva imperativamente con quale angolo, e a quale velocità, bisogna muovere il braccio sinistro o la gamba destra, è stato sostituito da un computer; non è chiaro se con un tocco di umanità in più o in meno. Si sono opposti al lavoro insignificante, i metalmeccanici, anche specializzandosi in nuove professioni, come quelle che consistevano nel fabbricare parti dal raffinato e complesso disegno guidando a mano, con l´occhio al centesimo di millimetro, macchine utensili come torni e frese, rettifiche e piallatrici. Oppure, ancor sempre a mano, costruendo al banco, a forza di passaggi con lime e altri attrezzi via via più fini, prodigi di precisione come gli stampi destinati alle presse che ricavano dalla lamiera ogni sorta di sagome.

Sono professioni meccaniche durate una generazione o più, ma via via rese ridondanti, e gli operai specializzati con esse, dall´avvento di macchine sempre più indipendenti dall´operatore. Tornitori, fresatori e compagni sono stati quasi ovunque sconfitti, sin dagli anni ´50 del Novecento, dall´arrivo delle macchine utensili automatiche, poi dalle batterie di teste operatrici a trasferimento automatico, infine dai sistemi flessibili di produzione. Negli anni ´60 i mestieri di aggiustatori e attrezzisti sono stati eliminati dal controllo numerico - macchine che eseguono lavorazioni complicate sotto la guida di un programma elettronico. E per i mestieri restanti sono arrivati i robot.

C´è tuttavia qualcosa, nel corpo e nella mente dei metalmeccanici che hanno reso possibile con i loro successivi adattamenti l´industria moderna, che sembra proprio non possa essere trasferito alle macchine. E che forse spiega come siano ancora tanti, più di un milione e ottocentomila, e producano ancora, in Italia, immense quantità di manufatti all´anno: 27 milioni di tonnellate d´acciaio, oltre 20 milioni di elettrodomestici, 1 milione di auto, decine di migliaia di macchine che sanno fare di tutto, da produrre altre macchine a inscatolare biscotti. Tempo fa vi furono tecnici di produzione che puntavano a realizzare stabilimenti dove non c´era nemmeno bisogno di accendere la luce, perché erano interamente automatizzati. Ma quei pochi che riuscirono a costruire si rivelarono un mezzo disastro, e la maggior parte di simili progetti è stato abbandonato. Perché non c´è robot o automatismo che possa sostituire l´occhio e l´ascolto d´un operaio, allenati a distinguere ciò che a un dato momento funziona bene o male in un impianto in marcia; né la sua manualità che sa individuare e riparare difetti di qualità del prodotto. E meno che mai la sua conoscenza implicita dei mille snodi in cui le parti in produzione, i sistemi automatici, i tempi e i cicli e gli arrivi di materiali giusto in tempo dai fornitori si intersecano e si completano, ma non di rado si complicano e si disturbano a vicenda, sino a che l´intero processo s´inceppa. A meno che non intervenga la capacità del metalmeccanico di turno di capire e rimediare in tempo. Ad onta di chi vorrebbe che la sua mente fosse consultata il meno possibile, o di chi pensa che i metalmeccanici siano figure del passato.

Che cosa è necessario oggi per esistere? Sfondare i media. Così ben nove sconosciuti fra i diecimila che hanno sfilato a Roma sabato scorso per la Palestina - scrive La Repubblica - si sono affiancati al corteo con tre pupazzi di cartapesta, raffiguranti un soldato americano, un israeliano e un italiano, per dargli platealmente fuoco al cospetto di telecamere e cronisti. E così starnazzando: «Una cento mille Nassiriya».

Erano in nove, è durato qualche minuto. Si poteva affogarli nella loro insignificanza. Invece no. Tutti, proprio tutti - giornali, politici, generali con lacrima al ciglio, financo Ingrao, financo il Presidente della Repubblica - si sono precipitati ad amplificare. Sdegno ed orrore, hanno insultato «i nostri ragazzi», vogliono la distruzione di Israele, è la sinistra massimalista antipatriottica e antisemita, sono i centri sociali, eccetera. Il portavoce di Prodi, Sircana, è uscito in un sorprendente: erano pochi, questo è il più grave, come se fosse stato accettabile se fossero stati in molti. Nei tg di sabato sera e domenica quel fuoco ricominciava ad ardere a ogni dichiarazione di condanna, come se Roma fosse fitta di roghi. Gli altri diecimila dimostranti della capitale sono stati sbeffeggiati perché anziani e composti, i cinquantamila di Milano, compostissimi e sprovvisti di piromani, sono stati accusati - specie il segretario della Cgil Epifani - di aver partecipato a un corteo per la Palestina dove non si sa mai, anzi si sa bene, quel che può succedere.

Così è andata, cara Miriam Mafai, donna saggia e giornalista avveduta, che hai scritto l'editoriale indignato su La Repubblica. Ci conosciamo da oltre mezzo secolo. Sei uno dei pochi leader del giornalismo italiano che si è posto, durante la tua presidenza e in tempi foschi, domande essenziali sulla deontologia del nostro mestiere. Non sarebbero da riproporre per la condotta dei media il 18 novembre?

La nostra categoria si inviperisce ogni volta che è in pericolo il diritto di cronaca. Ha ragione. Esso consiste nello scrivere la verità. Ma tutta la verità. Di quel che è successo sabato è stato enfatizzato un frammento. Esso andava registrato, sicuro, perché dimostra che qualcosa non gira in alcune teste, come gli ammiccamenti di qualche altro foglio che non mi sono sfuggiti. Ma se non si rispettano le proporzioni fra quel minuscolo episodio e l'imponenza delle manifestazioni vere - nove persone su sessantamila - non si dice la verità. La si falsifica.

Per gusto dello scandalo o per altre intenzioni. Non siamo nate ieri né tu né io, sappiamo come puntare i proiettori su una sola parte della realtà sia un modo per oscurarne l'altra. In questo caso, sia per far passare la tesi che ogni manifestazione per la Palestina porta in sé un germe velenoso, sia per sottolineare come ogni manifestazione della sinistra del centrosinistra sia massimalista, anzi estremista. Il governo, si sottintende, farebbe bene a liberarsene. Si sottintende, ma non si dice, che sarebbe meglio se Prodi sbarcasse Rifondazione, Pdci e Verdi e imbarcasse la Udc. Si sussurra e non si scrive.

E fin qui sarebbe una puntata della poco ammirevole nostra fiction politica, se non ci fosse di mezzo il conflitto fra Israele e Palestina, che tutti dichiarano una tragedia gettando peraltro benzina sul fuoco.

Per un Bernocchi dei Cobas, il quale non vuole sfilare sotto lo slogan «Due popoli, due stati» (ma poi sfila) perché preferisce ululare contro l'unico di essi che per ora esiste, decine di politici si scordano che se qualche razzo lanciato da poco preveggenti estremisti palestinesi o di hezbollah fa danni a Sderot, le bombe di Tsahal demoliscono presunti covi di presunti terroristi nel Libano e a Gaza facendo ogni volta morti a decine. E Tsahal non è un gruppo di scalmanati, è il governo israeliano, il quale minaccia a ogni piè sospinto di ricominciare la guerra. C'è una tale sproporzione di forze che una elementare correttezza suggerirebbe di metterla ogni volta in evidenza. Come la miseria di Gaza. Come il fatto che Tel Aviv detiene molti soldi di proprietà palestinese mentre i palestinesi crepano di fame. E che per Tel Aviv le risoluzioni delle Nazioni Unite sono carta straccia, ne ha respinto una su Gaza proprio ieri. Ma chi ha il coraggio di scriverlo? Di titolare che in questi giorni Francia, Spagna e Italia hanno proposto una conferenza sul Medio Oriente ma Israele ha detto subito di no? Io non penso che Israele sia una nazione come un'altra. E' la nazione di un popolo perseguitato da duemila anni e che la generazione dei nostri padri - ahi, anche italiani - ha tentato di sterminare. Non è lecito dimenticarlo. Degli ebrei va capita l'angoscia. Non ne vanno incoraggiati gli incubi. Non ne vanno appoggiate le sconsiderate rappresaglie. Né si deve tacere - ha ragione Angelo d'Orsi - perché è abitudine degli attuali rappresentanti delle comunità ebraiche di Roma e Milano dare dell'antisemita a chiunque critichi il governo di Tel Aviv. Questa è una canagliata, tale e quale quella dei bruciatori di sabato. Cerchiamo di ragionare come David Grossman e Abu Mazen, dismettendo reticenze e ricatti. Non è molto chiederlo alla stampa democratica, chiedercelo almeno fra noi.

Quello che segue è un estratto dell'intervista a Anna Politkovskaya realizzata da Giorgio Fornoni per Report (Raitre), nell'agosto del 2003.



Ci parli delle tecniche di terrore di massa usate dai russi sui civili in Cecenia.

Non sono d'accordo con il vostro modo di esprimervi. Prima di tutto, non si parla di russi, ma di militari di diverse nazionalità. Ci sono forze federali contro la popolazione civile nella Repubblica cecena. Tanto la popolazione russa quanto quella ucraina hanno condiviso la stessa sorte di quella cecena in quei territori. Conosco russi che sono stati torturati e altri russi le cui case sono state fatte saltare in aria intenzionalmente, poiché pensavano che nascondessero guerriglieri ceceni. I metodi utilizzati sono vari, e spesso ci si comporta da bestie più che da uomini. Un uomo può essere eliminato solo perché si trovava nelle vicinanze di militari. Un ragazzo di 26 anni, nel 2001, era in giro per le strade di Grozny quando è stato preso. È stato pestato mentre veniva portato alla stazione di polizia, e una volta lì gli è stato detto che per salvarsi doveva diventare un loro agente e indicare dove si trovavano i guierriglieri. Il ragazzo proveniva da una famiglia cecena perbene, era laureato, e si è rifiutato di collaborare. La cosa particolare è che ci sono stati dei testimoni di questo arresto. In generale si hanno a disposizione soltanto i risultati di queste violenze, cioè i corpi torturati. Questo ragazzo ormai agonizzante è stato gettato in una cella. La cella non era altro che una buca, e quando si venne a sapere che la mattina sarebbe giunto sul posto un procuratore, i militari hanno semplicemente gettato in un pozzo il corpo del giovane che si era rifiutato di diventare un loro agente. Dopo i bombardamenti a Grozny ci sono molti posti così, sono come dei pozzi che scendono verso il basso, là dove c'erano le fognature. Subito dopo hanno lanciato una granata e del corpo non è rimasta traccia. Lui ha semplicemente cessato di esistere. Questa è solo una piccola pagina di quello che accade in Cecenia. Ci sono varie tecniche di pulizia etnica, che in sostanza sono operazioni punitive contro villaggi interi. Viene circondato un villaggio, vengono portati via tutti gli uomini, e non tutti vi fanno ritorno. Dicono che viene controllato che fra loro non ci sia nessuno che abbia preso parte ai combattimenti, invece vengono pestati da qualche parte, vengono portati via e dichiarati scomparsi. La violenza di massa sulla popolazione maschile è un fatto perché rientra nella mentalità dei nostri soldati. Vengono portati via dai villaggi tutti gli uomini alti, forti, e vengono lasciati i vecchi e i drogati. In genere dipende tutto dal comandante della divisione. Questa non è una guerra di generali, ma di colonnelli: la sorte della persone dipende dall'ufficiale che comanda la divisione, che di fatto ha potere di vita e di morte.

Giovani ceceni pieni di odio, donne kamikaze. Cosa spinge a ciò?

La domanda è molto generica. Per prima cosa ci sono due tipi di donne kamikaze. Ci sono quelle della djamahat, le comunità religiose che ritengono tutto ciò un loro dovere verso Allah. La maggior parte sono persone portate alla disperazione da tutto ciò che ho raccontato prima. Madri, sorelle di scomparsi che hanno bussato alle porte di tutte le sezioni di polizia ricevendo sempre la stessa risposta: «Non ci sono più, sono scomparsi, rassegnatevi». Dal 2001 queste donne hanno iniziato a dire apertamente che a loro non rimane che farsi giustizia da sé. Se i militari si fanno giustizia da sé, in risposta riceveranno lo stesso. Nel 2001 ci sono stati i primi sporadici casi di donne kamikaze. Una donna si avvicina a un generale che ritiene responsabile della morte del marito e si fa esplodere. Muore lei, ma muore anche lui. Sono donne che non hanno un comandante, ma sono unite da una comune disgrazia. Per dirla in modo non militare, è quasi un «club»: non vedono altro senso nella loro vita se non la vendetta.

C'è qualche legame tra i ceceni e al Qaeda?

Come giornalista prima dovrei sapere cos'è al Qaeda. Dopo l'11 settembre c'è stato detto «è responsabile al Qaeda». Ma che sistema è questo? Senza dubbio l'ex vice presidente ceceno Zemilhad Dardyev, scappato molto tempo fa dalla Cecenia senza combattere tutta la seconda guerra - e questo per un ceceno è un disonore - riceveva aiuti da Bin Laden e dalla sua struttura. Ho visto con i miei occhi le tombe degli arabi che hanno combattuto qui nella seconda guerra cecena, ma non so se fossero membri di al Qaeda. Credo che al Qaeda sia un paravento dei nostri potenti per nascondere i propri errori quando non riescono a fronteggiare gli attacchi terroristici. È come una nuova alleanza dopo la guerra fredda. Per questo alla vostra domanda non posso rispondere né sì né no.

Lei condivide le scelte del presidente Putin?

Ritengo che se siedi al Cremlino la tua responsabilità principale è la pace. Personalmente non è che non mi piaccia Putin, è che non mi piace ciò che sta facendo. Lui deve mantenere la pace, è un suo dovere costituzionale. Invece continua la guerra nel Caucaso, con migliaia di morti non solo ceceni, ma anche russi. Gli attentati non possono cessare. Putin deve smetterla con questa guerra suicida e mettersi a trattare anche con quelle persone che non gli piacciono.

La popolazione locale non crede ai dirigenti ceceni. Lei cosa pensa?

Anch'io non credo a loro. Per me, come giornalista, prima di tutto vengono le esigenze della popolazione civile. Loro dicono che non c'è differenza che arrivi un bandito di Maskhadov o di Putin. Loro vogliono vivere.

Perché Mosca non vuole osservatori internazionali in Cecenia?

È chiaro che non li vogliono perché sono stati commessi molto delitti. Gli osservatori vedrebbero i cadaveri, le donne violentate e capirebbero chi è stato. Per questo l'accesso è limitato al massimo. Non vogliono testimoni.

Occidente e Usa hanno chiuso un occhio...

Il gioco delle sfere alte è tutto un gioco di compromessi. Il Kosovo, Baghdad, l'Afghanistan. Noi siamo stati co-sponsor degli Stati uniti. Abbiamo dato il nulla osta per le basi in Uzbekistan e Tagikistan. Ma io rifiuto categoricamente questo tipo di compromessi fatti sul sangue. Putin e Bush sono contenti. Invece io, quando guardo negli occhi queste persone a cui il giorno prima hanno ucciso il figlio, capisco che il prezzo di questo compromesso è nel dolore di quelle persone e nessuno può aiutarle. Il mio lavoro è sul campo, vedo i risultati di questo sanguinoso compromesso e non posso essere d'accordo, non voglio essere un cinico commentatore politico.

Racconti il fatto più feroce perpetrato dai militari russi sui civili ceceni.

No, non dirò nulla. Non ho una buona opinione della società occidentale. Non siamo nel 2000, quando c'erano grandi speranze che raccontando ciò che stava accadendo l'Occidente avrebbe fatto qualcosa per aiutarci. So da tempo che l'Occidente non si interessa di questi problemi, ha tradito queste persone che pure vivono in Europa. La Cecenia tra l'altro fa parte dell'Europa, geograficamente. Per questo non mi metterò a solleticare i nervi con racconti di come hanno ucciso, tolto scalpi e tagliato nasi e orecchie. Capitemi bene, non è quello lo scopo del mio lavoro, ma prevenire atrocità di questo genere in futuro.

Quanti morti ci sono stati, sia ceceni sia russi?

Sapete, la vera tragedia è che non c'è una statistica precisa. Ci sono statistiche nei singoli villaggi e nelle unità militari. Ma chi è al potere fa di tutto perché non ci siano dati ufficiali. Per questo, qualsiasi cifra io vi dica, sarà solo la mia cifra, non corretta, e un altro vi darà la sua. So che sono migliaia a oggi, migliaia, e questa storia non è ancora finita, sta continuando.

Un rappresentate ceceno a Tblisi parla di 400 mila morti...

La cifra esatta non la conosce nessuno e di queste parole sono pronta a rispondere. Sì, il signor Aldanov, credo vi riferiate a lui, ha parlato di 400 mila vittime, ma un altro rappresentante di Mashkadov ha parlato di 250 mila. Io so che i federali diminuiscono il numero di perdite, mentre i ceceni lo aumentano. Penso comunque che questo sia un problema del futuro.

Ha paura del Cremlino?

Tutti hanno paura ora, e anch'io sono una parte del tutto. Anch'io ho paura, ma questa è la mia professione e avere paura è una cosa tua, personale. La professione esige che si lavori e si parli di quello che è il fatto principale nel Paese e la guerra che continua è il fatto principale.

Perché lì muore la nostra gente. E avere paura o non averne è il rischio di questa professione.

Non sono d'accordo sul fatto che l'occidente si disinteressi...

Non sto parlando di voi. In tutto questo tempo molti giornalisti occidentali hanno tentato di far conoscere quanto sta accadendo. Ma la realtà è che i leader occidentali si sono messi d'accordo con Putin, e il prezzo di questo compromesso è la Cecenia. La società occidentale non è riuscita ad essere compatta e ottenere che i propri leader contrastassero Putin.

Perché la comunità internazionale non conosce i fatti veri?

Il mondo sa. Basta entrare in Internet e vedere cosa scrive Human rights watch, Amnesty International che monitorano costantemente la situazione cecena. Ogni volta che Putin fa visita a un leader occidentale, si rivolgono al leader di quel Paese. E come può non sapere? Il mondo sa, ma non vuole prendere posizione... Viviamo in un tempo veramente strano, o almeno io non avrei mai pensato che sarebbe arrivato il momento del concetto di terrorismo di stato e terrorismo non dello stato in lotta l'uno contro l'altro. Su che base gli Usa sono entrati in Iraq? Capisco perfettamente chi è stato Hussein, che il suo regime era terribile, ma su che basi sono entrati lì i soldati americani? Non capisco. Capisco che Basaev in Cecenia è il tipico terrorista, ma non capisco perché per quattro anni si risponde con azioni terroristiche che coinvolgono tutta la popolazione.

La stampa israeliana funziona spesso da sveglia. Nel corso di avvenimenti che agitano trippe e cervelli, guerre o intifada, nei momenti in cui hai l´impressione che le idee si appannino e si smarriscano nella faziosità, su alcuni quotidiani di Gerusalemme e di Tel Aviv puoi trovare analisi lucide, dissacranti, anticonformiste, che riconducono alla ragione e quindi alla realtà. È una delle principali virtù di una società democratica puntualmente messa alla prova dalle passioni. Nelle ultime ore, grazie ai colleghi israeliani, mi sono reso conto che avevamo dimenticato la questione palestinese.

Prima presi dal conflitto in Libano, e poi dalle sue immediate conseguenze, impegnati come eravamo a seguire le grandi trame diplomatiche, a Damasco, a Teheran, nelle capitali occidentali, avevamo perso di vista il dramma all´origine, magari come pretesto, di (quasi) tutti i drammi mediorientali: appunto la questione palestinese. La quale, se non verrà risolta o seriamente affrontata, renderà vani i tentativi di ridisegnare, in positivo, la mappa politica mediorientale.

Leggo in un articolo di Danny Rubinstein (Haaretz del 4 settembre), che tra luglio e agosto, a Gaza e in Cisgiordania, sono stati uccisi 251 palestinesi, tutti da soldati delle Forze armate israeliane. E che circa la metà di quei morti erano civili, inclusi vecchi, donne e bambini. In quei due mesi i contatti diplomatici tra Israele e l´Autorità palestinese sono stati congelati. E lo sono tuttora. Soltanto quelli riguardanti i problemi pratici quotidiani sono assicurati da semplici funzionari. Non si è più parlato di un possibile rilancio della road map, il mai ufficialmente defunto processo di pace. E il Primo ministro, Ehud Olmert, ha ribadito ieri, ancora una volta, che il progressivo ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, compreso nel suo programma elettorale di marzo, non è più d´attualità dopo la guerra del Libano. Sempre ieri è stato inoltre reso pubblico il finanziamento per la costruzione di 690 nuove abitazioni nelle colonie israeliane di Betar Llit e di Ma´aleh Adumim, nei territori occupati. Si tratta della più importante decisione tesa a rafforzare gli insediamenti al di là della Linea Verde, virtuale confine tra Israele e la Palestina, presa dal governo formato dal Labour e da Kadima, il movimento centrista creato da Ariel Sharon, dopo il suo divorzio dal partito di destra Likud.

La vittoria elettorale di Hamas e la costituzione di un governo che non riconosce lo Stato di Israele avevano già condotto al comprensibile irrigidimento di Gerusalemme. Ma i rapporti con l´Autorità Palestinese (di fatto Presidenza di una repubblica da creare), ben distinta da Hamas e guidata dal moderato Abu Mazen, non erano stati congelati. Anche perché essa cercava e cerca di condurre Hamas ad accettare lo statuto dell´Olp, che riconosce da tempo, dal 1993, lo Stato ebraico. L´ulteriore irrigidimento è adesso senz´altro dovuto, in larga parte, alla necessità di assecondare l´opinione pubblica israeliana, insoddisfatta di come il governo ha condotto la guerra in Libano, e pronta a votare, stando ai sondaggi, per i partiti di destra e di estrema destra. Ma pesa soprattutto il rapimento del soldato Gilad Shalit, ancora nelle mani di un gruppo estremista di Gaza. Israele non lo perdona. Esige la liberazione. Stringe Gaza in una morsa. Per ora le trattative segrete non hanno dato risultati. Gli stessi uomini di Abu Mazen lavorano per convincere i rapitori a lasciare la preda. Non si sa quanti palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane esigano in cambio.

Se la cattura, da parte degli hezbollah, di altri due soldati ha provocato il 12 luglio la guerra del Libano, la cattura di Gilad Shalit, da parte di estremisti palestinesi, ha provocato di fatto la rioccupazione di Gaza, che Ariel Sharon aveva evacuato l´anno scorso, costringendo con fatica i coloni ad abbandonare i loro insediamenti. Le condizioni umanitarie in quella città, collettivamente punita perché colpevole del ratto di Gilad Shalit, sono disastrose. Gli ospedali sono gonfi di malati e privi di medicine. Scarseggia l´acqua, manca in molti quartieri l´elettricità. Come in Cisgiordania, ancora ufficialmente occupata, a Gaza i funzionari non sono pagati da mesi. Non si è neppure potuto inaugurare l´anno scolastico perché gli insegnanti senza salario sono rimasti a casa. Come prefigurazione della Palestina indipendente, Gaza offre una triste immagine. Ghazi Hamad, portavoce del governo Hamas, ha fatto l´autocritica. Non è soltanto colpa dell´occupazione israeliana, ha scritto, se siamo in queste condizioni: «Anche noi siamo responsabili dell´anarchia, degli assassinii, dei furti, delle occupazioni illegali delle terre abbandonate dai coloni, delle montagne di rifiuti per le strade».

Una scuola di pensiero, emersa soprattutto nelle capitali europee, giudica che il trauma della (seconda) guerra israelo-libanese abbia creato le premesse per una revisione positiva della intricata situazione mediorientale. Si sarebbe prodotto qualcosa di simile a un "bang" politico da cui potrebbe nascere un´occasione di dialogo tra paesi (e popoli) finora abituati a comunicare soltanto attraverso le armi, il terrorismo e la repressione. La guerra avrebbe prodotto una scarica, un elettrochoc, in grado di riaccendere i lumi della ragione nelle menti accecate dall´odio di antiche rivalità. Si può certo guardare con scetticismo quella volonterosa scuola di pensiero che intravede la possibilità di creare condizioni favorevoli, affinché tanti popoli nemici rinsaviscano. Ma la volontà dell´ottimismo è spesso efficace nelle grandi imprese. Tante volte, nella storia, dalle rovine e dai cimiteri è scaturita una pace che sembrava impossibile. Per ottenerne una vera è stato tuttavia indispensabile estirpare i principali motivi che l´avevano a lungo impedita. Ed è evidente che la questione palestinese è all´origine di larga parte del dramma mediorientale. Il dialogo è dunque consigliabile anche con Gaza.

Prove di guerra hi-tech, così si muore in Libano e a Gaza

di Manlio Dinucci

Da Gaza al Libano, le testimonianze dei medici sono unanimi: in decenni di lavoro negli ospedali non hanno mai visto niente di simile alle condizioni in cui sono ridotte molte delle vittime (quasi tutte civili) degli attacchi israeliani. Corpi bruciati e deformati da sostanze penetrate al loro interno, che carbonizzano il fegato e le ossa. Corpi che all'interno presentano migliaia di finissimi tagli, ma nei quali non si trovano schegge, oppure se ne trova solo una di plastica con la scritta «Test Gf». Braccia e gambe colpite da frammenti non visibili ai raggi X, che devitalizzano i tessuti e coagulano il sangue, provocando dopo l'amputazione una rapida necrosi che si estende al resto del corpo. Corpi mummificati che non presentano ferite esterne.

Anche se non si conoscono le armi che provocano tali effetti, una cosa è certa: le forze israeliane stanno usando non solo bombe a guida di precisione, proiettili al fosforo bianco, munizioni termobariche, munizioni a grappolo, i cui effetti sono ormai noti (v. il manifesto, 23/26/28 luglio). Stanno usando anche armi di nuova generazione. Lo conferma l'ordine dato agli organi di stampa il 23 luglio dal colonnello Sima Vaknin-Gil, capo censore militare israeliano, di non fornire informazioni sull'«uso di tipi unici di munizioni e armamenti». In base agli indizi sinora raccolti, si possono fare due ipotesi, non alternative ma complementari l'una all'altra.

La prima: alcune delle munizioni a grappolo rilasciano nuovi tipi di submunizioni le quali, esplodendo, spargono attorno non frammenti metallici (visibili ai raggi X) che squar-ciano i corpi con la loro energia cinetica, ma sostanze che, una volta penetrate nel corpo, lo distruggono dall'interno con le loro specifiche proprietà. Il fatto che siano riportati casi di feriti in cui la necrosi si estende molto rapidamente e in modo inarrestabile e che, nonostante l'amputazione degli arti, i feriti muoiano entro breve tempo, fa pensare che gli ordigni possano essere contaminati da agenti biologici specifici oppure da sostanze chimiche destinate ad aggravare lo stato delle ferite.

La seconda: possono essere state usate dalle forze israeliane anche armi a energia diretta. Esse colpiscono l'obiettivo non con proiettili, frammenti di submunizioni o con l'onda d'urto di un'esplosione, ma con forme di energia non cinetica: radiazioni elettromagnetiche, plasma ad elevata energia, raggi laser. Una delle armi laser - il Mobile tactical high energy laser (Mthel) - è stata sviluppata da un team statunitense guidato dalla Northrop Grumman e da uno israeliano comprendente diverse industrie: Electro-Optic Industries, Israel Aircraft Industries, Rafael, Tadiran. In alcuni test, il Mthel si è dimostrato capace di distruggere proiettili di mortaio e razzi prima che arrivassero al suolo. Armi di tale potenza, sia laser che elettromagnetiche, possono però essere usate sia a scopo difensivo che a scopo offensivo contro bersagli umani.

Il Tacom (il comando responsabile della «mobilità e potenza di fuoco dell'esercito americano») presentò a un simposio, il 29 agosto 2000, il Pulsed impulsive kill laser (Pikl). Testato su bersagli di gelatina (con all'interno sensori) riproducenti il corpo umano, su camoscio umido riproducente la pelle umana e su abiti di diversi tessuti, questo laser killer aveva dimostrato di poter distruggere veicoli con «impulsi che letteralmente masticano il materiale senza causare bruciature» e di poter provocare «effetti anti-persona di tipo letale o inferiore a quello letale». Il Tacom concludeva quindi che il Pikl poteva essere usato sia per operazioni militari, sia per il «controllo della folla».

Tre anni dopo alcune di queste armi a energia diretta sono state quasi certamente usate dalle forze statunitensi nella guerra in Iraq. Lo conferma l'inchiesta di Maurizio Torrealta e Sigfrido Ranucci, «Guerre stellari in Iraq», trasmessa da RaiNews24 il 17 maggio 2006. Attendibili testimoni riferiscono di aver visto, durante la battaglia dell'aeroporto a Baghdad nell'aprile 2003, un autobus che, colpito da una misteriosa arma, si accartoccia riducendosi alle dimensioni di un pullmimo, corpi intatti con solo testa e denti bruciati, corpi intatti senza più occhi, corpi rimpiccioliti a 1 metro di lunghezza. Corpi fatti sparire rapidamente per cancellare ogni traccia.

Intervistati dai realizzatori del documentario, alcuni dei massimi esperti statunitensi confermano che prototipi di armi a energia diretta sono già in uso. William Arkin, già analista del Pentagono ora al Washington Post, afferma che siamo di fronte a un cambiamento epocale: dalle armi cinetiche si sta passando alle armi a energia diretta.

Poiché non c'è test che equivalga all'uso di un'arma nelle condizioni reali di una guerra, è logico che le nuove armi a energia diretta, come le nuove armi contenenti probabilmente specifici agenti biologici e sostanze chimiche, siano state usate in funzione anti-persona prima in Iraq e ora in Libano e a Gaza. Solo che a fare da bersaglio al laser killer non sono manichini di gelatina ricoperti di camoscio ma uomini, donne, bambini.

Qualcosa possiamo fare, noi ebrei italiani

di Stefania Sinigaglia

Domenica mattina, risveglio davanti alle immagini trasmesse dalla Bbc da Qana, Sud Libano.

«Di fronte agli eserciti e alle superpotenze ci si sente deboli e inermi. Abbiamo dalla nostra parte soltanto la capacità di analisi e raziocinio, la nostra volontà di reagire e di farci ascoltare, e su queste risorse dobbiamo contare. Dobbiamo agire qui ed ora, dal basso, dato che i poteri del mondo dimostrano o connivenza insipiente o colpevole complicità, come organizzazioni e associazioni, ma soprattutto come ebrei singoli quali siamo, insieme alle organizzazioni palestinesi che rifiutano le derive islamiste, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per evitare una catastrofe comune».

Ho riguardato alcuni miei testi scritti anni fa, come singola ebrea laica già legata al piccolo gruppo «Ebrei contro l'Occupazione», ora libera battitrice grazie alle cesure temporali delle mie peregrinazioni terzomondiste, perfetto clichè dell'ebrea errante del 21esimo seecolo. E pour cause: la terra promessa non è in quel lembo di territorio strappato a un altro popolo che da 60 anni ormai lotta per averne la porzione cui il diritto internazionale inascoltato decreta il suo diritto ad accedere. Testi del 2002, pubblicati dal manifesto o usati per riunioni pubbliche, che dicevano: la misura è colma, Israele sta distruggendo se stesso e la sua anima nel distruggere il sogno palestinese di una patria e di un loro ritorno, ossessionato dal miraggio di una impossibile «sicurezza», ottenibile solo al prezzo della rinuncia alla politica di aggressione che dagli anni Ottanta lo ha caratterizzato. Ma questa misura si rivela smisurata, la misura non ha fondo, la follia miope e disastrosa delle dirigenze israeliane (e la cecità di chi le elegge) sfida ogni sforzo di comprensione. Ciascuna nuova compagine governativa supera la precedente in capacità di recare morte e distruzione a popolazioni inermi, perseguendo militarmente un nemico politico che si rivela sempre più ubiquo e inafferrabile, e che come Atlante ad ogni colpo inferto si rialzerà rafforzato, sia in Palestina, a Gaza e in Cisgiordania, sia ora, di nuovo, in Libano, chissà domani in Siria o in Iran. E recando morte e distruzione a civili, e ai civili più poveri e privi di risorse, quelli che non hanno neppure i soldi e la macchina per scappare, addensa su di sé non solo l'obbrobrio di chi ha occhi per vedere ma compatta una nuova più solida resistenza. Invece di distruggere Hezbollah, Israele lo sta rafforzando oltre ogni previsione, in modo perfettamente autolesionista.

Ripensando ai versi del famoso canto pacifista di Bob Dylan di 40 anni fa, quanti morti ci vorranno ancora finchè Israele capisca che non si può esigere il diritto alla propria esistenza finchè non si riconosce il diritto di esistere degli altri? E questi altri sono i loro vicini, i loro, i nostri, cugini. «Degli Ebrei sono cugino», diceva la copertina di un Espresso del giugno del 1967, recante l'immagine di Nasser sconfitto. Già, cugini, e non ci sono lotte peggiori di quelle tra parenti o lontani parenti. Tutti figli in un modo o nell'altro di un Medio Oriente che non smette di sanguinare. Gli Israeliani dicono agli ebrei della diaspora, quei pochi che alzano la voce contro la loro politica distruttiva ed autodistruttiva: voi non siete qui, la pelle è la nostra, noi ci difendiamo. Chiamano traditori o rinnegati i loro dissidenti interni, anche loro una minoranza vocale ma numericamente esigua. Che in questi giorni sono in piazza comunque, come mi ha assicurato una rappresentante di New Profile, una delle organizzazioni che aderiscono alla Coalition of Women for a Just Peace.

La maggioranza, in Israele e anche nella Diaspora, è accecata dal mito del militarismo, che sembra l'unica garanzia di salvezza, perché si hanno negli occhi ancora le immagini degli ebrei buttati come cenci sporchi nei vagoni blindati. Mai più deboli, mai più vilipesi, mai più vittime.

Israele-Faust ha fatto allora un patto con un neo-Mefistofele: mai più vittima, vittime saranno «gli altri». Ma non esisterà nessuna catarsi un questa nuova edizione del Faust, nessun «fermati sei bello». Solo il baratro dell'ignominia di uno Stato che da faro possibile di civiltà e di redenzione si muta in canaglia internazionale.

Che possiamo fare noi ebrei italiani per esprimere il nostro orrore e il nostro rifiuto di fronte a questo nuovo salto di qualità nella discesa agli inferi della politica israeliana? Vogliamo tacere e macinare il nostro disgusto e la nostra rivolta davanti alle immagini di dolore lancinante dei civili libanesi e palestinesi? L'inettitudine della diplomazia è stata finora somma, solo la volontà di pace delle persone di buona volontà ci può forse ancora una volta aiutare ad uscire da questo nuovo carnaio.

Propongo che come singoli e in silenzio, senza alcuna etichetta ci si ritrovi davanti alla Sinagoga di Roma, il venerdì sera prossimo, con un semplice cartello di cartone che ognuno di noi può scriversi a casa, che dica: «Nessuna soluzione militare ai problemi politici in Medio Oriente. Applicazione di tutte le risoluzioni dell'Onu. Solo il negoziato conduce a una pace sostenibile».

Il correntone minaccia la scissione. Massimo D'Alema pare che freni. Giovanna Melandri nega che sarà il recinto del moderatismo. Marina Sereni dice che bisogna fare il programma per sciogliere le paure. Fra una buona e una cattiva intenzione, il partito democratico rimane lo spettro che si aggira sullo scenario politico. Si fa? Non si fa? Ma quando si fa? E come si fa? E soprattutto perché si fa? Credevamo di essere al come e invece siamo ancora al perché, ha scritto sul Riformista di ieri l'ex direttore Antonio Polito, replicando a un editoriale di venerdì del nuovo direttore Paolo Franchi, il quale aveva giustamente messo nero su bianco che «del perché un simile, inedito soggetto dovrebbe prendere corpo,e del perché l'Italia ne avrebbe bisogno, nessuno dei praticoni del 'partito nuovo' si è mai peritato di darci qualche ragione di carattere nazionale». Tali non essendo, a giudizio di Franchi, le esigenze di allargamento dei consensi elettorali di Ds e Dl, né «il tedioso chiacchiericcio» sulla necessità di far confluire le diverse tradizioni riformiste, né il successo delle primarie per Romano Prodi. Qualche ragione cercherà di darla il forum convocato per oggi a Roma dall'associazione per il partito democratico, presenti tutti gli interessati da Fassino a Rutelli a Cacciari a Parisi ad Amato. Ma allo stato attuale, la base più realistica per la discussione non l'ha fornita nessuno dei leader Ds, Dl e dintorni, ma un lungo e ambizioso saggio di Michele Salvati, pubblicato sempre sul Riformista in due puntate, venerdì e sabato. Impossibile da riassumere qui esaustivamente, ma di cui vanno almeno segnalati, e interrogati, alcuni passaggi. In primo luogo l'inizio, perentorio e sacrosanto: «Un 'partito nuovo' non nasce e non sopravvive se non risponde a un'esigenza storica, a una domanda del tempo, che i suoi promotori sono capaci di avvertire anche quando non è esplicita. Nasce e sopravvive se vi risponde». In secondo luogo il compito principale che per il nuovo partito viene indicato: prendere sul serio il rischio-declino dell'Italia e provare a rilanciare una crescita non solo economica ma anche civile e politica. In terzo luogo, la collocazione del progetto nella «storia lunga» della Repubblica: della cosiddetta Prima e della cosiddetta Seconda Repubblica, dei rispettivi sistemi politici e dei relativi blocchi. In quarto luogo, la definizione di una base culturale per il nuovo partito, con una rosa di autori di riferimento finora mai assunti esplicitamente come tali.

Personalmente condivido il primo e il secondo di questi punti, mentre avrei molte questioni da porre sul merito - non sulla rilevanza - del terzo e del quarto. Mi pare ad esempio tanto centrata la sottolineatura di Salvati del fallimento del primo centrosinistra nelal gestione della modernizzazione degli anni '60 e del consociativismo Dc-Pci nella gestione della crisi sociale degli anni 70, quanto affrettata l'analisi dei rapporti fra Psi e Pci; tanto apprezzabile l'esortazione a superare definitivamente le nostalgie per la «Prima» Repubblica, quanto rassicurante l'analisi delle derive della « Seconda», che non sono riducibili al «cattivo funzionamento» del bipolarismo ma a fattori di crisi sociale e politica che hanno scavato in profondità. Ancora: tanto condivisibile è la necessità di contestualizzare il progetto del nuovo partito nel «mondo cambiato» del dopo-'89, quanto discutibile è l'accettazione sostanziale della cassetta degli attrezzi di Blair, o la sua sostanziale equiparazione a quella di Schroeder e Zapatero; e tanto chiara è la defizione della'orizzonte culturale liberal-socialista (Sen, Rawls, Dworkin, Bobbio, Walzer) del partito democratico, quanto liquidatorio il giudizio sui «residui marxisti» presenti a sinistra. Infine e soprattutto: tanto è convinto l'invito a «derivare dal valore della democrazia una serie di implicazioni programmatiche forti», quanto è elusa la questione della crisi che le democrazie reali di oggi attraversano. Forse è proprio da qui che bisognerebbe avere il coraggio di cominciare a discutere. Ma allora quel nome, «partito democratico», apparirebbe ancor più spettrale di quanto non sia.

Alla vigilia dei cortei che ieri sono sfilati a Roma e Milano sul conflitto Israele-Palestinesi, e prendendo in anticipo le distanze dalla manifestazione di Roma, Piero Fassino ha detto una cosa su cui conviene meditare: contrariamente a quel che accade altrove, in Medio Oriente i confini tra aggressore e aggredito non sono del tutto chiari. Ambedue le parti hanno ragioni. Ogni giorno le milizie palestinesi colpiscono con missili le città israeliane di Sderot e Ashkelon, ogni giorno l'esercito israeliano colpisce a morte civili e non civili, e di fatto è tornato a occupare Gaza dopo il ritiro unilaterale dell’estate 2005.

“In Medio Oriente non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due ragioni”, conclude Fassino: perché è legittima la volontà israeliana di vivere nella sicurezza, ed è legittima la volontà palestinese di veder liberato uno spazio su cui costruire uno Stato, e non una terra desolata che Israele circonda con soldati e occupa con colonie.

È dai tempi della Grecia antica che quando si ha conflitto fra due ragioni egualmente valide si oltrepassa la normale contrapposizione e si ha invece aporia, che significa assenza di passaggio, di percorso. L'aporia è stoffa di cui è fatta la tragedia, che è una condizione moralmente insolubile, sormontabile solo con espedienti che aggiustino la morale salvaguardandola. In politica, dall’aporia si esce con una parziale rinuncia alle proprie ragioni, alla propria sovranità. Tragica è dunque la condizione in Israele-Palestina, e per forza essa crea perplessità morale e poi divisione. Ma è proprio qui (nella divisione tra pareri contrari, non ignorata ma accettata) che comincia il percorso d’uscita. La divisione è non solo lievito della decisione politica, ne è anche la premessa.

Per questo desta qualche preoccupazione la maniera in cui parte delle comunità ebraica italiana ha reagito alle parole di D'Alema, espresse in un'intervista all'Unità del 10 novembre. È molto tempo che il ministro degli Esteri è accusato di faziosità: tempo fa venne accusato di equidistanza, oggi è sospettato di partigianeria anti-israeliana. Il colmo, tuttavia, l'avrebbe raggiunto sulla questione della diaspora. Questione spinosa, intoccabile: qual è il suo ruolo, e quale il suo rapporto con lo Stato d'Israele? Deve esercitare pressioni su quest’ultimo, come comunità? Può dividersi su Israele? È l'appello a dividersi e a premere sulle scelte israeliane che ha suscitato fortissimo sdegno. D'Alema è accusato di fare elenchi di ebrei buoni e non buoni, democratici e non, come usano gli antisemiti.

Vorrei fare qui l’elogio della divisione. Essendo la comunità ebraica un’associazione, essa può avere posizioni più o meno democratiche, più o meno pacifiche, più o meno favorevoli a negoziare con gli avversari di Israele. Non c’è niente di male a evocare e invocare tale divisione, ineluttabile. Non si parla qui del singolo italiano ebreo: individualmente egli non è tenuto a pronunciarsi per il solo fatto d’essere ebreo. Ma chi è iscritto in una comunità entra a far parte di un gruppo di pressione religioso, culturale e politico. Il che vuol dire: sulla condotta d'Israele ha da farsi un'opinione, cosa che comunque fa quando sceglie di essere attivista d’un collettivo. Alcuni, in diaspora, sentono addirittura una doppia lealtà: verso il paese di cui son cittadini e verso Israele.

Negli Stati Uniti si discute molto di questi dilemmi, da quando due professori, John Mearsheimer e Stephen Walt, hanno scritto nel marzo scorso un saggio attorno al peso che la lobby ebraica ha sulla politica americana. Le loro tesi sono state contestate o approvate, non solo fuori dalla comunità ebraica. In particolare, la critica rivolta dai due accademici alla lobby più conservatrice e faziosa (l'Aipac, Comitato americano-israeliano di pubblici affari) è discussa con veemenza dentro lo stesso Comitato. Sul giornale israeliano Haaretz, il 17 novembre, Gidon Remba, iscritto all'Aipac, accusa l'associazione di non difendere le ragioni dello Stato israeliano ma di militare in favore delle sue componenti più bellicose, conservatrici, fondamentaliste.

Simile militanza - continua Remba - è tutt'altro che condivisa dagli ebrei americani: almeno la metà e forse più della metà «considerano che la politica dell'Aipac sia perniciosa per la ricerca israeliana di pace e sicurezza». Occorre di conseguenza «creare una lobby ebraica moderata», che rispecchi la varietà della diaspora e separi i democratici dai non democratici. Questo in sostanza ha detto D'Alema: quel che avviene in America, potrebbe utilmente avvenire in Italia. Chi l'accusa di voler fare elenchi di buoni e cattivi, democratici e non democratici, vede il mondo ebraico come un collettivo chiuso, monolitico, incompatibile con la diversità. E trasforma tale visione in tabù. La divisione d'altronde è anche in Italia fisiologica. Non è concepibile che gli ebrei italiani siano in blocco a favore del premier Olmert e anche del suo nuovo vice, Avigdor Lieberman, che rappresenta l'ala più razzista e anti-araba della destra israeliana.

Dividersi in diaspora vuol dire che anche gli altri possono dividerti e catalogarti. È il primo espediente della politica. È la fine della messa all'indice di opinioni diverse, e della fusione integralista che vien fatta tra chi avversa i governi israeliani, chi avversa il sionismo e chi avversa l'ebreo in quanto tale. Nella diaspora c’è una varietà grandissima, che non esclude l'ebreo non sionista. È una varietà che va salvaguardata, soprattutto da quando l'uccisione di civili è divenuta un’usanza anche israeliana, in Libano o a Beit Hanun nella striscia di Gaza. È vero, esiste il rischio di condannare Israele più di quanto si condanni il terrorismo islamico. Ma la santuarizzazione della popolazione civile non esiste nel terrorismo islamico, mentre esiste in Israele che è una democrazia.

Scoprire che la storia è tragica e che su di essa tocca dividersi è più che mai urgente, oggi. La diaspora risente di quel che accade in Israele, anche quando non ne vuol sapere nulla. Una politica bellicosa a Gerusalemme ha effetti perniciosi su ciascun ebreo in diaspora e questo crea responsabilità speciali: responsabilità dello Stato israeliano verso la diaspora, e della diaspora organizzata per quello che fa Israele.

C'è urgenza per vari motivi. Ha detto il re di Giordania Abdallah che se entro il 2007 non ci sarà uno Stato palestinese, i terroristi avranno il completo monopolio della violenza nei territori. Non pochi analisti in Israele sostengono che l'assedio brutale e l'immiserimento di Gaza creerà una più agguerrita generazione di terroristi e che Hamas sarà sostituito da Al Qaeda, come in Iraq. Infine c'è il problema della solitudine israeliana, sollevato da Furio Colombo nella replica a D'Alema (l’Unità, 13-11). Aver fiancheggiato con tanta veemenza la politica di Bush, e averla in parte ispirata, non ha aiutato Israele ma l'ha stremato. Le amministrazioni Usa non l'abbandoneranno ma le loro politiche cambieranno. Saranno più attente ai propri interessi, non identici a quelli israeliani; chiederanno a Israele di fare più concessioni, di accettare negoziati con l'Autorità palestinese, con la Siria, magari con l’Iran. I primi sforzi di riadattamento già si percepiscono. C’è un nuovo piano Beilin, lo stesso politico che negoziò l'accordo di Ginevra nel 2003. C'è un abbozzo di iniziativa europea, per ora ristretta a Italia, Spagna e Francia. Disprezzare questi tentativi non produrrà più sicurezza per Israele.

Resta naturalmente il dramma dell'Iran e dei tanti arabi per cui l'Olocausto non è tabù: Ahmadinejad lo ha abbattuto in loro nome. Occorre anche qui una storia revisionista che faccia tabula rasa delle mitologie, come è avvenuto in Israele negli Anni 80. Occorre ricostruire e ripensare la cacciata degli ebrei dai paesi arabi, e anche l'aiuto che tanti arabi diedero agli ebrei perseguitati durante la Shoah. È quello che sostiene Rashid Khalidi, professore alla Columbia University, sul Boston Globe dell'1 ottobre: il grande compito dei palestinesi, se vogliono costruirsi un'identità statuale, è di scrivere e riscrivere anche questa storia, per troppo tempo occultata e dimenticata.

Ci sono le migliaia di negozi, di alberghi, di ristoranti, c´è il turismo perenne della città che appartiene al mondo. E il mostro di fango e di olio, di acqua fetida e di detriti sommerge i ponti, devasta i lungarni e penetra nel cuore antico della città dove cercano di resistergli i fiorentini, umili o famosi che siano, i professori dei musei e delle biblioteche che mettono in salvo centinaia di quadri, di tomi preziosi, quelli che alzano ripari, svuotano le cantine, salvano gli ammalati e gli anziani e anche i cronisti come Franco Nencini che va instancabile per la città dove le luci si sono spente, piove a dirotto per ore, esplodono le caldaie, cadono le case e anche i carcerati devono mettersi in salvo sui tetti.

La mobilitazione dei cittadini è totale. È in prima fila Enrico Mattei direttore della Nazione, il più famoso pastonista d´Italia, cioè uno che ogni sera mette insieme in un unico pastone tutto ciò che è accaduto in politica, e i maggiorenti, il sindaco Bargellini, il presidente Spadolini, i ministri accorsi da Roma. È saltato il gruppo elettrogeno dell´ospedale San Giovanni di Dio, l´acqua sale nei piani, le grida dei duecento malati, sommerse tutte le scorte di viveri salvo venti bottiglie di acqua minerale e dieci polli. Resiste il Ponte Vecchio, ma l´acqua ha distrutto i negozi degli orafi. Sui Lungarni Ferrucci, Serristori, delle Grazie la piena spara le automobili nel fiume o contro le case e dovunque si alza il lamentoso suono dei clacson.

Agli Uffizi sono arrivati il sovrintendente Procacci e il direttore del restauro Baldini. Ci si organizza per il recupero, si porta in salvo tutto ciò che sta nei laboratori: l´Incoronazione di Filippo Lippi, la Madonna del Masaccio, due Simone Martini, un Giotto, formando una catena si portano via i trecento quadri della Galleria dei ritratti compresa l´Incoronazione del Botticelli. Sono in pericolo i ventiquattromila manoscritti della Biblioteca nazionale, i tremila e ottocento incunaboli, le sessantottomila opere musicali.

Ricorda una guardia: dal carcere di Santa Teresa arrivarono dei colpi e la gente si mise a gridare: «La rivolta, la rivolta!». Il terrore regnava nel carcere dove l´acqua aveva raggiunto i quattro metri. Sopraffatte le guardie, un centinaio di detenuti aveva raggiunto il tetto. Alcuni scesero l´angolo e poi si tuffarono nelle acque vorticose, la gente dalle case circostanti li incoraggiava. Arrivò un tronco e una donna gridò a un evaso: «Buttati, buttati!». Lui si buttò, si chiamava Luciano Sonnellini e aveva vent´anni. Il suo cadavere fu trovato ad un chilometro dal carcere in una cantina di via dei Papi. Alcuni riuscirono a entrare in un alloggio vicino, la gente li guardò per un po´ spaventata, ma lo erano di più loro che cominciarono a scusarsi e a spiegarsi. In alcune case finì con conversazioni da salotto: «Prego signora, non vorremmo disturbarla. Appena è possibile ce ne andiamo». «Ma figuratevi ragazzi, siamo tutti figli di Dio». Ce ne erano di quelli con la faccia da far spavento, ma altri come i nostri figli.

Degli evasi ciascuno seguiva il suo destino. Un gruppo andò a svaligiare le armerie, e sapeva dove trovarle. Alcuni si arresero al primo carabiniere, altri tornarono addirittura in carcere. Ce ne furono che raggiunsero in via Manzoni l´istituto delle suore domenicane e per farsi aprire battevano ai vetri del lucernario, chiedevano acqua e cibo. Ma non gli fu aperto. Fu più coraggioso il signor Lumachini che stava in via Manzoni. «Vogliamo solo raggiungere la strada», gli dicevano e lui li fece entrare. Anche qui dal Lumachini comincia una conversazione assurda, quasi salottiera, di grazie e di prego, di fiammiferi che passano da una mano all´altra. Gli evasi offrono sigarette e gli ospiti di casa Lumachini qualcosa da mangiare.

Intanto si conclude felicemente a Ponte Vecchio l´avventura degli orafi che nel ponte hanno negozi e magazzino, tutte le loro fortune. Qualcuno li ha avvertiti dell´alluvione che arriva: Romildo Cesaroni, una vecchia guardia notturna che sorveglia il Ponte Vecchio. Sarà stata la mezzanotte del 3 e Cesaroni telefona a casa della signora Piccini, che ha negozio sul ponte: «Signora è meglio che venga, l´Arno si sta gonfiando da fare impressione». Cesaroni è in attesa della signora all´ingresso del ponte ma in quella arrivano una quindicina di nottambuli, corrono in girotondo e cantano beffardi: «Tra due minuti crolla tutto, è meglio che li diate a noi i vostri gioielli». Arriva il marito della signora, nell´ansia non riescono a aprire il negozio.

Il ponte trema, si sentono terribili tonfi, il vento e l´acqua sbattono sulle casette dei negozi che sembrano sul punto di volar via, la corrente che trascina alberi passa un metro sotto ma la voglia di salvar la roba è più forte di tutto. Baldino, il marito della signora, le dice: «Tu scappa e intanto porta questa roba a casa». «Vien via, vien via!», implora lei. Erano arrivati dei carabinieri e anche loro dicevano di andare via, ma fuori c´erano ancora quei giovanottacci. «Tornai al ponte con altre valigie, saranno state le tre e mezza, era saltata la luce e nel buio pauroso diluviava. Si vedevano dei fari accesi, erano altri gioiellieri. Si prese qualche altra cosa e poi il ponte tremava così forte, sembrava dovesse crollare da un momento all´altro. L´ultima cosa che ricordo è un tronco gigantesco e un´auto che con il muso sbatteva contro il davanzale di una finestra». Ma altri gioiellieri arrivavano e correvano ai loro negozi. Si sentivano i carabinieri gridare: «A vostro rischio e pericolo, a vostro rischio e pericolo!».

Quando a ottanta anni ti entra un fiume in casa. A Montedomini, quartiere di povera gente, c´è il ricovero per gli anziani. L´alluvione ti viene incontro con la figura di un vecchio con il pigiama a righe e la papalina in testa che si è messo a spazzare l´acqua del cortile. Lavora piano, senza espressione in volto, non si capisce se sia un´immagine di speranza o di rassegnazione. Tutti i vecchi sembrano in stato confusionale, non fanno nulla, come annichiliti dalla sciagura. Oppure si perdono in lavori minuti, in gesti senza senso, cercando di togliere l´acqua dalla scala mentre tutta la casa è un lago, o cercando un gatto. Quando hai ottant´anni e un fiume ti entra in casa non è facile capire, muoversi.

Firenze ha anche una guida spirituale, il professor Giorgio La Pira, evangelico e poeta, che dice: «E così si risorge, un mattone dopo l´altro, un mattone per ciascuno senza discriminazioni. Firenze è un´isola, un esperimento nuovo, prezioso. Presto presto, tutto il mondo ora è Firenze, la Russia manda aerei carichi di aiuti, i parroci collaborano con i comunisti». Si impegna un grande laico, il professor Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell´arte, che esorta uomini di cultura e giovani a soccorrere la città. Il mondo raccoglie la sua voce, arrivano studenti a migliaia. Dormono nelle cuccette dei vagoni abbandonati su un binario morto, salvano quadri preziosi e vite umane.

Si incomincia a far la conta dei danni. Le opere guastate sono 1.400, di cui 221 tavole, 413 tele, 39 affreschi, 122 sculture. Disfatto il Museo delle scienze, distrutta la raccolta degli strumenti musicali, danneggiati il Cristo di Cimabue e gli affreschi di Paolo Uccello, quasi distrutta la sezione etrusca, danneggiato l´Archivio di Stato che raccoglie in trecento sale la storia di Firenze, sommersi i seimila volumi e i corali miniati dell´Opera del Duomo, un milione e trecentomila pezzi delle biblioteche danneggiati, devastati, il Gabinetto Vieusseux, la Sinagoga, l´Accademia dei Georgofili, nove facoltà dell´Università alluvionate con danni irreparabili.

E si scopre l´incuria che ha permesso l´alluvione. C´è un lamento generale sulla mancanza di informazione. Enrico Mattei, direttore della Nazione, fa una pubblica denuncia: «La stanza dei bottoni c´era, ma dietro i bottoni c´era molta insensibilità, molta inefficienza. Ancora ieri mattina a sei giorni dal disastro nelle zone allagate migliaia di persone invocavano pane e acqua potabile. La vicenda di Firenze è eloquente. A una certa ora, un certo giorno, un fiume in piena si è abbattuto su una grande città. Nessuno lo ha visto salire, nessuno ha dato l´allarme, nessuno ha misurato il pericolo».

La città ha pagato errori del presente e del passato, non sono state abolite le pescaie ormai inutili, non sono stati fatti i bacini di difesa e neppure gli scolmatori. Il fiume è un budello stretto fra le colline. Durante la piena l´Arno si è trovato da sé il suo scolmatore sui Lungarni Acciarini e Archibusieri, si è riversato in città. E Firenze è stata costruita nel punto sbagliato, la cosa migliore ma non fattibile sarebbe stata spostarla.

La stampa straniera non è tenera con le nostre autorità. Scrive il Sunday Times: «La nostra inchiesta è giunta alla conclusione che il disastro è stato reso più grave dallo scarico di acqua fatto da una società idroelettrica dal suo bacino. Alle 21 del giorno 2 a trentacinque miglia dalla città sono state aperte le paratie del bacino e si è spalancata la strada a cinque milioni di metri cubi di acqua. Il bacino della diga conteneva acqua in eccedenza per nove milioni di metri cubi».

La logica di chi produce energia spesso non coincide con quella della sicurezza. L´ottimismo degli ingegneri viene spesso pagato con migliaia di morti.

Anche i naviganti scaltri talvolta affondano. Succede all’on. G. P.: avvocato organico dell’allora premier, pontificava nella commissione giustizia; ed è presentatore della legge grazie a cui il cliente schiva l’appello contro la sentenza che concedendogli le attenuanti generiche, dichiara estinto dal tempo un grave episodio delittuoso. Rispedita alle Camere dal Quirinale, riappare incostituzionale come prima. Così la XIV legislatura chiude in gloria il ciclo dei favori al padrone. In due articoli (qui, 13 e 18 gennaio 2006) spiegavo che roba sia. L’autore racconta d’avermi querelato: nessuno se n’è accorto; e siccome non esistono querele occulte, suppongo che fosse vanteria; dopo sette mesi arriva una citazione dove, asserendosi leso nel «patrimonio morale», chiede i danni.

Ricapitoliamo. Giugno 2000: i moribondi del centrosinistra consumano l’ultimo squallido anno; B. vola ad sidera. È sotto accusa, d’avere comprato sentenze romane (una risulta determinante nella storia dell’impero editoriale): gliele comprava l’avvocato C. P.; e mettendo piede a Palazzo Chigi, 1994, se l’era scelto ministro della giustizia. L’udienza preliminare del caso Mondadori sbocca in uno sbalorditivo non luogo a procedere: applaudono i miracolati e la claque; il pubblico ministero appella (oggi non potrebbe). La Corte accoglie l’appello ma i correi hanno sorti diverse a causa d’una svista legislativa, stavolta solo colposa: l’art. 319-ter aumenta la pena della corruzione nei processi; l’ha interpolato una l. 26 aprile 1990 n. 86, i cui compilatori dimenticano il corruttore (art. 321); poi lo nominano (art. 2 l. 7 febbraio 1992 n. 181); siccome però i fatti risultano anteriori, B. è passibile solo della pena meno grave, da due a cinque anni, anziché da tre a otto; e con le attenuanti cosiddette generiche il reato sarebbe estinto. La sentenza 25 giugno 2001 le concede motivando così: seguiva la prassi d’un ambiente corrotto, poi ha concluso accordi transattivi; infine, l’attuale suo stato «individuale e sociale» merita riguardi. In lingua spiccia, «non possiamo negarle a chi s’è appena riseduto sulla più alta poltrona, ricchissimo, potente, fortunato». Ricorrono tutti in cassazione: non è titolo lusinghiero «privato corruttore»; il pubblico ministero mira alla condanna; la Corte respinge i ricorsi. Res iudicata, lo stigma resta. Nel dibattimento i correi subiscono pesanti condanne. Comincia un lustro d’incubo. L’uomo ha pochi scrupoli: entra nelle teste dagli schermi; comprava giudici nemmeno fossero fattorini; risalito in sella, inquina la legge tagliandosela su misura. Falso in bilancio, rogatorie (vuol escludere carte bancarie che svelano i circuiti del denaro corso nelle baratterie), translatio iudicii (vuol cambiare tribunale), conflitto d’interessi, prescrizione. Padrone della macchina normativa, l’adopera: i votanti muovono la testa su e giù, nodding asses; l’avvocato, stratega d’asfissianti cavilli, guida la commissione giustizia a Montecitorio; un lupo custodisce l’ovile, direbbe Fedro.

Erano due i processi pericolosi. Ne trascina ancora uno. Alla fine del dibattimento, primavera 2003, annuncia d’avere nel cuore «dichiarazioni spontanee», sul velluto perché non ha contraddittori e verrà solo quando gli sia comodo: tiene banco tutta una mattina, spettacolo tristissimo; le puntate seguenti, Dio sa quando; guadagnava tempo, mentre le Camere affatturano un cosiddetto lodo d’immunità processuale, esemplarmente invalido. Saltiamo al 22 novembre 2003: il Tribunale aveva separato i giudizi; assolve C. P. da due capi d’accusa; condannandolo sul terzo inchioda B.; era denaro suo (perciò le Camere avevano riscritto l’articolo sulle rogatorie). Può salvarsi solo con la prescrizione accorciata dalle attenuanti generiche: volo arduo, dopo l’eversiva sfida alla giustizia; e qualora gliele regalino, il pubblico ministero appella. Salta fuori G. P., 13 gennaio 2004, proponendo d’abolire l’appello contro i proscioglimenti: s’è sognato che lo imponga la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; ogni tanto scrive e parla come intrattenesse un pubblico ignorante o ebete. Anche gli orbi vedono dove miri. L’attesa sentenza esce venerdì 10 dicembre 2004: nessun dubbio sui fatti, i soldi venivano dalle casse berlusconiane; ormai tutto dipende dalle famose attenuanti; e gliele concedono ancora, senza una sillaba sulla questione capitale (fin dove le meriti il pirata che, salito al potere, scardina l’ordinamento). La mossa legislativa arriva appena in tempo, grazie al riguardoso timing del procedimento, in sonno nei mesi della campagna elettorale: la Corte ossequente dichiara inammissibile l’appello; i proscioglimenti non sono più appellabili; se vuole, il pubblico ministero ricorra in cassazione, dove le questioni sul fatto evaporano.

Legge invalida, a parte le bestialità tecniche. L’avevo detto in un convegno, presente l’autore che s’è guardato dal contraddire, né contraddice adesso, ma nega d’avere reso servizi al cliente. Che l’interno d’anima fosse immacolato, l’afferma sbandierando le date: la proposta risale al 13 gennaio 2004; la sentenza il cui appello disturba B., viene fuori 11 mesi dopo. Bell’argomento, ne ricorda uno speso da David Irving, storico delle Hitler’s Wars, quando nega che il suo idolo sapesse del genocidio ebraico: manca l’ordine scritto; poi contesta anche l’evento; morivano d’epidemie o sotto le bombe alleate. Ripetiamolo: la proposta 13 gennaio 2004 nasce dalla condanna 22 novembre 2003; inchiodato quale mandante, B. spera nella prescrizione, purché il Tribunale gli regali le «generiche»; e dev’essere un proscioglimento che non sfumi in appello. Tutto avviene secondo i desideri. L’onorevole avvocato pratica arti induttive sui generis. Nell’art. 533, ad esempio, interpola una battuta: il giudice condanna solo se l’imputato risulta colpevole «al di là d’ogni ragionevole dubbio», come nei film americani; era chiaro dall’art. 530, c. 2. Formula enfatica e ridondante: lettori impressionabili vi colgono l’invito ad allargare le maglie del dubbio; penalisti disinibiti scaricheranno i casi d’omicidio indiziario sugli spiriti dell’aria. Dire che l’atto servisse a B., costituisce «intollerabile aggressione»; e leso nel «patrimonio morale», chiede 250 mila euro: quasi niente rispetto alle parcelle d’Arcore, ma più della buona uscita che lo Stato italiano m’ha corrisposto su quarantun anni d’insegnamento nelle sue Università.

Dopo le mercuriali, i valori. Se G. P. non fosse assorbito da affari meno eterei, gli consiglierei due letture: Eric R. Dodds, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 1951; e Arthur W. H. Adkins, Merit and Responsability. A Study in Greek Values, Oxford University Press, 1960, a proposito d’archetipi del sentimento morale. Sono due, vergogna e colpa. Lasciamo da parte il secondo: astro e satelliti del mondo berlusconiano ignorano i tormenti della coscienza infelice, assente nel caimano Leviathan; vale invece un modello della shame culture; «cosa dirà la gente?». Emergono affinità col mondo omerico: riuscire è kalón (bello, degno, ammirevole), senza riguardo al modo; fallire, aischrón (brutto, turpe, obbrobrioso); contano i fatti, non motivi e circostanze. La società achea venera gli agonisti vittoriosi dei quali ha bisogno o crede d’averne. Agamennone appare aischrós quando Clitemnestra l’ammazza in casa: lei no, benché l’atto sia empio; ma non essendo vendicata, soffre vergogna nell’Ade, anima errabonda. I violatori della reggia d’Itaca sono agathói (eccellenti), finché nessuno li stani, mentre sarebbe infame l’Ulisse soccombente. Solo Teognide (sesto secolo a. C.) loda i giusti, vincano o perdano. Le gesta berlusconiane risuscitano categorie arcaiche: ha schivato le condanne che il fido correo sconta; l’epopea leguleia aperta nella fine secolo onora G. P., quasi una seconda guerra troiana. Ne goda i lucri ma sia coerente: chiedendo quei 250 mila euro, vuol qualificarsi Baiardo delle istituzioni e asceta forense vecchio stile (vedi Arturo Carlo Jemolo o Alfredo De Marsico, un’avvocatura nobile, colta, povera); qui commette hybris, molto malvista dagli dèi (in pallida versione italiana, l’atto arrogante d’uno che vìola limiti naturali). Il sottinteso tattico adombra «larghe intese» sperimentabili sul corpo vile della procedura penale, caso mai qualche dialogante aprisse spiragli. Speriamo di no: il capolavoro firmato G. P. somiglia ai feti mostruosi che i naturalisti conservavano sotto spirito; è imperdonabile trascinarselo; e quanta aria cattiva spira dalle porte socchiuse.

Lo si capisce dalle vignette di Giannelli sul Corriere della Sera, che dipingono un Berlusconi felice di ottenere da sinistra quel che non aveva ottenuto da destra. Lo si capisce dalle parole di Federico Grosso, che su questo giornale, il 25 luglio, parla di legge necessaria al miglioramento delle carceri, ma viziata da un compromesso che garantisce impunità a crimini economici «fortemente caratterizzati da disvalore sociale e morale». Lo si capisce dalle proteste di Eugenio Scalfari, di Luca Ricolfi, di Michele Ainis, di Vittorio Grevi, dell’ex giudice D’Ambrosio, del giudice Caselli. La legge sull’indulto che ieri è passata al Senato è molto più di un errore. Nasce da una profonda, radicata indifferenza alla cultura della legalità e al rapporto sano fra Stato di diritto ed economia. Le critiche pesanti rivolte da sinistra a Di Pietro, che ha provato a fermare la legge sino a dissociare la lealtà di ministro dalla propria coscienza di cittadino, confermano questa indifferenza.

Di Pietro è sospettato di voler conquistarsi visibilità, oltre che di usare un linguaggio sleale, violento. Il che forse non è falso: se c'è un modo di coltivare il protagonismo, quello del ministro è ben scelto. Ma gli strali si concentrano sul dito anziché su quel che il dito indica, e il proverbio cinese evocato da Di Pietro è sempre valido: «Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito». Lo sciocco non guarda alla sostanza, bensì all'apparenza. Per lo sciocco vale soprattutto: Primum Vivere, e dunque la sopravvivenza di una coalizione che senza Forza Italia non avrebbe approvato l'indulto. Primum Vivere fu il motto di Craxi quando prese la guida del Psi: lo slogan rovinò una grande scommessa politica (il rafforzamento della sinistra non comunista) trascinando il socialismo italiano nella corruzione. Il centro sinistra non corre quel pericolo ma quasi sembra trascurarlo. Come se in testa venisse anche per lei, in occasioni non marginali, la conquista-salvaguardia del potere e non quel che il potere fa. In tali circostanze il resto conta poco o nulla, anche quando questo resto è la sostanza delle cose: la cultura della legalità e il senso civico della classe dirigente, in un paese dove il problema dell'etica nell'economia e nella politica è il vero suo tarlo e la vera anomalia.

Questa trascuratezza in tema di legalità non cade dal cielo: si può scrivere ormai una storia degli Indifferenti in materia, che nell'ultimo decennio e più hanno perso di vista non solo l'importanza ma anche i benefici delle regole, della buona condotta finanziaria. Che hanno consentito che alla giustizia venisse dato il nome di giustizialismo forcaiolo, alla morale il nome di moralismo. Che hanno sconnesso il legale dall'utile, l'onestà dalle esigenze - considerate più autentiche, pratiche - dell'economia o della gestione del potere. È la storia di come piano piano s'è spenta la passione di Mani Pulite, e la speranza in una classe dirigente rinnovata. Di questa storia Berlusconi ha profittato, andando al potere nel '94 e nel 2001 senza che conflitto d'interessi e processi l'ostacolassero.

Da quale cultura (nel doppio significato del termine) è germinata questa storia che ha creato uno spazio per Berlusconi e che oggi glielo preserva? Da una cultura presente nei luoghi meno prevedibili, sia a destra sia nella sinistra radicale, sia nella politica sia in parte della Chiesa: sfatando le tesi di chi considera finito il catto-comunismo e non vede sorgere la nuova, strana alleanza tra catto-comunisti e Berlusconi. In realtà, buona parte della Chiesa italiana si è rivelata attore di primo piano, e questo spiega come mai tanti cattolici di centro, pur distanziandosi da Forza Italia o combattendola, coltivano il culto berlusconiano dell'impunità. Con il passare degli anni la Conferenza episcopale ha dimenticato le sue battaglie per la cultura della legalità e contro la mafia, pur di ritagliarsi uno spazio politico che compensasse il declinare, in molti suoi esponenti, della missione spirituale e profetica. Del tutto dimenticata oggi è la nota pastorale redatta il 4 ottobre '91, poco prima di Mani Pulite, che s'intitolava «Educare alla legalità» e condannava il crescente corrompersi del colletti bianchi. Del tutto scordate sembrano le parole tremende - un anatema che sconvolse il clan Provenzano, spingendolo ai delitti della primavera-estate '93 - che Giovanni Paolo II pronunciò contro la mafia (e implicitamente contro i voti di scambio coperti da indulto). Quel discorso, pronunciato dal Papa nella Valle dei templi a Agrigento il 9 maggio '93 («Convertitevi! Mafiosi convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte!») è da anni introvabile sul sito internet della Santa Sede. La visita in Sicilia neppure è annoverata tra i viaggi del Pontefice. L'altro attore non irrilevante è Rifondazione di Bertinotti. Val la pena ricordare che fin dal 23 febbraio 2002, quando Di Pietro e la rivista MicroMega organizzarono al Palavobis di Milano una conferenza sulla legalità, l'attuale presidente della Camera si stizzì, svilendo un'iniziativa giudicata superflua, secondaria rispetto alle strutturali questioni economico-sociali: «È la rivolta dei ceti medi professionali - disse -. Da un lato (gli organizzatori) colgono fatti di involuzione della società politica, dall'altro rivendicano un ruolo come ceto e istituzioni, mi riferisco agli intellettuali e alla magistratura. È un terreno ambiguo». Più di tre anni dopo, intervistato dal Corriere della Sera sulle indagini del giornalista Travaglio (inchieste Dell'Utri, Berlusconi), disse: «Marco Travaglio? Non nominatemelo. Solo a sentire il suo nome mi viene l'orticaria. I moralisti danneggiano la sinistra. Non amo il giustizialismo a tutti i costi. Ogni volta che qualcuno si autoinveste del ruolo di censore, di moralizzatore, rischia di fare più danni di chi poi si vuole condannare» (5-10-05). Così si giunge all'oggi: estendendo l'indulto ai crimini contro la pubblica amministrazione, e a corruzione e concussione (tutti gli scandali dell’ultimo decennio, compresi Parmalat e furbetti del quartierino), il fronte degli Indifferenti di sinistra esita a regolare i conti col berlusconismo. Nei fatti ne è contagiato, come Arturo Parisi temeva nell'estate 2005, quando avvenne il disastro Banca d'Italia.

Naturalmente esiste un’ urgente necessità di migliorare le carceri italiane, disumanamente stracolme. Due papi si sono battuti per questo. Ma l'emergenza è stata usata per un compromesso con Forza Italia che ha consentito a quest'ultima di imporre la propria agenda giudiziaria, con più successo ancora che nel passato (Grosso ricorda che esisteva un disegno di legge condiviso, del gennaio scorso, che concedeva ai delitti economici un solo anno di sconto e non tre). I processi per questi delitti non sono cancellati ma la certezza della pena, mai lunghissima, è ridotta a zero. Può darsi che esistano ragioni per difendere l'interezza della legge; ma nessuno è parso convinto al punto tale da illustrarle bene. Che il disagio di chi non ha impedito questo tipo d'indulto sia grande, lo rivelano le parole stupefacenti del deputato prodiano Franco Monaco: «Sono un soldato, il testo dell'indulto lo voto, ma attenti perché è un testo inaccettabile!». Dunque, parte della sinistra ha voluto l'indulto così com'è, pur definendolo «inaccettabile». Ha ritenuto probabilmente che questo sia il prezzo del Primum Vivere, nei momenti in cui occorre conquistare il potere o non perderlo. Primum Vivere è una sorta di scetticismo degenerato, che in simili momenti prende il sopravvento.

L'intera campagna elettorale è stata condotta in fondo all'insegna di questo principio: non si sapeva se la battaglia sulla legalità avrebbe fatto vincere, e son state scelte l'indifferenza, l'afasia. Nessuna parola sul conflitto d'interessi, sulle leggi ad personam della precedente legislatura, in genere sulla questione morale. L'attenzione si concentrò totalmente sul fisco, col risultato che Prodi più che attaccare dovette difendersi. Vero è che promise di ripristinare la «maestà della legge», che denunciò in alcune interviste l'intreccio tra affari e politica. Ma la cultura della legalità è restata sconnessa dall'economia, come se non fosse invece parte fondamentale di essa. Come se per ripartire e crescere, l'economia non avesse prima di tutto bisogno di restaurare il dovere civico del pagare le tasse, del rispettare le leggi, creando un clima fondato sulla fiducia, dunque affidabile. Questo legame urge instaurarlo in Italia, perché altrimenti non solo la democrazia ma anche il mercato, divenendo diseducativi o distorti, falliscono e muoiono. La grande vocazione pedagogica di Prodi, che tante volte lo ha premiato, diverrà più che mai essenziale.

Abbiamo parlato di scetticismo degenerato perché gli scettici non intendevano questo, quando giudicavano superflue tutte le cose sensibili. Nel IV secolo avanti Cristo, Pirrone consigliava l'atarassia e cioè l'imperturbabilità; raccomandava l'afasia, ritenendo che astenersi dal parlare fosse meglio delle affermazioni perentorie; suggeriva l'apatia, che evita emozioni forti. Era poi raccomandata la sospensione di giudizio sulle cose del mondo (l'epoché) ma lo scopo era l'Atman: il collegamento con l'io più profondo dell'uomo, con la scintilla di Dio. Oggi l'Atman è la conquista del potere, la coalizione a qualsiasi prezzo, non la sostanza di quel che in politica si fa e il linguaggio con cui lo si spiega ai cittadini. Primum vivere, deinde philosophari - in primo luogo bisogna vivere, dopo fai filosofia. Il detto antico non è errato: la ricerca della massima saggezza non può soffocare i bisogni elementari e animali dell'uomo, del suo convivere sociale. Prima di dedicarsi alla sapienza e alla virtù, bisogna procurarsi il necessario per vivere. Ma gli antichi esaltavano le quotidiane virtù dell'onesto cittadino, quando posticipavano l'astratta cerca della Repubblica perfetta. Non esaltavano - oscuro oggetto del desiderio, sensualità speciale di chi comanda - il potere fine a se stesso.

I tassisti, come le farmacie, sono percettori di rendite oligopolistiche grazie alle barriere frapposte all´ingresso di nuovi competitors. In Italia i taxi sono pochi: a Barcellona, modello per tutti i sindaci italiani, i taxi per abitante sono sei volte quelli di Milano. Di qui il prezzo spropositato a cui vengono scambiate le licenze: fino a 200mila euro in città come Roma, Milano o Firenze; una compravendita peraltro illegale, mai registrata ai prezzi effettivi. Il costo di ingresso nel settore viene recuperato con le tariffe. Per il recupero (pay-back) dell´investimento si parla di cinque-dieci anni. 200mila euro recuperati in dieci anni sono un balzello annuo di ventimila euro, quasi cento euro al giorno, cioè da cinque a dieci euro su ogni corsa, che vanno ad aggiungersi alla remunerazione del tassista, al canone associativo e al costo di assicurazione, manutenzione, carburante e rinnovo periodico del mezzo.

In altre città italiane queste stime vanno ridotte di un terzo o della metà. Il balzello, comunque, grava soprattutto sui costi delle imprese: oggi può permettersi il taxi quasi solo chi è rimborsato da una ditta o da un ente.

Una volta recuperato il costo della licenza – nel caso che non sia stata ereditata – i tassisti guadagnano molto: per lo meno rispetto agli addetti a mansioni simili. Quanto, esattamente, non si sa; perché non sono tenuti a rilasciare ricevute (quelle che danno al passeggero non hanno alcun riscontro fiscale): le ha abolite, pochi mesi dopo la loro introduzione, il primo governo Berlusconi. A fronte di questi guadagni, il lavoro dei tassisti è stressante e gli orari sono lunghi: dieci e a volte anche sedici ore al giorno. Non è detto – anzi, non accade quasi mai – che durante il turno siano sempre in moto: stanno fermi, in attesa dei clienti, anche per metà della giornata.

La cessione della licenza rappresenta una sorta di buonuscita, in assenza di tutele previdenziali più adeguate: è un "fai-da-te" eretto a sistema di governo; sulla sua perpetuazione si reggono lobby, clientele e "pacchetti" di voti che stanno all´origine della frammentazione della categoria in associazioni e cooperative che invece di collaborare per rendere efficiente il servizio, si combattono per difendere le prerogative di chi le governa. Basti pensare che nelle principali città italiane, nonostante i molti tentativi esperiti, non si è riusciti nemmeno a istituire un numero unico per le chiamate: cosa che evidentemente pesa sia sulla qualità del servizio (tempi di attesa) che sul suo costo (l´attesa spesso la paga il cliente).

Non parliamo delle innovazioni rese possibili dalle tecnologie dell´informazione e delle telecomunicazioni (Itc): nove anni fa l´allora ministro dell´ambiente Ronchi, nel quadro di un decreto sulla mobilità sostenibile, aveva istituito – sulla carta – una nuova modalità di trasporto a domanda, chiamandola impropriamente "taxi collettivo" e assegnandone incautamente la gestione alle aziende di trasporto pubblico locale (Tpl). Le quali, sostenute dai contributi regionali, avrebbero potuto fare una concorrenza sleale ai tassisti. Per reazione un compatto sciopero aveva offerto a Berlusconi l´occasione di un bagno di folla tra i tassisti romani. Il provvedimento era stato subito revocato e reso non operativo.

Le misure sui taxi del sacrosanto decreto-legge del governo Prodi, se non sarà accompagnata da interventi che affrontino tempestivamente la questione nel suo insieme – e purtroppo la questione non è stata nemmeno sfiorata nel lungo processo di elaborazione programmatica dell´Unione – rischia di sortire effetti analoghi. Vale la pena evidenziare rischi e opportunità a cui si espone la decisione del governo:

1. Senza misure di accompagnamento, il decreto è una mera spoliazione di lavoratori che hanno investito molte risorse nell´acquisto della licenza; o che contano su di essa per una tranquilla uscita dal lavoro;

2. Una compensazione monetaria non è praticabile. Le licenze in Italia sono circa quarantamila. A un costo cautelativo di 100mila euro ciascuna, fanno 4 miliardi di euro. Chi li può sborsare di questi tempi? Il Governo? Le Regioni? I Comuni? Nessuno dei tre;

3. Uno scontro frontale con i tassisti alla lunga è pericoloso: innanzitutto perché svolgono un servizio pubblico essenziale; poi, perché possono adottare forme di lotta estreme, come il blocco del traffico, emulando i camionisti che avevano preparato il terreno al rovesciamento violento di Allende. Sarebbe però gravissimo se il governo facesse marcia indietro;

4. È sbagliato però pensare di affidare progressivamente il servizio a imprese gestite con criteri capitalistici e forme di lavoro subordinato o in appalto come accade negli Stati Uniti. Per capire a quali eccessi di sfruttamento, parassitismo, inefficienza, e anche di conflitto sociale, esso possa portare, consiglio la lettura di Taxi! - Driver in rivolta a New York di Biju Mathew, Feltrinelli. Qualità ed efficienza del servizio sono garantite meglio da una compagine di lavoratori indipendenti;

5. Non ci si può aspettare che dalle attuali organizzazioni dei tassisti vengano proposte diverse dalla difesa dello status quo. Non sono venute finora e non c´è motivo perché le cose cambino improvvisamente. Dovrà farsene carico qualcun altro.

Che fare, allora? Alcune considerazioni di buon senso possono contribuire a imboccare una strada vantaggiosa per tutti:

1. La palla passa alle Regioni e ai Comuni che dovranno assegnare le nuove licenze. Dovranno graduarle nel tempo, in modo da permettere a chi la ha acquistata un recupero almeno parziale del suo valore;

2. Occorre introdurre subito la ricevuta fiscale stampata in automatico dal tassametro. È un altro duro colpo per i tassisti! Ma giacché il governo non se li è certo ingraziati con l´attuale decreto, tanto vale completare l´opera e porre le basi di un effettivo rinnovamento del servizio. Così potrà anche monitorare i guadagni effettivi dei tassisti e graduare la liberalizzazione del servizio sulla loro capacità di recuperare almeno una parte del valore perso;

3. Per ridurne l´opposizione bisogna offrire ai tassisti delle chance: per esempio la possibilità di alternarsi su più turni sullo stesso mezzo; la reintroduzione del trasporto dei disabili finanziato dai servizi sociali; la concessione ai titolari di licenze già in essere di nuove licenze per i coadiuvanti familiari e delle licenze, con facoltà di recesso, per i servizi innovativi: quelli basati sulla condivisione del veicolo tra una pluralità di utenti;

4. Occorre soprattutto predisporre normative e agevolazioni per l´acquisizione delle tecnologie necessarie all´innovazione: tassametri a ripartizione di tariffa; display che segnalino la destinazione del veicolo, per consentire la raccolta di nuovi passeggeri lungo il percorso; display e corsie differenziate in base alla destinazione in tutti i grandi poli di attrazione (aeroporti, stazioni, stadi, ospedali, centri commerciali, quartieri dei divertimenti); interconnessioni, software e terminali per servizi su chiamata estemporanea per passeggeri con percorsi e orari compatibili. E poi, servizi a chiamata sostitutivi del trasporto di linea in zone periferiche e orari di morbida; promozione e agevolazione di convenzioni con utenti collettivi: imprese, enti, categorie.

VICENZA - Sono così convinti, gli americani, di poter costruire la loro nuova base militare sui terreni dell´aeroporto «Dal Molin» di Vicenza, anche se il governo italiano non l´ha ancora autorizzata, che hanno già pubblicato sul sito internet della loro Marina l´avviso per la gara d´appalto dei lavori. Una «sortita» che ha fatto dire seccamente al ministro della Difesa Arturo Parisi, che l´emanazione di questa «Presolicitation notice», come la definisce, «è priva del presupposto essenziale: l´assenso del governo italiano». Il ministro conferma infatti che «nessuna decisione è stata assunta al riguardo», dal momento che «non si è ancora conclusa l´istruttoria in corso, e in particolare la verifica e la valutazione del consenso di tutte le parti in causa». Una di queste ha già detto di no: l´altra sera il consiglio comunale di Caldogno, competente per territorio, ha espresso la sua contrarietà alla realizzazione della base. Hanno protestato anche i parlamentari Luana Zanella dei Verdi («Il governo non ci faccia condizionare dalle pressioni degli Usa»), e Severino Galante del Pdci: «Siamo allarmati e preoccupati che il nostro paese appaia come un territorio a sovranità limitata».

Ma gli americani, a leggere quanto scrivono sul loro sito, non hanno di questi dubbi. Loro sono già alla fase operativa. Difatti il «Comando opere ingegneristiche» della Marina Usa annuncia un appalto da 300 milioni di euro «per l´affidamento in un unico blocco» dei lavori per la costruzione della nuova base. E si rivolge alle più importanti imprese italiane, informandole che sino a fine gennaio potranno chiedere le informazioni necessarie per la gara d´appalto che scatterà fra marzo e aprile.

L´aggiudicazione delle opere, spiegano gli americani, verrà fatta privilegiando non tanto chi farà l´offerta più conveniente sul piano economico, ma chi darà maggiori garanzie, certificate internazionalmente, sul piano della qualità delle opere eseguite, sia riguardo agli edifici che alle infrastrutture civili, così come per gli acquedotti, le fognature e tutta l´impiantistica.

Parole che, per il ministro italiano della difesa, sono soltanto un fatto «interno all´ordinamento statunitense», e in quanto tale «del tutto privo di rilevanza per l´ordinamento italiano». Parisi aggiunge che la decisione che prenderà il governo, verrà assunta «a partire dagli orientamenti espressi dalla comunità locale», tenendo conto delle conseguenze derivanti dall´impatto del nuovo insediamento militare sul territorio coinvolto, «per il significativo accrescimento della sua dimensione». Proprio i motivi che hanno spinto la popolazione di Caldogno a dire no alla base. «La scelta di individuare l´area presso l´aeroporto Dal Molin è sbagliata», afferma il sindaco Marcello Vezzaro. Contro il progetto è stata indetta per il 2 dicembre una manifestazione dei comitati di cittadini contrari alla base.

Sull'argomento vedi Alberto Statera ed Edoardo Salzano

Mussi a tutto campo sull'università. Gli effetti collaterali da correggere della riforma Berlinguer: limiti del «tre più due», proliferazione dei corsi, frammentazione degli insegnamenti, algebra dei crediti, sistemi di valutazione, concorsi, precari. La latitanza degli investimenti privati in un sistema che deve restare pubblico. Servono più soldi e più governance, o «la società della conoscenza» resterà in Italia solo uno slogan mentre la terza rivoluzione tecnologica avanza in tutto

Ida Dominijanni

Il convegno di Orvieto sul partito democratico sta per cominciare mentre con Fabio Mussi, alla Camera, facciamo il punto sulla politica dell'università dopo i non troppo incoraggianti investimenti della finanziaria in questo settore cruciale del rilancio del «sistema paese». Rimpianti per essere qua e non là? «Nessuno, sono sereno, non volevo fare la parte di quello che dice 'o presepe nun me piace'. Non credo che Orvieto riserverà grandi sorprese, e la mia posizione è nota: sono favorevole alla costruzione di una solida alleanza democratica, e alla costruzione di una forte sinistra che abbia l'ambizione di rappresentare interessi e promuovere idee. L'incontro di Orvieto è il primo passo della costruzione di un partito che nasce dalla fusione tra Ds e Margherita, su cui non sono d'accordo».

Una domanda personal-politica al ministro dell'università ex studente della Normale: quanto ha contato nella tua vita aver fatto dei buoni studi?

Molto. La Normale era la mia sola possibilità: vengo da una famiglia poverissima, entrarci era l'unico modo di garantirmi vitto, alloggio e una piccola argent de poche. Avevo preso la maturità con la terza pagella d'Italia - non ho mai saputo chi fossero quei due che avevano osato essere più bravi di me! - e il massimo dei voti nelle materie scientifiche: avrei voluto iscrivermi a fisica o chimica, ma venendo dal liceo classico non ce l'avrei fatta a superare il concorso della Normale in quelle materie. Così scelsi filosofia, ma ho mantenuto una forte curiosità per la cultura scientifica, leggo le riviste più importanti e non tollero di non capire di che trattano. Gli anni di Pisa, fra Università, '68 e Pci sono stati cruciali, anche ai fini del mio lavoro di oggi. Mi è rimasta la convinzione che l'università di massa, aperta a tutti, è una sfida fondamentale, se però tiene alto il livello della qualità.

Saltiamo a trent'anni dopo. Lisbona 2000: in una fase di relativo ottimismo sulla costruzione europea, fu lanciata la parola d'ordine della «società della conoscenza». In Italia c'era il governo D'Alema, ricordo commenti entusiasti. Cos'è rimasto di quella prospettiva nel secondo governo Prodi? Poco, a giudicare dalla finanziaria...

La prospettiva è sempre quella, è fortemente ribadita nel programma dell'Unione ed era ben presente nelle dichiarazioni programmatiche di Prodi alle Camere. Va detto però che in Europa, sei anni dopo, si avverte una certa stanchezza, «la società della conoscenza» rischia di diventare poco più che uno slogan. Mentre a livello planetario si dispiega la terza grande rivoluzione tecnologica della storia: gli investimenti nella formazione e nella ricerca passeranno in pochi anni da 330 a 850 miliardi di dollari - una cifra ancora di molto inferiore alla spesa per armamenti, il che dimostra che la rivoluzione suddetta non si converte in saggezza -, e il grosso ce lo metteranno l'India, la Cina, la Malesia, la Corea, il Giappone, la Tailandia e gli Stati uniti, i quali hanno appena lanciato un piano decennale per raddoppiare gli investimenti nella ricerca pubblica. Il Brasile, l'Argentina e il Messico stanno entrando in questa stessa scia. L'Europa segna il passo: i paesi del Nord sono gli unici ad aver raggiunto l'obiettivo di Lisbona, con un investimento in formazione e ricerca superiore al 3% del Pil.

Ma l'Italia investe meno dell'1%.

Lo 0,88 nell'università, contro l'1,2 della media dell'area Ocse e il 2,6, fra pubblico e privato, degli Stati uniti. Nella ricerca investiamo l'1,1%.

In una classifica ideale delle ragioni del «declino italiano», in quale posto collocheresti questi dati?

Abbastanza in alto, ma la risposta non è univoca: siamo di fronte a uno dei tanti paradossi italiani. E' ovvio che un paese che investe tanto poco su formazione e ricerca si mangia il futuro a morsi. Ma questo non toglie che in Italia ci siano ancora risorse di qualità e zone di eccellenza. Nella fisica della materia, nella fisica nucleare e nelle biotecnologie, per esempio, continuiamo ad avere posizioni di prestigio. Sforniamo laureati di ottimo livello che vengono rastrellati sul mercato del lavoro intellettuale internazionale. D'altro canto è vero che abbiamo un numero basso di studenti universitari e di laureati, e che nella classifica delle prime cento università del mondo non compaiono nei primissimi posti atenei italiani - anche se la Sissa di Trieste sta al quinto posto in Europa e la Normale di Pisa al settimo. Ti segnalo però che nella classifica Tongji di Shangai sulle prime 500 università del mondo 270 sono europee, parecchie delle quali italiane, e solo 180 sono americane, mentre quelle cinesi e indiane avanzano: nella terza rivoluzione tecnologica l'Europa procede a passo lento, ma ha ancora un capitale enorme da far valere.

Però - fonte AlmaLaurea - gli studenti europei Erasmus dicono che le università italiane sono le peggiori fra quelle che hanno frequentato. In Italia c'è una gran retorica contro la «fuga dei cervelli», ma a me pare che dovremmo essere felici che tanti italiani vadano all'estero e preoccuparci di più di attrarre studenti stranieri qui da noi.

Esattamente. Ormai la comunità scientifica è internazionale, ognuno deve andare dove vuole, possibilmente non spinto dalla disperazione. Il problema è come rendere attraenti le università italiane, migliorandone qualità e governance. Nel recente viaggio in Cina di Prodi è stato siglato un accordo interuniversitario per accogliere studenti cinesi in Italia.

Ministro, diciamoci la verità: per il centrosinistra l'università è materia non solo di progetto ma anche di bilancio. Più che di Letizia Moratti, l'università che abbiamo è figlia di Luigi Berlinguer. Sette anni dopo, qual è il bilancio della parola chiave della riforma Berlinguer, «autonomia»?

E' vero, la vera riforma è stata quella del '99, Letizia Moratti si è limitata a degli interventi peggiorativi. L'autonomia, intesa come capacità di autogoverno e responsabilità, è un processo inesorabile e giusto. Che però ha prodotto alcuni effetti collaterali da correggere. In primo luogo c'è stata una spinta alla proliferazione scriteriata di sedi, ordinamenti, insegnamenti. In secondo luogo, lo schema «tre più due», laurea triennale più laurea specialistica - che a ben vedere è uno schema tre più due più x, triennale più specialistica più master - è rimasto incompiuto. Il tre più due prevede che uno studente esca dalla triennale con un profilo professionale definito, ma in realtà non è così: la triennale è una sorta di vicolo cieco, o una tappa per la specialistica. Una specie di liceone: non va bene, bisogna correggere.

Come?

La riforma Berlinguer si inseriva in una più ampia politica europea lanciata a Bologna nel '99, che prevedeva una prima verifica nel 2007 a Londra e una seconda nel 2010, per andare a regime nel 2012. Andremo a Londra dopo una discussione di massa con studenti e docenti, con un'indagine molecolare degli effetti della riforma e qualche proposta. E' in vista di questo che convocherò gli «stati generali» dell'università.

Qualche correzione intanto è già partita.

Sì. Con alcune norme della finanziaria viene bloccato il numero delle università telematiche - ce ne sono dodici, appena insediato ne avevo bloccate altre cinque, in Spagna sono in tutto due -, che sono università a tutti gli effetti e devono avere requisiti di qualità ineccepibili. Viene bloccata la proliferazione di corsi e facoltà fuori dalle sedi naturali: i corsi di studio sono passati in pochi anni da 2.300 a 5.500, d'ora in poi per aprirne uno sarà necessario avere almeno la metà di docenti strutturati. E vengono bloccate le cosiddette «lauree facili»: la riforma Berlinguer prevedeva che si potesse «laureare l'esperienza» concedendo quasi tutti i crediti necessari sulla base di un percorso di studio e di lavoro; sotto il governo Berlusconi, allargando le maglie di questa norma, sono state regalate lauree a intere categorie di dipendenti dei ministeri e delle regioni, di iscritti all'ordine dei giornalisti e via dicendo; d'ora in poi verranno concessi al massimo 60 crediti, ai singoli e non alle categorie. C'è inoltre un mio decreto al parere della Conferenza dei rettori, che prevede d'ora in poi un massimo di 20 esami per il triennio e di 12 per la laurea specialistica.

Quasi una rivoluzione, data la frammentazione attuale di moduli, esami e crediti. Che avrà effetti a cascata sulla didattica...

Bisognerà accorpare i moduli, o coordinarli, e sempre sulla base di un organico fatto almeno per metà da docenti strutturati, dunque solo una metà può essere fatta di docenti a contratto.

L'autonomia ha anche un lato economico cruciale: è la porta aperta all'ingresso dei privati nell'università. Anche qui, qual è il bilancio di questi otto anni, e come si dovrebbe configurare per il futuro il rapporto pubblico-privato?

Il sistema dev'essere pubblico, dopodiché ben venga se ci investono i privati: magari! Ma ci investono pochissimo, fra sponsorizzazioni e contratti. Nel campo della ricerca, per ogni euro dello stato ce n'è mezzo, non due, di privati.

Insomma: Tronchetti Provera, per dirne uno, poteva bene investire nella ricerca universitaria sulle telecomunicazioni, ma non l'ha fatto...

No, non l'ha fatto. Sul valore aggiunto, il capitalismo italiano investe in ricerca pubblica e privata il 2,2%, contro la media europea del 5,8. In Germania il dato è del 7,5%, in Giappone del 9,6, negli Usa dell'8,7.

La finanziaria prevede qualche incentivo, o sbaglio?

In finanziaria c'è il fondo della legge Bersani per un piano di sostegno a ricerca e innovazione «top down». E un incremento di 960 milioni di euro in tre anni del fondo ordinario per la ricerca, che vanno ad aggiungersi alle risorse correnti (600 milioni di euro per l'anno prossimo), per la ricerca «bottom up» e «curiosity drive», quella cioè non immediatamente finalizzata - che è cruciale, perché non si può fare ricerca solo su quello che si sa che è utile. Poi c'è un ulteriore fondo di 300 milioni di euro come credito d'imposta per il 10% di investimenti in proprio dei privati e il 15% di committenze alle università e agli enti pubblici.

Non si può fare ricrerca solo su quello che è utile, dici giustamente. Però fra crediti, valutazioni, risorse, economicità, funzionalità al mercato del lavoro, non ti pare che l'università parli ormai solo la lingua dell'utile? Questa perdita del senso della gratuità del sapere, a me sembra l'effetto collaterale più pericoloso della riforma Berlinguer.

Effettivamente anch'io uso questo linguaggio con un certo disagio...Bisogna distinguere. Un conto è il sistema della valutazione, che è fondamentale e va casomai reso più efficace. Sul piano culturale però sono d'accordo, va rilanciata la dimensione estetica del sapere. Non è un caso che oggi si parli di eleganza delle formule in matematica, o che certi premi alla ricerca tecnologica siano destinati in base alla bellezza delle scoperte. L'estetica invade anche le scienze esatte, e il linguaggio del bello è diverso da quello dell'utile.

Valutazione: come funziona e come va corretto il sistema?

Abbiamo l'esperienza dei due comitati di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che a giorni presenteranno i loro rispettivi rapporti. Bisogna partire da qui per costruire l'Agenzia della valutazione. Che sarà un'istituzione terza sia rispetto ai suoi oggetti sia rispetto al potere politico - insomma non sarà una dependance del ministero - e dovrà spostare l'asse della valutazione dalle procedure ai risultati, sia nella ricerca sia nella didattica, sulla base di parametri internazionali. La valutazione sarà decisiva ai fini della ripartizione di una quota crescente del fondo ordinario - che ovviamente deve complessivamente crescere -, in modo che venga premiato chi migliora.

Concorsi: cosa cambierà?

Fosse per me li abolirei e li sostituirei appunto con un efficace sistema di valutazione. Ma non si può: l'articolo 97 della Costituzione prevede «valutazioni comparative». E' un problema delicato, sono state sperimentate molte formule possibili, ma nessuna ha eliminato i vizi storici. Proveremo a sperimentarne altre. Per prima cosa però bisogna introdurre la terza fascia di docenza per i ricercatori: è fondamentale per allargare la base della docenza.

Hai annunciato 2000 assunzioni per i precari, qualcuno obietta che sono meno di quelle degli ultimi tre anni...

Ma no, sono 2000 assunzioni in più rispetto a quelle ordinarie. Abbiamo anche tolto il blocco del turn over agli enti di ricerca, che possono assumere non sulla base della pianta organica ma del budget, entro l'80% del loro bilancio.

Che pensi delle università di eccellenza che stanno spuntando qua e là, a Firenze, Milano e altrove?

Funzionano se sono integrate col sistema complessivo e col territorio. A Lucca abbiamo migliorato in questo senso la situazione dell'Imt.

Commentando non entusiasticamente la finanziaria hai detto: Speriamo dall'anno prossimo di indossare gli stivali delle sette leghe». E' solo un problema di soldi?

Anche di soldi. Da un lato le due spine sono il modesto incremento del fondo di finanziamento e il taglio ai consumi intermedi di università ed enti di ricerca. Dall'altro lato, dall'anno prossimo bisognerà operare una riforma complessiva della governance del sistema universitario, dal ministero ai consigli di dipartimento. Ma di questo è prematuro parlare adesso.

«È un accordo che difficilmente migliorerà il servizio e sicuramente non abbasserà le tariffe. Così i benefici per i cittadini spariscono»: parole pesanti come pietre. Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano e collaboratore del «pensatoio» della voce.info, boccia senza appello l'intesa siglata mercoledì sera da Walter Veltroni e dai tassisti romani per l'applicazione del decreto Bersani. E non è l'unica voce critica. Nel giro di 24 ore una piccola bufera si è abbattuta sul Campidoglio, che aveva celebrato la firma del protocollo per il potenziamento del servizio come un evento «storico». Ma nella maggioranza c'è malumore e imbarazzo per la linea soft adottata dal sindaco di Roma. E i consumatori del Codacons sono sul piede di guerra: non vogliono aumenti dei prezzi, mentre Veltroni, per ottenere il via libera dei sindacati di destra all'accordo, si è impegnato a discutere già a partire dalla prossima settimana l'adeguamento delle tariffe.

«È una beffa - va all'attacco Daniele Capezzone, segretario dei Radicali e presidente della commissione Attività produttive della Camera - . Il decreto Bersani nasceva come una liberalizzazione che avrebbe dovuto aprire il mercato per migliorare il servizio e far scendere i prezzi. Invece alla fine non ci saranno nuove licenze e le tariffe aumenteranno. Quella di Veltroni di mediare con i tassisti non è stata una buona idea, il sindaco ha dato l'impressione di cedere alle prepotenze corporative. Veltroni si è assunto la responsabilità di depotenziare una riforma possibile».

Secondo Amedeo Piva, coordinatore della Margherita in Campidoglio, «l'intesa è molto importante e permette il reale potenziamento del servizio». Ma poi lo stesso esponente del partito di Rutelli riconosce che «non è una liberalizzazione, ma è solo un primo passo. Si poteva fare di più. Ma interverremo di nuovo». Tace invece per adesso il ministro per le Attività produttive, Pierluigi Bersani. Nella trattativa di mercoledì fra Comune e tassisti, secondo quanto hanno riferito diversi testimoni, l'assessore Mauro Calamante ha più volte invitato i sindacalisti a capire che «qualche pezzo del decreto lo dobbiamo salvare, qualcuna delle misure varate da Bersani dobbiamo mantenerla, altrimenti non è possibile alcun accordo». E alla fine il compromesso scaturito - come sintetizzato da Donato Robilotta, capogruppo dei Socialisti nella Regione Lazio - «è un semplice prolungamento dei turni. La liberalizzazione del sistema doveva servire ad aumentare il numero dei taxi, migliorare il servizio e e abbassare i costi: non mi pare che l'accordo risponda a questi obiettivi. Lo spirito del decreto Bersani è stato tradito».

«Non consentiremo alcun aumento delle tariffe, semmai devono scendere» dice invece Carlo Rienzi, presidente del Codacons. Un sogno irrealizzabile quello dell'abbassamento dei prezzi. Almeno a sentire le tesi del professor Ponti: «In questo accordo c'è una componente volontaria affidata ai tassisti troppo forte, aumenterà l'offerta solo nel breve periodo.

Solo un aumento obbligatorio dell'offerta fa perdere valore alle licenze e fa abbassare i prezzi. Sono le regole base del monopolio». All'economista del Politecnico non piacciono nemmeno le tariffe predeterminate per gli aeroporti: «Va bene il prezzo fisso, ma libero: ogni cooperativa dovrebbe scegliere quale tariffa applicare e pubblicizzarla. Questa è concorrenza». E da Palazzo Chigi sottolineano che a pagina 130 del programma elettorale dell'Unione si parlava di «liberalizzione nei settori della distribuzione dei farmaci e dei taxi». I medicinali da banco sono ormai arrivati nei supermercati. Le licenze delle auto bianche restano invece privilegio per pochi.

Il sangue di Cana è schizzato in faccia a tutti. E´ sangue di innocenti (trentasette bambini su sessanta vittime) e non sarà facile cancellarlo. Domenica mattina è traboccato dai teleschermi su cui da diciannove giorni si inseguivano le immagini dell´Europa in vacanza e quelle del Libano sotto le bombe e degli israeliani nei rifugi di Galilea.

Erano diventate una routine. La strage di innocenti ha rivelato, imposto il crudo orrore di quel conflitto, abbattutosi su un paese appena ricostruito, e già semidistrutto. Un paese che ospita una guerriglia indomabile, ma anche la sola società (quasi) democratica del mondo arabo. Va detto subito che il sangue si è riversato su una platea molto vasta di responsabili: protagonisti diretti e indiretti, spettatori potenti e impotenti.

Ha imbrattato gli israeliani, certo, poiché israeliani erano i missili che hanno provocato il massacro. Ed ora sull´immagine dello Stato ebraico risalta vistosa, non soltanto per gli occhi arabi, una macchia di sangue.

Questa nuova strage non fa certo scendere nella regione il mercurio che misura l´odio nei suoi confronti. Il desiderio di vendetta dilaga, è palpabile nelle società arabe dove si assiste al lamento straziante, riproposto senza sosta da tutti i teleschermi, di Mohamed Chaloub, che ha perduto i cinque figli, di cui uno di due anni. La rabbia è subito esplosa a Beirut e si è accanita contro la sede dell´Onu, simbolo dell´impotenza, anche se era diretta contro gli Stati Uniti e Israele. L´eco di quella collera arriva forte, assordante anche a Gerusalemme, a Haifa, a Tel Aviv, dove si avverte con chiarezza quanto quell´esplosione di odio sia annunciatrice di altre tragedie.

Cana è un nome maledetto: dieci anni fa, nell´aprile 1996, un´incursione di rappresaglia israeliana, promossa in seguito ad azioni di hezbollah, fece cento morti.

E costò al laburista Shimon Peres una inaspettata sconfitta elettorale, poiché gli arabi israeliani alcuni giorni dopo non gli perdonarono quell´incursione e gli negarono i voti indispensabili.

La vicenda mediorientale si ripete nella sua tragica monotonia. Spesso in peggio. Questa volta la strage riguarda soprattutto degli innocenti.

La macchia non risparmia neppure gli hezbollah, che muovendosi tra la popolazione civile la espongono alle rappresaglie. La usano come uno scudo. I militari israeliani si sono naturalmente prodigati nel dimostrare che da quella casa di Cana presa di mira della loro aviazione partivano i missili diretti su Kiryat Shmona e Aufula, due località della Galilea occidentale. E´ assai probabile che l´accusa sia esatta. Ma Israele, che dispone di una forza militare molto più potente e sofisticata dell´avversario, ha anche responsabilità alle quali uno Stato sovrano (e in questo caso democratico), non può venir meno. Un errore «collaterale» come quello di Cana assomiglia a una rappresaglia collettiva e indiscriminata. Ad essa assomiglia del resto l´intera operazione libanese, così come viene condotta dallo Stato maggiore israeliano. Venti giorni fa, all´avvio dell´operazione contro gli hezbollah, furono in molti a definire giusta o giustificata la reazione israeliana. Dietro gli hezbollah ci sono la Siria e soprattutto l´Iran, si disse, e quindi la risposta alle loro provocazioni, non può che essere forte e immediata. Tre settimane dopo quella risposta giusta è diventata qualcosa che assomiglia, appunto, a una rappresaglia collettiva.

La strage degli innocenti di Cana appesantisce questa impressione.

Nelle crisi più acute le critiche rivolte a Israele possono apparire spesso dettate da un moralismo spicciolo, che non tiene conto della realtà mediorientale. Ma c´è una costante che solleva molte perplessità anche nella società israeliana. In particolare l´abitudine, ormai quasi un dogma, con cui i governi di Gerusalemme agiscono unilateralmente, ossia senza trattare con le forze che si trovano di fronte. Nel 2000 Israele si ritirò unilateralmente dal Libano meridionale, e così l´estate scorsa si è ritirata da Gaza. Senza rendere partecipe Abu Mazen, il leader palestinese moderato, in quell´occasione umiliato e squalificato agli occhi dei suoi, che alle elezioni gli hanno poi preferito i leader di Hamas. Non pochi nell´opposizione israeliana attribuiscono a questo atteggiamento («sprezzante») parte dell´ostilità di cui è circondato lo Stato ebraico. E parlano di un´arroganza ancor più evidente su un piano militare, dove la superiorità è schiacciante.

Il sangue di Cana, come dicevo all´inizio, è tuttavia schizzato sulla faccia di tutti. Non solo su quella dei protagonisti diretti.

Gli spettatori potenti, in prima linea gli Stati Uniti, ne hanno ricevuto una buona dose. Dopo la strage degli innocenti, rifiutando di ricevere a Beirut Condoleezza Rice, come previsto, Fuad Siniora, il primo ministro libanese, ha denunciato con coraggio la responsabilità americana nel dramma.

Soltanto la superpotenza può pesare in modo determinante sul governo israeliano. E´ cosi da decenni. In questo caso non poteva fermare bruscamente un´operazione militare, che interrotta avrebbe perduto la sua efficacia, ma era senz´altro in grado di imporre un certo ritegno nelle azioni militari. E comunque avrebbe potuto impegnarsi di più nel tentare di convincere Israele a trattare con gli avversari. Con chi si tratta se non con i nemici? Per ora l´America ha ottenuto una sospensione dei bombardamenti di 48 ore, per permettere ai civili di lasciare il sud Libano sotto attacco. Una semplice parentesi nel dramma?

L´unilateralismo è una prerogativa degli onnipotenti. In queste occasioni ricordo sempre quel che dice Amos Oz: ai finali shakespeariani, in cui la scena è cosparsa di cadaveri, lui preferisce i finali cecoviani, in cui sulla scena restano personaggi melanconici e scontenti, ma vivi.

Il sequestro di 64 parlamentari palestinesi di Hamas, fra i quali otto ministri, in tutte le città della Cisgiordania da parte dell'esercito israeliano non è un rappresaglia, è il tentativo di affondare per sempre la già assediata e affamata Autorità palestinese e di chiudere con ogni trattativa che pareva potersi aprire negli ultimi giorni. Sul documento dei prigionieri palestinesi in Israele,Hamas e Al Fatah avevano raggiunto un accordo per molti versi storico. Per la prima volta Hamas riconosceva, sia pure implicitamente ma in modo inequivocabile, la legittimità dell'esistenza di due stati.

Contro questo accordo, che innovava radicalmente non solo la linea di Hamasma anche i suoi rapporti conAl Fatah, un gruppo fondamentalista - del quale, mentre scriviamo,non conosciamo l'identità - aveva catturato un pilota di tsahal, dichiarando che non l'avrebbe riconsegnato finché non fossero state liberate le donne e i bambini che sono fra i circa ottomila detenuti palestinesi in Israele (obiettivo tanto umanamente ragionevole quanto sicuramente negato da Tel Aviv) e poi sequestrava un colono di 18 anni - ieri poi ucciso.

La collera di Israele era comprensibile, ma la reazione è stata spropositata al punto da preoccupare anche iG8 oggi riuniti a Mosca, che le hanno mandato un ammonimento formale: non esagerate. Manon si tratta di una sbavatura di militari infuriati: la cattura di un così consistente gruppo di parlamentari dei territori occupati, l'annuncio che ne seguiranno altre, mirano a mettere fuori gioco l'intero governo palestinese costringendo in queste ore tutta la rappresentanza diHamasa entrare in clandestinità.

Non solo: Israele ha appena bombardato il principale asse stradale di Gaza, distruggendone tre ponti, la centrale elettrica che fornisce energia a metà della Striscia di Gaza e ha tagliato le forniture d'acqua, sprofondando il paese in una situazione sanitaria insostenibile. Già stava succedendo dopo le sanzioni inflitte dall'Europa.

Qui non si tratta di un eccesso di vendicatività, si tratta della volontà del governo di Ehud Olmert, in cui evidentemente sta anche il laburista Amir Peretz, di chiudere qualsiasi porta o dialogo di pace per togliere la Palestina come nazione dalla faccia del Medio Oriente. Politicamente parlando, è l'esatto reciproco del gruppo fondamentalista islamico che sequestrando due israeliani e uccidendoneuno havoluto sabotare ogni possibile avvio di scioglimento dell'ormai tragico e quasi quarantennale contenzioso fra le parti. C'è un fondamentalismo in Palestina che non riconosce l'esistenza di Israele e un fondamentalismo israeliano che non riconosce quella della Palestina. Così stanno le cose, naturalmente tra forze del tutto impari. Sharon in coma, sembra caduto in comaogni residuo di ragionevolezza del governo israeliano.

Non è possibile, non è decente che il Consiglio di sicurezza non intervenga. Èben vero che da decenni Israele disattende le sue decisioni ma è anche vero che questa arroganza le è stata consentita, specie dagli Stati uniti. E senza attendere il Consiglio di sicurezza bisogna che l'Europa, su questo terreno dubitosa e incerta per l'incrocio ormai evidente fra il sentimento di colpa verso gli ebrei e un antiarabismo inconfessabile, si esprima subito. E subito ha da esprimersi il governo italiano. Non farlo sarebbeun gesto inammissibile di irresponsabilità.

La vigilia di Natale è, obbligatoriamente, quella degli auguri: di Natale e di buon anno. Io e tutti noi del manifesto facciamo senza esitazione i migliori auguri a Prodi e al suo governo (le critiche le abbiamo già fatte e non le dimentichiamo).

Ma gli auguri, se non debbono ridursi a formale retorica, debbono anche tener conto della situazione del soggetto al quale si fanno gli auguri. Ora Prodi è riuscito a portare in porto la finanziaria. È difficile giudicarla ottima, tuttavia ottenuto il voto la situazione di Prodi diventa più difficile. I vari e diversi soci dell'Unione, che finora erano obbligati a sostenere la finanziaria e quindi il governo, ora che la finanziaria è fatta si sentono più liberi e più attenti ai loro interessi particolari. Dall'altra parte anche l'opposizione ora che non corre più il rischio di assumersi la responsabilità della finanziaria (anche per lei sarebbe stato un problema non di poco peso) si sente più libera e più aggressiva. Il 2007 non si annuncia tranquillo.

L'altro giorno Prodi al Tg1 ha dichiarato, con un po' di arroganza, che «non si governa per essere popolari, ma per cambiare il paese». Mi viene da dire che il paese non si cambia senza il consenso del popolo, che è vario. Ma Prodi, subito, aggiunge che le priorità per il 2007 sono le riforme economiche. Domanda d'obbligo: quali? Andrebbe subito detto, al popolo, quali riforme. Dicendo anche a quale parte del popolo la riforma (da definire) porta vantaggio e per quale altra parte del popolo comporta un costo.

In una società complessa (un popolo) non ci sono riforme che fanno il bene di tutti e, pertanto, hanno anche un costo per chi le riforme le vuole e le attua. Mi pare utile ricordare che nel 1950, sotto la pressione delle lotte contadine e bracciantili, la Democrazia Cristiana approvò una riforma agraria e vale ancora ricordare che quella riforma segnò la rottura del blocco del 18 aprile del 1948: e produsse una notevole perdita di voti da parte della Dc ed emersero missini e monarchici.

Questo per dire che quando si parla - come fa Prodi - di riforme non si tratta di regalie a tutti, al ricco e al povero, ma di danneggiare qualcuno a vantaggio di qualche altro. Senza questa coscienza e questa sincera precisazione, le riforme rischiano di essere - anzi sono - parole al vento.

Allora, rinnoviamo i più sinceri e interessati auguri a Romano Prodi, ma, allo stesso tempo, gli chiediamo di essere più chiaro sulle annunciate riforme: quali, a quale prezzo? Prodi insiste a dire che l'obiettivo del suo governo è «far crescere l'Italia». Ottimo, ma a vantaggio di chi e a spese di chi? L'interrogativo è d'obbligo tanto più che la finanziaria approvata non manca di confusioni e equivoci.

Se si parla, e a ragione, di separazione della società dalla politica questo dipende anche dal fatto che la politica è assai poco «chiara e distinta». Poi, sullo sfondo, c'è la questione delle pensioni: sarebbe assurdo che il positivo allungamento della vita media invece che un successo di tutti debba essere un danno per chi ha lavorato e non è morto secondo i calcoli attuariali del passato. Dobbiamo dire: si stava meglio quando si moriva prima?

Se c´era bisogno (e non ce n´era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un´ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell´ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).

E alla fine, per non far mancare nulla all´indimenticabile occasione storica, fuochi d´artificio come a Piedigrotta nell´illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna.

Mario Merola, con tutta l´indecorosa ammuina, non c´entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell´ora dell´addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell´oggi, un´identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.

Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov´è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell´inerzia di troppi. Per accettare quest´atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un´icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.

Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l´assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».

Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell´uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell´illegalità, scava un solco tra l´illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz´e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.

Può essere l´illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l´illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l´uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all´anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata… il mio lungo viaggio», spiega che «l´uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».

Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore – "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.

Roma, Torino, Firenze, Bologna. La protesta dei sindaci delle grandi città - e altre sono già in fila per aggiungersi al sofferente coro - contro una legge finanziaria giudicata «insostenibile» non è né inedita né sorprendente; eppure può essere dirompente per il già fragilissimo equilibrio del governo e della sua maggioranza. Non è inedita: gli stessi sindaci hanno detto le stesse cose quando, una finanziaria dopo l'altra, il governo centrale ha tagliato loro i viveri. Non è sorprendente, anche se viene da esponenti della stessa maggioranza che sostiene Prodi: già negli scorsi anni contro Berlusconi con i sindaci del centrosinistra protestarono anche quelli del centrodestra, a dimostrazione del fatto che la materialità di alcuni problemi e la vicinanza ai propri elettori fa premio (per fortuna) sulle esigenze di bottega politica nazionale. Ha una carica dirompente: i quattro sindaci in questione - tutti dei Ds, il primo partito della coalizione; tutti molto popolari; tutti con statura politica nazionale; e, tra loro, uno che rappresenta tutti i comuni d'Italia e l'altro che è candidato perenne nella panchina dei leader - hanno un peso politico rilevantissimo. E potenzialmente sovrastante, rispetto a quello di un Prodi fiaccato dal caso Telecom e appannato dalla trattativa sulla finanziaria (senza parlare delle secche nelle quali si trova il progetto del partito democratico).

Forse è presto per dire che sulla legge finanziaria sono già iniziate le grandi manovre in vista del dopo-Prodi (anche se in questo senso c'è più di un indizio); ma certo sono in pieno corso le manovre del dopo-finanziaria. Gli industriali, che hanno ottenuto quel che volevano sulla riduzione del cuneo fiscale, piangono sul Tfr da versare; la sinistra radicale, soddisfatta sull'impatto redistributivo della manovra fiscale, va all'attacco sul ticket al pronto soccorso; gli autonomi si preparano a ogni forma di pressione per scampare ai nuovi rigori; i sindaci, ai quali sono stati tolti soldi oggi in cambio di nuove entrate domani, chiedono un cambiamento di rotta radicale; in più, tutti i partiti più o meno di centro si autoeleggono rappresentanti dei presunti ceti medi e chiedono ribassi delle aliquote al di sopra dei 75mila euro l'anno.

In questo contesto, il governo - Prodi - ci tiene a tener fermo un solo punto: il saldo di bilancio. Con il rischio che, alla fine del percorso, una manovra di grandissimo volume ma dall'identità non chiarissima resti identica nel volume ma senza nessuna identità. Quella che entra in parlamento non è la Finanziaria di Robin Hood, che toglie ai ricchi per dare ai poveri: è una Finanziaria che cerca di toccare l'area grigia e nera dell'evasione, che per la prima volta da anni cerca di colpire un po' di più chi ha di più, che rimette un po' di ordine nel caos ereditato dal governo precedente. Ma è anche una Finanziaria che taglia i fondi agli enti locali - cioè ai servizi sociali - che taglia la spesa sanitaria, che non rilancia né scuola né ricerca. E soprattutto che non dice il perché di questi sacrifici, l'obiettivo finale: il risanamento? lo sviluppo? il welfare? il mercato? Nel '96-'97 l'obiettivo era uno solo: l'Europa, anzi l'euro. Raggiunto quello, non se n'è ancora trovato un altro. Se ci fosse, forse anche la mediazione con le tante proteste - più o meno giuste - sarebbe al rialzo e non al ribasso.

La forza di interposizione è partita, non senza lasciare nelle relative patrie chi ne auspica più che temere il fallimento. Lo auspica chi è persuaso, in Israele e fuori di Israele, che sia opportuno un secondo round per farla finita con gli Hezbollah; sono gli stessi che vorrebbero si facesse bellicosamente finita con Hamas, e si mettessero museruole alla Siria e all'Iran. Sul lato opposto e reciproco stanno coloro che sospettano nell'accordo sull'interposizione tutto un imbroglio fra occidente e Usa, via Israele e auspicano una ripresa del conflitto che veda una vittoria degli Hezbollah, un irrigidimento di Hamas e muscolose affermazioni della Siria e dell'Iran.

Noi, che non siamo nati ieri, siamo lontani dall'ignorare la fragilità - a prescindere da ogni tesi complottistica - dell'accordo, che incidenti anche non premeditati possono mettere in causa, inducendo una spirale incontrollabile. Ma sicuri che in Medio Oriente essa non risolva nulla, puntiamo decisamente sul successo della spedizione per alcuni buoni motivi. Primo la consapevolezza, che ci sembra crescente, che occorra risolvere la questione palestinese, nodo centrale finora negato: restituire ai palestinesi la terra entro i confini del 1967 e garantire la sicurezza di Israele. Sono due questioni correlate, perché la Palestina ricominci (per un'intera generazione si tratta appena di cominciare) a vivere nella pace e perché gli israeliani cessino di sentirsi in stato d'assedio.

Sono interessanti, per prima cosa, i movimenti abbozzati da Hamas anche per quanto riguarda Gaza, perché spostano decisamente la questione dal «chi ha cominciato per primo» al «come possiamo convivere», non era così sicuro che accadesse, e dimostra che l'intervento europeo e dell'Onu, per quanto timido e tardivo, riapre i giochi. In questo quadro è interessante anche una modifica delle abituali dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad, che per la prima volta ha smesso di farneticare la scomparsa di Israele e ha dichiarato che il suo paese non ha intenzione di usare dell'energia nucleare contro nessuno, neppure il «nemico sionista». Poco, ma meglio che niente. In secondo luogo, Israele ha subìto una ferita di immagine che ne spezza la presunzione di invincibilità, cattiva consigliera per tutti. E' vero che l'agitazione che vi imperversa è marcata soprattutto dalla destra e da una volontà di rivincita, della quale sembrano far parte le colpe vere o presunte imputate dal governo nei confronti dell'esercito o dall'esercito stesso nelle persone del suo stato maggiore - colpe che non paiono, a questo momento, essere impugnate da una spinta pacifista che chieda una inversione di tendenza, almeno per quanto siano in grado i media di un paese sotto choc di darne correttamente notizia. Che la forza di interposizione tenga, significa dare anche tempo al travaglio interno a Israele di decantare, senza precipitare un rovesciamento del governo e un'elezione anticipata che oggi la rimetterebbe assai probabilmente in mano a Nethanyau.

Terzo punto, ma non da poco, l'essere gli Stati uniti in una situazione di scacco da tutte le parti: non sono battuti come in Vietnam, ma non riescono a diminuire il numero dei loro che cadono in Afghanistan e in Iraq, e non sono felicissimi i rapporti neanche con i loro governi fantoccio. Non sanno come tirarsene fuori senza perdere la faccia e il petrolio di Dick Cheney e altri. L'Iraq è stato pensato e attuato anche come un colossale affare, ma la condizione era che la guerra fosse rapidamente vinta e una guerriglia non sorgesse o fosse facilmente domata. Ancora una volta i famosi servizi di informazione della Cia non hanno capito né previsto. La mancata elezione del senatore democratico e (o ma) guerrafondaio Lieberman è uno spettro che aleggia assai minacciosamente sulle prossime elezioni autunnali di medio termine.

Insomma, c'è uno smuoversi delle ferree posizioni politiche che parevano irriducibili fino a ieri. Forse è anche questo che ha dato coraggio a Kofi Annan. E' stato giusto imboccare questa strada stretta per tentare una svolta in Medio Oriente, se ai primi passi seguirà davvero il ritiro dall'Iraq, e si prenderà in considerazione quello dall'Afghanistan - Non basta un avallo strappato dagli Usa all'Onu a cose fatte, pagine poco gloriose del Palazzo di vetro - e ha sempre meno senso chiamare quella a Kabul una missione di pace. Hanno ragione i deputati di Rifondazione e (per una volta) il rampognato ministro Mastella. Chi scrive non è abitualmente una ammiratrice di Massimo D'Alema, ma la linea di politica estera che sta imprimendo al governo è buona. Sarebbe bello che ci fosse chi fa lo stesso in tema di finanziaria.

Il documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) è ormai un inevitabile tormentone estivo. Alcuni pensano che potrebbe essere evitato, fondendolo con quell´altro davvero inevitabile appuntamento di settembre: la legge finanziaria.

Ma la ragione delle distinzione tra i due momenti mi sembra logica. Nel primo si determinano le linee generali della politica economica del governo e la portata complessiva della manovra finanziaria impegnando, sulla base di una visione globale della situazione economica del Paese, Governo e Parlamento all´osservanza di limiti non più discutibili della spesa e della pressione fiscale. Si fissa così una cornice entro la quale ogni amministrazione dovrà collocare e potrà misurare la portata delle sue esigenze. Tra i due momenti ci deve essere un certo tempo; e quello, per giunta estivo, che corre tra DPEF e legge finanziaria, sembra appena sufficiente.

Il Governo ha assolto il compito relativo alla prima fase. Come? Luigi Spaventa ha illustrato con chiarezza su Repubblica del 27 luglio i meriti del DPEF, nonché gli interrogativi che suscita la manovra macroeconomica prevista; e ai quali si potrà dare risposta soltanto con la legge finanziaria. Problemi che riguardano la coerenza quantitativa della manovra economica che la legge finanziaria dovrà, ovviamente, precisare e verificare.

Vi è poi l´aspetto qualitativo: quello degli obiettivi che si intende dare alla spesa pubblica, con riferimento ai problemi economici e sociali del Paese. Ci si può chiedere se le procedure attraverso le quali le Amministrazioni fissano i loro obiettivi e il Ministro dell´Economia e il Governo, finalmente, determinano le relative priorità, siano i più appropriati per un paese moderno. Io non lo credo.

Negli Stati Uniti e in molti paesi europei obiettivi e priorità della spesa pubblica sono determinate, da tempo ormai, con una procedura di programmazione basata sul calcolo dei costi e dei benefici economici e sociali degli interventi previsti. Questa programmazione strategica per obiettivi, distinta da quella tradizionale amministrativa, per competenze, è un processo permanente, non una sgobbata estiva, che impegna tutti i centri di spesa a dare e a darsi conto con continuità, in termini non solo finanziari e quantitativi, ma economici e qualitativi, dei risultati attesi e di quelli realizzati, valendosi di certi indicatori.

In un libro (Per restare in Europa, Utet, Torino) Franco Reviglio si sofferma ampiamente sulle disfunzioni della spesa pubblica italiana. Per esempio, nel campo della sanità (i fattori patologici della lievitazione sanitaria, la maldistribuzione dei posti letto, i prezzi troppo elevati e le forniture disparate agli ospedali, gli sprechi nell´utilizzo dei farmaci, i lunghi tempi di attesa); nel campo previdenziale ( fattori che determinano una spesa elevata e crescente senza evidenti benefici: numero di pensioni eccessivo, discrasia tra spesa e contributi, eterogeneità di trattamenti e diseguaglianze distributive, onerosità eccessiva del debito pensionistico). E poi le disfunzioni dell´assistenza, dell´istruzione, dei servizi pubblici, qui non voglio farla troppo lunga, meglio leggere il libro. Non dovrebbe, proprio la legge finanziaria essere il momento in cui l´insieme di questi problemi viene misurato, per dar conto concreto dell´efficienza e della equità della spesa pubblica italiana?

Nella nostra legge finanziaria questa elementare esigenza di programmazione viene ridotta alla misurazione della sostenibilità economica della spesa e al vincolo che ad essa è posto (per fortuna!) dalla Commissione Europea. E poiché è ovvio che quel vincolo impone limiti severi alla spesa, si riduce il problema ai «tagli» della spesa, e a come distribuirli tra le varie grandi categorie; senza precisare e misurare le azioni concrete e specifiche dirette ad aumentare la produttività dei servizi e a ridurne i costi. Si è giunti, durante la precedente legislatura, fino alla ridicola pretesa di tagliare la spesa di tutti i Ministeri del due per cento. Questa è stata la programmazione del precedente governo, clamorosamente fallita, del resto, insieme alle furbate e ai trucchi della finanza creativa.

E´ augurabile che il nuovo Governo, così come ha cominciato a fare con le riforme liberalizzatrici, realizzi, con lo sguardo rivolto un po´ al di là delle eterne emergenze, una riforma della legge finanziaria ispirata a quella, da molti anni introdotta in America, della programmazione strategica (strategic planning). Perché non inviare una commissione a Washington (per carità, di dimensioni ridottissime e approfittando del cambio favorevole) di esperti che studino, una buona volta, «il modello americano»? E vedano se, per caso, possiamo imparare qualche cosa, non solo dalla CIA, ma anche dal Bureau of Budget?

Programmazione. Non è un po´ strano che, almeno per quanto riguarda le tecniche, non gli obiettivi, di politica economica, siano gli americani, come sembra, ad applicarla con rigore? Succede.

Noi tentammo, tanti anni fa, di introdurre questo concetto nel lessico italiano. Ci riuscimmo anche troppo. Ma soltanto nel lessico. Quella che si chiama ancora «programmazione» finanziaria non è niente altro che una brutale partita di rugby: una ripartizione delle risorse fondata sui rapporti di forza politici nel Governo e burocratici nell´Amministrazione, arbitrata con antica sapienza dalla Ragioneria dello Stato.

Noi ci provammo a cambiare. Dio sa se non abbiamo fatto delle sciocchezze, frutto di presunzione ideologica e di avventatezza politica. Personalmente, non ho mancato di fare pubblicamente e ripetutamente la mia personale autocritica. Pretendere di controllare i flussi finanziari e gli investimenti delle imprese, figuriamoci!. Ma pretendere di programmare la spesa dello Stato non era giacobinismo, era ragione e rigore finanziario e responsabilità democratica. Ne abbiamo fatti, di errori. Ma abbiamo anche lanciato idee giuste che caddero vittima del cinico e sterile sarcasmo italico sul «libro di sogni». Non solo quando proponemmo la programmazione della spesa pubblica «per progetti». Anche quando, per esempio, disegnammo nel Progetto 80 una visione di pianificazione territoriale nazionale che servisse da guida a una scelta razionale dei grandi investimenti sul territorio (aree urbane, aree verdi, reti dei trasporti e delle comunicazioni) che offriva al Paese uno strumento che gli avrebbe evitato tante ignobili devastazioni; e al Governo criteri oggettivi e coerenti per giudicare i grandi investimenti infrastrutturali; invece di correre da una emergenza all´altra, in una continua serie di stress emergenziali che si risolvono in una deprimente paralisi.

Se, magari seguendo il «modello americano» ci provassimo ad uscire dall´emergenzialismo, per riprendere la strada di una programmazione aggiornata e moderna, che utilizzi le esperienze del mondo e della storia?

Che cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? Che cosa ne pensano il Ministro delle Infrastrutture e il Ministro dei Trasporti?

Una vittoria da non svendere

Che senso ha vincere, se i partiti del Centro-sinistra mediano tra chi ha vinto e chi ha perso. Da il manifesto del 29 giugno 2006

«A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina». E' la famosamassima di un vecchio saggio come Giulio Andreotti, il quale, da buon cattolico, ammette che anche il peccato può essere utile. Sarò diffidente e pessimista, ma sentire ieri le dichiarazioni sul dopo referendum e le riforme istituzionbali di Castagnetti, Violante, Fassini, e anche Prodi,mi ha fatto pensar male. Che cosa vuol dire Castagnetti, quando dice che con l'opposizione, «potrà essere avviata non solo una fase di dialogo, ma di convergenza? » Sulla stessa linea Violante e Prodi: visto che abbiamo vinto, adesso trattiamo con i berlusconiani, non per caso nobilitati a opposizione costituzionale. Questo pericolo era lucidamente enunciato nell'editoriale sul manifesto di ieri di IdaDominijanni: «incassare la vittoria del No come autorizzazione a procedere sulla strada delle riforme perseguite in passato».

Era un rischio implicito nello scarso impegno dei partiti nella campagna per il No. Ma ora i partiti rischiano di esagerare volendosi attribuire una vittoria che è stata soprattutto del popolo e mostrano disprezzo per il voto popolare, quando si dichiarano, già oggi, promotori di una trattativa, che in politica volgare suona solo come «inciucio», parola che mi ripugna. Non faccio appello alla brutale massima «bastonare il cane che affoga », ma non si può nemmeno svendere una vittoria straordinaria, importante e popolare. Una vittoria che non consiste solo nella salvezza della Costituzione del 1946 per salvaguardarne e rinvigorire i contenuti, quelli che sono stati alla base dell'intervento pubblico in una economia che non può essere abbandonata al mercato dei potenti, che poi sono diventati piuttosto impotenti, come conferma lo stato attuale dell'economia italiana e, mi si consenta, anche il peso assai ridotto della Confindustria.

Il voto del 25 e 26 di giugno non può essere messo al mercato per un po' di brutti accordi con una opposizione (fino a ieri definita incostituzionale e oggi risanata nonsi sa perché). Ancora una domanda: con questa disposizione a trattare vogliamo dare ossigeno al berlusconismo che nonè certo un fenomeno superficiale, non è l'invasione degli Iksos, ma un male profondo della nostra società. Il programma elettorale dell'Unione non ci aveva fatto andare in visibilio, tuttavia era qualcosa, alcuni impegni li assumeva: questo non va dimenticato. La vittoria del No è stata più forte di quella delle passate elezioni, è stata - scusate l'ardire - persino più importante. Ha dimostrato che questo popolo italiano si sta liberando dalla fascinazioni berlusconiane e, allora? Allora bisogna aiutarlo a credere che Berlusconi non era tutto male e che può essere utile riprendere una trattativa con la sua banda? La vittoria del No è stata grande, importante e poco favorita dai partiti dell'Unione: è stata una vittoria del popolo italiano. Sforziamoci di evitare che possa diventare oggetto di mercanteggiamenti di basso conio.

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