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La lettera di

Piero Fassino

Caro Padellaro,

non mi viene in mente nessun Paese democratico, né di quelli governati dai conservatori, né di quelli governati dai progressisti, dove un capo del governo - nel nostro caso direttamente proprietario di un impero mediatico e finanziario - occupi il suo tempo ad attaccare platealmente una testata che non può controllare, né condizionare direttamente o indirettamente.

È un comportamento molto grave che smentisce una volta per tutte la falsa immagine di un leader politico come Berlusconi che vuole presentarsi agli italiani come capo dei moderati. Non c'è nulla di moderato in questo attacco a l'Unità, né nel tentativo disperato di aggredire, offendere, demolire gli avversari politici e gli organi della stampa libera.

Tenete duro, il più grande partito dell'opposizione - e del Paese - è con voi; sono con voi decine di migliaia di cittadini che leggono l'Unità e i tantissimi italiani che trovano incredibile l'aggressione a cui la vostra testata è sottoposta. Continuate nell'opera preziosa di far vivere ogni giorno un'informazione libera e seria.

Nessuna intimidazione vi potrà fermare nel fare onestamente il vostro lavoro e il 9 aprile, ne sono convinto, gli italiani manderanno in archivio Berlusconi e le sue pulsioni autoritarie e populiste.

Buon lavoro.

Perché ci odia

di Antonio Padellaro

Caro Fassino,

Grazie per le tue parole di solidarietà, forti come quelle che in questi giorni abbiamo letto in centinaia di messaggi dei nostri lettori e nelle espressioni dei tanti amici che, domenica, ci aiuteranno a distribuire Unità, con lo stesso slancio ideale che ha segnato i momenti più importanti della storia di questa gloriosa testata. È vero: in nessun Paese democratico c’è un premier che passa il tempo ad aggredire un giornale dell’opposizione. In Francia uno scandalo del genere sarebbe impensabile, ci ha detto Marcelle Padovani, corrispondente in Italia del Nouvel Observateur. Uguale sconcertato stupore abbiamo colto nei giudizi di tante altre firme della stampa internazionale che non sanno più come spiegare questa inarrestabile progressione di minacce e di insulti da parte del presidente del Consiglio.

Due domande ci pongono i nostri colleghi stranieri. Perché Berlusconi odia l’Unità?. Ma, soprattutto: come mai tanto silenzio? Nei loro Paesi, infatti, sarebbe sufficiente un moto d’insofferenza nei confronti di un qualunque giornalista da parte di Chirac o di Blair o di Zapatero o della Merkel per scatenare l’insurrezione di tutti gli altri media. Qui da noi, invece, davanti alle offese e alle intimidazioni che da cinque anni, costantemente, Berlusconi rivolge contro l’Unità (come raccontiamo nel dossier allegato al giornale di domani), praticamente, non si sente volare una mosca. Noi pensiamo che i due interrogativi siano in qualche modo intrecciati poiché scaturiscono da quella grande, devastante, permanente anomalia che è il conflitto di interessi del premier. Che come scrivi, oltre a essere il proprietario dell’impero mediatico e finanziario che sappiamo, controlla, direttamente o indirettamente un’altra larga fetta dell’informazione scritta e radiotelevisiva.

Sia chiaro: nessuno mette in discussione onestà e qualità professionali dei giornalisti che lavorano in quelle importanti testate. Ma, francamente, ci si può aspettare che quei bravi colleghi si mettano a criticare per le accuse rovesciate sull’Unità il loro datore di lavoro? Che è anche il capo del governo. E uno degli uomini più ricchi del pianeta. Dunque, è già molto se dell’argomento evitano di fare cenno.

C’è poi un altro atteggiamento che chiameremo dell’indifferenza voluta e che ritroviamo, spesso, tra le righe di quella libera stampa fortunatamente ancora forte e diffusa nel nostro Paese. È una regola non scritta che suggerisce di non dare troppo spago all’Unità, che resta pur sempre un giornale concorrente. E se Berlusconi insulta il nostro giornale, lo si oscura. Ce lo ha gentilmente spiegato un’autorevole intervistatrice quando le abbiamo domandato come mai davanti all’incredibile accusa del cosiddetto cavaliere di avere noi (comunisti) in qualche modo sobillato un attentato contro la sua persona, lei non abbia replicato alcunché. Risposta testuale: sarebbe stato di scarso interesse per il telespettatori consentirgli di ricominciare daccapo, sempre sul prediletto terreno del «comunismo».

Beh, questa del premier censurato per non fargli dire troppe bestialità la dice lunga sulla credibilità del personaggio; ma anche sul ruolo, qualche volta improprio, giocato dall’informazione. Che in un qualsiasi altro Paese si porrebbe piuttosto il problema di come incalzare il premier; di come replicare punto per punto ai suoi foglietti propagandistici; di come indicarlo esporlo alla pubblica riprovazione nel caso dicesse, mentendo, che un giornale vuole la sua morte.

Ecco che allora Berlusconi ci detesta, non perché siamo comunisti (lo sa bene che è una stupidaggine) ma perché gli mostriamo per intero i suoi fallimenti interferendo con l’inclinazione a falsificare i fatti quando non lo soddisfano. Siamo un’ossessione perché lui legge sull’Unità (la legge eccome) quella evidenza che lo fa soffrire e che gli viene nascosta. Spiega bene lo psicanalista Mauro Mancia che Berlusconi è dominato dall’impulso di manipolare la verità quando è scomoda; di negare la realtà quando non gli piace per sostituirla con una pseudo realtà. Non ci sopporta perchè l’Unità titola che è stato «sbugiardato» sul caso Unipol mentre altrove la figuraccia in procura viene edulcorata. Perché le domande dei giornalisti dell’Unità lo fanno uscire dai gangheri. Perché non abbiamo paura di lui. E forse ci odia perché non lo amiamo.

Questo, caro Fassino, cerchiamo di spiegare ai colleghi della stampa estera quando ci interrogano increduli su quanto ci accade intorno. Fiduciosi con te che tra qualche settimana tutto questo sarà solo un brutto ricordo.

Titolo originale: Bird flu's spread in east Turkey – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

DOGUBAYAZIT, Turchia – Circa tre settimane fa, i polli hanno cominciato a morire in quantità bibliche nella cittadina di Diyadin in Turchia orientale, ha detto lunedì Mehmet Yenigun. In due giorni, racconta l’abitante del villaggio, tutti gli uccelli - migliaia – erano morti.

Gli allevatori allarmati sono corsi dai responsabili locali a riferire della “peste” cercando aiuto e informazioni. Ma uno dei funzionari era in vacanza. Un altro, il veterinario regionale, ha annotato i particolari e risposto che qualcuno sarebbe andato a indagare. Sinora non è arrivato nessuno.

”Potrebbe essere influenza aviaria?” ha chiesto uno degli allevatori. Gli è stato risposto “No, non preoccupatevi di questo”.

Yenigun ha fatto quello che fanno da secoli i contadini in queste alte colline coperte di neve: insieme alla moglie e ai sei figli, hanno macellato e mangiato i loro 12 polli. Ha buttato due piccioni oltre la recinzione. “Non so, forse li hanno portati via i cani” dice. Questo potrebbe aver iniziato a diffondere l’infezione.

Domenica, finalmente, i funzionari riferiscono l’apparire dell’influenza a viaria nella provincia di Agri, che comprende il villaggio di Diyadin, anche se non hanno ancora rilevato il caso di Diyadin stessa.

La lentezza della risposta, dicono gli esperti, ha contribuito al consolidarsi dell’influenza nelle vaste zone orientali del paese. Ha consentito alla malattia di spostarsi da un villaggio all’altro incontrollata e – nell’ultima settimana – di passare dagli uccelli all’uomo. Sinora sono stati confermati quindici casi.

Nessuno dei sei figli di Yenigun si è ammalato. Ma qui vicino a Dogubayazit, Zeki Kocyigit e sua moglie questa settimana hanno seppellito tre dei quattro figli. Tutti morti di influenza aviaria. Il quarto, che si presume abbia contratto l’influenza giocando coi polli della famiglia, è tornato a casa lunedì dopo più di una settimana in ospedale.

”La sfortuna nel caso della Turchia è che le persone hanno iniziato a morire prima che i funzionari scoprissero l’esistenza dell’influenza aviaria nella regione” dice Ahmet Faik Oner, responsabile di pediatria al Van Hospital, che ora sta curando sette persone colpite dall’influenza, e si è preso cura dei tre fratellini morti. “Se lo scoppio della malattia fosse stato identificato prima, e fossero state prese immediatamente le precauzioni necessarie, le cose avrebbero potuto avere sviluppi diversi”.

Nella loro linda casa di cemento di due stanze alla periferia di questa attiva cittadina di confine, mentre aspettava l’arrivo del figlio sopravvissuto, Marifet Kocygit singhiozzava sul letto. Suo marito, Zeki Kocygit, dice che non avevano sentito parlare dell’influenza aviaria alla fine di dicembre, quando loro figlio si ammalò. “Naturalmente i miei figlio giocano coi polli: sono bambini” dice Zeki Kocyigit, disoccupato e che va in città ogni giorno per cercare lavori.

Molti abitanti della regione considerano i bambini come dei martiri le cui morti finalmente hanno attirato l’attenzione sulle loro sofferenze. “È necessario che muoiano dei bambini perché la pubblica amministrazione si occupi di noi?” chiede Yenigun.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che dall’influenza aviaria in Turchia sono state infettate 15 persone. Di questi, cinque casi – riferisce il Ministero della Sanità turco lunedì – sono giudicati “preliminarmente positivi” dato che l’organizzazione non ha ancora ricevuto informazioni sufficienti a riguardo, riferisce Maria Cheng, portavoce della OMS. Un gruppo di lavoro che ha iniziato a indagare si casi ha affermato in un primo tempo che i casi erano causati da “contatto diretto con pollame malato” sostiene Cheng. Ma aggiunge: “Naturalmente stiamo ancora indagando sulla possibilità di trasmissione da umano a umano”.

Il bilancio turco su quante regioni siano state colpite, secondo i funzionari internazionali è incompleto, ma si tratta di quantità in crescita a macchie di leopardo.

La scorsa settimana solo in due o tre località venivano riferiti dei casi. A lunedì, 12 villaggi hanno confermato la malattia, con estensione dalla città di Van nell’estremo oriente sino a Bursa, vicino a Istanbul, a 1.600 chilometri di distanza. Come risposta sono stati abbattuti secondo il Ministreo dell’Agricoltura 106.000 uccelli.

Oltre a questi focolai, ha annunciato lunedì il governatore di Istanbul, Muharrem Guler, è stata diagnosticata l’influenza aviaria su uccelli in tre distretti della città, di 12 milioni di abitanti, anche se non è ancora chiaro se siano portatori della più pericolosa variante H5N1. In queste aree sono già in corso abbattimenti, ha annunciato.

Quando viene individuata l’influenza aviaria, gli animali nella zona colpita devono essere rapidamente eliminati per prevenire la diffusione della malattia. Le persone devono mantenere la massima allerta riguardo ai sintomi della malattia negli animali e prendere precauzioni quando entrano in contatto con essi.

Oltre ai 15 casi confermati, dice il governatore, ci sono oltre 20 persone negli ospedali di Istanbul che potrebbero essere ammalate:tre dei casi sono considerati altamente sospetti dato che le persone colpite sono arrivate da poco in città; avevano avuto contatti coi polli in una zona vicino alla città di Van.

Ma non è chiaro come la malattia si sia estesa in modo così violento nel paese, sostengono i funzionari delle Nazioni Unite. Anche ora, qui nelle aree più gravemente colpite, molti abitanti sostengono che le operazioni di controllo sono ancora casuali.

Mukaddes Kubilay, sindaco di Dogubayazit, dice che i funzionari locali si sono resi conto dell’influenza aviaria solo il 31 dicembre organizzando immediatamente un centro di crisi per coordinare l’abbattimento. Non ci sono più uccelli ora, dice.

In teoria, gli allevatori vengono risarciti per gli animali eliminati: ricevono circa 5 lire turche per ogni pollo, e 20 lire per un tacchino nella provincia di Agri, ad esempio. Ma gli allevatori devono fare richiesta per questi indennizzi dopo che gli uccelli sono stati prelevati, e molti dipendono dai polli per le uova e l’alimentazione quotidiana.

Nella città di Caldiran, alcuni abitanti riferiscono che le persone si tengono i polli nonostante l’ordinanza di abbattimento. “Se si hanno 15 polli se ne danno 10 per far contente le autorità” dice Nesim Kacmaz, che gestisce un negozio per l’alimentazione animale. “Credono ancora che non gli succederà niente”.

Alla realizzazione di questo articolo ha contribuito anche Seb Arsu del New York Times.

here English version

SE SI guarda alla storia del lavoro, i metalmeccanici – le tute blu – non sono una categoria di operai tra le altre. Sono l´Operaio. L´operaio è anzitutto un corpo umano al quale si chiede, da oltre due secoli, di compiere su dei pezzi di metallo alcune operazioni, semplificate al punto da poter essere eventualmente affidate a una macchina. In seguito a ciò diventa possibile costruire una macchina che provvede a render superfluo l'operaio.

Prima dell´operaio - è il caso che riporta Adam Smith in La natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) - uno spillo veniva fabbricato da un solo lavoratore, il quale stirava il filo d´acciaio, lo tagliava di misura, forgiava la testa dello spillo, appuntiva l´altra estremità, lucidava il tutto e lo incartava. Poi qualcuno scoprì che facendo svolgere ciascuna operazione da un singolo lavoratore la capacità di fabbricare spilli – quella che si sarebbe chiamata produttività – poteva aumentare di centinaia di volte. Con la divisione del lavoro applicata in modo spinto alla fabbricazione di spilli era nato il moderno metalmeccanico.

La macchina che fabbricava da sola gli spilli fu inventata davvero qualche tempo dopo, per cui gli operai del settore persero il lavoro. Successivamente un processo analogo si è ripetuto in molti altri campi. Non solo nella fabbricazione di parti metalliche, ma anche nel loro montaggio o assemblaggio per giungere a un prodotto finito. All´inizio del Novecento un ingegnere statunitense, Frederich W. Taylor, perfezionò la divisione del lavoro nelle officine introducendo un nuovo principio: pensare nuoce alla produttività. Chi usa le braccia per lavorare non deve pensare a quello che fa. Questo compito spetta soltanto alle direzioni d´officina. I loro uffici "tempi e metodi" sono centri di scienza organizzativa, incaricati di studiare come far muovere il corpo e le membra dell´operaio nel modo scientificamente più appropriato, allo scopo di ricavare da esse una maggior produttività.

Poco dopo la sua concezione teorica, la divisione del lavoro di tipo tayloristico, nel duplice senso di scomposizione d´un mestiere in operazioni elementari e ripetitive, e di drastica separazione tra ideazione ed esecuzione, veniva applicata su larga scala nelle officine Ford di Detroit sotto forma di catena di montaggio (1913). L´oggetto in fabbricazione – in questo caso un´auto, ma lo stesso sistema verrà presto adottato in ogni settore produttivo – scorre su un nastro meccanico davanti al lavoratore. Questo non deve far altro che compiere alcuni gesti elementari, purché si muova con la rapidità necessaria a non farsi scappare il pezzo che avanza sulla catena. Per vari aspetti i robot di oggi sono stati prefigurati allora. Le attuali braccia meccatroniche non compirebbero i movimenti sapienti che avvitano e verniciano, posizionano e montano pezzi complicati, se non fossero stati prima concepiti come movimenti delle braccia di operai addetti alle catene di montaggio.

Operai che però hanno anche una mente, la quale non ha mai gradito di venire consultata sul lavoro il meno possibile, perché così le manifatture prosperano di più, né di vedere il corpo che la ospita trasformato, insieme con quello dei compagni, in una parte di una grande macchina. Un´osservazione risalente ad un autore che influenzò non poco Marx, Adam Ferguson, il quale nel Saggio sulla società civile del 1767 denunciava pure la «disparità di condizioni e ineguale coltivazione della mente» che derivava da una avanzata divisione tecnica del lavoro.

Ci hanno provato spesso, i metalmeccanici, a ridurre la disparità di condizioni che deriva dal lavoro suddiviso in fasi insignificanti, e a introdurre in fabbrica una maggior possibilità di coltivare la mente. Lo hanno fatto con gli scioperi contro l´organizzazione parcellare del lavoro, dalla Renault di Billancourt del 1912 sino alla Fiat di Melfi del 2004, uno stabilimento in cui il tradizionale ufficio tempi e metodi che stabiliva imperativamente con quale angolo, e a quale velocità, bisogna muovere il braccio sinistro o la gamba destra, è stato sostituito da un computer; non è chiaro se con un tocco di umanità in più o in meno. Si sono opposti al lavoro insignificante, i metalmeccanici, anche specializzandosi in nuove professioni, come quelle che consistevano nel fabbricare parti dal raffinato e complesso disegno guidando a mano, con l´occhio al centesimo di millimetro, macchine utensili come torni e frese, rettifiche e piallatrici. Oppure, ancor sempre a mano, costruendo al banco, a forza di passaggi con lime e altri attrezzi via via più fini, prodigi di precisione come gli stampi destinati alle presse che ricavano dalla lamiera ogni sorta di sagome.

Sono professioni meccaniche durate una generazione o più, ma via via rese ridondanti, e gli operai specializzati con esse, dall´avvento di macchine sempre più indipendenti dall´operatore. Tornitori, fresatori e compagni sono stati quasi ovunque sconfitti, sin dagli anni ´50 del Novecento, dall´arrivo delle macchine utensili automatiche, poi dalle batterie di teste operatrici a trasferimento automatico, infine dai sistemi flessibili di produzione. Negli anni ´60 i mestieri di aggiustatori e attrezzisti sono stati eliminati dal controllo numerico - macchine che eseguono lavorazioni complicate sotto la guida di un programma elettronico. E per i mestieri restanti sono arrivati i robot.

C´è tuttavia qualcosa, nel corpo e nella mente dei metalmeccanici che hanno reso possibile con i loro successivi adattamenti l´industria moderna, che sembra proprio non possa essere trasferito alle macchine. E che forse spiega come siano ancora tanti, più di un milione e ottocentomila, e producano ancora, in Italia, immense quantità di manufatti all´anno: 27 milioni di tonnellate d´acciaio, oltre 20 milioni di elettrodomestici, 1 milione di auto, decine di migliaia di macchine che sanno fare di tutto, da produrre altre macchine a inscatolare biscotti. Tempo fa vi furono tecnici di produzione che puntavano a realizzare stabilimenti dove non c´era nemmeno bisogno di accendere la luce, perché erano interamente automatizzati. Ma quei pochi che riuscirono a costruire si rivelarono un mezzo disastro, e la maggior parte di simili progetti è stato abbandonato. Perché non c´è robot o automatismo che possa sostituire l´occhio e l´ascolto d´un operaio, allenati a distinguere ciò che a un dato momento funziona bene o male in un impianto in marcia; né la sua manualità che sa individuare e riparare difetti di qualità del prodotto. E meno che mai la sua conoscenza implicita dei mille snodi in cui le parti in produzione, i sistemi automatici, i tempi e i cicli e gli arrivi di materiali giusto in tempo dai fornitori si intersecano e si completano, ma non di rado si complicano e si disturbano a vicenda, sino a che l´intero processo s´inceppa. A meno che non intervenga la capacità del metalmeccanico di turno di capire e rimediare in tempo. Ad onta di chi vorrebbe che la sua mente fosse consultata il meno possibile, o di chi pensa che i metalmeccanici siano figure del passato.

La vigilia di Natale è, obbligatoriamente, quella degli auguri: di Natale e di buon anno. Io e tutti noi del manifesto facciamo senza esitazione i migliori auguri a Prodi e al suo governo (le critiche le abbiamo già fatte e non le dimentichiamo).

Ma gli auguri, se non debbono ridursi a formale retorica, debbono anche tener conto della situazione del soggetto al quale si fanno gli auguri. Ora Prodi è riuscito a portare in porto la finanziaria. È difficile giudicarla ottima, tuttavia ottenuto il voto la situazione di Prodi diventa più difficile. I vari e diversi soci dell'Unione, che finora erano obbligati a sostenere la finanziaria e quindi il governo, ora che la finanziaria è fatta si sentono più liberi e più attenti ai loro interessi particolari. Dall'altra parte anche l'opposizione ora che non corre più il rischio di assumersi la responsabilità della finanziaria (anche per lei sarebbe stato un problema non di poco peso) si sente più libera e più aggressiva. Il 2007 non si annuncia tranquillo.

L'altro giorno Prodi al Tg1 ha dichiarato, con un po' di arroganza, che «non si governa per essere popolari, ma per cambiare il paese». Mi viene da dire che il paese non si cambia senza il consenso del popolo, che è vario. Ma Prodi, subito, aggiunge che le priorità per il 2007 sono le riforme economiche. Domanda d'obbligo: quali? Andrebbe subito detto, al popolo, quali riforme. Dicendo anche a quale parte del popolo la riforma (da definire) porta vantaggio e per quale altra parte del popolo comporta un costo.

In una società complessa (un popolo) non ci sono riforme che fanno il bene di tutti e, pertanto, hanno anche un costo per chi le riforme le vuole e le attua. Mi pare utile ricordare che nel 1950, sotto la pressione delle lotte contadine e bracciantili, la Democrazia Cristiana approvò una riforma agraria e vale ancora ricordare che quella riforma segnò la rottura del blocco del 18 aprile del 1948: e produsse una notevole perdita di voti da parte della Dc ed emersero missini e monarchici.

Questo per dire che quando si parla - come fa Prodi - di riforme non si tratta di regalie a tutti, al ricco e al povero, ma di danneggiare qualcuno a vantaggio di qualche altro. Senza questa coscienza e questa sincera precisazione, le riforme rischiano di essere - anzi sono - parole al vento.

Allora, rinnoviamo i più sinceri e interessati auguri a Romano Prodi, ma, allo stesso tempo, gli chiediamo di essere più chiaro sulle annunciate riforme: quali, a quale prezzo? Prodi insiste a dire che l'obiettivo del suo governo è «far crescere l'Italia». Ottimo, ma a vantaggio di chi e a spese di chi? L'interrogativo è d'obbligo tanto più che la finanziaria approvata non manca di confusioni e equivoci.

Se si parla, e a ragione, di separazione della società dalla politica questo dipende anche dal fatto che la politica è assai poco «chiara e distinta». Poi, sullo sfondo, c'è la questione delle pensioni: sarebbe assurdo che il positivo allungamento della vita media invece che un successo di tutti debba essere un danno per chi ha lavorato e non è morto secondo i calcoli attuariali del passato. Dobbiamo dire: si stava meglio quando si moriva prima?

Se c´era bisogno (e non ce n´era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un´ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell´ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).

E alla fine, per non far mancare nulla all´indimenticabile occasione storica, fuochi d´artificio come a Piedigrotta nell´illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna.

Mario Merola, con tutta l´indecorosa ammuina, non c´entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell´ora dell´addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell´oggi, un´identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.

Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov´è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell´inerzia di troppi. Per accettare quest´atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un´icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.

Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l´assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».

Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell´uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell´illegalità, scava un solco tra l´illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz´e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.

Può essere l´illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l´illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l´uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all´anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata… il mio lungo viaggio», spiega che «l´uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».

Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore – "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.

Roma, Torino, Firenze, Bologna. La protesta dei sindaci delle grandi città - e altre sono già in fila per aggiungersi al sofferente coro - contro una legge finanziaria giudicata «insostenibile» non è né inedita né sorprendente; eppure può essere dirompente per il già fragilissimo equilibrio del governo e della sua maggioranza. Non è inedita: gli stessi sindaci hanno detto le stesse cose quando, una finanziaria dopo l'altra, il governo centrale ha tagliato loro i viveri. Non è sorprendente, anche se viene da esponenti della stessa maggioranza che sostiene Prodi: già negli scorsi anni contro Berlusconi con i sindaci del centrosinistra protestarono anche quelli del centrodestra, a dimostrazione del fatto che la materialità di alcuni problemi e la vicinanza ai propri elettori fa premio (per fortuna) sulle esigenze di bottega politica nazionale. Ha una carica dirompente: i quattro sindaci in questione - tutti dei Ds, il primo partito della coalizione; tutti molto popolari; tutti con statura politica nazionale; e, tra loro, uno che rappresenta tutti i comuni d'Italia e l'altro che è candidato perenne nella panchina dei leader - hanno un peso politico rilevantissimo. E potenzialmente sovrastante, rispetto a quello di un Prodi fiaccato dal caso Telecom e appannato dalla trattativa sulla finanziaria (senza parlare delle secche nelle quali si trova il progetto del partito democratico).

Forse è presto per dire che sulla legge finanziaria sono già iniziate le grandi manovre in vista del dopo-Prodi (anche se in questo senso c'è più di un indizio); ma certo sono in pieno corso le manovre del dopo-finanziaria. Gli industriali, che hanno ottenuto quel che volevano sulla riduzione del cuneo fiscale, piangono sul Tfr da versare; la sinistra radicale, soddisfatta sull'impatto redistributivo della manovra fiscale, va all'attacco sul ticket al pronto soccorso; gli autonomi si preparano a ogni forma di pressione per scampare ai nuovi rigori; i sindaci, ai quali sono stati tolti soldi oggi in cambio di nuove entrate domani, chiedono un cambiamento di rotta radicale; in più, tutti i partiti più o meno di centro si autoeleggono rappresentanti dei presunti ceti medi e chiedono ribassi delle aliquote al di sopra dei 75mila euro l'anno.

In questo contesto, il governo - Prodi - ci tiene a tener fermo un solo punto: il saldo di bilancio. Con il rischio che, alla fine del percorso, una manovra di grandissimo volume ma dall'identità non chiarissima resti identica nel volume ma senza nessuna identità. Quella che entra in parlamento non è la Finanziaria di Robin Hood, che toglie ai ricchi per dare ai poveri: è una Finanziaria che cerca di toccare l'area grigia e nera dell'evasione, che per la prima volta da anni cerca di colpire un po' di più chi ha di più, che rimette un po' di ordine nel caos ereditato dal governo precedente. Ma è anche una Finanziaria che taglia i fondi agli enti locali - cioè ai servizi sociali - che taglia la spesa sanitaria, che non rilancia né scuola né ricerca. E soprattutto che non dice il perché di questi sacrifici, l'obiettivo finale: il risanamento? lo sviluppo? il welfare? il mercato? Nel '96-'97 l'obiettivo era uno solo: l'Europa, anzi l'euro. Raggiunto quello, non se n'è ancora trovato un altro. Se ci fosse, forse anche la mediazione con le tante proteste - più o meno giuste - sarebbe al rialzo e non al ribasso.

La forza di interposizione è partita, non senza lasciare nelle relative patrie chi ne auspica più che temere il fallimento. Lo auspica chi è persuaso, in Israele e fuori di Israele, che sia opportuno un secondo round per farla finita con gli Hezbollah; sono gli stessi che vorrebbero si facesse bellicosamente finita con Hamas, e si mettessero museruole alla Siria e all'Iran. Sul lato opposto e reciproco stanno coloro che sospettano nell'accordo sull'interposizione tutto un imbroglio fra occidente e Usa, via Israele e auspicano una ripresa del conflitto che veda una vittoria degli Hezbollah, un irrigidimento di Hamas e muscolose affermazioni della Siria e dell'Iran.

Noi, che non siamo nati ieri, siamo lontani dall'ignorare la fragilità - a prescindere da ogni tesi complottistica - dell'accordo, che incidenti anche non premeditati possono mettere in causa, inducendo una spirale incontrollabile. Ma sicuri che in Medio Oriente essa non risolva nulla, puntiamo decisamente sul successo della spedizione per alcuni buoni motivi. Primo la consapevolezza, che ci sembra crescente, che occorra risolvere la questione palestinese, nodo centrale finora negato: restituire ai palestinesi la terra entro i confini del 1967 e garantire la sicurezza di Israele. Sono due questioni correlate, perché la Palestina ricominci (per un'intera generazione si tratta appena di cominciare) a vivere nella pace e perché gli israeliani cessino di sentirsi in stato d'assedio.

Sono interessanti, per prima cosa, i movimenti abbozzati da Hamas anche per quanto riguarda Gaza, perché spostano decisamente la questione dal «chi ha cominciato per primo» al «come possiamo convivere», non era così sicuro che accadesse, e dimostra che l'intervento europeo e dell'Onu, per quanto timido e tardivo, riapre i giochi. In questo quadro è interessante anche una modifica delle abituali dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad, che per la prima volta ha smesso di farneticare la scomparsa di Israele e ha dichiarato che il suo paese non ha intenzione di usare dell'energia nucleare contro nessuno, neppure il «nemico sionista». Poco, ma meglio che niente. In secondo luogo, Israele ha subìto una ferita di immagine che ne spezza la presunzione di invincibilità, cattiva consigliera per tutti. E' vero che l'agitazione che vi imperversa è marcata soprattutto dalla destra e da una volontà di rivincita, della quale sembrano far parte le colpe vere o presunte imputate dal governo nei confronti dell'esercito o dall'esercito stesso nelle persone del suo stato maggiore - colpe che non paiono, a questo momento, essere impugnate da una spinta pacifista che chieda una inversione di tendenza, almeno per quanto siano in grado i media di un paese sotto choc di darne correttamente notizia. Che la forza di interposizione tenga, significa dare anche tempo al travaglio interno a Israele di decantare, senza precipitare un rovesciamento del governo e un'elezione anticipata che oggi la rimetterebbe assai probabilmente in mano a Nethanyau.

Terzo punto, ma non da poco, l'essere gli Stati uniti in una situazione di scacco da tutte le parti: non sono battuti come in Vietnam, ma non riescono a diminuire il numero dei loro che cadono in Afghanistan e in Iraq, e non sono felicissimi i rapporti neanche con i loro governi fantoccio. Non sanno come tirarsene fuori senza perdere la faccia e il petrolio di Dick Cheney e altri. L'Iraq è stato pensato e attuato anche come un colossale affare, ma la condizione era che la guerra fosse rapidamente vinta e una guerriglia non sorgesse o fosse facilmente domata. Ancora una volta i famosi servizi di informazione della Cia non hanno capito né previsto. La mancata elezione del senatore democratico e (o ma) guerrafondaio Lieberman è uno spettro che aleggia assai minacciosamente sulle prossime elezioni autunnali di medio termine.

Insomma, c'è uno smuoversi delle ferree posizioni politiche che parevano irriducibili fino a ieri. Forse è anche questo che ha dato coraggio a Kofi Annan. E' stato giusto imboccare questa strada stretta per tentare una svolta in Medio Oriente, se ai primi passi seguirà davvero il ritiro dall'Iraq, e si prenderà in considerazione quello dall'Afghanistan - Non basta un avallo strappato dagli Usa all'Onu a cose fatte, pagine poco gloriose del Palazzo di vetro - e ha sempre meno senso chiamare quella a Kabul una missione di pace. Hanno ragione i deputati di Rifondazione e (per una volta) il rampognato ministro Mastella. Chi scrive non è abitualmente una ammiratrice di Massimo D'Alema, ma la linea di politica estera che sta imprimendo al governo è buona. Sarebbe bello che ci fosse chi fa lo stesso in tema di finanziaria.

Il documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) è ormai un inevitabile tormentone estivo. Alcuni pensano che potrebbe essere evitato, fondendolo con quell´altro davvero inevitabile appuntamento di settembre: la legge finanziaria.

Ma la ragione delle distinzione tra i due momenti mi sembra logica. Nel primo si determinano le linee generali della politica economica del governo e la portata complessiva della manovra finanziaria impegnando, sulla base di una visione globale della situazione economica del Paese, Governo e Parlamento all´osservanza di limiti non più discutibili della spesa e della pressione fiscale. Si fissa così una cornice entro la quale ogni amministrazione dovrà collocare e potrà misurare la portata delle sue esigenze. Tra i due momenti ci deve essere un certo tempo; e quello, per giunta estivo, che corre tra DPEF e legge finanziaria, sembra appena sufficiente.

Il Governo ha assolto il compito relativo alla prima fase. Come? Luigi Spaventa ha illustrato con chiarezza su Repubblica del 27 luglio i meriti del DPEF, nonché gli interrogativi che suscita la manovra macroeconomica prevista; e ai quali si potrà dare risposta soltanto con la legge finanziaria. Problemi che riguardano la coerenza quantitativa della manovra economica che la legge finanziaria dovrà, ovviamente, precisare e verificare.

Vi è poi l´aspetto qualitativo: quello degli obiettivi che si intende dare alla spesa pubblica, con riferimento ai problemi economici e sociali del Paese. Ci si può chiedere se le procedure attraverso le quali le Amministrazioni fissano i loro obiettivi e il Ministro dell´Economia e il Governo, finalmente, determinano le relative priorità, siano i più appropriati per un paese moderno. Io non lo credo.

Negli Stati Uniti e in molti paesi europei obiettivi e priorità della spesa pubblica sono determinate, da tempo ormai, con una procedura di programmazione basata sul calcolo dei costi e dei benefici economici e sociali degli interventi previsti. Questa programmazione strategica per obiettivi, distinta da quella tradizionale amministrativa, per competenze, è un processo permanente, non una sgobbata estiva, che impegna tutti i centri di spesa a dare e a darsi conto con continuità, in termini non solo finanziari e quantitativi, ma economici e qualitativi, dei risultati attesi e di quelli realizzati, valendosi di certi indicatori.

In un libro (Per restare in Europa, Utet, Torino) Franco Reviglio si sofferma ampiamente sulle disfunzioni della spesa pubblica italiana. Per esempio, nel campo della sanità (i fattori patologici della lievitazione sanitaria, la maldistribuzione dei posti letto, i prezzi troppo elevati e le forniture disparate agli ospedali, gli sprechi nell´utilizzo dei farmaci, i lunghi tempi di attesa); nel campo previdenziale ( fattori che determinano una spesa elevata e crescente senza evidenti benefici: numero di pensioni eccessivo, discrasia tra spesa e contributi, eterogeneità di trattamenti e diseguaglianze distributive, onerosità eccessiva del debito pensionistico). E poi le disfunzioni dell´assistenza, dell´istruzione, dei servizi pubblici, qui non voglio farla troppo lunga, meglio leggere il libro. Non dovrebbe, proprio la legge finanziaria essere il momento in cui l´insieme di questi problemi viene misurato, per dar conto concreto dell´efficienza e della equità della spesa pubblica italiana?

Nella nostra legge finanziaria questa elementare esigenza di programmazione viene ridotta alla misurazione della sostenibilità economica della spesa e al vincolo che ad essa è posto (per fortuna!) dalla Commissione Europea. E poiché è ovvio che quel vincolo impone limiti severi alla spesa, si riduce il problema ai «tagli» della spesa, e a come distribuirli tra le varie grandi categorie; senza precisare e misurare le azioni concrete e specifiche dirette ad aumentare la produttività dei servizi e a ridurne i costi. Si è giunti, durante la precedente legislatura, fino alla ridicola pretesa di tagliare la spesa di tutti i Ministeri del due per cento. Questa è stata la programmazione del precedente governo, clamorosamente fallita, del resto, insieme alle furbate e ai trucchi della finanza creativa.

E´ augurabile che il nuovo Governo, così come ha cominciato a fare con le riforme liberalizzatrici, realizzi, con lo sguardo rivolto un po´ al di là delle eterne emergenze, una riforma della legge finanziaria ispirata a quella, da molti anni introdotta in America, della programmazione strategica (strategic planning). Perché non inviare una commissione a Washington (per carità, di dimensioni ridottissime e approfittando del cambio favorevole) di esperti che studino, una buona volta, «il modello americano»? E vedano se, per caso, possiamo imparare qualche cosa, non solo dalla CIA, ma anche dal Bureau of Budget?

Programmazione. Non è un po´ strano che, almeno per quanto riguarda le tecniche, non gli obiettivi, di politica economica, siano gli americani, come sembra, ad applicarla con rigore? Succede.

Noi tentammo, tanti anni fa, di introdurre questo concetto nel lessico italiano. Ci riuscimmo anche troppo. Ma soltanto nel lessico. Quella che si chiama ancora «programmazione» finanziaria non è niente altro che una brutale partita di rugby: una ripartizione delle risorse fondata sui rapporti di forza politici nel Governo e burocratici nell´Amministrazione, arbitrata con antica sapienza dalla Ragioneria dello Stato.

Noi ci provammo a cambiare. Dio sa se non abbiamo fatto delle sciocchezze, frutto di presunzione ideologica e di avventatezza politica. Personalmente, non ho mancato di fare pubblicamente e ripetutamente la mia personale autocritica. Pretendere di controllare i flussi finanziari e gli investimenti delle imprese, figuriamoci!. Ma pretendere di programmare la spesa dello Stato non era giacobinismo, era ragione e rigore finanziario e responsabilità democratica. Ne abbiamo fatti, di errori. Ma abbiamo anche lanciato idee giuste che caddero vittima del cinico e sterile sarcasmo italico sul «libro di sogni». Non solo quando proponemmo la programmazione della spesa pubblica «per progetti». Anche quando, per esempio, disegnammo nel Progetto 80 una visione di pianificazione territoriale nazionale che servisse da guida a una scelta razionale dei grandi investimenti sul territorio (aree urbane, aree verdi, reti dei trasporti e delle comunicazioni) che offriva al Paese uno strumento che gli avrebbe evitato tante ignobili devastazioni; e al Governo criteri oggettivi e coerenti per giudicare i grandi investimenti infrastrutturali; invece di correre da una emergenza all´altra, in una continua serie di stress emergenziali che si risolvono in una deprimente paralisi.

Se, magari seguendo il «modello americano» ci provassimo ad uscire dall´emergenzialismo, per riprendere la strada di una programmazione aggiornata e moderna, che utilizzi le esperienze del mondo e della storia?

Che cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? Che cosa ne pensano il Ministro delle Infrastrutture e il Ministro dei Trasporti?

Una vittoria da non svendere

Che senso ha vincere, se i partiti del Centro-sinistra mediano tra chi ha vinto e chi ha perso. Da il manifesto del 29 giugno 2006

«A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina». E' la famosamassima di un vecchio saggio come Giulio Andreotti, il quale, da buon cattolico, ammette che anche il peccato può essere utile. Sarò diffidente e pessimista, ma sentire ieri le dichiarazioni sul dopo referendum e le riforme istituzionbali di Castagnetti, Violante, Fassini, e anche Prodi,mi ha fatto pensar male. Che cosa vuol dire Castagnetti, quando dice che con l'opposizione, «potrà essere avviata non solo una fase di dialogo, ma di convergenza? » Sulla stessa linea Violante e Prodi: visto che abbiamo vinto, adesso trattiamo con i berlusconiani, non per caso nobilitati a opposizione costituzionale. Questo pericolo era lucidamente enunciato nell'editoriale sul manifesto di ieri di IdaDominijanni: «incassare la vittoria del No come autorizzazione a procedere sulla strada delle riforme perseguite in passato».

Era un rischio implicito nello scarso impegno dei partiti nella campagna per il No. Ma ora i partiti rischiano di esagerare volendosi attribuire una vittoria che è stata soprattutto del popolo e mostrano disprezzo per il voto popolare, quando si dichiarano, già oggi, promotori di una trattativa, che in politica volgare suona solo come «inciucio», parola che mi ripugna. Non faccio appello alla brutale massima «bastonare il cane che affoga », ma non si può nemmeno svendere una vittoria straordinaria, importante e popolare. Una vittoria che non consiste solo nella salvezza della Costituzione del 1946 per salvaguardarne e rinvigorire i contenuti, quelli che sono stati alla base dell'intervento pubblico in una economia che non può essere abbandonata al mercato dei potenti, che poi sono diventati piuttosto impotenti, come conferma lo stato attuale dell'economia italiana e, mi si consenta, anche il peso assai ridotto della Confindustria.

Il voto del 25 e 26 di giugno non può essere messo al mercato per un po' di brutti accordi con una opposizione (fino a ieri definita incostituzionale e oggi risanata nonsi sa perché). Ancora una domanda: con questa disposizione a trattare vogliamo dare ossigeno al berlusconismo che nonè certo un fenomeno superficiale, non è l'invasione degli Iksos, ma un male profondo della nostra società. Il programma elettorale dell'Unione non ci aveva fatto andare in visibilio, tuttavia era qualcosa, alcuni impegni li assumeva: questo non va dimenticato. La vittoria del No è stata più forte di quella delle passate elezioni, è stata - scusate l'ardire - persino più importante. Ha dimostrato che questo popolo italiano si sta liberando dalla fascinazioni berlusconiane e, allora? Allora bisogna aiutarlo a credere che Berlusconi non era tutto male e che può essere utile riprendere una trattativa con la sua banda? La vittoria del No è stata grande, importante e poco favorita dai partiti dell'Unione: è stata una vittoria del popolo italiano. Sforziamoci di evitare che possa diventare oggetto di mercanteggiamenti di basso conio.

La pubblicazione di un piccolo libro e una grande manifestazione popolare, pochi giorni fa, ci hanno messi di fronte a una domanda essenziale per la democrazia. Il libro è La democrazia che non c´è (Einaudi, pagg. 152, euro 8) di Paul Ginsborg, uno studioso assai noto al pubblico italiano per le indagini ch´egli ha dedicato alla realtà italiana con l´attenzione distaccata di chi viene di lontano, ma con la passione di chi è intimamente partecipe dei problemi del Paese che l´annovera tra i professori della sua Università. La manifestazione sono le centinaia di migliaia di persone convenute in piazza San Giovanni a Roma, per protestare contro la legge finanziaria e soprattutto per rinnovare il carisma del leader e di nuovo esibirlo coram populo. Un libro e una manifestazione di piazza: un accostamento già di per sé ricco di simboli rispetto alla domanda. La possiamo enunciare come segue.

La democrazia, nella versione rappresentativa che conosciamo, è una classe politica, scelta attraverso elezioni, che immette nelle istituzioni istanze della società per trasformarle in leggi. È dunque, nell´essenziale, un sistema di trasmissione e trasformazione di domande che si attua attraverso una sostituzione dei molti con i pochi: una classe politica al posto della società. Qui, piaccia o no, c´è la radice inestirpabile del carattere oligarchico della democrazia rappresentativa, carattere che per lo più viene occultato in rituali democratici ma che talora non ci si trattiene dall´esibire sfrontatamente. Ma, al di là di ipocrisia o arroganza, ciò che è decisivo è il rapporto di sostanza che si instaura tra questa oligarchia e la società. Dire "società" è però un parlare per astrazioni, perché essa, in concreto, è fatta di parti diverse tra le quali è inevitabile che la rappresentanza proceda per passaggi selettivi: dal popolo tutto intero agli elettori effettivi, dagli elettori alle assemblee parlamentari, dalle assemblee parlamentari alla loro maggioranza, dalla maggioranza al governo, dal governo al suo capo. Si dice spesso che la classe politica è uno specchio, né migliore né peggiore, del Paese che rappresenta, ma è una banale falsità auto-assolutoria.

La classe politica, ai suoi diversi livelli, è quello che è perché seleziona i suoi riferimenti sociali, illuminandone alcuni e oscurandone altri, stabilendo rapporti con i primi e tagliandoli con i secondi. Per questo, la classe politica non è e non può essere lo specchio della società. Se fosse un semplice rispecchiamento e non una selezione, sarebbe solo una miniatura, mentre la democrazia rappresentativa è tale perché della società la classe politica deve dare una rappresentazione, per poterla governare conseguentemente. Eccoci allora alla domanda: quali sono i riferimenti sociali della nostra classe politica? In breve: che cosa rappresentano i rappresentanti? Questo è il problema qualitativo della democrazia rappresentativa.

Guardiamoci attorno. La classe politica "pesca" dalla società le istanze ch´essa vuole rappresentare per ottenere i consensi necessari a mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell´auto-conservazione delle élite. Che cosa trovano? Aspirazioni di massa al benessere materiale, esigenze di sviluppo e di tutela dei soggetti economici, affermazioni di "valori" immateriali della più diversa natura. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra di loro e al loro stesso interno, che, con i mezzi più diversi, leciti e criminali, cercano di farsi strada e che la classe politica è chiamata a selezionare; un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura. In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o incapacità di allargare e allungare lo sguardo.

Questa summa divisio fa oggi passare in seconda linea altre polarizzazioni politiche. Destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti, sono divisioni importanti, ma vengono dopo e sono interne a quella principale, tra coloro che sanno interessarsi solo al loro presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. È una tipologia del carattere degli esseri umani (la cicala e la formica) che oggi assume un significato eminentemente e drammaticamente politico, a fronte degli interrogativi che pesano sul mondo.

La grande manifestazione e il piccolo libro di cui si è detto all´inizio sono rappresentativi di questa alternativa.

Una parola d´ordine della grande manifestazione - libertà - ha riassunto tutte le altre, e non si è minimamente pensato di farla seguire da responsabilità. Libertà, da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola.

Un popolo di individui liberi e irresponsabili ha i nervi fragili di fronte all´insicurezza per l´avvenire perché avverte, al tempo stesso, di esserne causa senza avere strumenti per affrontarla. Per questo, più di tutto detesta i profeti di sventura e ama chi lo tranquillizza. La paura è uno strumento politico. Per legare a sé questo popolo, per un demagogo non c´è di meglio che, prima, diffondere paura e, poi, dissiparla. Al potere starà non il grande fratello ma il grande rassicuratore. Naturalmente, i motivi di paura reali, di cui non si ha il controllo, quelli occorre minimizzarli o occultarli. Le risorse energetiche sono alla fine? L´inquinamento ambientale è alle stelle? L´acqua scarseggia? I ghiacci polari si sciolgono? La desertificazione avanza? Niente paura. Gli scienziati non sono d´accordo nelle diagnosi e nelle prognosi. L´Aids continua a diffondersi? Nessun problema. Basta non parlarne più. Lo stesso per le inquietudini morali. Paesi interi dell´Africa tropicale muoiono? Le disuguaglianze nel mondo aumentano progressivamente? Forse non è così vero e, comunque, non ci deve importare, perché la colpa è loro e dei loro governi. Continuiamo così liberamente e non facciamoci domande inutili!

Nel nucleo del discorso sulla democrazia che non c´è di Ginsborg troviamo la nozione di società civile, il contrario di tutto questo. L´espressione ha ascendenze filosofiche, illuministiche, hegeliane e marxiane, liberali e gramsciane ma qui non è usata in nessuna di queste accezioni. Se ne prendono elementi diversi per costruire una nozione indicante un ambito di rapporti sociali che si collocano prima e fuori dei rapporti di potere pubblico ma si elevano al di sopra dei meri interessi particolari e pongono al potere politico disinteressate ma stringenti domande.

Per Ginsborg, la società civile è una «società civilizzata», portatrice di suoi valori sostenuti da libere energie di natura non egoistica; è il luogo di coloro che sanno alzare lo sguardo dalla loro pura e semplice convenienza individuale, per vedere più avanti e più in largo. È la società partecipante, che vince la passività e l´indifferenza per i problemi comuni, considerate il segno maggiore di malessere delle nostre democrazie, un segno non contraddetto, anzi semmai confermato dall´alta partecipazione a elezioni vissute come consegna delle difficoltà comuni a qualche grande rassicuratore. L´espressione che più frequentemente ritorna nel libro è «soggetti attivi e dissenzienti»: dissenzienti rispetto all´uniformità antropologica e alla improduttività spirituale indotte dalla società mondiale dei consumi; attivi nell´elaborare valori, punti di vista e bisogni differenziati rispetto a quelli dominanti. Il soggetto della società civile è l´individuo, in quanto però inserito in un «sistema aperto di connessioni». A condizione che possano sprigionare energie sociali al loro esterno, le strutture sociali comunitarie sono viste con favore: associazioni, circoli, club, movimenti di base, organizzazioni non governative nazionali e sopranazionali. L´accento, però, è posto sulla famiglia: una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all´apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico.

Questa società civile è più un obbiettivo da perseguire che un dato che possiamo constatare. In essa è riposta la speranza di una politica non di mera sopravvivenza a breve termine, non appiattita su suicidi interessi solo particolari. Non è un soggetto direttamente politico e sbaglierebbe quindi a candidarsi come forza di governo. È infatti un soggetto pre-politico, più un luogo di elaborazione e confronto di istanze sociali che un luogo di sintesi politica. Ma una classe politica non totalmente dedita alla propria auto-riproduzione farebbe bene a prestare attenzione e, anzi, a valorizzare questa risorsa della vita sociale. È lì che si possono trovare le energie che aiutano a vedere più in là delle piccole cerchie di interessi egoistici. Constatiamo le difficoltà che incontra un governo, quando chiede sacrifici nel presente, per ragioni che guardano al futuro. Dove può sperare di trovare il consenso necessario, se non in questo genere di società civile, ove sia coltivato il senso delle comuni responsabilità? L´alternativa è il circolo vizioso di forze in competizione particolaristica che si votano all´auto-distruzione, senza nemmeno rendersene conto.

In un capitolo del suo libro Collasso (Einaudi, 2005), il biologo e geografo Jared Diamond narra l´affascinante e terribile storia di Pasqua, l´isolotto in pieno Oceano Pacifico, al largo della costa cilena, un tempo rigoglioso di vita e risorse. I suoi abitanti furono presi da una razionale follia che si manifestava in una gara di potenza tra clan su chi costruisse e installasse le più mastodontiche raffigurazioni delle proprie fattezze umane, quelle statue che oggi presidiano insensatamente un paesaggio spettrale e dal mare verso terra fissano i visitatori con il loro sguardo di pietra. Nel corso di tre secoli, questa corsa al successo e al prestigio fece il deserto attorno a loro. Furono abbattuti i grandi banani il cui tronco serviva a muovere i massi scolpiti e a rizzarli nei campi. La vegetazione si ridusse ad arbusti e sparirono gli animali di terra; gli uccelli cambiarono rotta; senza i tronchi per le canoe, anche la pesca cessò.

Finirono con l´abbrutirsi mangiando i ratti e poi divorandosi tra loro. Ci si chiede come abbiano potuto trascinarsi così in basso, addirittura con i loro stessi sforzi, riducendo una terra feconda in un´infelice gabbia mortifera dalla quale, avendo distrutto anche l´ultimo albero che sarebbe servito per l´ultima imbarcazione, finirono per non poter andarsene via. Una società tanto cieca rispetto al suo avvenire, si dice debba essersi fidata fino all´ultimo delle parole di qualche grande assicuratore che, per non dispiacere al suo popolo e farlo credere libero di proseguire nella sua follia, non usava altro che parole di ottimismo, parole con le quali gli impedì di alzare la testa e aprire gli occhi.

Prima sono arrivate le telefonate anonime; poi, le minacce di morte, infine, la scorta e l’esilio lontano dalla sua città. Tutto è cambiato per Roberto Saviano, 28 anni, da quando ha pubblicato il suo primo libro, "Gomorra", che ha già venduto 300mila copie. Fino ad allora, la sua vita era stata relativamente tranquilla. Viveva a Napoli, amava percorrere le strade sulla sua Vespa e seguire le trame criminali. La camorra era, e continua a essere, la sua ossessione. Dedicava tutto il suo tempo a rivedere gli incartamenti giudiziari, si sintonizzava sulla radio della polizia per arrivare sul luogo del delitto insieme alle pattuglie.

"El País" lo ha intervistato nel suo rifugio, mentre a Napoli si scatenava una nuova guerra tra camorristi e si lanciava l’ennesimo allarme per l’aumento della criminalità mafiosa.

Qual è la differenza tra la mafia siciliana e la camorra napoletana?

«La mafia siciliana ha una struttura piramidale e la Camorra l’ha orizzontale. Entrambi i sistemi si rapportano in maniera diversa al potere politico. Il meccanismo mafioso è semplice e si riduce al binomio appalti-mafia. Vale a dire che la mafia, tramite la politica, ottiene appalti pubblici (edilizia, raccolta dei rifiuti, ospedali, ecc.). La camorra, invece, funziona con una logica ultraliberale il cui fulcro non è l’appoggio dei politici. Ciò rende la camorra più flessibile e più imprevedibile. Non può esistere nella camorra un boss che abbia il monopolio dei prezzi, perché se lo facesse sarebbe assassinato o arrestato. Un esempio: Sandokan Schiavone a un certo punto aveva monopolizzato l’usura, il prezzo del cemento e il prezzo del latte. Fu arrestato. Altri boss arrivarono e il prezzo del latte tornò a scendere».

Quindi nella camorra non possono esistere boss come Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra per decenni?

«No, è molto difficile. Un boss che mantiene il potere fino ai 70 anni e, inoltre, con quel carisma ... È stata molto significativa la vicenda di Provenzano, lo hanno scovato nella sua casa. Viveva in condizioni indecenti. Anche Sandokan Schiavone fu trovato nel suo paese nascosto sotto la sua casa. Ma lì non aveva una cantina, ma un palazzo».

I boss della camorra l’affascinano in qualche modo?

«La struttura criminale è molto più importante degli individui. Ma le personalità semplici hanno per me, che sono uno scrittore e non un giornalista, un valore letterario enorme. Penso a Augusto la Torre, il boss psicoanalista, che parlava citando Lacan. O a Giuseppe Misso, che ha scritto diversi libri. O a Luigi Volla, soprannominato Il Califfo, che ama i quadri di Botticelli. O a Sandokan Schiavone, che possedeva una vasta biblioteca dedicata a Napoleone ... Sono stato accusato spesso di essere vittima del loro fascino e in qualche modo è così. Mi sono lasciato prendere dal carisma di questa gente per poterlo raccontare. Perché sono i miei miti, i miti del posto in cui sono cresciuto. Per capire i boss, ho dovuto guardarmi allo specchio, più che guardare loro».

Si è lasciato ossessionare dalla camorra?

«Sì. E credo che uno scrittore debba ossessionarsi con ciascuno dei suoi libri. Se avessi scelto di scrivere di cavalli, avrei visto muscoli, tendini, figure in velocità e metafore equine ovunque. Ma ho scelto di raccontare la mia epoca e la condizione umana attraverso la camorra. Mi sono lasciato ossessionare da queste storie perché sono una loro vittima, perché sono cresciuto in quel luogo».

Se potesse tornare indietro, lo scriverebbe Gomorra?

«No. E non per le minacce, ma per quello che esse hanno comportato: il comportamento degli editori e di molte persone vicine. La solidarietà è solo una parola».

(Copyright El País-La Repubblica

traduzione di Guiomar Parada)

La cancellazione delle rappresentazioni dell´"Idomeneo" a Berlino solleva l´importantissima questione della nostra percezione del mondo musulmano, argomento che non è stato affrontato in modo soddisfacente. La rappresentazione – alla quale non ho assistito e sulla quale non sono pertanto in grado di emettere un giudizio – è stata temporaneamente eliminata dal cartellone di questa stagione del Deutsche Oper, perché conteneva qualcosa che avrebbe potuto offendere o insultare alcune persone le quali, di fatto, non è assolutamente necessario che vi assistano.

Un governo ha il dovere di proteggere i propri cittadini dai rischi della violenza e del terrorismo, ma un teatro ha il dovere di proteggere il proprio pubblico da espressioni artistiche che potrebbero essere interpretabili come infamanti? Il legame tra espressione artistica ed associazioni mentali che essa evoca non è dissimile dal legame esistente tra sostanza e percezione. Troppo spesso noi alteriamo la sostanza per adeguarla alla sua percezione. Naturalmente, non vi è modo di determinare le associazioni evocate dall´arte, in quanto si tratta di una prerogativa esclusiva dell´individuo. In ambito musicale la differenza tra contenuto e percezione è fornita dallo spartito scritto. Nel teatro o nell´opera, nei quali non esiste una partitura per la direzione di scena, la responsabilità esclusiva ricade sul regista.

L´essenza stessa del ruolo del teatro nella società è la sua capacità di rimanere in dialogo continuo con la realtà, indipendentemente dall´impatto che esso può avere sugli avvenimenti reali. Questa forma di dialogo non è segno di coraggio come non è segno di codardia, ma deve nascere dalla necessità interiore ad esprimersi di un individuo o di un´istituzione. Limitare la propria libertà di espressione per paura è tanto inconcludente quanto imporre il proprio punto di vista con la forza marziale.

L´arte non è né morale né immorale, non è né edificante né offensiva: è la nostra reazione ad essa a renderla una cosa oppure l´altra nel nostro intendimento. La nostra società sempre più considera la controversia una caratteristica negativa, quando al contrario la divergenza di opinioni e il contrasto tra il contenuto e la sua percezione costituiscono l´essenza stessa della creatività. Se il contenuto può essere manipolato, la percezione può esserlo in misura doppia. Censurandoci sul piano artistico per la paura di offendere un determinato gruppo di persone non soltanto poniamo limiti al pensiero umano in generale - invece di espanderlo e dilatarlo -, ma di fatto infliggiamo un oltraggio all´intelligenza di una vasta parte di musulmani, privandoli dell´opportunità di dimostrare la loro maturità di pensiero. Tutto ciò è in antitesi assoluta con il dialogo, ed è una conseguenza dell´incapacità a effettuare una distinzione tra i molti e diversi punti di vista esistenti nel vasto mondo musulmano.

L´arte non ha nulla a che vedere con una società che respinge quelli che io definirei standard di intelligenza ufficialmente accettati, come avveniva nell´antica Grecia, imboccando invece la scorciatoia della correttezza politica, che in realtà nella sua sostanza non è diversa dal fondamentalismo nelle sue molteplici manifestazioni. Sia la correttezza politica sia il fondamentalismo forniscono risposte non al fine di migliorare la comprensione, bensì allo scopo di eludere le domande. Quando si agisce per paura non si placano i fondamentalisti - che ad ogni buon conto non hanno alcuna intenzione di lasciarsi placare -, e non si incoraggiano neppure i musulmani illuminati che si prefiggono di dialogare e migliorare. Al contrario: si emarginano tutti i musulmani, rendendoli parte del problema piuttosto che partner alla ricerca di una soluzione. Questa sconvolgente mancanza di differenziazione insulta e al contempo svigorisce la nostra società, estromettendo la fruttuosa partecipazione di elementi fondamentali e consentendo al seme della paura di attecchire e di tramutarsi in una foresta di panico. Privando la società di questo dialogo essenziale, continuiamo di fatto ad alienare le persone la cui collaborazione pacifica è indispensabile per un futuro senza violenza.

Forse il mondo musulmano avrebbe bisogno di un equivalente moderno di Spinoza, in grado di spiegare la natura dell´Islam nello stesso modo in cui Spinoza seppe esprimere la natura del pensiero giudeo-cristiano, rimanendo a uno stesso tempo fuori di esso e arrivando perfino a negarlo. La decisione di non rappresentare l´"Idomeneo", in definitiva, è la decisione di non distinguere tra illuminati ed estremisti, tra intellettuali e dogmatici, tra popoli culturalmente interessati e popoli di vedute ristrette, di qualsiasi origine e religione essi siano. Per la precisione, rifiutare di permettere di vedere certe rappresentazioni è proprio la paura che gli elementi violenti del mondo musulmano vogliono che noi abbiamo.

Come ho detto all´inizio di questo articolo, non ho assistito a questa produzione. Posso soltanto sperare che Neuenfels ritenga l´esibizione delle teste mozzate di Gesù, Maometto e Budda una necessità interiore assoluta della partitura di Mozart. Forse, egli avrebbe dovuto far sì che le teste decapitate prendessero la parola, così da poter perorare il riconoscimento della grande saggezza e della forza di pensiero che tutte insieme, collettivamente, esse rappresentano.

(traduzione di Anna Bissanti)

L'Europa che non s'è fatta a Bruxelles e Strasburgo, l'Europa bocciata dai civili a Parigi e ad Amsterdam, si farà invece con i militari a Beirut? Certo, c'è da sostenere la missione dei caschi blu, augurandosi contro ogni pessimismo della ragione che sia effettivamente una missione di pace. Certo, c'è da essere soddisfatti che l'Italia, la Francia, la Germania parlino finalmente, sia pure con differenze di tono non lievi, una lingua comune; che a riattivare questa lingua abbia contrubuito in modo rilevante il tandem italiano D'Alema-Prodi; che questa lingua possa contrastare e debilitare quella dell'unilateralismo e della guerra preventiva di Bush, alla quale il precedente governo italiano si era adeguato. Meno soddisfa tuttavia dare ragioni a quanti, nel processo di costituzione europea, hanno sempre messo al primo posto la moneta e al secondo l'esercito e la difesa, come se forza economica e forza militare fossero i due principali, se non unici, pilastri della formazione della «potenza» europea, e come se l'Europa potesse esistere solo in termini di forza e di potenza. Un'Europa più politica, impiantata su pilastri diversi (rappresentanza, stato di diritto, stato sociale, cultura, memoria), non sarebbe meno forte e potente, ma solo più capace di contrasto rispetto ai modelli oggi imperanti della forza e della potenza. E di «quale» Europa è in gioco è bene che non ci si dimentichi nel plaudere alla sua presenza nel teatro mediorientale. Dove non ne va e non ne andrà solo di techiche militari e regole d'ingaggio: ne va e ne andrà per l'appunto di sensibilità politica e sociale, di intelligenza storica, di capacità di dialogo, di senso del diritto, di volontà di rispondere delle strategie geopolitiche ai cittadini continentali. Sul campo non si misurerà solo la forza, ma l'idea d'Europa e l'immaginario europeo; con alle spalle il peso di un passato europeo drammatico e diviso, e di fronte i ritorni europei di antisemitismo e di islamofobia. Per quanto ci accontentiamo per ora di contare navi e soldati e di ponderare le strategie politiche, sappiamo sin d'ora che tutto questo non sarà il contorno ma il contesto della missione, un contesto che la missione rimetterà in movimento non nel teatro mediorientale ma in quello europeo. Un tratto del processo di costituzione europea che si farà e si sta facendo fuori dai confini europei.

Non l'unico, del resto. Per quanto l'impaginazione dei giornali e dei telegiornali le tenga rigidamente divise, dovremmo sforzarci di connettere le immagini dei soldati europei in partenza sulle navi per il Libano con quelle dei migranti africani in arrivo sulla carrette del mare alla porta europea di Lampedusa. Da una parte uomini in divisa, dotazioni tecniche, schemi di tattica militare e visioni geostrategiche; dall'altra uomini, donne e bambini nudi, cadaveri lasciati in mare e corpi sopravvissuti per caso, e nessuna tattica né strategia di vita, solo una vaga speranza in una possibilità migliore. Da una parte l'Europa degli stati che esce dai suoi confini, dall'altra popolazioni che premono ai suoi confini, li violano, li forzano. Non solo a Beirut ma anche a Lampedusa è in gioco l'idea di Europa. Non solo nel «peace making» in medioriente ma anche nell'accoglienza dell'altro sul continente si misura la civiltà europea. Non solo sulle navi dei «nostri soldati» ma anche sulle carrette del mare si riformula l'immaginario europeo: non diversamente da come sulla navi dei nostri emigranti, nelle traversate transatlantiche d'inizio secolo, si riformulò l'immaginario dell'America, e quello dell'occidente nel suo insieme fra nostalgia delle origini e sogno del mondo nuovo, fra speranze di accoglienza e frustrazioni razziste.

Dobbiamo sforzarci di connettere queste due immagini perché è duplice e doppia la possibilità che per l'Europa si apre fuori dai confini europei. Duplice e doppia, funzionerà solo se li romperà, non se li rafforzerà, e se scuoterà, non se confermerà, l'identità del vecchio continente. Spogliata delle sue divise, esposta ai rischi della navigazione in mare, dei suoi imprevisti, dei suoi ospiti inattesi.

Dieci palazzi di Beirut abbattuti per ogni missile lanciato su Haifa. È la rappresaglia ordinata dallo Stato maggiore israeliano contro i quartieri meridionali della capitale libanese, roccaforte di Hezbollah. A riferirlo alla radio militare un’ufficiale dell’aviazione che racconta come a dare l’ordine sia stato lo stesso capo di Stato Maggiore: «Il generale Dan Halutz ha ordinato di distruggere dieci immobili di più piani nei sobborghi meridionali in risposta a ciascun lancio di missili su Haifa».

La notizia, inizialmente passata quasi inosservata, provoca la protesta dell’Associazione per i diritti civili in Israele. In una lettera al ministro della difesa Amir Peretz, gli attivisti israeliani chiedono chiarimenti sull’ordine che avrebbe impartito Halutz: «la vendetta non può giustificare azioni militari – si legge nella lettera - una politica sistematica volta a terrorizzare la popolazione civile è vietata dal diritto internazionale e in casi estremi rischia di essere qualificata come un crimine di guerra».

La smentita e i precedenti

Dopo qualche ora il portavoce militare smentisce «in maniera categorica» che il capo di stato maggiore abbia mai emesso l'ordine di abbattere edifici nel rione sciita Dahya di Beirut come ritorsione. «Si tratta di una notizia totalmente infondata» spiega alla televisione commerciale israeliana Canale 10, che aveva espresso perplessità sull’operazione.

Fatto sta che il generale Halutz era finito altre volte sui giornali per le proteste di attivisti e militanti della sinistra israeliana. In particolare nell'agosto dle 2002, quando il generale era ancora vicecapo di stato maggiore, fece sensazione una sua intervista al quotidiano Haaretz in cui sembrava minimizzare la uccisione di 14 civili palestinesi in un raid a Gaza ( l’intervista è ancora on line). Tanto che al momento della sua nomina al comando delle forze armate di tel Aviv gruppi umanitari ricorsero in appello alla Corte Suprema di Gerusalemme. Ovviamente senza esito.

Pacifici: «comunque sono solo palazzi»

Comunque sia c'è, anche in Italia, chi non si meraviglia troppo di una punizione collettiva che evoca «le tecniche naziste». «Sono felice della smentita ma parliamo di palazzi e non di persone - è infatti la dichiarazione di Riccardo Pacifici, esponente della destra e portavoce della Comunità ebraica di Roma - chi vuole mettersi in salvo può farlo perché‚ l' aviazione israeliana avverte prima di bombardare».

In un passo della Storia d´Italia dal 1871 al 1915 Croce - a commento delle clamorose vicende a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 dell´Ottocento legate allo scandalo della Banca Romana e ai suoi molteplici sviluppi politici e giudiziari che avevano profondamente turbato l´opinione pubblica, rivelando una vasta trama corruttiva la quale, una volta messo in luce il coinvolgimento di ambienti finanziari, uomini di governo, parlamentari, funzionari, giornalisti, si era conclusa con la riforma del disordinato sistema bancario grazie alla creazione della Banca d´Italia nel 1893 - scriveva quanto segue. Che i fenomeni corruttivi sono «cose di tutti i tempi e di tutti i paesi», che «in certi tempi e in certi paesi si addensano e scoppiano in modo grave», e che «il male vero si ha» quando essi «non danno luogo alla reazione della coscienza onesta, e al castigo e alla correzione». Croce riteneva che lo scandalo romano si fosse chiuso infine positivamente con la riforma bancaria, senza però mostrare sensibilità per il fatto che la magistratura, soggiacendo alle pressioni politiche, avesse ridotto l´opera della giustizia a un colabrodo. Il che aveva invece ben colto, proprio nel corso di quegli eventi, Giolitti, trascinato anch´egli nel ciclone. Il quale in un lettera rivolta al re Umberto I usò parole di amara lucidità, che sembrano davvero valere oggi come ieri, e che avrebbero potuto e dovuto essere riscritte pressoché ad ogni tornata degli scandali che hanno segnato la storia d´Italia: «L´assolutoria scandalosa di ladri di milioni ha fatto pur troppo una triste reputazione al nostro paese, e ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi delinquenti. Ora si aggiungerà la prova che i grossi delinquenti in Italia, oltre ad essere assolti, possono con i milioni rubati far processare coloro che li avevano scoperti, denunciati e messi in carcere». Dal canto suo Cavallotti con la Lettera agli onesti di tutti i partiti del giugno 1895, denunciando quella che definiva l´apertura di una vera e propria "questione morale", apriva il primo capitolo di un libro destinato a non chiudersi più. Non poteva egli allora immaginare con il suo appello al fascio degli onesti di essere il precursore di un altro grande bardo della questione morale ovvero di Berlinguer, il quale quasi un secolo dopo, reagendo agli inizi degli anni ‘80 a quelle ondate devastanti e maleodoranti costituite dall´"affare Sindona", dalla bancarotta dei Caltagirone, dalla faccenda dell´Italcasse, dalle truffe dei petrolieri, dal bubbone della P2, avrebbe preso a invocare il governo degli "uomini capaci e onesti dei vari partiti e anche al di fuori di essi".

Ora a dichiarare che ci troviamo di fronte per l´ennesima volta alla questione morale è in prima linea il Presidente della Camera. Ciò che sta alle spalle di questa ultima denuncia è la fitta serie di scandali aventi per oggetto negli ultimi anni, per nominare solo le punte dell´iceberg, le vicende della Cirio, della Parmalat, del gruppo Previti, degli assalti alle banche da parte della compagnia dei "furbetti" con relative complicità in Banca d´Italia, delle società di calcio, della Rai, per arrivare alla tragicommedia degli ultimi Savoia. Tutto ciò avvenuto dopo i grandi atti di corruzione che Tangentopoli aveva portato alla luce: quella Tangentopoli che aveva rotto la tradizionale subalternità della maggior parte della magistratura al mondo dei mali affari, aveva fatto sperare in un profondo risanamento il quale è risultato nulla più se non una breve tregua prima che, dissipatasi l´illusione e superata la paura degli affaristi nel favorevole clima politico del centrodestra al governo, il fiume melmoso riprendesse il suo corso. Unico elemento controcorrente, bisogna dire, è stato il dato di grande significato che i giudici non hanno piegato la schiena, affrontando una lotta frontale con i potenti pronti sempre a seminare la corruzione e a pescare nel torbido.

Dunque, la "questione morale" si presenta come il filo rosso di un´irrisolta questione nazionale. Le scene del teatro cambiano con lo scorrere del tempo, si aggiornano, ma lo sfondo, la sostanza è sempre la stessa. È l´intreccio tra affari e politica, tra dilagante mancanza del senso della legalità e disprezzo dell´etica pubblica, tra l´inesausta e patologica avidità di danaro comunque acquisito e l´uso di qualunque mezzo per ottenerlo. Ma alle spalle di tutto ciò sta, proprio come affermava Giolitti, la convinzione dei delinquenti di poter contare su una diffusa rete di complicità, di essere in grado di far valere gli opportuni ricatti in forza di grandi complicità e chiamate di correo, di riuscire a sfuggire alle giuste pene o comunque, quando inevitabile, di sottostare a pene modeste, lanciando il perverso messaggio che esiste una giustizia per i ricchi e una per i poveri. Così stando le cose, si vede bene che la questione morale è nella sua essenza una questione politica, che l´appello agli onesti è tanto necessario quanto insufficiente, che la piaga della corruzione la si può combattere unicamente per mezzo delle leggi, che le leggi non bastano se non vengono applicate con la forza capace di costituire davvero un deterrente.

Il rinvigorirsi dell´etica privata e pubblica non sarà mai perseguibile senza gli esempi di giustizia che danno credibilità ai buoni propositi. E per questo ci pare di dover dire, in relazione ai progetti di amnistia, che un´amnistia a larghe intese che comprendesse anche i reati di corruzione, di saccheggio delle risorse comuni, rappresenterebbe un messaggio ulteriormente inquinante. Ci pensi il nuovo Guardasigilli, e ci pensi con lui la nuova maggioranza di governo.

Mancanza di chiarezza

Luciano Gallino - la Repubblica, 8 dicembre 2006

Quasi certamente non saremmo qui a discuterne se l´evento non si fosse verificato a Mirafiori, luogo simbolo del movimento sindacale. Ma le voci di dissenso che in modo civile, benché non per questo meno netto, gli operai hanno levato ieri nei confronti dei "loro" segretari generali Angeletti, Bonanni ed Epifani, sono risuonate precisamente in quel luogo, dove le tre confederazioni hanno gli iscritti su cui possono maggiormente contare. Dunque è bene parlarne.

E a parte le contestazioni verbali, che possono essere dettate a caso dagli umori del momento, val la pena di soffermarsi su un passo dell´ordine del giorno, che si può supporre meglio meditato, presentato nelle assemblee degli operai tenutesi a Mirafiori: "Noi lavoratori… riteniamo questo silenzio del sindacato sulla Finanziaria incomprensibile. E chiediamo che eventuali accordi su pensioni e Tfr siano sottoposti al nostro giudizio". Con questo odg i lavoratori esprimono il timore che la Finanziaria abbia ricadute impreviste, conseguenze forse negative, in merito alla loro condizione sul lavoro, al di fuori di esso, e dopo di esso. E si stupiscono che i sindacati non si siano fatti maggiormente sentire dal governo per ottenerne assicurazioni precise, se non anzi mutamenti di impostazione della legge.

I segretari generali hanno risposto con la grinta e la competenza che tutti gli riconoscono. Però quel passo dell´odg operaio un paio di problemi ai sindacati li pone. E anche al governo. Anzitutto, se i lavoratori trovano incomprensibile il silenzio del sindacato sulla Finanziaria, la spiegazione più plausibile è che in prima battuta sia questa ad apparire incomprensibile alle persone comuni. Di certo le segreterie generali posseggono mezzi adeguati per decodificare la Finanziaria e prevederne le conseguenze a medio e lungo termine sulle persone. Quasi tutti, tra il centinaio di articoli che compongono la legge, rinviano ad altri articoli di altre leggi, che per essere letti e compresi, risalendo volta per volta alle fonti, richiedono il lavoro di buon numero di esperti. Per il singolo che di tali mezzi non dispone essa rimane un messaggio cifrato. La conseguenza è che il sindacato si trova sospinto nella situazione di dover parlare pressappoco come il governo, ricorrendo ad analoghe formule generiche e reiterate all´infinito per giustificare il fatto di non essere intervenuto con decisione nella formulazione della Finanziaria, quali la necessità di rimettere ordine nei conti pubblici, promuovere lo sviluppo e l´equità, e recuperare fondi da destinare a investimenti. Mentre le domande che girano nella mente delle persone sono se avrò qualche euro in più o in meno sul foglio dello stipendio, rispetto ai soliti 1200 o giù di lì, a quanto ammonterà la mia pensione, quando potrò andarci (in pensione), e che fine farà il mio Tfr.

E´ qui che affiora l´altro problema prospettato dall´odg delle assemblee di Mirafiori. Nella lunghissima discussione intorno alla Finanziaria è venuto fuori che il capitale rappresentato dal Tfr non optato, ossia non esplicitamente destinato a un fondo pensione, potrebbe venir gestito prima dall´Inps e poi dal Tesoro, per essere alla fine investito in opere pubbliche. Anche su questo punto occorre riconoscere che, a fronte di tali intenzioni del governo, i sindacati non hanno esattamente battuto i pugni sul tavolo per ribadire un principio: il Tfr è una parte differita ma integrante del salario, quindi rappresenta una proprietà esclusiva del lavoratore. Il quale può anche pensare di destinarlo a qualche forma di investimento, ma conservando il diritto di decidere dove indirizzarlo, in quale misura, e fino a quando. Così come potrebbe pensare di lasciarlo per intero all´Inps, però non per effettuare investimenti, bensì per accrescere la quota pubblica della propria pensione, anziché affidarlo a un fondo pensione privato.

Ci sarebbero stati insomma diversi motivi per indurre i sindacati a prendere posizione in modo più determinato allo scopo di ottenere dal governo modifiche della Finanziaria che fossero, a un tempo, un po´ più favorevoli ai lavoratori, almeno in tema di pensioni e mercato del lavoro, e un po´ meno criptiche circa i loro possibili effetti. La chiarezza delle leggi agli occhi dei cittadini non è un ornamento della democrazia; è una parte integrale di essa. In modo nemmeno troppo indiretto, i lavoratori di Fiat Mirafiori si sono permessi di ricordarlo ai sindacati per cui in massa votano.

La rimozione delle tute blu

Ilvo Diamanti - la Repubblica, 10 dicembre 2006

Hanno sollevato sorpresa le critiche espresse, in modo civile e misurato, dagli operai della Fiat a Mirafiori nei confronti dei segretari delle confederazioni sindacali. Perché segnalano un contrasto fra il sindacato e la sua base "storica". Perché rivelano incomprensioni da parte degli stessi ceti che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero beneficiare maggiormente della finanziaria. Ma soprattutto perché abbiamo assistito al "ritorno degli operai". Se ne erano perse le tracce, da tempo, nel dibattito pubblico. E, poi, sui media, come nella ricerca e nella riflessione economica e sociale. Parevano scomparsi. Lo stupore sollevato dall´episodio di Mirafiori costringe a riflettere.

Prima ancora che sui contenuti della protesta, sui motivi del nostro stupore. Perché gli operai non fanno più notizia?

Si potrebbe rispondere, in primo luogo, che la loro immagine si è sbiadita perché essi sono effettivamente in declino, come categoria professionale. Soprattutto quelli della grande impresa. A Mirafiori, ad esempio, l´occupazione è calata dei due terzi dopo la "mitica" marcia dei quadri, che decretò la sconfitta del sindacato "operaio", nell´autunno del 1980. Da circa 60mila a poco più di 14mila.

Tuttavia, gli "operai", nel 2005, secondo l´Istat erano ancora otto milioni. Un terzo degli occupati complessivi, la metà dei lavoratori dipendenti. Anche limitandoci alla sola industria manifatturiera, si tratta di circa 3 milioni di persone. Molti, comunque.

Se non li vediamo, se sono stati "rimossi" dalla scena pubblica, i motivi sono altri.

1. In primo luogo, la loro crescente dispersione, in una struttura produttiva diffusa, fatta di piccole e piccolissime aziende. Gran parte dei nuovi occupati, peraltro, accede attraverso lavori intermittenti, a tempo. Le attività più usuranti, più faticose, sono svolte dagli stranieri. I legami di solidarietà, ma anche di "comunità", dunque, si sono persi. O meglio, dispersi.

2. Ne consegue un evidente deficit di rappresentanza. Ormai nessuno più parla di sindacati "operai". D´altra parte, i caratteri dell´occupazione operaia rendono sempre più difficile, al sindacato, il compito del reclutamento. Il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti, nell´industria e nell´impiego privato, infatti, è progressivamente sceso. Oggi si colloca intorno al 35%. Ciò vale anche per la Fiat e per Mirafiori, dove il grado di adesione sindacale non è mai stato elevatissimo. Oggi, nel sindacato è divenuta maggioritaria la componente dei pensionati. Anche così si spiega la reattività sul tema delle pensioni. Mentre la vertenza sul contratto dei metalmeccanici è durata anni, senza produrre pari coinvolgimento.

3. Gli operai hanno minore visibilità di un tempo anche perché le loro tradizionali forme rivendicative hanno perduto efficacia. Gli scioperi aziendali e/o generali non "danneggiano" più come un tempo le grandi aziende (nelle piccole, perlopiù, non si fanno). Che hanno largamente delocalizzato il loro tessuto produttivo in altri Paesi. L´azione di protesta, invece, si è progressivamente "terziarizzata" (come ha osservato Aris Accornero). Non solo perché si è spostata nel settore "terziario", ma perché, insieme, tende a scaricare i propri effetti sui "terzi". Sui cittadini. Sugli utenti. Gli scioperi più efficaci, infatti, riguardano i trasporti urbani, ferroviari, aerei. I taxi oppure le banche, le poste. Perché generano disagio collettivo.

Ed entrano nel circuito "mediatico". Un elemento decisivo, ai fini dell´efficacia della protesta, perché influenza negativamente l´opinione pubblica. Alimenta la sfiducia e il dissenso. Esercita, per questo, pressione politica.

Per cui, i controllori di volo o i tassisti (romani), che sono pochi, di numero, ma agiscono in punti nevralgici della comunicazione (in senso lato), ottengono più ascolto degli operai metalmeccanici. Ai quali, per farsi vedere e sentire, non resta che uscire dalla fabbrica e adottare forme di lotta "non convenzionali". Occupare stazioni ferroviarie, attuare blocchi autostradali.

4. Tuttavia, tutto questo non basta, ancora, a spiegare la scomparsa degli operai, dalla scena e dall´immagine pubblica. Importante, a questo fine, pare il declino della loro identità sociale. Negli anni Settanta, dirsi operai - meglio: classe operaia - era motivo di orgoglio. Il segno che gli ultimi non erano più tali. Uscivano dalla solitudine e dalla loro marginalità sociale. Ottenevano un riconoscimento, una immagine comune. Oggi non è più vero. Per vent´anni, fino agli anni Novanta, abbiamo assistito al trionfo del mito dell´imprenditore. Nel quale si identificavano tutti i lavoratori autonomi indipendenti. I non-dipendenti. Negli ultimi mesi, è riesplosa la questione dei ceti medi. A differenza di quando, oltre trent´anni fa, Paolo Sylos-Labini, fornì loro definizione e misura, oggi i ceti medi appaiono quanto mai in-definiti e vaghi. Una formula usata, spesso, con finalità polemiche e di propaganda. In cui confluiscono figure diverse. Lavoratori autonomi, piccoli proprietari, partite IVA, impiegati. Un po´ alla rinfusa. Associati, nel linguaggio comune, alla "protesta" e alla "delusione".

Così, gli operai sono finiti ai margini. Anzi: fuori scena. La "classe operaia": una parola vecchia. Sostituita dai "nuovi ceti popolari" (ne hanno scritto, di recente, Magatti e De Benedettis). Che riassumono flessibilità nel lavoro, incertezza e vulnerabilità sociale. Cococo, contrattisti a progetto, lavoratori part-time e intermittenti, reclutati per telefono. Un´area che cresce, forse, più nella percezione che nella realtà. Al contrario degli operai.

Eppure, questa sottovalutazione, secondo noi, più della loro invisibilità, riflette la cecità nostra e di chi dovrebbe "rappresentarli". Gli operai, infatti, non sono solamente una "categoria" ampia del nostro sistema produttivo (tra i pochi che ancora "producono"…), ma:

a) forniscono ancora una identità condivisa. Visto che il 34% degli italiani, per definire la propria posizione parla, appunto, di "classe operaia" (Osservatorio Demos-Coop, maggio 2006). Mentre solo il 6% richiama i "ceti popolari".

b) pesano in modo rilevante, sugli orientamenti elettorali. Il recupero del centrosinistra nel 2006, rispetto al 2001, è avvenuto, infatti, soprattutto grazie allo spostamento elettorale, a suo favore, dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (come rileva Roberto Biorcio, nel recente volume di Itanes, Dov´è la vittoria?, Il Mulino).

c) e soprattutto, "rappresentano" una parte della società ampia. A cui il programma dell´Unione ha dedicato grande attenzione. L´80% dei lavoratori dipendenti in Italia, nel 2004, dichiarava un reddito complessivo (inclusivo di abitazione etc.) inferiore a 25.000 euro annui lordi. Dunque, sotto i 1.500 euro mensili (inclusi premi ecc., per tredici mensilità). Gli "operai" (ai gradini bassi del lavoro dipendente) rappresentano (come ha suggerito l´economista Bruno Anastasia) il "popolo di quelli che guadagnano 1.200 euro al mese". Poco più, ma anche (spesso) poco meno. E, per sopravvivere, sono costretti a praticare lavori e lavoretti. Quando è loro possibile. (Non tutti hanno il privilegio del "nero"). Oppure, se non dispongono di altre entrate in famiglia, se non hanno casa di proprietà, procedono navigando a vista.

L´insoddisfazione degli operai di Mirafiori nei confronti del sindacato riflette la precarietà di questa parte della società, più ampia di quanto non si immagini. Esprime, inoltre, una domanda di rappresentanza, particolarmente esplicita, verso un governo considerato "amico". Perché il problema non è solo di "recuperare", dalla revisione della curva dell´Irpef, qualche decina di euro, che rischia di venire riassorbita dalla pressione di altre tasse, in ambito locale. Più importante, forse, è evitare che le loro voci risuonino come echi di un passato che non si rassegna a passare. Per non rimuovere, insieme agli operai, anche le questioni che essi sollevano.

Napoli, Napoli, Napoli. Parlano tutti. La camorra uccide. La città ha paura e si interroga. Lo Stato corre ai ripari. Mentre due vecchi viceré dei disastri andati tentano un’operazione impossibile. Un mostruoso lifting della loro storia di uomini che a Napoli hanno gestito il potere per un ventennio e più. In un colpo solo quei due uomini provano a far dimenticare ad una Italia smemorata cosa furono «i loro anni». «Questo qui è peggio di noi» hanno sentenziato Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino ai cronisti che gli hanno chiesto lumi e giudizi su Bassolino.

«Quando a Napoli c’eravamo noi», è il ritornello recitato in questi giorni con patetica nostalgia da don Antonio e da Paolo «’o ministro». I cronisti annotano, si compiacciono dell’innocente «ciciniello» (l’abnorme anello infilato sul dito di Gava gioia e dolore delle tumide labbra dei fedelissimi) e della colorita parlata di Pomicino e passano oltre. «Scurdammece ‘o passato».

Anni Ottanta. Il terremoto. Anni Novanta. Il sacco di Napoli. 24 giugno 1993, la giunta comunale della città dichiara lo stato di dissesto del Comune. 12 agosto, il Capo dello Stato accoglie la richiesta del ministro dell’Interno di sciogliere il Consiglio. Il sindaco della città, Tagliamonte: «Siamo decisi ad assicurare la governabilità...». Su 80 consiglieri comunali del consiglio eletto nel ‘92, 18 sono raggiunti da ordini di cattura. Sette del Psi, 5 Dc, 2 repubblicani, 2 liberali, 1 a testa per Pds e Msi. Nel calderone della Napoli bollente di quell’anno finiscono anche 2 consiglieri provinciali (un liberale e un Dc), 13 consiglieri regionali (7 Dc, 5 Psi, 1 Pli). «Tutti questi amministratori - si legge nella relazione sulla camorra della Commissione parlamentare antimafia del 21 dicembre 1993 - sono stati coinvolti in vicende giudiziarie connesse alla loro attività di governo e spesso in concorso con elementi della camorra». Questo accadeva nei tempi d’oro dell’«eravamo meglio noi».

Era la Napoli di Gava e Pomicino, dove la camorra era fortissima. Organizzata. Politica. Violentissima: 2621 omicidi, il 21% degli assassinii di tutto il territorio nazionale, dal 1981 al 1990. I clan sono 111 nel ‘93 e gli affiliati 6700. In città 25 sono i gruppi dominanti. Nel decennio la camorra si è ingrassata col terremoto e le grandi opere pubbliche. Una torta da 60mila miliardi di vecchie lire dell’epoca. «L’attività di ricostruzione - si legge nella relazione dell’Antimafia - è caduta quasi interamente nelle mani della camorra che controllava capillarmente il territorio». Ma il passato va «scordato». E così nel 2005, venticinque anni dopo la tragedia, gli amministratori pubblici della Campania - questa volta tutti di centrosinistra - il terremoto lo ricordano tra fiumi di lacrime e litri di champagne. Si distribuiscono medaglie, onorificenze. La retorica seppellisce gli scandali del passato. «’O ministro» e don Antonio sono raggianti.

Cemento, appalti, rapporti con le grandi imprese del Nord e legami con la politica: la ricetta era questa. Eppure, in un freddo pomeriggio di febbraio del 1992, Paolo Cirino Pomicino lancia la grande idea per la città. Appalti pubblici per migliaia di miliardi. «Neonapoli», la chiama e il gioco è fatto. A quel tempo «’o ministro» non conta moltissimo nella Dc napoletana: appena il 25%, poco rispetto al 60 dei suoi due rivali storici, Gava e Scotti. Come risollevarsi? Semplice, proponendo un nuovo ciclo del cemento: 7227 miliardi di lire per rifare il volto della città. Nuovi quartieri, 150mila vani, speculazioni edilizie su Bagnoli e Napoli Est. La città degli affari applaude. «Perché questa - spiega all’epoca Mirella Barracco - è una realtà dove è possibile ogni fondazione e ogni rifondazione. Qui si è costantemente all’anno zero». Pomicino è un occasionista, si fa moderno Principe, parla a quei ceti che aspirano ad un diverso sviluppo della città. Il progetto muove tanto fumo. Poi si ferma. La storia prende un’altra piega.

Aprile 1981. Sulla carne di Napoli e della Campania le ferite del terremoto sanguinano ancora. La città è sconvolta dall’irrompere sulla scena della follia brigatista. L’azione più eclatante è il sequestro di Ciro Cirillo, braccio destro di Antonio Gava. Lo tengono prigioniero per 90 giorni. Tre mesi e succede di tutto. Imprenditori napoletani vicini al partito di Gava raccolgono fondi, la Dc e i servizi segreti trattano con Raffaele Cutolo e le Br per la liberazione del notabile di Torre Del Greco. Quello che non era stato fatto per Aldo Moro viene fatto per Ciro Cirillo. Alla fine viene pagato un riscatto: 1miliardo e mezzo alle Br, quasi il doppio a Cutolo. Il resto della storia è una lunga catena di morti, almeno 12 possibili testimoni. Depistaggi. Uccisioni per fermare la verità. Antonio Ammaturo, capo della Squadra Mobile di Napoli, aveva scritto un dossier sui retroscena di quel sequestro, viene ucciso dalle Br nell’82. Il commando gode dell’appoggio di uomini della camorra. Quando sei anni dopo il giudice istruttore Carlo Alemi consegna la sua inchiesta sul sequestro Cirillo, viene attaccato in Parlamento e definito dal capo del governo «un giudice che si è posto al di fuori del circuito istituzionale». Presidente del Consiglio era Ciriaco De Mita, ministro dell’Interno Antonio Gava. Alemi fu messo sotto inchiesta dal Csm. Aprile 2001, Ciro Cirillo viene intervistato da Giuseppe D’Avanzo de «La Repubblica». «Signore mio - dice - la verità sul mio sequestro la tengo per me. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte si vedrà». Accadeva a Napoli, ai bei tempi di quelli che «eravamo meglio noi».

«Definire storicamente cosa sia il ceto medio non è difficile; decisamente più complicato è intrecciare questa definizione con i redditi che vengono denunciati al fisco italiano: le denunce dei redditi presentate dai contribuenti sono una caricatura del paese reale. Quello che è certo è che questa finanziaria non è fatta contro il ceto medio e trovo ridicolo chi fa affermazioni di questo contenuto. Mentre trovo positivo che per la prima volta un governo affermi apertamente che la finanziaria è stata concepita per operare una redistribuzione del reddito a favore delle classi che in questi anni sono state fortemente penalizzate». Luciano Gallino dà giudizi netti sulla manovra economica del governo anche se i 217 articoli della legge e le oltre 250 pagine di testo non sono una lettura agevole. «Piena com'è - sostiene - anche di molti aspetti tecnici».

Professore, l'opposizione di destra attacca il governo Prodi sostenendo che la finanziaria è un duro colpo ai ceti medi. Possiamo provare a definire che cos'è il ceto medio?

Il ceto medio è una definizione che nasce un paio di secoli fa. Oggi come allora con questo termine definiamo coloro che dispongono di mezzi e anche competenze per poter lavorare e guadagnare. Semplificando: imprenditori, commercianti, professionisti, avvocati. Questo è un po' il nucleo classico del ceto medio. Al quale dobbiamo aggiungere i dirigenti, i tecnici, i funzionari della Pubblica amministrazione, i professori universitari.

Ma esiste ancora un ceto medio? Non ritiene che la tendenza sia quella di una proletarizzazione, anche in forme diverse dal passato? O meglio ancora: secondo studi recenti quella cui stiamo assistendo appare come una polarizzazione verso le classi estreme.

Non sono d'accordo con l'affermazione che il ceto medio stia scomparendo e che ci sia un forte aumento della proletarizzazione. Mi sembra eccessivo dirlo. Sono invece d'accordo con chi parla di una polarizzazione: la piramide sociale sembra avere un vertice più ristretto e i passaggi tra le varie classi sono meno frequenti. Polarizzazione è un concetto più aderente alla realtà.

Banalizzando, mi sembra che lei affermi che chi è già ricco tende a essere ancora più ricco, mentre per tutti gli altri è difficile fare passi avanti, risalire la piramide.

La distanza tra il 10-20 per cento della popolazione più ricca e il 10-20 di quella più povera è aumentata. E non solo in Italia.

Da un punto di vista delle statistiche del reddito e del patrimonio è possibile fissare chi oggi in Italia è «ceto medio»?

Se parliamo dell'Italia ci scontriamo con una straordinaria povertà delle statistiche. Negli Stati uniti è sufficiente collegarsi con il sito del Congresso o con quello del Census bureau, tanto per citarne solo un paio, per sapere tutto o quasi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Certo, anche negli Usa c'è evasione fiscale e come sempre una reticenza dei più ricchi a far sapere quanto sono effettivamente ricchi. Però i dati complessivamente sono significativi ed è sicuro che tra i poveri non si nascondono i falsi poveri, cioè gli evasori fiscali. In Italia, purtroppo, le statistiche non sono altrettanto soddisfacenti: le indagini campionarie dell'Istat e della Banca d'Italia forniscono sono una parziale approssimazione. I dati dei bilanci delle famiglie, quelli sui consumi e sulla distribuzione della ricchezza sono molto approssimati. Prima di tutto perché le indagine sono campionarie e un campione anche se ben fatto è sempre una rappresentazione approssimata dell'universo. E poi perché l'approssimazione cresce al crescere dei redditi. Queste indagini, anche se recentemente hanno rilevato la dicotomia nella crescita dei vari redditi, non possono essere la base per cercare di definire la soglia reddituale del ceto medio.

Insomma c'è una sorta di omertà, anche se l'indagine è anonima e non vale a fini fiscali.

Decisamente. Ma va anche peggio se utilizziamo i dati sulle denunce fiscali per cercare di capire quale sia la vera distribuzione dei redditi in Italia: dalla configurazione della piramide dei redditi quella che emerge è una caricatura del paese reale.

Fare stime dell'evasione fiscale non è facile: i dati sul reddito nazionale stimano però un prodotto interno lordo di un 25-30 per cento superiore a quello che emerge dai dati fiscali.

Non c'è solo l'evasione, ma anche l'elusione e l'erosione. Si stima che il lavoro nero equivalga all'occupazione di almeno altri 5 milioni di persone. In parte anche lavoro dipendente, di chi svolge un doppio lavoro. In realtà l'area dell'evasione si nasconde soprattutto nel lavoro autonomo, nelle imprese. Fa cascare le braccia apprendere che in base ai dati delle denunce dei redditi al fisco solo l'1,59% dei contribuenti denuncia più di 70mila euro l'anno.

I dati sul patrimonio mobiliare (712mila persone con oltre 500mila euro, un miliardo di lire) dei quali più volte recentemente abbiamo scritto sul manifesto mi sembrano confermare che gli italiani non sono molto sinceri con il fisco. Ma torniamo al problema politico: questa finanziaria può essere etichettata - come fa la destra - come «contro il ceto medio»?

E' una forzatura politica: se le dichiarazioni dei redditi fossero corrispondenti o vagamente vicine alla realtà ci potrebbe essere qualche appiglio, anche se questa finanziaria a quanto mi sembra tende a far pagare qualche centinaia di euro in più solo agli alti redditi. Ovvero i contribuenti che denunciano più di 75mila euro l'anno. Tutti gli altri, almeno fino alla soglia dei 40mila euro, che sulla base delle dichiarazioni sembrano costituire il ceto medio, avranno invece dei benefici fiscali che crescono al diminuire dei reddito. E questo mi spinge a pensare che la finanziaria operi un passo, magari piccolo, verso una politica di redistribuzione del reddito. La prima finanziaria se non sbaglio, è del 1978 e questa è la prima volta che sento parlare un governo di redistribuzione del reddito. Non è poco.

Non c'è il rischio che la redistribuzione del reddito privilegi chi è un evasore fiscale?

Nel ceto medio non c'è solo chi denuncia più di 40mila euro l'anno, ma anche i gioiellieri che, se non ricordo male, denunciano circa 20mila euro di ricavi al fisco. Il problema quindi è la spaccatura tra l'appartenenza al ceto medio e il reddito che viene denunciato. E' evidente che il vero problema è la lotta all'evasione fiscale, che consente di determinare il vero livello di reddito.

Fra chi più si lamenta di questa finanziaria sembra esserci la reale classe media, secondo la definizione che ne ha dato, che è anche quella che denuncia al fisco quanto realmente guadagno. Insomma, i lavoratori dipendenti, i manager, i professori universitari che saranno costretti a pagare più tasse solo perché denunciano più di 70mila euro lordi l'anno.

E' vero. In Italia esistono molte persone che non possono sfuggire al fisco. Non so quante siano esattamente. Tra loro per esempio vi sono i professori universitari i quali - parlo per esperienza personale - ai 70mila euro non arrivano. E credo che non sia piacevole per loro vedersi continuamente inseriti in una classe di privilegiati, mentre i veri privilegiati sono quelli che hanno redditi reali simili ai loro che però sfuggono a qualsiasi tipo di tassazione.

L'unica vera «persecuzione» al ceto medio sarebbe fare un lotta seria all'evasione fiscale.

Non c'è dubbio, visto che per molti appartenenti al ceto medio siamo a livello di dichiarazione dei redditi al disotto della decenza fiscale.

Che giudizio dà complessivamente di questa finanziaria?

Salvo le piccole distorsioni alle quali accennavo, cioè alcune migliaia di contribuenti che si sentono presi in giro, direi che è un notevole passo in avanti, per quanto sostenevo prima: ovvero la redistribuzione del reddito. E' un fatto politico di rilievo.

I quaresimalisti lavoravano sulle midolla, vedi Paolo Segneri a proposito d’inferno, morte improvvisa, sorti dell’anima. La forma moderna del sermone è l’editoriale. Ad esempio: viviamo nel rischio d’attentati; in ogni istante può scatenarsi il diavolo; esplosioni, gas tossico, peste manufatta; e quando la posta sia enorme, avrebbe senso rifiutare espedienti forse utili, quali la tortura, in ossequio all’etica inerme? Shock nel pubblico. L’autore se ne compiace: voleva scuoterlo; il problema, capitale nel pensiero politico, è se la tutela assoluta delle libertà sia compatibile con una guerra endemica, fuori d’ogni regola. No, l’apparato pacifico non ferma i kamikaze. Fortunatamente esiste la via d’uscita: un «compromesso tacito» dove lo Stato conservi l’aspetto virtuoso, mantenendo acque grigie tra legalità e delitto, dove nuotino tranquilli i pesci dell’agenzia che combatte l’alieno; lì non vigono norme; lo Stato in maschera virtuosa s’arresta sulla soglia; vi mette piede solo nei casi straordinari, «con la massima cautela», senza disturbare gli addetti al lavoro talvolta sporco. E i possibili effetti degenerativi? Vigilerà il governo ma sia chiaro: l’affare nasce e muore nella sfera politica; il diritto non c’entra. Spira aria burlesca (vengono in mente Voltaire, Candide ou l’optimisme, e sul versante fosco, Molière, Tartuffe), ma vuol essere un sermone serio, terribilmente serio. Vediamo dove porta.

Se ho capito bene, l’oratore non invoca arnesi legali d’eccezione quali gli stati d’assedio, martial law, i pieni poteri d’Hitler votati dal Reichstag a salvaguardia «del popolo e dello Stato», 23 marzo 1933, o il «Patriot Act» Usa 26 ottobre 2001 (misure interinali a carico dello straniero sospetto) o gli assai più incisivi «Military Commission Orders» del Presidente, 21 marzo e 21 giugno 2003, nonché le otto «Military Instructions» che li attuano: niente d’analogo; e finché esista l’attuale Carta, nascerebbe invalida ogni previsione d’impunità. Né versiamo nel contesto del romano iustitium, dal verbo «sistere», fermare corpi o fluidi in moto: tale è metaforicamente lo ius, macchina del diritto (succede anche al sole, «sol-stitium»); un senatoconsulto l’arresta perché incombono pericoli letali (Annibale alle porte, Catilina complotta, tumulti); fuori delle solite competenze, qualcuno salva la res publica; talvolta germinano poteri spontanei; capita che il privato agisca quasi fosse console. Stasi breve. L’atto cade in spazi legalmente vuoti: è valutabile poi, appena l’astro riprenda il corso interrotto; mettere a morte i catilinari era decisione dubbia, infatti Cicerone subisce un breve esilio. Tutto chiaro invece nell’affare Roehm. Questo turbolento capo delle SA, guardia armata nazista, guasta l’armonia con le gerarchie militari ed economiche: Hitler è solo cancelliere, in attesa che il decrepito Hindenburg passi a miglior vita cedendogli la presidenza, acquisita la quale, diventerà Führer, e non ci pensa due volte; sabato 30 giugno 1934 matta i dissidenti, inclusi vari estranei. Due settimane dopo, racconta al Reichstag d’avere operato da supremo giustiziere. Gli canta un inno Carl Schmitt, politologo troppo intellettuale, quindi senza fortuna nella birreria nazista (le sue piccole e vaghe idee in brodo ornato riscuotono ancora un culto trasversale): Adolf Hitler è Führer; ordinata da lui, la carneficina diventa pura giurisdizione. Su scala minore era avvenuto in casa nostra. Bologna, domenica 31 ottobre 1926: qualcuno spara a Mussolini; gli squadristi linciano Anteo Zamboni, 15 anni; l’indomani il «Popolo d’Italia» chiama fulmini sui mandanti; sarebbe «un’onta» seguire le «procedure ordinarie».

L’oratore, dunque, non chiede leggi speciali né contempla stasi del diritto quali sopravvenivano nello iustitium: liquidare i catilinari o le SA era affare d’uno o due giorni, mentre il pericolo d’attentati permane; tra qualche anno forse sarà peggio, Iddio non voglia. E allora? L’ha detto, ci vuole uno stato equivoco in cui vigano le norme consuete, purché gli angeli abbiano mano libera, sotto un misterioso controllo politico: e calca l’accento sul qualificativo; è roba segreta; i giusdicenti non vi mettano becco. Come dire «piove ma non piove». Diritto e logica esauriscono l’universo: nei sistemi a due qualificatori, l’atto è x o non-x; ha mai letto Wittgenstein? Supponiamo che gli operatori della cosiddetta sicurezza sequestrino dei sospetti, li tengano in prigioni occulte, li torchino ad eruendam veritatem, e la cosa trapeli. Il pubblico ministero indaga, indi agisce: tribunali o corti competenti accertano l’accaduto; risultando vera l’accusa, possono solo condannare. L’unica alternativa è un illegalismo delittuoso: che il magistrato requirente chiuda gli occhi, complice del potere esecutivo la cui sfera non tollera sguardi profani (obbligo d’agire e pubblico ministero indipendente stanno sullo stomaco ai quaresimalisti): o se una testa storta lo instaura, il processo finisca in mano a giudici duttili, dallo stomaco forte, sicché i serventi segreti escano indenni; bella prospettiva, inquinare organicamente la giustizia. Nelle monarchie assolute circolavano lettere col sigillo reale. Qui avverrebbe tutto nelle anticamere, a bisbigli. Poteri occulti sicuri dell’impunità sviluppano una versatile delinquenza, dai traffici lucrosi al colpo di Stato. Così vuol difendere un paese moralmente debole, nella cui storia le collusioni politico-militari mischiano inettitudine, avventurismo, fantasia negromantica, sciagure? Vedi Luigi Cadorna, comandante supremo 1915-17: dissangua l’esercito in undici stupide offensive, finché poche divisioni prestate dai tedeschi rompono l’assurdo schieramento italiano, allora diventa falsario; incolpa i soldati e la mano molle governativa, rammollita dall’ideologia democratica, quindi tollerante del «nemico interno»; opportunisticamente riabilitato, proclama che mai vi sarebbe stata Caporetto sotto il timone mussoliniano. Ancora più nefasti i successori nella seconda guerra mondiale. Giolitti memorialista, abitualmente cauto, usa parole dure sulla clique militare politicante.

ROMA - Alle sei del pomeriggio il deputato dimissionario Paolo Cacciari, barba grigia molto curata, fratello "massimalista" del sindaco riformista di Venezia, è nel suo studio al quarto piano di palazzo Marini. Su una scrivania lo scatolone pieno a metà di cartelle e fascicoli dei suoi due mesi di vita parlamentare. Il cellulare squilla in continuazione. In tivù Franco Giordano, il segretario del suo partito, sta spiegando in aula le ragioni del sì al decreto che rifinanzia le missioni militari.

Onorevole Cacciari, Giordano sta dicendo che la pace è qualcosa che in politica si costruisce giorno per giorno, a piccoli passi. Perché non ha condiviso questa linea e si è dimesso, all’improvviso?

«Mi spiace molto aver spiazzato i compagni. Giudico però questo dibattito parlamentare inadeguato e insufficiente. Si è avvitato su un carro armato in più e un fucile in meno. Io vengo dalla scuola della non violenza, sono promotore di quel convegno che ogni anno sull’isola di San Servolo a Venezia mette insieme e cerca di contaminare il movimento operaio con le posizioni anarchiche e le pratiche pacifiste e non violente. Bertinotti mi ha scelto per questo. E io cosa faccio? Vengo qui e rinnego tutto? Non è possibile. Così ho raccolto l’invito avanzato da Sofri sulle pagine di Repubblica e lascio libero il mio seggio(l’articolo è sulla scrivania sottolineato in rosso e blu, ndr)».

Si è dimesso per un problema etico e di coscienza? La politica non sempre ha queste priorità...

«Io credevo, e lo credo ancora, che Rifondazione sia il partito che mette fine alla divisione tra etica e politica. Ho iniziato così il mio intervento stamani: "Questa volta la politica non mi aiuta a tenere insieme ragionamento e convinzione". E ho citato Bobbio: "L’etica della responsabilità è quella della coscienza"».

Nel discorso con cui ha spiegato le dimissioni, lei però riconosce che la mozione parlamentare e il disegno di legge sono "le migliori possibili nelle condizioni date".

«Ma la coscienza mi dice anche che le carneficine in corso in Medio oriente avrebbero bisogno di una rottura netta e immediata con le pratiche e le scelte fatte finora dall’Italia e dall’Occidente».

E’ consapevole che la sua scelta apre la strada a una sconfitta della maggioranza al Senato?

«Sia chiaro che io, al contrario di Strada, non brindo se cade questo governo. Ma sono anche tristissimo se da questo governo non arriva un contributo alla crescita di una cultura non violenta e di pace. Ho cercato di fare la cosa più indolore per la maggioranza».

Cosa doveva fare, secondo lei, il governo per segnare la discontinuità in politica?

«Io riconosco una discontinuità in politica estera a questo governo. Ma i contingenti Onu in Libano e Palestina e le missioni militari di pace sono un’abdicazione della politica. Ed è un’illusione suicida credere che siano la soluzione del problema».

Quindi?

«Quindi penso ai corpi di pace, alla diplomazia dal basso, alla cooperazione, alla confidence building, alla costruzione del consenso. Ma tutto questo sembra politica di serie b».

A chi ha rassegnato le dimissioni?

«Al Presidente della Camera».

Cosa dice ai vertici di Rifondazione?

«Che ho rotto un mandato politico che il partito ci ha chiesto ripetutamente di non tradire. Per questo restituisco il mio mandato».

La partita più bella l'Italia non l'ha vinta in Germania con un rigore all'ultimo minuto, l'ha vinta in casa, con un punteggio straordinario, dopo svariati ed estenuanti anni di gioco. Quel perentorio 61,7% di No alla controriforma costituzionale che avrebbe dovuto suggellare l'era berlusconiana acquista tanto più valore con quell'inatteso 53,6% di partecipanti al voto, che dopo dieci anni di quorum mancato riabilita, proprio sulla Carta fondamentale, l'istituto referendario e la vigilanza popolare sulle scelte politiche. Il No c'era il rischio che perdesse, ma c'era anche il rischio che vincesse di misura, con una partecipazione svogliata che avrebbe indirettamente autorizzato il ceto politico, di destra e di sinistra, a continuare a trattare la Costituzione come cosa propria, disponibile allo scambio politico. Così non è stato e i numeri parlano chiaro: la Costituzione è di tutti, e nel momento di massimo rischio i suoi titolari se la sono presa in mano per presidiarla e confermarla.

L'inatteso e non necessario quorum raggiunto oggi riporta alla mente il mancato quorum, altrettanto inatteso ma necessario, del referendum del '99 sull'abolizione della quota proporzionale dal «Mattarellum». Quel quorum mancato di allora pose fine alla favola bella del maggioritario come panacea di tutti i mali che aveva accompagnato i primi dieci anni della transizione italiana. Il quorum raggiunto di oggi mette fine alla favola bella della riforma costituzionale come protesi indispensabile di una modernizzazione senza qualità che ha accompagnato anche gli anni successivi. Allora come oggi ne viene travolto e sepolto lo schema semplificato vecchio-nuovo di cui si accontenta una politica immiserita negli obiettivi e nelle pratiche.

Posto di fronte a un quesito fondamentale sulla legge fondamentale, il paese «spaccato in due» della retorica postelettorale di poche settimane fa ha ritrovato una sua fondamentale unità, irrispettosa del bipolarismo coatto. Ha detto No all'egoismo sociale, al mito del Capo e alla servitù volontaria che nelle intenzioni dei riformatori avrebbero dovuto sostituire i principi della solidarietà, dell'uguaglianza, della rappresentanza scritti in Costituzione. Anche la divisione territoriale artatamente costruita fra un'Italia moderna e produttiva e un'Italia passatista e dipendente ne esce ridimensionata: trionfante al Sud il No alla devolution vince anche al Nord, e il 51,8% che conquista a Milano parla chiaro quanto e più del 68,4% che incassa a Palermo o dell' 82,5% in Calabria. Spiace per Bossi e per Speroni,ma se andranno in Svizzera pochi li seguiranno. Spiace per Berlusconi e Fini, ma tre sconfitte in tre mesi, e quest'ultima più di tutte, dicono che il vento del '94 ha smesso di soffiare. Sulla posta in gioco cruciale e ultimativa, quella del sovversivismo costituzionale della destra estranea al patto del '48, il paese ha messo l'alt.

Ma l'ha messo anche sul vizio di giocare col fuoco della revisione che incanta al centro e a sinistra anche gli eredi di quel patto. Che i loro leader provassero a incassare la vittoria del No come un'autorizzazione a procedere sulla strada delle riforme perseguita in passato era del tutto scontato; e tuttavia suona oggi del tutto stonato. Quel No ha un altro suono. Rilegittima una Costituzione che anche loro hanno colpevolmente contribuito a delegittimare. E obbliga anche loro a sottostare alla sua autorità. Come tutte le leggi umane, la Carta del '48 non è intoccabile, ma nell'ambito dei suoi principi e delle sue procedure. Dopo il voto di ieri, fantomatiche commissioni, convenzioni e assemblee costituenti sono diventate improponibili, come pure ipotetiche riscritture complessive. La revisione costituzionale possibile torna a essere puntuale, affidata al parlamento, sottratta al capriccio delle maggioranze e, si spera, assicurata a un 138 al più presto riformulato.

Due anni prima di morire mio padre mi consegnò un valigetta piena di suoi scritti, manoscritti e taccuini. Assumendo la sua solita espressione ironica e scherzosa mi disse che voleva che li leggessi dopo che se n´era andato, intendendo con ciò dopo la sua morte.

«Dai un´occhiata», disse con aria di lieve imbarazzo. «Guarda se c´è dentro qualcosa che ti può servire. Forse, dopo che me ne sarò andato, potrai fare una cernita e pubblicare il materiale».

Eravamo nel mio studio, circondati da libri. Mio padre cercava un posto dove posare la valigetta andando avanti e indietro come chi voglia liberarsi di un penoso fardello. Infine la depose con discrezione in un angolo dove non avrebbe dato fastidio. Una volta passato questo momento un po´ imbarazzante ma indimenticabile, riprendemmo la leggerezza tranquilla dei nostri soliti ruoli, le nostre personalità sarcastiche e disinvolte. Parlammo come sempre facevamo delle piccole cose della vita quotidiana, degli infiniti problemi politici della Turchia e delle avventure imprenditoriali di mio padre, per lo più fallimentari. Ne discorremmo senza troppo rammarico.

Ricordo che, andato via mio padre, per giorni passai accanto alla valigetta senza neppure sfiorarla. Conoscevo dalla mia infanzia quella piccola borsa di pelle nera, la sua serratura, gli angoli arrotondati. Mio padre la teneva sempre con sé nei brevi spostamenti e talvolta la usava per portare documenti al lavoro. Ricordo che, da bambino, quando tornava da un viaggio aprivo quella valigetta e frugavo tra le sue cose, beandomi del profumo di colonia e di paesi stranieri. Quella valigetta era una presenza amica e familiare, mi ricordava intensamente l´infanzia, il mio passato, ma ora non riuscivo neppure a toccarla. Perché? Senza dubbio dipendeva dal peso misterioso del suo contenuto.

Parlerò ora del senso di questo peso. È il senso del lavoro di un uomo che si chiude in una stanza, che, seduto a un tavolo o in un angolo, si esprime per mezzo di carta e penna, vale a dire il senso della letteratura. Nel momento in cui toccai la valigia di mio padre pur senza riuscire ad aprirla, sapevo che cosa contenevano alcuni di quei taccuini. Avevo visto mio padre intento a scrivere su alcuni di essi. Non era la prima volta che avevo sentito parlare del pesante carico contenuto nella valigia. Mio padre aveva un´ampia biblioteca. Da giovane, alla fine degli anni ‘40, aveva aspirato a diventare poeta, a Istanbul, e aveva tradotto Valery in turco, ma non aveva voluto vivere la vita riservata a chi scriveva poesie in un paese povero con pochi lettori. Il padre di mio padre, mio nonno, era stato un ricco uomo d´affari, suo figlio aveva vissuto una vita agiata da bambino e da ragazzo e non aveva intenzione di cadere in ristrettezze in nome della letteratura. Amava la vita e tutte le sue piacevolezze, e lo capivo.

La prima cosa che mi tenne lontano dal contenuto della valigetta di mio padre era, ovviamente, il timore di non gradire ciò che avrei letto. Mio padre lo sapeva, e per questo si era preoccupato di far finta di non prendere troppo sul serio il contenuto della borsa. Ne fui addolorato, dopo 25 anni passati a scrivere, ma non volevo neppure irritarmi con lui perché non prendeva la letteratura abbastanza sul serio...

Il mio vero timore, la cosa essenziale che non volevo sapere o scoprire era la possibilità che mio padre fosse un bravo scrittore. Non riuscivo ad aprire la valigetta di mio padre perché temevo questo. Peggio ancora, non riuscivo neppure a confessarlo a me stesso. Se dalla valigetta di mio padre fosse emersa della vera, grande letteratura, avrei dovuto ammettere che dentro mio padre esisteva un uomo del tutto diverso. Era una possibilità che mi spaventava. Perché anche alla mia non più tenera età volevo che lui fosse soltanto mio padre, non uno scrittore.

Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca del secondo essere al suo interno, e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrivere, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o una tradizione letteraria, è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e, da solo, si concentra su se stesso, tra le sue ombre costruisce un mondo nuovo con le parole.

* * *

Avevo timore ad aprire la valigetta di mio padre e a leggere i suoi taccuini perché sapevo che non avrebbe tollerato le difficoltà che avevo sopportato io, che non era la solitudine che lui amava, bensì mescolarsi agli amici, la folla, i salotti, gli scherzi, la compagnia. Ma poi i miei pensieri presero una direzione diversa. Queste idee, questi sogni di rinuncia e pazienza, erano pregiudizi che avevo tratto dalla mia vita e dalla mia personale esperienza di scrittore. C´erano moltissimi scrittori geniali che conducevano una vivace, brillante vita sociale e familiare fatta di compagnia e allegre conversazioni. Inoltre mio padre quando eravamo piccoli, stanco della monotonia della vita familiare, ci lasciò per andarsene a Parigi, dove, come tanti autori, sedeva nella sua stanza d´albergo a riempire taccuini. Sapevo anche che alcuni di quei taccuini si trovavano nella valigetta perché qualche anno prima di portarmela egli aveva finalmente iniziato a parlarmi di quel periodo della sua vita. Raccontava di quegli anni anche quando ero bambino ma senza far cenno alle sue debolezze, ai suoi sogni di diventare scrittore, o alle crisi di identità che lo avevano afflitto nella sua stanza d´albergo. Mi parlava invece delle volte che aveva visto Sartre per le strade di Parigi, dei libri letti, dei film visti, con il sincero trasporto di chi comunica notizie importantissime. Divenuto scrittore, non dimenticai mai ciò che accadde grazie a quel padre che parlava degli scrittori di fama mondiale molto più che di pascià e grandi autorità religiose. Forse allora dovevo leggere i suoi appunti con questa consapevolezza e ricordare quanto fossi in debito con la sua vasta biblioteca. Dovevo tenere a mente che, quando viveva con noi, come me, amava star solo in compagnia dei suoi libri e dei suoi pensieri e non prestava troppa attenzione al valore letterario dei suoi scritti.

Ma mentre fissavo con apprensione la valigetta lasciatami in eredità sentivo anche che era proprio questo che non sarei riuscito a fare. Mio padre talvolta si allungava sul divano davanti ai suoi libri, lasciava cadere il volume o la rivista che aveva in mano e si perdeva in un sogno, sprofondato a lungo nei suoi pensieri. Vedendogli sul viso un´espressione così diversa da quella che aveva nell´atmosfera scherzosa e allegra dei battibecchi familiari, scoprendo in lui i primi accenni di introspezione, pensavo, soprattutto da bambino e nella prima giovinezza, con trepidazione che non fosse contento. Oggi, a distanza di tanti anni, so che questa insoddisfazione è la caratteristica fondamentale che fa di un individuo uno scrittore. Per diventare scrittore pazienza e fatica non bastano: dobbiamo innanzitutto sentire l´impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la consuetudine, la quotidianità e a chiuderci in una stanza. Aspiriamo alla pazienza e speriamo di riuscire così a creare un mondo intenso nei nostri scritti. Ma è il desiderio di chiuderci in una stanza che ci spinge all´azione. Il precursore di questo genere di scrittore indipendente, che legge i suoi libri per soddisfare il suo cuore e che ascoltando esclusivamente la voce della propria coscienza, discute con le parole altrui, che conversando con i suoi libri sviluppa i suoi pensieri e il suo mondo personale, fu senza dubbio Montaigne, agli albori della letteratura moderna. Montaigne era un autore cui mio padre tornava spesso, un autore che mi raccomandava. Mi piacerebbe considerarmi parte della tradizione di scrittori che ovunque si trovino nel mondo, in Oriente o in Occidente, si tagliano fuori dalla società rinchiudendosi con i loro libri nella loro stanza. La vera letteratura parte dall´uomo che si chiude nella sua stanza con i suoi libri.

* * *

Fu questo a spingermi ad aprire la valigetta di mio padre. Aveva forse un segreto, un´infelicità che ignoravo, qualcosa che riusciva a sopportare solo riversandola nei suoi scritti? Non appena aprii la valigetta ritrovai il profumo di viaggi, riconobbi vari taccuini e notai che mio padre me li aveva mostrati anni addietro senza però soffermarvisi molto a lungo. La maggior parte dei taccuini che ora avevo tra le mani li aveva riempiti quando ci aveva lasciato per recarsi a Parigi, da giovane. Il mio desiderio era sapere che cosa avesse scritto e che cosa avesse pensato mio padre alla mia stessa età. Non mi ci volle molto a capire che non avrei trovato nulla del genere là dentro. A turbarmi particolarmente fu l´imbattermi qui e là, nei taccuini di mio padre, in una voce narrante. Non era la voce di mio padre, dissi a me stesso, non era la sua voce originale, o meglio, non quella dell´uomo che conoscevo come mio padre. Al di là del timore che mio padre non fosse più mio padre nel momento in cui scriveva, c´era un timore più profondo: la paura di non trovare nulla di buono negli scritti di mio padre, di scoprire che si era fatto eccessivamente influenzare da altri autori, e sprofondai nella disperazione che mi aveva afflitto da ragazzo tanto da porre in discussione la mia vita, la mia stessa esistenza, il mio desiderio di scrivere e la mia opera. Durante i miei primi dieci anni da scrittore avvertii quest´ansia più profondamente, e pur respingendola, talvolta temevo che un giorno avrei dovuto ammettere la sconfitta, come avevo fatto con la pittura e soccombere all´inquietudine, abbandonando anche l´attività di romanziere.

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Un autore parla di cose che tutti sanno senza averne consapevolezza. Esplorare questo sapere e vederlo crescere dà al lettore il piacere di visitare un mondo al contempo familiare e miracoloso. Quando un autore si chiude per anni in una stanza per affinare la sua arte, quella di creare un mondo, se usa le sue ferite segrete come punto di partenza ripone, che lo sappia o no, una grande fede nell´umanità. La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie, e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino. Quando uno scrittore si chiude per anni in una stanza, evoca col suo gesto un´umanità unica, un mondo privo di centro. Ma come si può vedere dalla valigetta di mio padre e dalle nostre vite sbiadite a Istanbul, il mondo aveva un centro ed era lontanissimo da noi. Nei miei libri ho descritto in dettaglio come questa realtà evocasse un provincialismo cechoviano e come, per altra via, mi spingesse a porre in discussione la mia autenticità. Sapevo per esperienza che la gran maggioranza delle persone su questa terra condividono le stesse sensazioni e che molti sono afflitti da un senso ancor più profondo di inadeguatezza, insicurezza e abbrutimento rispetto a me. Sì, i maggiori dilemmi che l´umanità si trova ad affrontare sono ancora la povertà, la mancanza di un tetto, e la fame... Ma oggi la televisione e i giornali ci informano su questi fondamentali problemi più rapidamente e più semplicemente di quanto possa mai fare la letteratura. Oggi l´oggetto dell´indagine della letteratura devono essere soprattutto le paure dell´umanità: la paura di essere esclusi, la paura di non contare nulla e il senso di nullità che le accompagna. Le umiliazioni collettive, le vulnerabilità, gli affronti, i torti, le suscettibilità, gli insulti immaginati, e i vanti e la retorica nazionalista... Ogniqualvolta mi confronto con questi sentimenti e con il linguaggio irrazionale, eccessivo con cui vengono generalmente espressi, so che toccano un punto oscuro al mio interno. Abbiamo spesso visto popoli, società e nazioni esterni al mondo occidentale, e mi è facile identificarmi con essi, soccombere a timori che li conducono a commettere idiozie, tutto per paura di subire umiliazioni e a motivo delle loro suscettibilità. So anche che in Occidente, un mondo con cui mi è altrettanto facile identificarmi, nazioni e popoli eccessivamente fieri della loro ricchezza e del fatto di averci portato il Rinascimento, l´Illuminismo il Modernismo, di tanto in tanto hanno ceduto a un autocompiacimento quasi altrettanto idiota.

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Significa che mio padre non era l´unico, che tutti diamo eccessiva importanza all´idea di un mondo con un centro. Ciò che invece ci spinge a chiuderci nelle nostre stanze a scrivere per anni e anni è la convinzione opposta, quella che un giorno i nostri scritti saranno letti e compresi perché tutta la gente del mondo si somiglia. Ma questo, lo so dai miei scritti e da quelli di mio padre, è un ottimismo inquieto, segnato dalla rabbia di essere relegato ai margini, escluso. L´amore e l´odio che Dostoevskij provò per tutta la vita nei confronti dell´Occidente l´ho provato anch´io, in numerose occasioni. Ma se ho afferrato una verità essenziale, se ho motivo di essere ottimista è perché ho viaggiato assieme a questo grande scrittore attraverso il suo rapporto di amore-odio con l´Occidente, per contemplare l´altro mondo che egli ha costruito dall´altra parte.

* * *

Mio padre avrà magari scoperto questo genere di felicità durante gli anni passati a scrivere, pensavo fissando la sua valigetta: non dovevo giudicarlo a priori. Gli ero così grato, dopo tutto. Non era mai stato un padre qualunque, autoritario soffocante, punitivo, ma un padre che mi ha sempre lasciato libero, che ha sempre dimostrato nei miei confronti il massimo rispetto. Avevo pensato spesso che se, di tanto in tanto, ero stato capace di attingere alla mia immaginazione, come un bambino, era perché a differenza di tanti miei amici dell´infanzia e della giovinezza, non avevo paura di mio padre e talvolta ero profondamente convinto che sarei riuscito diventare scrittore perché anche mio padre, da giovane, lo aveva desiderato. Dovevo leggere i suoi scritti con spirito di tolleranza, cercare di capire che cosa aveva scritto in quelle stanze d´albergo.

Animato di ottimismo mi avvicinai alla valigetta che giaceva ancora dove mio padre l´aveva lasciata. Facendo appello a tutta la mia forza di volontà ho letto qualche manoscritto e qualche taccuino. Che cosa scriveva mio padre? Ricordo qualche scorcio dalle finestre degli hotel di Parigi, poesie, paradossi, analisi... Mi sento ora come chi è appena stato vittima di un incidente stradale e si sforza di ricordare come è successo mentre al contempo trema alla prospettiva di ricordare troppo. Da bambino quando i miei genitori erano sul punto di litigare e tra loro calava un silenzio letale, mio padre accendeva sempre la radio, per cambiare atmosfera e la musica ci aiutava a dimenticare tutto più in fretta.

Permettetemi di cambiare atmosfera con qualche parola che, mi auguro, abbia l´effetto della musica. Come sapete la domanda che più spesso viene posta a noi scrittori, la domanda preferita è: perché scrive? Io scrivo perché sento il bisogno innato di scrivere! Scrivo perché non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perché voglio leggere libri come quelli che scrivo. Scrivo perché ce l´ho con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace stare seduto in una stanza a scrivere tutto il giorno. Scrivo perché posso prender parte alla vita reale solo trasformandola. Scrivo perché voglio che gli altri, tutti noi, il mondo intero, sappia che tipo di vita viviamo e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia. Scrivo perché amo l´odore della carta, della penna e dell´inchiostro. Scrivo perché credo nella letteratura, nell´arte del romanzo, più di quanto io creda in qualunque altra cosa. Scrivo per abitudine, per passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché apprezzo la fama e l´interesse che ne derivano. Scrivo per star solo. Forse scrivo perché spero di capire il motivo per cui ce l´ho così con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace essere letto. Scrivo perché una volta che ho iniziato un romanzo, un saggio, una pagina, voglio finirli. Scrivo perché tutti se lo aspettano da me. Scrivo perché come un bambino credo nell´immortalità delle biblioteche e nella posizione che i miei libri occupano sugli scaffali. Scrivo perché è esaltante trasformare in parole tutte le bellezze e le ricchezze della vita. Scrivo non per raccontare una storia ma per costruirla. Scrivo per sfuggire al presagio che esiste un posto cui sono destinato ma che, proprio come in un sogno, non riesco a raggiungere. Scrivo perché non sono mai riuscito ad essere felice. Scrivo per essere felice.

Una settimana dopo avermi lasciato la valigia, mio padre mi fece ancora visita. Come sempre mi portò una tavoletta di cioccolata (aveva dimenticato i miei 48 anni). Come sempre chiacchierammo e ridemmo della vita, della politica e dei pettegolezzi di famiglia. A un certo punto mio padre andò con lo sguardo all´angolo in cui aveva lasciato la valigetta e vide che l´avevo spostata. Ci guardammo negli occhi. Seguì un silenzio imbarazzato. Non gli dissi che l´avevo aperta e avevo tentato di leggere ciò che conteneva, ma distolsi lo sguardo. Capì lo stesso. Come io capii che aveva capito. Come lui capiì che avevo capito che aveva capito. Ma tutta questa comprensione durò solo lo spazio di pochi secondi. Perché mio padre era un uomo accomodante, sicuro di sé: mi sorrise come faceva sempre. E andandosene mi ripeté tutte le frasi affettuose e incoraggianti che mi diceva sempre, da padre.

Come sempre lo guardai andar via, invidiando la sua serenità, la sua spensieratezza, la sua imperturbabilità. Ma ricordo che quel giorno avvertii dentro di me anche un lampo di gioia di cui mi vergognai. Veniva dal pensiero che magari non mi sentivo a suo agio come lui nella vita, magari non avevo condotto una vita felice e libera come la sua, ma io l´avevo dedicata alla scrittura - avete capito... mi vergognavo di pensare quelle cose a scapito di mio padre. Di tutte le persone proprio mio padre, che non mi aveva mai fatto soffrire, che mi aveva lasciato libero. Tutto questo dovrebbe ricordarci che la scrittura e la letteratura sono intimamente connesse a un vuoto, al centro di tutte le nostre vite, e a un senso di felicità e di colpa.

Ma la mia storia ha un´altra componente, simmetrica, che immediatamente mi riporta alla mente un altro aspetto di quel giorno e acuisce il mio senso di colpa. Ventitré anni prima che mio padre mi lasciasse la sua valigetta e quattro anni dopo aver deciso, all´età di 22 anni, di diventare romanziere e, abbandonando tutto, di chiudermi in una stanza, terminai il mio primo romanzo, Cevdet Bey and Sons. Consegnai a mio padre con mano tremante il dattiloscritto del romanzo ancora non pubblicato perché lo leggesse e mi desse il suo giudizio. Questo non solo perché avevo fiducia nel suo gusto e nella sua intelligenza: la sua opinione contava moltissimo per me perché lui, a differenza di mia madre, non si era opposto al mio desiderio di diventare scrittore. In quel periodo mio padre non era con noi, ma molto lontano. Attesi con impazienza il suo ritorno. Quando arrivò, due settimane dopo, corsi ad aprigli la porta. Non disse nulla, ma ad un tratto mi abbracciò in un modo che esprimeva che il libro gli era piaciuto moltissimo. Per un attimo sprofondammo in quel silenzio imbarazzato che accompagna spesso i momenti di grande emozione. Quando ci calmammo e iniziammo a parlare mio padre ricorse a parole cariche ed esagerate per esprimere la fiducia che riponeva in me e nel mio primo romanzo: mi disse che un giorno avrei vinto il premio che mi accingo a ricevere oggi con tanta gioia.

Lo disse non per cercare di convincermi che apprezzava il mio libro né per pormi l´obbiettivo di questo premio. Lo disse come un padre turco dice a un figlio a mo´ di incoraggiamento «un giorno diventerai un pascià!». Per anni, ogni volta che mi vedeva, ripeteva quelle parole per incoraggiarmi.

Mio padre è morto nel dicembre 2002.

(traduzione di Emilia Benghi)

© The Nobel Foundation 2006


DICONO i sondaggi negli Stati Uniti che l'elettore americano, questa volta, concentrerà tutta la propria malcontenta attenzione su Bush, sulla fallita missione in Iraq, e sulle migliaia di soldati fatti morire in una guerra sbagliata, mal preparata, condotta al tempo stesso con enorme passione e ancor più enorme sciatteria. Dicono che non è l'economia a preoccupare i votanti, ma lo stato di guerra permanente e inane in cui il Paese si trova a dover vivere da quando Bush è diventato capo dello Stato. Questo stato di guerra ha trovato il suo simbolico battesimo politico il giorno in cui il terrorismo colpì le Torri di New York, seminando morte e terrore in un popolo dichiarato nemico da Al Qaeda.

Ma se Bush colse subito quell'occasione per lanciare non una sola guerra di rappresaglia ma più guerre inutili e deleterie, è perché già prima dell'11 settembre l'arte della politica era stata contraffatta, divenendo arte non fondata sulla mediazione ma su insanabili conflitti e divisioni. Più precisamente, era diventata un'arte dove la cultura e la religione tornavano a coincidere con la politica e a monopolizzarla, mettendo fine all'autonomia laica che quest'ultima possiede in democrazia, quando le sue istituzioni sono forti. Finita la guerra fredda, si trattava di ricreare il nemico di cui le democrazie hanno esistenzialmente bisogno per far fronte alle avversità, e il nemico fu trovato dividendo il Paese tra chi era pronto a dar battaglia sui presunti valori smarriti e chi no, tra chi voleva anteporre la cultura e la religione alla politica e chi voleva tenerle da essa separate, così come sono separate in Occidente e nella Costituzione Usa le Chiese.

La trasformazione dell'arte politica in guerra culturale era cominciata nel 1994, cinque anni dopo la sconfitta del comunismo, quando i repubblicani riconquistarono la Camera dei Rappresentanti e il Senato (da 40 anni i democratici dominavano la Camera, da 8 il Senato). Clinton era Presidente, a quel tempo, ma i repubblicani vinsero le elezioni di medio termine annunciando quella che doveva essere un'autentica rivoluzione, prolungatasi poi nella presidenza Bush. Il loro dominio sul Congresso è durato 12 anni, e in quest'intervallo molte cose sono cambiate negli Stati Uniti. È cambiata l'idea della guerra: non più fredda ma calda; non più limitata nel tempo ma dipinta come sterminata. È cambiato il rapporto tra esecutivo e legislativo, con l'esecutivo che ha accumulato immensi poteri mortificando il Congresso e le regole di diritto.

Stangata fiscale, grida la destra (e il centro). Poche riforme e nessun serio recupero strutturale della spesa, affermano sentenziosi gli economisti indipendenti.

Berlusconi, Tremonti, Bossi e Fini chiamano la piazza a scendere in piazza. Casini forse in piazza non ci andrà ma sicuramente applaudirà dalla finestra.

Il circo mediatico dal canto suo (con pochissime eccezioni) piange sulle sorti del ceto medio tartassato. Quanto al governo, difetta di efficaci strumenti di comunicazione e quando ne ha li usa male per difetto di comunicativa.

Sicché l´impressione generale, l´apparenza, è che questa Finanziaria con i suoi annessi e connessi sia nel migliore dei casi mediocre e segni comunque la vittoria politica della sinistra massimalista che avrebbe Prodi come portabandiera.

Personalmente non condivido affatto questa «apparenza».

Personalmente ritengo in tutta onestà che questa sia una buona Finanziaria. Con alcuni difetti, ma con un saldo positivo rispetto agli obiettivi che erano stati sostenuti in campagna elettorale.

Quegli obiettivi, ricordiamolo, erano tre: raddrizzamento dei conti pubblici rispetto ai parametri europei, sviluppo dell´economia, equità sociale. Padoa-Schioppa aveva aggiunto l´impegno di economizzare sulla previdenza, sugli sprechi della pubblica amministrazione centrale e locale, sulla sanità. Prodi infine aveva più volte ripetuto che non avrebbe gravato la mano sui contribuenti specificando però che avrebbe spostato il carico dalle spalle deboli a spalle meno deboli.

Dopo essermi studiato per quanto possibile la foresta dei numeri (sciopero dei giornali permettendo) io penso che gli impegni assunti con gli elettori e con l´Europa siano stati adempiuti almeno in buona misura. Ho l´impressione d´essere tra i pochi a sostenere questa tesi, ma poiché mi capita spesso, questa probabile solitudine non mi sconforta.

Cercherò di essere chiaro nella dimostrazione di questa tesi.

* * *

La manovra ammonta complessivamente a 33,4 miliardi di euro. Manovra imponente, su questo non mi pare ci possano esser dubbi. Nonostante il netto miglioramento delle entrate del 2006 che si valuta attualmente – a legislazione vigente – in oltre 10 miliardi.

Faccio osservare a questo proposito che la sinistra massimalista aveva chiesto perentoriamente di ridurre la manovra prima a 30 e poi 26 miliardi e di spalmare la parte destinata al raddrizzamento dei conti pubblici su due anni anziché sul solo 2007. Questi suggerimenti avrebbero creato più danni che vantaggi e il governo non li ha accolti. Vuol dire che il cosiddetto timone riformista ha tenuto.

Il governo sostiene che i 33,4 miliardi si ripartiscono in 15 destinati al raddrizzamento e 18,4 alla crescita e all´equità. Sostiene anche che 13 miliardi proverranno da entrate e 20 da economie.

L´opposizione naturalmente contesta, cifre alla mano.

Purtroppo quelle cifre, nove volte su dieci, sono dei falsi palesi. Dico purtroppo perché a me piacerebbe che almeno sui numeri non si discutesse, ma basta consultare i giornali della destra usciti per due giorni senza concorrenza nelle edicole per avere la dimostrazione di quei falsi.

Vediamo dunque quei numeri più da vicino, a cominciare dall´operazione equitativa con la quale il governo, e Visco in particolare, ha modificato il peso fiscale spostandolo da spalle deboli a spalle meno deboli.

* * *

Il ceto medio è un termine che designa realtà diverse. Si va dalle fasce di reddito intorno ai 15 mila euro annui ai 60 mila, cioè da 1.200 euro netti mensili a 3.500. Questa platea coinvolge più dell´80 per cento dei contribuenti. Il resto è formato da fasce esenti o da ricchi-ricchissimi. Il sommerso è un mondo a sé che secondo calcoli aggiornati supera il 20 per cento del Pil «visibile».

Tra le fasce da 15 mila e quelle da 60 mila di reddito ci sono quattro lunghezze di distacco, 60 mila è infatti di quattro volte superiore a 15 mila. Il governo ha fissato la linea di discrimine a 40 mila euro di reddito. Vuol dire che da 40 mila cominciano i ricchi? Ovviamente no, tanto più che 40 mila sono lordi. Al netto dell´imposta ne restano poco più di 30 mila, vuol dire 2.300 euro mensili per tredici mensilità. Non c´è affatto da scialare.

I redditi da 60 mila arrivano ad un netto mensile di circa 3.000 euro. Non si sciala neanche lì, ma si respira.

L´operazione redistributiva premia le fasce di reddito fino a 40 mila in modo abbastanza consistente. La spesa totale destinata al miglioramento di questi cittadini lavoratori e contribuenti è di 7,3 miliardi. Dalle fasce superiori il fisco preleverà complessivamente 6,7 miliardi. La differenza di 600 milioni la metterà lo Stato.

Un economista indipendente (di quelli che simpatizzano col centrosinistra e danno sempre ragione alla destra) ha sostenuto che i contribuenti beneficiari percepiranno un vantaggio di 6 euro a testa all´anno. Mentre - ha detto - tutto il peso si scaricherà sui redditi da 75 mila euro in su e lì sarà macelleria.

Naturalmente queste simulazioni sono sbagliate. I redditi dei ceti medi inferiori avranno benefici del 3 per cento attraverso detrazioni e tagli alle imposte sul lavoro. I ceti medio-alti subiranno aggravi molto modesti fino a 60 mila euro di reddito. Ho calcolato la penalità d´un reddito di 80 mila (55 mila netti). Pagherà in più 66 euro al mese, una discreta cena per un coperto e una cena magra per due coperti al ristorante. Macelleria sociale? È un po´ forte.

Gli esenti dalle imposte sono i redditi fino a 8 mila euro per un singolo. Per un contribuente con moglie e un figlio l´esenzione arriva a 13 mila euro, con due figli a 15 mila. Di fatto l´asticella dell´esenzione media si colloca sui redditi da 15 mila. Non è poco.* * *

Mi pare che la vituperata macelleria si riduce a tirare il collo ad un pollo al mese. E passo perciò ad un altro argomento, quello delle tasse tasse tasse. Tutte pagate dal Nord. In particolare dal lombardo-veneto.

Che il lombardo-veneto sia la zona più produttiva d´Italia è un dato reale che fa onore a quelle regioni. Che essendo la zona più produttiva e quindi più ricca sia anche quella che contribuisce di più, mi pare altrettanto ovvio.

Che debba avere i servizi ai quali ha diritto e che su questo punto vi sia un deficit drammatico è lapalissiano e di quel deficit sono responsabili i governi degli ultimi vent´anni, a terminare col quinquennio berlusconiano.

L´opposizione, in nome del Nord, si ribella. Vuole che a pagare siano gli evasori e non i contribuenti che fanno il dover loro. Lo dice Formigoni, lo dice Cesa, lo dice perfino La Russa, il d´Artagnan dei poveri. E lo dice anche Silvio Berlusconi.

Ora a questo punto io voglio tributare un caloroso applauso a questi convertiti. Veramente. Era tempo che si convertissero e vanno accolti come altrettanti figlioli prodighi. Sia dunque ucciso il vitello grasso in onore di questi professionisti del condono fiscale.

Ciò detto, perché protestano? Di che cosa si dolgono?

Nella Finanziaria in questione ci sono 7 miliardi di entrate provenienti dal recupero dell´evasione. Sette miliardi su un´entrata tributaria stimata in Finanziaria a 13 miliardi. In dodici mesi un risultato così è un esercizio per il quale Visco meriterebbe una promozione. Si tratta di previsioni, perciò gli ho chiesto ieri se è sicuro dell´esito. E ha risposto che ne è certo. Mi auguro che porti a casa quel risultato e che prosegua su quella strada. Se nei cinque anni di legislatura si arrivasse gradualmente a recuperare il 15 per cento dell´evasione, il fisco incasserebbe annualmente niente meno che 30 miliardi da questa voce. I 7 miliardi del 2007 sono (saranno, sarebbero) un ottimo inizio perché recuperare l´evasione comporta tempi lunghi. Perciò trovo assai strano che nessuno fin qui abbia messo l´accento su quest´aspetto della Finanziaria.

Debbo aggiungere che l´evasione non è quasi mai totale. Molto spesso l´evasore paga almeno il 30 per cento del suo debito fiscale. È oltraggioso pensare alla struttura delle aziende grandi e piccole? Private e pubbliche? Ai professionisti? Agli artigiani che non ti danno una fattura nemmeno se li impicchi? Ai lavoratori dipendenti che hanno un secondo lavoro (nero)?

Non è oltraggioso, è la realtà. L´evasione, parziale ma consistente, è la frangia di ogni tappeto. Il guaio italiano consiste nell´entità della frangia che occupa a dir poco un quarto del tappeto.

* * *

I paletti di Padoa-Schioppa. Nei numeri della Finanziaria le risorse provenienti dalla sanità sono di circa 3 miliardi, dalla previdenza più di 5, dagli enti locali 4,3, dalla pubblica amministrazione (al netto dei contratti) altri 3. Per di più in queste cifre non entrano i risultati a più lungo termine che proverranno dalla riforma pensionistica di cui si comincerà a discutere dal prossimo gennaio.

Poteva far di più il tecnico Padoa-Schioppa? Forse sì, difficile dirlo, bisognerebbe star seduti su quella sedia per saperlo. Di una cosa però sono certo: il ministro del Tesoro che è un uomo politico per definizione, non poteva fare di più. Secondo me il risultato che ha raggiunto merita 110 con la lode. La mia pagella non conta, ma io comunque gliela do. E la do anche, anzi «in primis», al presidente del Consiglio al quale però mi permetto di attribuire un voto di insufficienza per la sua «performance» a Montecitorio sulla questione Telecom. Lì è andata male, lui non è tagliato per i dibattiti parlamentari. Ma sulla Finanziaria è stato bravo ed era il passaggio più tosto.

***

Resta da dire sui cinque miliardi del Tfr, punto dolentissimo per la Confindustria. E sul cuneo fiscale.

Su questo secondo aspetto non c´è che rallegrarsi: era un impegno, è stato mantenuto. Attenzione però: dà un po´ di ossigeno alla competitività e sostiene i consumi del ceto medio-basso. Ma il problema dell´imprenditoria italiana o, se volete del capitalismo italiano non si risolve certo tagliando il cuneo di cinque punti (fossero anche dieci non cambierebbe).

Non si risolve da fuori ma da dentro il capitalismo. Si risolve valorizzando gli imprenditori che innovano il prodotto e non solo il modo di produrlo; che cambiano i gusti del mercato; che modificano i termini dell´offerta, non quelli che seguono passivamente la domanda.

Ho detto prima dell´insufficienza di Prodi nel dibattito su Telecom, ma aggiungo che quell´insufficienza ha toccato il culmine negli interventi dell´opposizione. La quale si è avventata sul tema Rovati senza spendere neppure un minuto di tempo sull´assetto di Telecom, dei mancati investimenti, dell´assetto del capitale. Insomma della sostanza della questione. Prodi almeno su quell´aspetto qualcosa ha detto.

I suoi interlocutori neppure una sillaba. Un dibattito, voglio dirlo, d´una povertà intellettuale inaudita.

Il Tfr. Quei soldi, diciamolo ancora una volta, non sono delle imprese ma dei lavoratori. Se i lavoratori optano per lasciarli alla previdenza pubblica, hanno pieno diritto di farlo. Alle imprese resta comunque lo stock perché il passaggio all´Inps si esercita su una parte dell´accantonamento annuale.

Certo le imprese ne sono penalizzate. Dovranno ricorrere di più all´autofinanziamento e alle banche. In questo secondo caso spenderanno un 3 per cento in più. Saranno indotte ad essere più competitive. L´operazione si limiterà ad essere una «una tantum»? Dipende dai recuperi dell´evasione.

Intanto l´avanzo primario salirà dallo zero lasciato da Tremonti al 2 per cento. Questa è la migliore premessa per la riduzione del debito pubblico, altra meta che l´Europa richiede e che è nel nostro precipuo interesse raggiungere.

Sembra che nessuno si ricordi più del lascito che è stato ereditato dalla trascorsa legislatura. Un lascito disastroso. Con le casse vuote, l´avanzo primario azzerato, il debito in ascesa, il deficit al 4 e mezzo per cento, i cantieri delle imprese pubbliche allo sbando, la previdenza integrativa rinviata al 2008, i contratti non rinnovati.

Dopo di noi il diluvio e chi se ne frega, questa sembrò essere la filosofia di quei cinque anni.

Il diluvio per fortuna non c´è stato, la Finanziaria va ora in Parlamento col voto unanime di tutte le componenti governative.

Io vedo questo e questo scrivo. Ora comincia il passaggio parlamentare. Qualche modifica migliorativa si potrà fare ma i paletti sono stati messi e non potranno essere divelti. Il domani è in gran parte figlio dell´oggi. Oggi la giornata è stata buona.

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