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Sardegna, l'ira del mattone

Renato Soru fa votare un decreto che vieta di costruire lungo le coste della Sardegna e fino a 2 km dal mare. Contro la giunta si scatenano comuni di centrodestra, qualche amministratore di centrosinistra e i quotidiani dell'isola. Tutti hanno qualche interesse in campo



C. SA. - CAGLIARI «Un decreto choc», per il quotidiano La Nuova Sardegna. Soru fautore di un'isola «cavernicola», di un turismo di roulotte, tende, camper, per La Repubblica. Sono gli attacchi da sinistra, al neo presidente della regione sarda che alla terza riunione di giunta ha portato e fatto passare dopo qualche ora di discussione, un decreto che impone per sei mesi la salvaguardia delle coste della Sardegna dalla cementificazione, in attesa di una nuova legge urbanistica. Tutto alla luce del sole, al termine di una campagna elettorale vinta dal fondatore di Tiscali con un margine altissimo, e dove la materia della tutela delle coste era centrale, nel programma del centrosinistra, nella sensibilità dell'opinione pubblica. Proponente della legge è un assessore della Margherita, responsabile dell'Urbanistica, Gian Valerio Sanna, consenzienti tutti gli altri assessori, dai Ds all'Udeur, nonostante le spinte di molti amministratori locali di questi partiti sensibili alla lusinga dell'edilizia. La prima reazione è venuta, con la riunione della giunta ancora in corso, da un consigliere regionale di Forza Italia costruttore edile gallurese. E dalla Gallura proviene il coro di no. Sono tutti sindaci di centrodestra, da Olbia ad Arzachena, alla Maddalena. Avevano pronti piani per costruire insediamenti di alcuni milioni di metri cubi, dalla Costa Turchese della figlia di Berlusconi a sud di Olbia, ai piani del miliardario americano Tom Barrack, succeduto all'Aga Khan nella Costa Smeralda.

Insospettati, almeno insospettabili sino a qualche settimana fa, sono invece gli aiuti che vengono in queste ore al fronte del cemento, da La Nuova Sardegna a La Repubblica. Scontato quello dell'altro quotidiano dell'isola, L'Unione Sarda, dell'editore costruttore Sergio Zuncheddu. I due giornali del gruppo Espresso usano toni inusitati nei confronti di Soru. Per La Nuova Soru è «uno sceriffo», che «usa la mannaia». Poco meno di un incosciente che «va in vacanza mentre infuria la polemica», divertito dell'effetto che fanno i suoi primi provvedimenti. Inspiegabile attacco, per chi non conosce i primi atti della giunta Soru, gli altri «colpi di mannaia» del neo presidente. Uno in particolare, la sospensione di un appalto di 48 milioni di euro per l'informatizzazione della Regione, vinto insieme da un'associazione temporanea di imprese formata da Kataweb del gruppo Espresso, dall'Unione Editoriale dell'editore dell' Unione Sarda, e di Accenture, il cui responsabile per la Sardegna è un figlio del ministro degli interni Beppe Pisanu. L' Unione Sarda ha una ragione in più del giornale concorrente per avercela con Soru, responsabile della bocciatura di una delibera presa dalla giunta di centrodestra a quattro giorni dal voto per le regionali, l'8 giugno, che affidava a una società immobiliare appartenuta al suo editore un appalto di 83 milioni di euro per costruire i nuovi uffici della Regione in un'area al centro di Cagliari. Entrambi i giornali hanno gridato al conflitto di interessi. Soru replica: «Tiscali non parteciperà più ad appalti regionali». Ma ogni giorno è un nuovo assalto.

Il neo presidente gode però secondo molti di una popolarità crescente. Mantiene le promesse, ha bloccato la costruzione delle centrali eoliche, ormai proliferanti. Ha bloccato l'attività estrattiva e devastante delle cave di una società americana che cerca l'oro nell'isola. E' netto sulla costa: «Il turismo non è l'edilizia». Critica il modello dei villaggi al mare, strapieni d'estate, villaggi fantasma per dieci mesi all'anno, «i sardi manovali e camerieri quando va bene». I pezzi di Sardegna che il decreto della giunta salva dalla distruzione, dallo choc della distruzione, sono intere oasi verdi, fra Olbia e San Teodoro, fra Arzachena e Olbia, Santa Teresa e Palau. Vengono bloccati villaggi a Villasimius, Chia, Teulada, Cabras. I sardi che respirano, sollevati, anche increduli, non hanno voce sui giornali.

In difesa delle emozioni. E del turismo

di Sandro Roggio

Negli anni Settanta la regione Sardegna decise di salvaguardare una fascia di 150 metri dal mare che negli anni Novanta - sulla base del dibattito culminato con l'approvazione della legge urbanistica e dei piani paesistici - fu estesa a 300 metri. Poi i piani paesistici sono stati annullati e per lungo tempo non è successo nulla di buono. La politica, con rare eccezioni, ha scelto la strada conveniente dell'attesa, nella continua ricerca di espedienti per fare saltare il sistema delle regole.

La giunta Soru ha deliberato un vincolo provvisorio per una fascia di 2 chilometri dal mare: con una tempestività inattesa dopo tanto ritardo e che consente di guardare al futuro con altri occhi. Un atto salutato da molti, anche fuori della Sardegna, con soddisfazione: che in qualche modo decide l'inclusione delle coste isolane tra i grandi beni culturali del paese. Ma sono le argomentazioni dei vari detrattori di questa linea che spiegano la giustezza della misura.

Sindaci di comuni costieri rei di non avere aggiornato i loro piani urbanistici e qualche speculatore che si preparava ad approfittare dei vuoti normativi. Rieccole le tesi contro le norme di tutela «contrarie ai metodi raffinati della pianificazione» e ovviamente «contro lo sviluppo» e ancora (sob!) «contro l'autonomia dei comuni». Anche se nessuno nega che la sottrazione categorica di parti dei litorali alla trasformazione ha scongiurato uno scempio di considerevoli proporzioni.

Non è vero che il ricorso alle misure urgenti di salvaguardia sia operazione astratta e grossolana, specie nei casi in cui vi sia un ampio riconoscimento del valore di un ambiente e sia avvertito il rischio di danni irreversibili. E' già avvenuto per i beni storico artistici. Nessuno si sorprende che grandi parti delle città italiane siano sostanzialmente immodificabili ancora prima di essere state assoggettate a sofisticate analisi urbanistiche (non solo il profilo dei palazzi del Canal Grande a Venezia o quello di piazza di Spagna a Roma ma una miriade di paesaggi urbani consolidati ). Verso i paesaggi naturali il processo di affezione avviene con più lentezza. Ma per stare al caso serve osservare che in questi anni è cresciuta molto in Sardegna l'attenzione verso i suoi paesaggi litoranei e non è prematuro immaginare di ampliare, con gli strumenti della pianificazione, gli ambiti di tutela. Che potrà avvenire anche con molto consenso.

Nessun atto sopraffattore quindi. E' solo successo che la soglia di sopportazione verso le alterazioni dei luoghi più belli dell'isola è stata ampiamente superata, che i sardi dei paesi e delle città della Sardegna - non solo quelli che si affacciano sul mare - guardano con indignazione ai danni, questi si pregiudizievoli per il turismo dei prossimi anni. E nell'interesse di un'ampia comunità translocale che spetta alla regione continuare nella strada intrapresa. Un sistema di vincoli non è nient'altro che il riconoscimento di siti dove le sensazioni di chi si guarda attorno sono più forti e aumentano appunto quanto più ci si avvicina alla riva del mare, come ad un bosco, alla cima di un monte, ad un antico insediamento («tu chiamale se vuoi emozioni» cantava Lucio Battisti). E il valore di intensità emotiva di questi ambiti è confermato guarda caso dal valore di mercato (qui la rendita è molto elevata in caso di trasformazione) che si spiega con l'alta domanda di possesso esclusivo.

Ma sbaglia chi dice che tutto ciò sia contro il turismo nella linea del protezionismo autarchico. Nel piano paesistico (da redigere con un procedimento semplice) si troveranno le soluzioni per rispondere puntualmente alle attese degli operatori turistici che non hanno niente ma proprio niente in comune con faccendieri e palazzinari.

Vi ricordate Villa Certosa di Berlusconi? Eccola qui

L’ultimo documento di grande rilievo internazionale sulla conservazione e il restauro del patrimonio costruito è senza dubbio la Carta Cracovia 2000, che ha raccolto l’adesione di studiosi di 34 paesi europei ed extra europei. Al punto 11, si sottolinea come «il turismo culturale, oltre che per il suo positivo influsso sull’economia locale, deve essere considerato anche come un fattore di rischio». Si parla solo di turismo culturale, non prendendo nemmeno in considerazione quello con altre finalità e dando quindi per scontato l’altissimo rischio per il patrimonio che queste comportano. In un recente incontro culturale all’Ateneo Veneto è stato reso pubblico che nel 1950 vi era, nel centro storico di Venezia, una popolazione di 145 mila abitanti a fronte delle 500 mila presenze annue di turisti. Per il 2004 i dati parlano di 64 mila abitanti e 14 milioni di presenze annue di turismo.

Le cifre parlano da sole e forse non vi sarebbe bisogno di commento se non fosse per un’incredibile, insostenibile assunto che accomuna quasi tutti gli uomini politici che amministrano direttamente o indirettamente la città di Venezia, così come d’altronde altre città d’Europa. Per tale assunto il turismo dovrebbe sempre aumentare, in conformità alla domanda mondiale. Questo mancato senso del limite, che ottant’anni fa si definiva ingenuamente ed entusiasticamente progressista, è oggi del tutto contrario ad ogni concezione umanistica della realtà ed è contrario, qui a Venezia, allo stesso senso o spirito della città, che fu costruita in riferimento a limiti successivi, con territori acquisiti dalla laguna e nella laguna, con profondissimo rispetto di essa, nonché delle situazioni socio-economiche della collettività in tutti i momenti della storia della città.

Il termine sviluppo, ci dice Abbagnano, deve essere inteso come movimento verso il meglio. Dove è qui il meglio? La parola progresso deriva dal latino, mi muovo pro; questo pro non deve necessariamente intendersi solo come oltre, ma anche a vantaggio. A vantaggio di chi nel nostro caso?

A favorire il senso di sviluppo illimitato, vi è una menzogna, fra le tante qui a Venezia, che ha la finalità di voler far «aggredire» la città da più punti, facendo pensare così di «decongestionare» il centro costituito dalle aree attorno a Piazza San Marco, dove la popolazione ha quasi smarrito ogni suo riscontro psicologico con la città. Al contrario, quest’idea non è che un sotterfugio che condurrà e conduce a un intasamento delle aree periferiche così come sono intasate oggi quelle centrali. Una fermata di ciò che si definisce linea sub-lagunare alle Fondamente Nuove, sarebbe, per esempio, in tal senso decisamente devastante. Si parla, in un panorama mondiale, della limitatezza delle risorse e proprio qui a Venezia, in questa città ricca di risorse culturali, che sono però fragilissime, si vuole pervicacemente procedere ad un cosiddetto sviluppo che è in realtà distruzione.

E in nome di un progresso, che non è certamente a vantaggio dei cittadini, non contenti dello stato di degrado culturale e sociale in cui versa una comunità sempre più privata della propria identità, si tende inevitabilmente ad intaccare la stessa esistenza del costruito.

Le legittime aspirazioni anche economiche dei cittadini veneziani non possono realizzarsi a discapito della città, come se essa fosse un «usa e getta».

Qualcuno li ha contati. Sono quarantasette i comitati cittadini sorti a Firenze negli ultimi anni. Quarantasette, quasi uno ogni isolato. Si battono contro un parcheggio che dovrebbe sostituire un giardino, contro un centro commerciale - l´ennesimo che prende a svettare nella piana - , contro quello che chiamano il Tubone, un tunnel che passerebbe sotto le colline di Fiesole, contro quei complessi edilizi (un po´ residenza, un po´ commercio, un po´ uffici) che sorgono dove un tempo c´era uno stabilimento industriale (per esempio, l´ex panificio militare), ma anche contro il taglio di un boschetto di lecci o contro un ponte sull´Arno che avrebbe dovuto sostituire una passerella pedonale e collegare il parco delle Cascine con il quartiere dell´Isolotto. I comitati sono oggetto di studi e a loro ha dedicato attenzione la politologa dell´Istituto universitario europeo Donatella Della Porta in Movimenti senza protesta scritto per il Mulino insieme a Mario Diani (pagg. 230, euro 20) e in Comitati di cittadini e democrazia urbana, che uscirà da Rubettino.

Dall´inverno scorso si sono dati un coordinamento. Si sono presentati alle elezioni di giugno, sostenendo con Rifondazione comunista e il "Forum per Firenze" la candidatura di Ornella De Zordo, il cui successo (12 per cento) ha costretto il sindaco diessino Leonardo Domenici al ballottaggio con il candidato di centrodestra (che poi ha sonoramente battuto). Il coordinamento è nato per due motivi. Intanto per fronteggiare il nuovo piano regolatore, che in Toscana si chiama piano strutturale e che è stato approvato prima delle elezioni. Per il Comune è un avvenimento storico, che interrompe decenni di immobilità e avvia interventi indispensabili. Secondo i comitati, invece, è una somma di progetti sconnessi che stanno a cuore soprattutto ai privati e non risolvono nessuno dei problemi di Firenze. L´altro motivo del coordinamento è di evitare quello che gli studiosi chiamano "effetto Nimby": fate qualunque cosa - un inceneritore, uno svincolo autostradale - ma non vicino a casa mia (Nimby è l´acronimo di Not in my back-yard, non nel mio giardino).

Ogni comitato è legato a una zona della città: piazza Beccaria, piazza Alberti, San Lorenzo, Santo Spirito, Campo di Marte, Santa Croce. Ma perché tutto questo accada a Firenze non è semplice a dirsi. Il capoluogo toscano è un cantiere di grandi trasformazioni. Arrivano prestigiosi architetti: Norman Foster lavora alla stazione dell´Alta Velocità, Jean Nouvel a un albergo al posto di una concessionaria Fiat, Santiago Calatrava all´ampliamento del Museo della Fabbrica del Duomo. Per non parlare di Arata Isozaki, vincitore del concorso per sistemare l´uscita degli Uffizi, che ancora non sa se la sua pensilina sarà costruita o no.

Ma Firenze, a detta di molti, è anche affetta da un malessere ambientale. Il centro storico, per esempio, si sta svuotando di residenti. Secondo uno studio di Manlio Marchetta, professore di urbanistica all´Università, se nel 1987 era residenza il 30 per cento delle superfici edificate, ora quella quota va dal 10 al 15 per cento. E anche queste case rischiano di diventare alberghi, affittacamere o uffici. Un centro storico che perde residenti, recitano i fondamentali dell´urbanistica, deperisce. Invecchiano i suoi abitanti. Diventa una zona di transito per le macchine, solcata da frotte di turisti e da persone che vanno in ufficio o che, di sera, affollano i ristoranti. Insieme agli abitanti fuggono le botteghe alimentari, le scuole e le farmacie. E arrivano pizzerie, bar, negozi di souvenir e magazzini di abbigliamento. Abbandonano persino le grandi banche, che lasciano liberi palazzi monumentali. Chiudono i cinema (Astra, Supercinema, Edison, Capitol) e le librerie sono minacciate dalle catene di jeans.

Alcune rilevazioni smentiscono tanto pessimismo. Per esempio la classifica annuale del Sole 24 ore, che nel 2003 assegnava a Firenze la palma del "vivere bene". E, inoltre, la malattia non affligge solo Firenze. Ma poche città al mondo vantano quel che vanta Firenze. «Per il centro storico», spiega Marchetta, «non esiste un piano specifico, nonostante lo prescriva una legge regionale. Non sono fissati criteri per la destinazione degli immobili e le regole le detta il mercato, che privilegia interessi speculativi. E tutto peggiorerà quando si libereranno edifici universitari, giudiziari e bancari».

La replica è di Gianni Biagi, assessore all´Urbanistica: «Non è vero che il cambio di destinazione degli edifici sia libero, ma purtroppo l´attività di affittacamere è senza controllo. Il centro ha perso il 12 per cento dei residenti nell´arco di un decennio, ma soprattutto nei primi anni Novanta, poi l´emorragia è rallentata. Il nostro piano strutturale si propone di riportare abitanti nel centro, come è accaduto nell´ex complesso delle Murate, e di spostare fuori dei viali ottocenteschi molte attività che si sono accumulate senza programmazione».

Le macchine intasano il centro. Basta una rassegna di moda alla Fortezza da Basso e la città si paralizza. L´edificio, costruito nel 1534 da Antonio da Sangallo, vedrà raddoppiato lo spazio per le fiere da 30 a 60 mila metri quadrati. «Attrarrà altro traffico», denunciano i comitati, «smentendo le intenzioni del Comune di voler alleggerire il centro». Tutta l´area dei giardini intorno ai bastioni, una prodezza rinascimentale, con le torrette e il rivestimento in bugnato del mastio, è stata ridisegnata. E questo intervento ha scatenato violente polemiche. Oggetto della contesa un parcheggio di due piani con un centro commerciale addossato alle mura. Il parcheggio doveva essere interrato, ma di fatto lo è solo in gran parte, perché lungo una delle cortine la costruzione fuoriesce da terra, compromettendo la percezione dei bastioni. E litigi furiosi ha suscitato anche la sistemazione delle strade intorno alla Fortezza a causa di un sottopasso realizzato con una curva troppo stretta, e che si è dovuto ricostruire daccapo.

«Dove ora c´è il parcheggio, un tempo si fermavano gli autobus turistici, che pure impedivano la vista dei bastioni», replica Biagi. «E sopra il parcheggio ci sarà un giardino», insiste l´assessore, il quale però ammette che forse il progetto poteva essere migliore. Tutto l´intervento è realizzato con il meccanismo del project financing, che da alcuni anni si è diffuso moltissimo e che a Firenze è in gran voga. Consiste più o meno in questo: l´amministrazione pubblica dà in concessione a un privato un bene - un palazzo, un´area - , il privato lo ristruttura o costruisce ex novo creandovi diverse attività e traendo profitto dalla loro gestione.

Il project financing è previsto anche per un intervento a San Salvi, che pure vede fronteggiarsi il Comune e il comitato "San Salvi chi può". Qui in un parco di 32 ettari sorgono i padiglioni di un ospedale psichiatrico costruito nel 1891. Dalla fine degli anni Settanta al posto dell´ospedale ci sono una Usl e alcune cooperative sociali e teatrali. Un progetto prevede numerosi appartamenti e nuovi edifici per uffici, un parcheggio e una serie di zone verdi. La residenza è necessaria, «rende l´area viva 24 ore al giorno ed è il "volano economico" dell´intera operazione di recupero», sostengono gli autori del progetto. Il parco viene smembrato, replicano al comitato, e si avvantaggeranno soprattutto coloro che potranno permettersi una lussuosa casa in mezzo al verde.

Altri due interventi - uno a Novoli, nei 32 ettari dove la Fiat aveva il suo stabilimento, l´altro nei 168 ettari di Castello, a ridosso dell´aeroporto e di proprietà della Fondiaria - vengono considerati di grande rilievo dall´Amministrazione, che sostiene di averli avviati per decongestionare il centro storico. Gli oppositori li descrivono invece come operazioni di lottizzazione privata e di valorizzazione immobiliare che smentiscono l´intenzione del piano strutturale di non consumare altro suolo. A Novoli le costruzioni sono state avviate sulla base di un piano (poi modificato) di Leon Krier, l´architetto amico di Carlo d´Inghilterra. Sono già in funzione una sede dell´università, progettata da Adolfo Natalini, e un centro commerciale, mentre è in fase di completamento il Palazzo di Giustizia, con torri da 32 e 64 metri su disegno di Leonardo Ricci. Verranno poi costruiti appartamenti, studi e sedi di banche, secondo un piano di Aimaro Isola e Francesco Dal Co. Novecentomila metri cubi in totale, al centro dei quali sarà sistemato un parco di 12 ettari che, a detta dei progettisti, avrà effetti sulla qualità dell´aria di tutto il quartiere. Diversa la posizione dei comitati: «Quella zona di Firenze è già stremata e non sopporta altri pesanti carichi urbanistici».

La vasta pianura fra l´aeroporto, Peretola e Castello «è l´ultima consistente porzione non edificata di Firenze, se si escludono le colline», ricorda Marchetta. È un´area depressa e paludosa, a suo tempo sottoposta a una bonifica che ha messo a regime le acque con due reti di canali, in parte pensili. «Questo territorio era destinato a parco territoriale. Se si installassero, come previsto, un milione 400 mila metri cubi, Firenze si salderà con altri paesi della piana, creando un´immensa conurbazione», aggiunge Marchetta. «A Castello ci sono molte cose da definire», replica Biagi, «ma non è lottizzazione privata: lì andranno la Regione, i carabinieri e poi uffici, abitazioni e un parco di 80 ettari».

Su Novoli e Castello si riaccendono le polemiche che divisero la sinistra fiorentina una ventina di anni fa. Il Comune mise in cantiere due insediamenti molto più pesanti di quelli avviati ora. Ma pressato da Italia Nostra e da altre associazioni, intervenne il segretario di Botteghe Oscure, Achille Occhetto. Che costrinse i compagni fiorentini a fare marcia indietro. Da allora, però, molta acqua è passata sotto i ponti dell´Arno.

I responsabili delle morti, delle malattie e dell’inquinamento del petrolchimico di Marghera ora hanno qualche nome e qualche faccia. La Corte d’appello di Venezia, infatti, ha ribaltato la sentenza del processo di primo grado che aveva assolto tutti gli imputati e ha condannato cinque di loro ad un anno e mezzo di reclusione per l'omicidio colposo dell’operaio Tullio Faggian, uno dei lavoratori morti per l’avvelenamento dal cloruro di vinile monomero (Cvm) emesso dall’impianto industriale veneto. I condannati sono Emilio Bartalini, Renato Calvi, Alberto Grandi, Piergiorgio Gatti, Giovanni D'Arminio Monforte. Condanne parziali certamente, ma che confermano la tesi accusatoria, ovvero che le numerose morti e malattie che hanno colpito i lavoratori di quell’azienda sono state provocate proprio dall’inefficienza dei controlli sulle emissioni e dalla scarsa attenzione dei dirigenti alla tutela della salute di chi ha lavorato una vita al Petrolchimico e lì quella vita l’ha pure persa.

Si gira così la buia pagina del 2 novembre 2001, quando i 28 imputati, tutti dirigenti o ex dirigenti di Montedison, Enimont e Enichem, furono assolti, lasciando senza colpevoli il disastro ambientale di Marghera. Finisce invece in prescrizione il reato di omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980. Prescrizione che comunque riconosce la fondatezza del reato. La Montedison è stata considerata responsabile civile delle morti per Cvm registrate tra il 1973 e il 1980. Ora dovrà risarcire con 50mila euro le famiglie e con 8mila euro i figli delle vittime, oltre a farsi carico di tutte le spese processuali.

«Purtroppo - ha commentato il pm di Venezia Felice Casson - la giustizia è arrivata troppo tardi. È un processo che si sarebbe dovuto fare vent'anni fa. Vent'anni fa avrebbero condannato tutti, come conferma la sentenza di oggi».

«Questa sentenza dimostra il reato di disastro ambientale» gli fa eco Legambiente «Viene dimostrata la relazione tra il modo di impostare e condurre l'impresa e le pesanti conseguenze sulla popolazione e i lavoratori, fornendo uno strumento in più per il futuro: una riconversione della logica industriale che garantisca il rispetto della salute dei lavoratori e dei cittadini, dell'ambiente e della legge».

Anche il prosindaco di Mestre, Gianfranco Bettin, ha voluto commentare la sentenza: «La giustizia ha battuto un colpo importante oggi nell'aula bunker di Mestre. Il Tribunale ha riconosciuto l'esistenza di reati, cioè di offese alla salute dei lavoratori e all'ambiente. Per alcuni reati, per la prima volta, ci sono delle condanne. Per altri – osserva Bettin - è intervenuta la prescrizione a riprova che la lentezza della giustizia è la miglior garanzia, anche in assenza di complicità, per i potenti. E a riprova che i tentativi in corso, in Parlamento, di abbreviare i termini di prescrizione dei reati sono un ulteriore servizio ai potenti e ai delinquenti».

Con la sua aria calma di vecchio signore educatissimo, colto, ironico, disordinato come un professore da vignetta, toccato a volte da una dolce tristezza, Robert Altman (anzi, Bob Altman) del Missouri ha scardinato nella sua lunga vita di regista tutti i miti, tutto l'immaginario mitico d'America: la guerra e lo spettacolo, le mode e la famiglia, la psicoanalisi e il rapporto tra padroni e servi. Ha scardinato gli Stati Uniti stessi, nello straordinario affresco America oggi dove oltre venti personaggi ideati da Raymond Carver s'incrociavano in disperata amarezza, nella struttura narrativa composita tipica di alcuni tra i film più popolari di Altman, lo stupendo Nashville, Un matrimonio in cui recitava pure Vittorio Gassman, Pret-à-porter, Radio America estremo suo film prima della morte.

Il più indipendente dei registi americani contemporanei perseguiva con forte volontà l'aspirazione impossibile d'ogni artista: raccogliere in ciascun film l'intero mondo, o almeno fare di ogni film una metafora del mondo. C'è riuscito: in parte, si capisce. Una delle sue prime opere importanti, M.A.S.H., prima Palma d'oro al festival di Cannes nel 1971, non era soltanto il racconto della vita d'un gruppo di chirurghi anarchici in un ospedale militare durante la guerrra di Corea: rappresentava i disastri di ogni guerra, i sacrifici umani, lo spirito pacifista e antimilitarista dell'epoca. Nashville era pure una denuncia della sopraffazione, del tradimento,della concorrenza e della violenza come valori della società americana.

Ha avuto la carriera di un uomo libero: ossia un percorso aspro, affrontato con serenità coraggiosa. A un certo punto, per una serie di insuccessi commerciali, non lo facevano più lavorare: lui s'è messo a fare piccoli film o a lavorare per la televisione, a Hollywood è tornato dopo anni con I protagonisti, analisi della spietatezza del mondo del cinema. A un altro punto non lo facevano lavorare perché aveva più di 60 anni, e la regola di Hollywood licenzia i registi a quell'età: lui ha diretto film con finanziamenti europei. Ha realizzato commedie funeste o incantevoli, La fortuna di Cookie, Il dottor T. e le donne. Con Gosford Park, ambientato in una tenuta nobiliare inglese negli Anni Trenta, è grandissimo. E Radio America, l'ultima fatica a 81 anni, era l'addio molto commovente a una cultura ormai fuori del presente, a un pubblico grato e ammirato, alla propria esistenza tumultuosa e quasi felice.

In un Paese dove l’emergenza istituzionale sta diventando la regola, il problema del patrimonio culturale rischia di apparire un tema "minore", buono al più per qualche scaramuccia di confine fra opposti schieramenti, e non, come invece è, una questione essenziale per la "tenuta" del Paese. Perciò preoccupa l’assalto all’articolo 9, «il più originale della nostra Costituzione» come ha detto Ciampi: il nesso fra i suoi due commi lega fortemente tutela, ricerca e fruizione, e verrebbe snaturato dall’aggiunta (che si può ben fare altrove) della protezione degli animali, propugnata tuttavia da parlamentari di destra e di sinistra.

Continua intanto l’intensa attività legislativa promossa dal ministro Urbani. Non mancano "mosse" positive, come il disegno di legge sulla qualità architettonica (peraltro già calpestato da un selvaggio condono edilizio) o il decreto legislativo che adatta la legge Merloni agli immobili di valore culturale. Più importanti (e più controversi) i due interventi di sistema, il nuovo Codice dei beni culturali e il riassetto del Ministero. I punti più deboli del Codice, frutti di soluzioni compromissorie, sono la sovrapposizione di competenze fra Stato e regioni (peraltro sancita dall’infausta riforma del Titolo V della Costituzione) e l’interpolazione del silenzio-assenso nell’art. 12 del Codice, scritto all’inizio con opposte intenzioni.

Nella sezione sul paesaggio, che modifica la legge Galasso del 1985, ottima è la definizione del paesaggio come prodotto di interrelazioni fra natura e cultura, secondo la formulazione della Convenzione europea; ma sarebbe stato meglio seguirla anche nella prescrizione di una "forte lungimiranza" per la pianificazione paesaggistica. Positivo l’obbligo di piani paesaggistici regionali con riqualificazioni e recuperi, buona la definizione del piano paesaggistico, cogente per i comuni, che aumenta aree e immobili da tutelare. Molto positivo il divieto di autorizzazioni in sanatoria dopo la realizzazione, anche parziale, degli interventi: si dovrebbero così bloccare scellerati tentativi di depenalizzare gli abusi, come quello tentato pochi mesi fa, e poi ritirato.

L’innovazione più rilevante è che le Soprintendenze perdono il potere di annullare "a valle" le autorizzazioni edilizie delle amministrazioni locali, e acquistano la possibilità di partecipare, "a monte", alla redazione dei piani paesaggistici. Buona idea, se non fosse che la collaborazione delle Soprintendenze (preposte, secondo la Costituzione, alla tutela del paesaggio) viene lasciata alla buona volontà delle Regioni, che col Ministero «possono» (e non «devono») stipulare «accordi per l’elaborazione dei piani paesaggistici». Anche il parere di merito delle Soprintendenze sui singoli progetti, a richiesta di regioni o enti locali, per quanto reso «entro il termine perentorio di 60 giorni», non sembra avere valore vincolante, e non è nemmeno richiesto per modificare il colore delle facciate, con conseguenze temibili.

Quanto alla gestione dei beni culturali pubblici, il Codice eredita le ambiguità della normativa precedente. La gestione "indiretta" (di privati o fondazioni) è considerata equivalente a quella "diretta" delle amministrazioni pubbliche. Musei e monumenti possono essere "conferiti in uso" alla fondazione che li gestisce, purché la partecipazione dell’amministrazione pubblica sia prevalente. Peccato che questo principio sia stato già violato nello statuto della fondazione del Museo Egizio di Torino, secondo cui lo Stato, proprietario del Museo, lo "conferisce in uso" alla Fondazione, ma si auto-mette in minoranza nel Consiglio di amministrazione, composto di nove membri, dei quali uno solo (il soprintendente regionale del Piemonte) appartiene al Ministero, cinque sono di nomina politica (due dal ministro, uno ciascuno da Regione, Provincia e Comune) e tre sono designati dalle due fondazioni bancarie interessate. Il Consiglio nomina il direttore, a cui non è richiesta alcuna competenza egittologica; anche nel comitato scientifico, peraltro senza alcun potere, solo un membro su sette dev’essere egittologo.

È una piena abdicazione dello Stato al proprio ruolo, peraltro già scritta a tutte lettere nella legge Veltroni di riforma del ministero, secondo cui il Ministero «può partecipare al patrimonio delle fondazioni con il conferimento in uso di beni culturali». La riduzione dei musei a merce di scambio con gli agognati finanziamenti privati, a quel che pare, non è né di destra né di sinistra. Questo modello di Fondazione, che inglobando il Museo è di fatto sovraordinata all’amministrazione pubblica, non può funzionare e non funzionerà. Peccato, perché le Fondazioni museali potrebbero essere efficaci se organizzate in parallelo alle soprintendenze, senza subordinare gli esperti a chi competenza non ha (a Torino, gli egittologi a chi non ha mai visto un geroglifico). Miopi preoccupazioni localistiche hanno inquinato l’intera partita: a sei anni dalla legge Veltroni, non una Fondazione è operante, e dai privati arrivano molte promesse ma nemmeno un centesimo.

Ma i danni di questa concezione mercificata dei musei non si fermano qui: legata alla prospettiva delle fondazioni è infatti l’istituzione dei poli museali, decisa dal governo di centro-sinistra e attuata da Urbani. I poli istituiti a Roma, Firenze, Napoli e Venezia, per la prima volta nella storia e in contraddizione coi principi di tutela, hanno "scorporato" i musei dal territorio, considerandoli come entità a parte. Questo vuol dire per esempio che le grandi raccolte fidecommissarie di Roma, tutte di identica origine e storia, sono ora di competenza di soprintendenze diverse: ricadono nel "polo museale" se sono passate in proprietà pubblica (Borghese), sotto altra soprintendenza se sono ancora private (Colonna, Doria Pamphilj).

Si spezza così il nesso vitale fra la città, coi suoi palazzi e chiese, e i musei, che dall’identico tessuto di committenze e collezioni trassero origine e alimento. Nata dall’ossessione del modello americano coi suoi musei staccati dal territorio (ma nelle chiese di New York non c’è Giotto, non c’è Tiziano, non c’è Caravaggio), questa ferita al modello italiano di tutela ha una sola spiegazione: staccare i musei dalle soprintendenze territoriali per privatizzarli affidandoli a fondazioni come quella in gestazione per l’Egizio.

Urbani, sembra, sta ripensando l’intera materia nel contesto della riforma del ministero. L’unica soluzione decente sarebbe di reintegrare i quattro "poli" nel loro humus, creando altrettante soprintendenze urbane (città e musei). Pessima idea sarebbe invece trasferire i poli museali ai soprintendenti regionali, che spesso mancano delle competenze necessarie per gestirli. Più grave ancora sarebbe la ventilata abolizione delle due più importanti soprintendenze archeologiche del nostro Paese, anzi del mondo, quella di Roma e quella di Pompei. Di esse va invece garantita la massima autonomia gestionale, nonché l’alta professionalità e competenza specifica del Soprintendente-archeologo che le dirige.

Disastroso, infine, sarebbe intendere le Soprintendenze territoriali come uffici tecnici, emanazione periferica di quelle regionali, e ancor peggio affidare queste ultime a funzionari o manager di nomina politica e con scarse o nulle competenze specifiche. Su questo e su altri punti, la riforma del Ministero, che fa sistema con il Codice, ne svelerà presto spirito e intenzioni. Con un processo graduale, che potrebbe partire dalle Soprintendenze urbane di Roma, Venezia, Napoli e Firenze e dalle archeologiche di Roma e Pompei, tutte le Soprintendenze dovrebbero essere concepite come enti di ricerca e di tutela, dotati di ampia autonomia scientifica, amministrativa e contabile e gestiti in prima persona dal Soprintendente. Se lo Stato non vuole dichiarare la propria disfatta, c’è una sola strada possibile, ed è questa.

L’ Assemblea nazionale francese sta discutendo da qualche giorno la “carta dell'ambiente”, presentata in aula dal ministro della giustizia e dalla relatrice dell'Ump. La maggioranza del gruppo Ps chiede maggiore coerenza fra parole e fatti, giudicando comunque positivo l'inserimento nella Costituzione. Anche in Italia ci sono novità. Mentre il Senato il centrodestra ha consumato a colpi di maggioranza lo stravolgimento della Costituzione e del principio di separazione dei poteri, alla Camera è pronto per l'aula un testo che integra l'articolo 9 della carta fondamentale.

Il termine “ambiente” è assente dalla Costituzione entrata in vigore 56 anni fa. Oggi è, tuttavia, unanime il riconoscimento che l'ambiente già costituisce nel nostro ordinamento un “valore costituzionale”. Varie successive sentenze della Corte Costituzionale hanno riconosciuto il bene ambientale come valore primario, assoluto e unitario, non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi, un bene fondamentale garantito e protetto, da salvaguardare nella sua interezza. Da due anni è entrata in Costituzione anche la parola “ambiente”. Nel nuovo titolo quinto della parte seconda, riorganizzando la ripartizione di competenze fra stato e regioni, si assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la “tutela dell'ambiente e dell'ecosistema”.

Un testo di modifica costituzionale dell'articolo 9 era già stato approvato dal Senato a settembre e costituiva un inutile peggioramento, perfettamente funzionale alle pessime politiche ordinarie del governo Berlusconi in materia ambientale: il centrodestra si è concentrato su politiche territoriali anti-ambientali (infrastrutture, mobilità, edilizia), sull'occupazione delle istituzioni e dei poteri ambientali, sullo smantellamento di ogni politica attiva (in omaggio ad una concezione burocratica e centralista del “governare”). In questo quadro, vale la pena toccare la Costituzione solo se la forma migliora e la sostanza consente di tutelare e valorizzare meglio l'ambiente.

Ora la commissione Affari Costituzionali della Camera ha definito un nuovo (migliore) testo, accogliendo larga parte delle proposte contenute in una proposta avanzata da vari parlamentari del centrosinistra: la Repubblica “tutela l'ambiente e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni; protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali”. Si potrebbe già discutere in aula a luglio, rimandando poi la proposta al Senato.

I due commi si aggiungono all'attuale articolo 9 della Costituzione; non ne intaccano la forma e la sostanza, rivelatesi importanti per salvaguardare paesaggio e cultura del nostro paese; costituiscono in pratica un articolo successivo che completa principi e valori richiamati nella prima parte della carta fondamentale.

Le formulazioni sono abbastanza sobrie, secche, essenziali; sono stati discussi, prima inseriti poi tolti, incisi e formule più analitici. Sono state accantonate disposizioni che rischiavano di complicare l'articolo con concetti ambigui, impropri in quella parte della Costituzione. Non si inseriscono nuovi verbi che non facciano già parte del lessico costituzionale italiano; non si contraddicono definizioni di altri articoli o parti (il plurale “ecosistemi” non pregiudica il singolare “ecosistema” dell'articolo 117); future generazioni e biodiversità (coerentemente al plurale) fanno già parte di convenzioni internazionali e disposizioni europee di rango superiore.

La novità è il rispetto degli animali. È una citazione che sta facendo molto discutere, che ha portato Alleanza Nazionale a votare contro in commissione, che ha visto commenti contrastanti, che può indurre a conflitti interpretavi e attuativi. Apprezzo la maturazione di una giusta nuova esigenza, con una formale garanzia non equivocabile. Sottolineo il verbo che la regge: promuove! Insisto sulla opportuna valenza anche culturale del richiamare il “vivente non umano”.

La mancata novità è lo sviluppo sostenibile, che vede forti perplessità sia in Forza Italia che in Rifondazione Comunista, sbagliate a mio avviso, tanto più che l'inciso sull'interesse (anche?) delle future generazioni esprime lo stesso concetto in modo meno rigoroso e formale. Sintetizzando (non me ne vogliano), Forza Italia ha paura della sostenibilità (comunque un vincolo all'economia), Rifondazione dello sviluppo (comunque dannoso all'ecologia), entrambi colgono il lato di una contraddizione del concreto sviluppo dell'ultimo paio di secoli. Regole ONU e EU possono consentirci di tentare un passo “diverso” verso l'inevitabile futuro (che non coincide con il progresso).

In commissione affari costituzionali abbiamo avanzato l'idea di predisporre una vera e propria legge costituzionale in materia di diritto dell'ambiente, che citi tutti i principi della legislazione ordinaria, che sovraordini il coordinamento delle varie materie in testi unici (acqua, aria, suolo, mare, ecc.), che arricchisca la prassi normativa costituzionale italiana sulla scia di altri paesi (come la Francia) pur nella consapevolezza che i casi di rinvio sono oggi rarissimi (ad esempio nell'articolo 137). Sarebbe auspicabile un pronunciamento preliminare dei gruppi parlamentari su questa idea: se si prevede un rinvio (con norma esplicita o atto d'indirizzo) forse si può “asciugare” ulteriormente il testo; se non si prevede, alcune carenze andrebbero corrette, come il diritto all'acqua. Bisognerà anche verificare l'atteggiamento del governo, oggi ambiguo, diviso fra il brutto testo approvato al Senato e astratte dichiarazioni di neutralità. Il peggiore è stato ancora una volta Matteoli che ha parlato di testo “stravolto” dalla Camera, contestando (lui, ministro dell'ambiente!) che si parli in Costituzione di biodiversità e animali. Incredibile, ma vero!

22.03.2004

Urbani non ne dice una giusta

di Vittorio Emiliani

Il ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, è stato ospite sabato sera della bella, utile e spiritosa trasmissione di Fabio Fazio Chetempochefa. Doveva spiegare novità e pregi della legislazione promossa dal suo governo per il patrimonio storico e artistico e e per il paesaggio della Nazione, tutelati dalla Repubblica, secondo l’articolo 9 della Costituzione.

Per prima cosa ha detto che in basi alle leggi precedenti i beni culturali demaniali, pubblici, ecc. potevano essere venduti, infatti gli elenchi ora predisposti dall Agenzia del Demanio sono stati redatti in base ad un Regolamento del 2000.

Non è vero.

È vero invece che in base alle leggi Bottai del 1939 recepite nel Testo Unico del 1999 i beni immobili pubblici (perché di questi soprattutto si tratta) erano inalienabili in quanto tali. Infatti molti di essi, anche importanti, non vennero neppure sottoposti a vincolo perché non ve ne era bisogno essendo incedibili (fatte salve rare eccezioni). Poi, nelle votazioni alla Camera per la Finanziaria 2000, la Lega Nord infilò un emendamento che ribaltava questo principio: tutti i beni diventavano dunque alienabili, salvo eccezioni. L’ intero Polo (si presume anche Forza Italia e magari pure l’ on. Urbani) votarono quello sciagurato emendamento e, ahinoi, pure una parte dell’Ulivo. L’emendamento passò. Ma la Finanziaria doveva essere ancora vagliata dal Senato e le associazioni di tutela, il gruppo dei Verdi e altri sollecitarono l’allora ministro Melandri a rimediare a quella enorme falla. Il Senato votò un ordine del giorno che impegnava il governo a varare un Regolamento che ripristinasse il principio fondamentale (tutti i beni culturali pubblici sono inalienabili salvo eccezioni autorizzate dalla Soprintendenze) e normasse le eccezioni. Una commissione lavorò mesi. Produsse un testo approvato da tutti, compresi i Comuni e le Province divenuto il Regolamento n.283 emanato con decreto presidenziale Ciampi il 7 settembre 2000.

Cardine di esso: la predisposizione di elenchi da parte degli Enti pubblici proprietari di quei beni e il loro invio alle Soprintendenze Regionali le quali avrebbero operato entro 24 mesi le opportune integrazioni inserendoli nell’elenco previsto. Le richieste di affitto, di cessione in uso a privati, dovevano essere accompagnate da un piano di utilizzo dettagliato. Se il piano non fosse poi stato realizzato in modo adeguato, la Soprintendenza poteva revocare la cessione in uso.

Sabato sera Giuliano Urbani, dopo aver definito sciocchezze i due principi ricordatigli da Fabio Fazio (inalienabilità generale con eccezioni; alienabilità generale con eccezioni) ha vantato la superiorità del suo Codice sulle leggi precedenti. Senonché gli è scappato detto: «Prima si pensava di vendere. Oggi si vuole vendere». E ha calcato su quel si vuole. È Tremonti che vuole, per fare cassa. Altrimenti perché avrebbe creato la Patrimonio SpA, perché non tenersi stretto il Regolamento Melandri? Appunto perché si vuole vendere.

Allora, quali beni sono classificati inalienabili dal Codice e quali lo erano per le tanto spregiate leggi precedenti? Vediamo un po’. Secondo il Regolamento n.283, inalienabili erano: 1) i beni riconosciuti con legge monumenti nazionali; 2) i beni di interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere; 3) i beni di interesse archeologico; 4) i beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche , cioè sedi o ex sedi di Municipalità, di Vescovadi, di Accademie, ecc.

Cosa resta nel tanto decantato (dal ministro) Codice Urbani? Restano i beni archeologici e gli immobili riconosciuti come monumenti nazionali. Sparisce però completamente il punto 2 e diventa molto vago il punto 4. Quindi c’è un palese indebolimento.

Ma Urbani ha aggiunto: stavolta gli elenchi li facciamo noi. Una mezza verità poiché li sta facendo l’Agenzia del Demanio e li invia al Ministero. Non ci sono più di mezzo gli Enti pubblici. C’è l’Agenzia del Demanio che vuole vendere e che dà un prezzo pure all’isola di Giannutri o alla Villa di Tiberio.

Vi è di più e di peggio: il ministro Urbani ha consentito che nel suo Codice venisse introdotto il congegno tremontiano del silenzio/assenso. Se le Soprintendenze non rispondono alla richiesta dell’Agenzia del Demanio nel termine di 120 giorni (che poi si riducono in realtà a 30), dando motivato parere, il loro silenzio equivale ad un si venda. Secondo il ministro, è un lavoretto da poco per le Soprintendenze. Secondo il soprintendente regionale delle Marche, Francesco Scoppola, uno dei più preparati, il nostro lavoro, soltanto per i beni demaniali, si moltiplicherà per sette. Poi c’è il condono edilizio voluto da Tremonti (al quale Urbani si è blandamente opposto). Un condono, ha ammesso, non è una bella cosa, ma col solito scatto d’orgoglio ha sottolineato: per la prima volta abbiamo escluso le aree protette. Altra mezza verità. E stata l’opposizione a costringerveli. Silenzio tombale di Urbani invece su di un altro punto-chiave del condono: per la prima volta vengono sanati anche abusi commessi in parte su suoli demaniali. Mai accaduto. Un altro varco aperto nella tutela. A quando condoni totali sul demanio marittimo, fluviale, ecc.?

E i Musei, diverranno privati? Urbani ha svicolato così: la proprietà dei Musei rimarrà pubblica. La proprietà, certo. Ma l’intera gestione diventerà privata. A cominciare dal Museo Egizio di Torino. Infine, una delle materie più roventi: i piani paesistici, la legge Galasso, i poteri di bocciatura delle Soprintendenze per i progetti deturpanti. Tutte le Regioni che lo vorranno, ha spiegato testualmente Urbani, potranno assumere piani paesistici che faranno aggio sui piani urbanistici. Prima, succedeva di più e di meglio: con la legge Galasso dell’85, le Regioni erano obbligate ad adottare piani paesistici cogenti e se non lo facevano, il Ministero con le sue Soprintendenze si sostituiva a loro. Come è infatti avvenuto in Campania e Calabria, come stava avvenendo, finché ci fu la Melandri al Collegio Romano, in Puglia e nella stessa Lombardia.

Dal 1° maggio, col Codice, il potere di bocciare un mostro paesaggistico non ci sarà più. Le Soprintendenze saranno chiamate a dare un semplice parere, preventivo e consultivo, sull’autorizzazione comunale. Poi saranno disarmate. Giustificazione di Urbani: tanto, quelle bocciature le cancellava sistematicamente il Tar.

Non è vero: su 3.000 bocciature di media all’anno, quelle importanti rimanevano tali. Irrevocabilmente. In certe regioni rimanevano tutte valide.

I costruttori più disinvolti e rapaci staranno brindando. Difatti il progetto di legge urbanistica di cui è relatore l’on. Lupi (FI) promette di peggiorare il Codice Urbani e pare che stia incontrando consensi pure fra deputati dell’opposizione. Si gradiscono smentite.

NELLA furia iconoclasta che ispira il centrodestra in materia ambientale, la maggioranza ha deciso di sferrare l’ultimo assalto a ciò che resta del nostro patrimonio paesaggistico, un patrimonio che appartiene a tutti e quindi anche a quelli che votano per l’opposizione, reiterando i fasti e i nefasti del Malpaese con l’aggravante della recidiva. All’origine di quest’offensiva, non c’è solo una diversità di cultura, di sensibilità o - se vogliamo usare una parola ancor più impegnativa - di civiltà

C’è evidentemente una precisa volontà devastatrice, un piano, un progetto per lo smantellamento definitivo del sistema di tutele, di controlli e di garanzie, allo scopo di procedere in modo più libero e spedito sulla strada della speculazione, dell’affarismo e quindi del dissesto.

Con la frettolosa conversione in legge del decreto presentato dal ministro Matteoli, un ministro dell’Ambiente che ha goduto finora di generose ed eccessive benevolenze da parte di vecchi e nuovi ecologisti, la maggioranza non ha semplicemente modificato i criteri e le procedure per la composizione delle Commissioni per la valutazione di impatto ambientale (VIA). Ma, per usare un facile calembour, ha dato praticamente il via alla devastazione programmata e autorizzata del territorio nazionale.

E per conseguire un tale risultato, irridendo ancora una volta l’autorità della Consulta come già sulla questione televisiva o sulla giustizia, s’è nascosta dietro il paravento della sentenza con cui la Corte costituzionale aveva deliberato che la Commissione speciale per le opere strategiche fosse integrata anche dai rappresentanti delle Regioni.

Fatto sta che, per realizzare questa prescrizione, il governo ha stabilito inopinatamente di ridurre il numero dei tecnici chiamati a comporla, compromettendone ulteriormente la funzionalità: già oggi la Commissione speciale è tanto oberata di progetti, in virtù dei discutibili meccanismi innescati dalla Legge Obiettivo, che è costretta a ricorrere a esperti e consulenti esterni. Contemporaneamente, per prendere - come si dice - due piccioni con una fava, sono stati modificati in maniera del tutto ingiustificata i requisiti per i membri della Commissione ordinaria, a cui spetta fra l’altro valutare i progetti di dismissione delle centrali nucleari, pregiudicandone così l’autonomia operativa.

Tutto questo accade per di più all’indomani di un appello pubblico, lanciato dal Fondo per l’Ambiente italiano e sottoscritto da personalità di varia estrazione, in difesa del patrimonio paesaggistico. Ma il grido d’allarme, a quanto pare, è rimasto inascoltato.

Un emendamento introdotto in extremis alla legge delega sull’ambiente prevede infatti la depenalizzazione completa per qualunque reato commesso ai danni del paesaggio. Più che un condono o un’amnistia, è un colossale colpo di spugna che legittima retroattivamente anche gli abusi totali, cioè "i lavori compiuti in assenza o difformità delle autorizzazioni", comprendendo le violazioni sull’aumento delle superfici o dei volumi consentiti.

É come abrogare delitti gravi quali il furto, la rapina o l’omicidio. E nel nostro caso, sono delitti commessi contro l’intera collettività.

Se si pensa poi che le due leggi fondamentali sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio risalgono entrambe al 1939, viene da commentare che almeno in questa materia il Cavaliere (Berlusconi) batte il Cavaliere (Mussolini); il regime (televisivo) sconfigge il regime (fascista); l’Italia in divisa azzurra supera perfino l’Italia in camicia nera. In piena dittatura politica, ben prima che arrivasse il decreto Galasso nel 1984 a fissare nuovi vincoli paesaggistici, 65 anni fa il duce s’era preoccupato di sancire un criterio puramente estetico per impedire la modifica delle bellezze naturali, la manomissione del panorama, insomma lo scempio del Belpaese. E sappiamo bene purtroppo che cosa è accaduto durante la Prima Repubblica, con tutti i guasti e i danni prodotti da un abusivismo sistematico, dal lassismo amministrativo e giudiziario, dalla prassi devastante delle sanatorie e dei condoni edilizi.

Adesso, sotto la dittatura mediatica, il saccheggio può riprendere e continuare, anzi viene legalizzato, autorizzato dal Parlamento o meglio dalla maggioranza che sostiene il governo. Diventa - e ripugna qui usare un’espressione del genere - "cultura di governo", presunta e falsa modernizzazione, semplificazione dei controlli e snellimento delle procedure, deregulation selvaggia.

Evidentemente, per rinnegare lo Stato di diritto, nell’era della televisione e di Internet non è più necessario abolire le libertà personali, quella d’opinione e di critica. E neppure, l’opposizione parlamentare. Basta cancellare il paesaggio.

Prima: il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001 in vigore il 30.6.2003) nella versione originaria ammetteva una ricostruzione fedele "di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente".

Dopo: la circolare 7.8.2003 n.4174 del Ministro delle infrastrutture, G.U. 25.11.2003, ma già il D.L. 301/2002, ampliano in maniera larghissima e persino ridicola il senso di demolizione e ricostruzione. Restano solo i vincoli della volumetria e della sagoma: dunque si possono modificare l'area di sedime, le caratteristiche dei materiali e, incredibile chiarimento della circolare, aumentare le superfici utili "con il conseguente incremento del carico urbanistico". Siamo su un piano quasi filosofico: la possibilità dell'aumento "deve ritenersi insita nella natura di tale intervento". Inoltre, poiché manca il riferimento all'area di sedime, la circolare afferma comicamente che ciò non vuol significare possibilità di ricostruire l'edificio in un altro luogo (grazie tante!!), ma ammissibilità di "modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di sedime" se esse rientrino nelle cosiddette variazioni non essenziali (la cui aleatorietà nelle leggi regionali ben conosciamo). Dimenticavo il sapido finalino: la demolizione/ricostruzione può essere applicata anche alle costruzioni abusive che abbiano ottenuto la concessione in sanatoria.

Insomma, un liberismo smaccato che darà un'ennesima mazzata alla buona urbanistica e alla buona architettura. Da quest'ultimo punto di vista vedi bene, tra l'altro, che l'aumento delle superficie significa, per esempio, inserire nel dato volume abbastanza alto un maggior numero di solette, come si è visto più volte realizzare in palazzi (per esempio milanesi) una volta abitati trasformati in banche e uffici di grande aziende, o, da ultimo, in favoleggianti atelier dei principi della moda. E come si potrà procedere da parte del professionista e dell'impresa? Non, come prima e giustamente, mediante la concessione edilizia, ma semplicemente e carinamente attraverso la Dia (Denuncia di inizio attività): vale a dire: continua la cuccagna per impresari e (spiace dirlo) per tanti, troppi architetti. Del resto, a proposito di questi ultimi, come nel caso dei sottotetti sul quale sono già intervenuto sul sito e in "la Repubblica", colpisce (ma non sorprende, dati i tempi, e anche la memoria di mezzosecolari malefatte che li hanno coinvolti) il maggioritario loro silenzio, il sostanziale disimpegno degli ordini professionali e dell'università con rare eccezioni, il disinteresse delle riviste. Ti ho già scritto che "Il giornale dell'architettura", forse l'unica a dedicare un articolo al tema, lo fa in maniera tanto distaccata, meramente informativa (lì ho ricavato le notizie), senza alcuna pesante deplorazione né alcun commento almeno dubitoso, da renderti pressoché definitiva la certezza che mai risorgerà una lotta, una forte opposizione da parte del nostro mondo culturale e professionale verso i poteri che governano la distruzione pianificata e a loro "conveniente" del paese.

La legge urbanistica nazionale ha più di sessant'anni e, pur essendo un'ottima legge, ne dimostra molti di più: le città sono molto cambiate negli ultimi decenni, e cambiati sono i contenuti e i modi delle loro trasformazioni. Un parlamentare della maggioranza, Maurizio Lupi, e un parlamentare dell'opposizione, Pierluigi Mantini, firmatari di due diversi progetti di nuova legge urbanistica, stanno cercando di costruire un testo unificato da sottoporre al dibattito delle camere. L'impresa ha suscitato perplessità e diffidenze: nel clima politico attuale ciò è più che comprensibile, ma la maggior parte delle riserve espresse derivano probabilmente da idee sbagliate sui compiti dell'urbanistica.

Con urbanistica si intendono ormai le cose più diverse, dall'arte di progettare e costruire le città, ai problemi della difesa ambientale o delle sostenìbilità, mentre l'urbanistica regolata dalle leggi è un'attività più specifica di quanto generalmente si immagini.

L'urbanistica è un'attività rivolta, con la forza della legge, alla definizione delle modalità d'uso del suolo e della mobilità. Nella pratica questo vuol dire che il compito dell'urbanistica è quello di controllare e ridurre i possibili effetti negativi prodotti dalle trasformazioni urbane di qualunque tipo.

A causa delle caratteristiche del suolo, una risorsa scarsa e non riproducibile , per svolgere il suo compito 1'urbanistìca non può intervenire dopo che le trasformazioni sono avvenute, sarebbe troppo tardi. L'urbanistica deve anticipare le trasformazioni ed è così costretta a costruire essa stessa il mercato urbano, un'operazione che svolge soprattutto attraverso l'assegnazione dei diritti di edificazione, espressi negli indici di edificabilità, oggetto principale di contesa quando si discutono le scelte di un piano regolatore.

La costruzione del mercato urbano ha conseguenze significative sui diritti dei cittadini. L'importanza politica delle scelte dell'urbanistica deriva dal fatto che quelle scelte determinano le condizioni del dove e come abitano, lavorano, fanno la spesa, si divertono, e di quanto tempo sono costretti a consumare per spostarsi da un posto all'altro. Un noto giurista ha definito il piano regolatore una «costituzione impermanente»: il piano regolatore è una costituzione proprio perché definisce non solo i diritti di proprietà, ma soprattutto i diritti di cittadinanza; è una costituzione impermanente

a differenza della Carta costituzionale destinata a sfidare il tempo , perché la città si trasforma e il piano regolatore si modifica per disegnare e controllare le trasformazioni urbane. Dire che attraverso la costruzione e il controllo del mercato urbano l'urbanistica disegna i nostri diritti di cittadinanza non significa negare l'importanza di altri compiti come quello della costruzione di una città bella, oltre che giusta. Una città bella può essere un diritto di ogni cittadino, ma sarebbe difficile considerarla l'attributo di maggior rilievo, anche perché in un mondo come il nostro è molto difficile stabilire uno standard condiviso di bellezza urbana, mentre è meno difficile trovare un accordo su quello che dovrebbe essere lo spazio minimo necessario per abitare, o il tempo massimo che si è costretti a passare in automobile o in metropolitana per recarsi al lavoro o a scuola.

Ricordare che l'urbanistica attraverso il controllo spaziale esercita una forma molto importante di controllo sociale significa dire che l'urbanistica disegna i diritti di cittadinanza e che è questo il suo compito principale.

Si tratta di un compito costituzionale che non può essere eluso, e che pertanto deve stare al cuore dei principi definiti dalla legge urbanistica nazionale; i principi che devono garantire un'uniformità di trattamento dei diritti pur nel rispetto delle differenze regionali.

Nel quadro dei principi fissati dalla legge nazionale, le leggi urbanistiche regionali regoleranno le attività amministrative e tecniche attraverso cui l'urbanistica costruisce nei diversi contesti locali il mercato urbano e definisce i diritti di cittadinanza.

Se questi, e non altri, sono i compiti dell'urbanistica, è necessario che il progetto di nuova legge urbanistica nazionale sia il risultato di un accordo su un testo unificato, perché riguarda principi e regole che debbono durare nel tempo, indipendentemente dal variare delle maggioranze parlamentari. Pertanto, perplessità e diffidenze nei confronti dell'iniziativa di Lupi e Mantini sono ingiustificate, e se l'approdo parlamentare non dovesse essere possibile, il loro tentativo rimarrà comunque un contributo culturale e politico molto utile alla redazione di una nuova legge urbanistica nazionale e alla crescita del nostro costume democratico.

Una ventata neoliberista, anzi una burrasca, si abbatte sull´urbanistica italiana. Sta per giungere in porto la riforma della legge che dal 1942 regola il governo del territorio. Ed è una riforma, patrocinata dalla maggioranza di centrodestra, che spazza via alcuni dei principi cruciali della pianificazione, di ciò che regola, cioè, la trasformazione di un suolo: dove si costruisce, dove no, dove vanno fatte le strade, i ponti, i binari, dove c´è verde da tutelare, paesaggio da rispettare, dove c´è agricoltura da salvaguardare.

In primo luogo viene incrinato lo stesso principio della pianificazione, quello per cui in una città gli interventi devono essere coordinati l´uno con l´altro e rispondere a una visione d´insieme. In secondo luogo viene abbattuto il primato dell´autorità pubblica, sostituita da una serie di "atti negoziali" in cui la stessa autorità pubblica (il Comune, per esempio) è solo uno dei protagonisti di una trattativa (l´altro o gli altri sono i privati). In terzo si affida alla discrezione delle Regioni definire quali luoghi vanno pianificati e quali no.

La riforma, che nel mese di aprile viene discussa in Commissione per giungere in aula prima dell´estate, ha un padre che ha già sperimentato queste soluzioni. Si chiama Maurizio Lupi, è un deputato di Forza Italia. «Questa è una legge che fissa principi», spiega Lupi, «seguendo il nuovo dettato costituzionale che affida allo Stato poteri di indirizzo e alle Regioni facoltà legislativa». Non è vero, assicura, che tutta la pianificazione passa alla contrattazione: essa infatti si dividerebbe in due fasi, una di tipo più strutturale, che resta affidata all´ente pubblico, e un´altra di tipo attuativo, che procede invece per via negoziale.

Prima di arrivare a Montecitorio, Lupi è stato assessore all´urbanistica del Comune di Milano, dove questa filosofia della deregulation si è inverata in un documento datato maggio 2000 ed elaborato da Luigi Mazza ( che qui sotto intervistiamo), docente di urbanistica al Politecnico, professionista molto stimato e noto per le sue simpatie diessine. A Milano si è bandito il piano regolatore sostituito da un documento di indirizzi in cui sono fissati una serie di obiettivi di massima anche questi - si legge nel documento - soggetti a modifica. Per il resto tutto il futuro della città è affidato alla contrattazione fra l´amministrazione comunale e i privati (proprietari di aree, di industrie dismesse, di immobili, oppure grandi investitori). Chi vuole può presentare un progetto. Una commissione comunale lo valuta e, se lo ritiene apprezzabile e in linea con gli indirizzi fissati, lo approva. Partito di gran carriera, il sistema milanese si è però via via inaridito: da un centinaio di progetti si è scesi, negli ultimi mesi, a poco meno di una decina.

La soluzione milanese si è comunque diffusa in molte altre città, dove il vecchio piano regolatore non è stato formalmente soppiantato, ma lo si è nei fatti svuotato procedendo per progetti riferiti a singole trasformazioni, spesso in contrasto con il piano. Il modello della giunta Albertini (che raccoglieva una serie di pratiche e di leggi proliferate dagli anni Ottanta in poi) ha trovato orecchie sensibili presso amministrazioni di centrodestra, ma anche di centrosinistra (ultima in ordine di tempo la giunta di Salerno, che ha accantonato il piano redatto da Oriol Bohigas, che pure era ispirato alla dottrina della deregulation più spinta).

La legge divide gli urbanisti, incassando l´obiezione di molti ( vedi qui sotto l´intervista a Edoardo Salzano, per molti anni professore a Venezia), ma anche una tiepida adesione dai vertici dell´Inu, l´Istituto nazionale di urbanistica. Contrarie, invece, alcune associazioni ambientaliste, come Italia Nostra.

La nuova legge urbanistica? «E' il delirio di uno speculatore trasformato in legge». L'allarme sarà lanciato pubblicamente oggi - nell'ambito della giornata di Italia Nostra su «Paesaggio e tutela» - ma è da qualche tempo che il mondo degli urbanisti è entrato in agitazione per quel che sta accadendo in parlamento, e in particolare nella commissione ambiente. Che si appresta a partorire una legge considerata mostruosa da gran parte degli urbanisti e salutata con favore dello stato maggiore dei costruttori (Confedilizia benedicente); una legge il cui fulcro è la sostituzione degli «atti autoritativi» con quelli «negoziali»: in sintesi, l'ingresso ufficiale degli interessi privati nella sede di definizione dei piani urbanistici, quelli che una volta dovevano tutelare l'interesse generale. Proprio oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti, in commissione ambiente, al «testo unificato» sul governo del territorio. Padre della legge è Maurizio Lupi, ciellino confluito in Forza Italia sin dagli esordi del partito Mediaset, già assessore all'urbanistica a Milano e ispiratore anche della legge urbanistica in via di approvazione in Lombardia. E del «modello lombardo» - una vera fonte di ispirazione, così come è successo per la sanità e la scuola - la nuova legge è l'applicazione fedele, a livello nazionale. In primo luogo, si stabilisce che il «governo del territorio» spetta alle regioni, salvando per lo stato centrale solo «gli aspetti direttamente incidenti sull'ordinamento civile e penale, sulla tutela della concorrenza nonché sulla garanzia di livelli uniformi di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Il potere legislativo delle regioni avrebbe così assai scarse limitazioni, denuncia Italia nostra che vede nella proposta di legge la sostanziale smentita dell'articolo 9 della Costituzione («la Repubblica tutela il paesaggio»).

Quanto agli strumenti per «governare il territorio», il successivo articolo 4 della proposta di legge non lascia dubbi, enunciando sin dal titolo quel principio-cardine del «modello lombardo» che è la sussidiarietà tra pubblico e privato. E se in materia sociale questo vuol dire lasciare allo stato solo i rifiuti che il mercato lascia dietro di sé, in materia urbanistica la sussidiarietà alla lombarda si traduce facendo sedere i costruttori e i soggetti privati forti alla scrivania dove si progetta la città: «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti». Chi sono questi «soggetti interessati»? «Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di `soggetti interessati' ci si riferisca al cittadini e alla cittadina? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare», scrive Edoardo Salzano sull'Archivio di studi urbani e regionali (n. 77/2003, che contiene un esteso dibattito sulla riforma urbanistica in discussione). E che i «soggetti interessati» siano quelli che hanno «voce e potere», come dice l'urbanista Francesco Indovina, lo conferma anche la relazione di accompagnamento al disegno di legge.

«E' un testo terrificante», sostiene Vezio De Lucia, che descrive così l'effetto della legge a regime: «il governo del territorio non sarebbe più nelle mani dei poteri istituzionali, ma sarebbe affidato ad `atti negoziali' tra tutti i soggetti interessati, cioè i proprietari fondiari». Il trionfo dell'«urbanistica contrattata», inaugurata per l'appunto nella Milano da bere e in quella del decennio successivo. Tra gli urbanisti l'allarme è diffuso. «Mentre tutte le regioni stanno legiferando, una legge quadro dovrebbe indicare i princìpi generali, questa non lo fa e allo stesso tempo dà persino un accesso di potere alle regioni», commenta Indovina. Intanto la Lombardia marcia da sola verso la sua legge, in attesa della sua consacrazione su scala nazionale.

Caro Direttore, desidero sottoporle alcune considerazioni - non necessariamente per la pubblicazione - su un tema rilevante trattato da l'Unità il 20-3-2004 (articolo di Maria Zegarelli sulla legge di riforma dell'urbanistica, tema poco dopo trattato anche d V. Emiliani a proposito di beni culturali). In entrambi gli articoli sembra quasi che l'urbanistica sia prevalentemente o soltanto una faccenda di paesaggio. Forse andrebbero fatte alcune precisazioni.

Innanzitutto, va detto che il tema del paesaggio, quello della urbanistica negoziale, quello (che pare dimenticato) della natura dell'urbanistica, quello del governo del territorio e quello delle modifiche costituzionali sono altamente interrelati.

Quando l'estate scorsa furono presentati a Milano in Regione i progetti di legge (Lupi FI, Mantini Margherita, Sandri Ds; il prossimo 31 marzo verrà di nuovo trattato il tema, sempre a Milano in un grande albergo, da urbanisti milanesi, dai presentatori dei progetti, e da avvocati immobiliaristi) non eravamo ancora in presenza di due grosse novità:

a) il tentativo di compattamento delle opposizioni, e,

b) la Sentenza 303 / 2003 della Corte costituzionale, che onde evitare equivoci afferma che nonostante la riforma costituzionale del 2001 parli di governo del territorio e non più di urbanistica, la materia urbanistica non è affatto scomparsa.

L'on. Mantini presentò, anche con un articolo su Urbanistica Informazioni, l'ipotesi di una operazione "bipartisan" di accordo tra il suo progetto e quello di Forza Italia. Mi chiedo se con la situazione politica successiva un "esperimento" bipartitico del genere (a meno che non sia un'ipotesi di grossa coalizione...) sia ancora di attualità, o se il progetto della Margherita non debba prima di tutto accordarsi con quello Ds.

Quanto alla legge di principi generali, mentre l'urbanistica è materia nota e una legge si potrebbe forse fare velocemente, il "governo del territorio", che comprende anche l'urbanistica insieme a tante altre cose, andrebbe studiato con calma piuttosto che precipitarsi a fare una legge generale. E si vedrebbe allora l'intreccio con temi costituzionali non ancora risolti: era questa proprio una delle materie ancora soggette a chiarimenti dopo la riforma costituzionale del 2001, anche se i tentati chiarimenti furono poi dimenticati quando dalla riforma la Loggia o poi La Loggia-Bossi si passò un pò disordinatamente a più succulente materie relative ai poteri costituzionali. E della difficile applicazione della legge 131 del 5 giugno 2003 di adeguamento dell'ordinamento repubblicano alla nuova Costituzione mai si sente parlare. Il tema tuttavia continua a non essere chiaro, e ricordiamo che persino una nota Sentenza della Corte Costituzionale, la 407 del 2002 , parlava di tematiche "inestricabilmente intrecciate" a proposito di ambiente, beni, territorio. E si sa che, a parte le differenze di opinioni e di interessi tra regioni e amministrazione statale, anche dentro a quest'ultima esistono modi assai diversi di vedere il tutto, come minimo tra gli apparati che si occupano di Ambiente, Beni (e quindi paesaggio), Infrastrutture, Difesa del suolo; nonostante la Corte invochi una "leale cooperazione" tra le amministrazioni. Inoltre, sempre a proposito di governo del territorio, non sarà da escludere che qualcuno veda nell'espressione una specie di riconoscimento di "sovranità" regionale sul territorio (sicché converrebbe trovare un altro nome). Qualche rilievo avevo fatto in una serie di osservazioni sui temi ambientali e territoriali in rapporto alla Costituzione in un mio breve corso di Giurisprudenza alla Bicocca, poi pubblicate in tre puntate di sintesi nel sito www.filosofia-ambientale.it e riprese in www.sernini.net. Ben a proposito in un'intervista a l'Unità del 12/9/2003 Campos Venuti denunciava i tentativi di "secessione urbanistica".

Del resto, anche la recente vicenda del Condono, se portato dinnanzi alla Corte con l'assunto che non si tratta di materia statale (neppure nei principi generali o qualcosa di simile) ma esclusivamente regionale, rischia di essere una zappa sui piedi: le regioni che non vogliono il condono non l'applicherebbero, tutte le altre sì, come avverrebbe per tutta l'urbanistica ove fosse esclusivamente regionale o se lo stato non potesse dettare principi di fondo. Sono immaginabili le conseguenze di questa urbanistica "differenziale", della quale avevo avvertito brevemente in uno studio del 1985.

Vorrei anche accennare al fatto che mi pare esagerato ridurre tutta l'urbanistica, come è ora di moda, ai temi del paesaggio. L'urbanistica riguarda anche e forse soprattutto gli insediamenti umani sul territorio di persone e attività, quante, dove, come, quanto dense, città e non città. Anche in Francia i poteri di pianificazione urbanistica sono locali, comunali, ma esistono norme generali, per es. circa gli strumenti di coerenza territoriale, e vi sono inoltre norme di intenzione urbanistica per l'intero paese, a durata ventennale. E anche in Inghilterra la libertà di costruire non è esente da obiettivi politici generali. Per quanto sia in voga il paesaggio, e la bellezza, e l'elogio della qualità della vita agreste, come è possibile far scomparire non soltanto gli eccessi della pianificazione ma anche le parti usuali dell'urbanistica? E l'importanza degli agglomerati urbani? Ad Amsterdam come a Londra di fanno piani, in Francia si discute se densificare Parigi, in Inghilterra si discute pubblicamente se i milioni di nuovi alloggi necessari si debbano fare espandendo Milton Keynes pianificata come espandibile o invece vadano collocati nelle zone abbandonate di una città esistente come Birmingham, e sempre in Inghilterra si discute di case dal costo sopportabile. Da noi è persino difficile sapere qualcosa delle previsioni abitative decennali delle regioni, richieste dalla legge del 1978. E per molte norme il testo Unico dell'Edilizia del 2001 sembra soppiantare la normativa urbanistica.

Certo, mi si dirà, i progetti in discussione si occupano anche di urbanistica, infatti trattano delle nuove regole negoziali, della perequazione immobiliare e finanziaria tra operatori. Ma, e qui giustamente vedo che Vezio De Lucia ha fatto dei rilievi in proposito, si può andare verso una tendenza terrificante. Se l'urbanistica è sempre meno politica, se il privato fa un vero piano urbanistico avendo però come intento non la organizzazione dell'insediamento sul territorio ma solo la valorizzazione proprietaria, sparisce l'interesse pubblico, sparisce la differenza tra giusta remunerazione della rendita e speculazione. Eppure, già l'Einaudi nel 1920 studiando il problema delle abitazioni, mentre magnificava come unico sistema valido quello liberista puro, doveva poi ammettere che a volte subentrano valutazioni politiche a modificare i modelli. Forse si vuol andare a piani urbanistici privati come si fece a Beyrouth negli ani '90, o a casi come quello del Mori Bulding nel quartiere centrale Rappongi di Tokyo, esproprio privato (oppure partecipazione azionaria!) e libera costruzione? Nella Polonia deregolata è successo che si sono costruite case in luoghi sgraditi ai ceti più ricchi ma con caratteristiche inarrivabili per i ceti più poveri. Risultato: case non occupate. E' chiaro che le nostre Società di Trasformazione Urbana, specialmente se non se ne garantisce la presenza pubblica maggioritaria, oggi che con la perequazione eventualmente funzionante si incentiva al costruire prevalentemente chi ha grandi possibilità finanziarie - e infatti sono molto presenti sul mercato le grandi immobiliari - potranno allontanare tramite l'esproprio piccoli proprietari non graditi nella zona da "abbellire": uno sfratto dei proprietari insomma. Senza che si voglia disporre almeno la regola che queste operazioni nella città abbiano inizio da zone dismesse e da zone veramente degradate. Quanto all'extraurbano (per quanto poco trovi credito tra architetti alla moda questo termine), vedremo forse i privati acquistare terreni liberi e costruirci sopra vere e proprie piccole città, di cui essi e non certo sostanzialmente i Comuni farebbero il piano urbanistico? Questa ottica privatistica trova un singolare elemento simmetrico in una iniziativa di questi giorni sùbito e forse affrettatamente magnificata da molte parti: il privato che acquista immobili "mostruosi" per poi demolirli. Se si tratta di abusivismo, ci sono già le norme sull'abbattimento, e le ammende per l'illecito andrebbero comunque portate a livelli più alti. Se si tratta di edifici che semplicemente non piacciono all'acquirente, ma furono regolarmente costruiti, mi pare un caso di arroganza proprietaria bella e buona.

Insomma, sarà una istanza ingenua, ma credo che non sarebbe male se tra tutti gli urbanisti si discutesse di tutta la materia, e poi si discutesse ampiamente tra questi e i politici, e poi questi operassero sapienti mediazioni sui progetti di legge, se possibile, oppure molti emendamenti accompagnati da un pò di supporto dell'opinione pubblica. Temi difficili, se ci si occupa solo di calcio e di TV, e se persino le riforme costituzionali - è stato giustamente lamentato giorni fa - fanno poca audience. Ma ancor più difficili se sui giornali non si spiega ampiamente tutto l'intrico.

Professor Mazza, la filosofia che ispira il testo Lupi sembra essere "più contrattazione, meno piani regolatori". Lei è d´accordo con questa impostazione?

«È una semplificazione eccessiva. Il problema è mal posto, perché l´alternativa non è tra "più contrattazione" e "meno piani" (le regole sono indispensabili), ma tra contrattazione trasparente e contrattazione opaca e collusiva, come quella che si è praticata finora nelle sedi dei partiti, delle banche, negli studi professionali, nelle associazioni sindacali e imprenditoriali. Ogni scelta urbanistica comporta una discriminazione che richiede contrattazione e accordo. Il problema, tutto politico, è quale sia il senso degli accordi, se gli accordi servano interessi particolari oppure generali».

In che modo questo testo può correggere le storture che gravano sulle nostre città?

«Nessuna legge può correggere storture che sono il prodotto dei sistemi di valori della nostra cultura e anche della cultura tecnica. La nostra cultura tecnica non sarà mai una cultura adulta sino a quando i tecnici per progettare avranno bisogno di una legge che imponga, per esempio, densità edilizie, dal momento che la loro integrità professionale non è sufficiente a impedire che si progetti con densità eccessive. Bisogna costringere tecnici e politici ad assumersi le loro responsabilità senza nasconderle dietro il paravento delle leggi».

Una delle obiezioni mosse al testo è che con la via negoziale la città non verrebbe più governata con un´attenzione unitaria.

«Se si escludono quelle di fondazione, le città si sono sempre trasformate con progetti parziali. Se un disegno complessivo è disponibile, talora i progetti parziali lo completano o reinterpretano, talora segnano uno scarto rispetto ad esso, uno scarto che può indicare l´avvio di un nuovo disegno complessivo. Il riconoscimento del carattere parziale dei processi di trasformazione urbana ricorda che il perseguimento di un disegno complessivo è ostacolato dal fatto che il disegno tende ad essere stabile nel tempo, mentre le trasformazioni sono il prodotto della dinamica di interventi settoriali e di interessi individuali. Il disegno complessivo non può essere congelato in un modello rigido come il piano regolatore, deve essere un costrutto sociale, la metafora spaziale di un programma politico che diviene un quadro di riferimento, continuamente ricostruito e reinterpretato con il contributo dei progetti parziali».

La presentazione di Francesco Erbani

L'intervento critico, di Edoardo Salzano

Delle questioni che riguardano il governo del territorio le sinistre si occupano poco e talvolta in modo contraddittorio. Non mancano le dichiarazioni di principio, belle e un po’ generiche, scritte nelle sedi romane, spesso senza riscontri nelle concrete situazioni locali. Dove i se e i ma, sempre incombenti, si addensano e gli enunciati restano nello sfondo fino a scomparire.

Succede che alcuni casi si proiettino finalmente al di là delle dispute locali, com’è accaduto – grazie anche a Berlusconi – per le trasformazioni delle aree litoranee della Sardegna. Questi quattrocento chilometri di coste sono parte essenziale del paesaggio del bel Paese,del quale rischia di restare solo l’etichetta di un formaggio: basta un altro condono. L’ultimo sistema costiero italiano che conserva grandi tratti ancora intatti ha subito, pure con qualche tentativo di impedirlo, un processo di sperperi iniquo. Con un lauto ritorno economico per pochi e infime contropartite per la stragrande maggioranza dei sardi ( per usare una chiave di lettura apparentemente ideologica).

Negli ultimi anni si è temuto il peggio: il precedente governo regionale di centrodestra aveva deciso di sferrare l’ultimo assalto, anche approfittando della distrazione degli altri schieramenti ( il vuoto di legge data 1997).

Ci voleva Renato Soru – un imprenditore arrivato per caso alla politica – per rimettere con fermezza la questione all’ordine del giorno e convincere la sua maggioranza a non cedere alle forti pressioni provenienti da più parti.

Con l’approvazione della nuova legge è oggi possibile arrestare un processo che rischiava di consegnare alle future generazioni un paesaggio inservibile, improponibile nel mercato turistico prossimo ( già ora molti turisti propendono per luoghi del tutto diversi dai villaggi di cartapesta e dagli scenari in stile billionnaire).

I danni arrecati sono tanti e non serve recriminare. Ma uno sguardo retrospettivo consente di vedere la disattenzione di decenni specie anche da parte delle forze politiche più attente e che non hanno colto del tutto l’importanza della questione ambientale nonostante le teorie appunto (si pensi al discorso di Enrico Berlinguer sull’austerità).

La decisione della maggioranza di centrosinistra che sospende questo svolgimento, indicando un altro modello di sviluppo, ha provocato scomposte reazioni specie tra i sindaci di centrodestra (e qualche esitazione tra esponenti del centrosinistra) specie in Gallura, laddove notoriamente la rendita è più elevata. Ma il rigetto del disperato ricorso al Tar proposto da questi sindaci ridimensiona molto la propaganda.

Un pezzo di strada è fatta e ora si apre la fase delicata della pianificazione ed è evidente che non mancheranno le occasioni di duro confronto sullo sviluppo.

Come in tutte le pratiche politiche le proposte di governo innovatrici vanno sostenute. In casi come questi serve che chi vuole battere le destre invece di stare nelle retrovie porti avanti il dibattito; come i cittadini che non hanno case al mare da vendere si aspettano.

Quella legge non gli piace. L'ha detto nei giorni scorsi e l'ha ribadito ieri. Gianni Nieddu, sindaco diessino di Budoni, sembra un po' imbarazzato quando Mauro Pili, Matteo Sanna e Fedele Sanciu sparano a zero sulla maggioranza di centrosinistra che governa la Regione. Il primo cittadino del centro gallurese arriva alle 10.45 nell'aula consiliare, ma non si avvicina ai tre consiglieri del centrodestra che hanno scelto Budoni come prima tappa di una protesta contro le nuove norme approvate pochi giorni fa dal Consiglio regionale in materia di urbanistica nelle zone costiere. Nieddu prende posto nelle ultime file. Poi quando Pili e soci concludono i loro interventi si avvicina al microfono e tuona parole pesantissime contro la Giunta Soru, contro la legge appena approvata e contro i consiglieri regionali che definisce «ostaggi del presidente, che non si rendono conto che stanno facendo male ai sardi». Parole uscite dalla bocca di un diessino che l'ex sindaco di Iglesias accoglie con misurata gioia.

«Non posso che esprimere il mio apprezzamento per quanto sta facendo l'amministrazione comunale di Budoni ? dice Pili ? abbiamo voluto iniziare in questo paese un viaggio che ci porterà in tanti altri centri della Sardegna. Budoni è un paese-simbolo. Sindaco e consiglieri si sono svincolati dai partiti per portare avanti una battaglia importantissima, per denunciare una legge che blocca lo sviluppo». L'ex presidente della Regione è convinto che dietro la legge approvata dal Consiglio nei giorni scorsi si nasconda una grande speculazione. Non dice chi ci sarebbe dietro, ma fa capire che nei prossimi giorni - carte alla mano - renderà pubblici una serie di documenti (atti notarili compresi) relativi a operazioni «nei 300 metri dal mare dove le ristrutturazioni sono sempre state vietate». Nell'aula consiliare c'è tanta gente. Segno che a Budoni l'argomento è particolarmente sentito. C'è anche qualcuno che chiede a Pili chiarimenti su come fare i ricorsi. «A chi si deve rivolgere un privato che si vede bloccata la lottizzazione?», domanda. «In primo luogo al Tar, poi al Consiglio di Stato e infine al presidente della Repubblica», risponde il consigliere regionale di Forza Italia. Poi la parola passa a Gianni Nieddu

Il sindaco è un po' emozionato. Da qualche settimana ha preso le distanze dal suo partito e non lo nasconde. «Nessuna segreteria politica ci condizionerà ? dice ? io sono di sinistra, ma allo stesso tempo sono anche uno spirito libero. Non prendo ordini da nessuno. Sono convito che la vera risorsa è l'edilizia. Noi avevano delle convenzioni che devono essere rispettate. Ne va di mezzo lo sviluppo di questa zona. Servono posti letto, alberghi. Con questa legge si blocca tutto. Bisogna modificarla. Non ci tireremo indietro se ci sarà da presentare un ricorso al Consiglio di Stato». Gianni Nieddu in questi giorni ha pensato anche alle dimissioni dalla carica di sindaco. «Ma non è giusto nei confronti della gente che ci ha votato ? sottolinea ? noi siamo con la gente in questa battaglia. Vogliamo invitare il relatore di questa legge, gli chiediamo di venire qui a Budoni per darci delle spiegazioni. Non si capisce bene cosa si voglia salvare».

ROMA - Giovanna Melandri è appena scesa dal palco girotondino. Alla platea ha parlato chiaro.

Più tasse per tutti.

«Più tasse e basta».

Più tasse.

«E´ ora di dire la verità: se vogliamo più Stato bisogna trovare i soldi per farlo funzionare».

I girotondini vogliono più Stato.

«La sinistra, l´Ulivo tutto dice: più welfare, più sanità, più scuola. I servizi costano e c´è bisogno che qualcuno paghi. Allora io penso che un minimo di serietà...».

Più tasse.

«Forse ho usato la parola sbagliata, ma il concetto mi sembra chiaro».

Berlusconi in genere usa dei sinonimi.

«Ma lui dice meno tasse per tutti!».

Suona più gradevole.

«Io non lo direi mai. Questi governi conservatori hanno fatto pagare il conto delle loro sciagurate decisioni ai ceti deboli, mortificando persino la fascia media della società. Meno scuola, meno sanità, meno ricerca. Solo i ricchi si sono fatti più ricchi».

Lei è eletta ai Parioli, vero?

«Roma centro è il mio collegio, ma conosco anche quella zona. E in molte famiglie si è vissuta questa contraddizione: il marito felice per il condono fiscale, la moglie disperata per l´abolizione del tempo pieno a scuola».

Lei portò fortuna all´Ulivo. Nel ?96, ammutolì Berlusconi nel programma televisivo con quell´accusa.

«...Volete privatizzare la sanità. Così dissi e documentai».

Quindi oggi rovesciando il concetto...

«Costa, sì costa tenere in efficienza le strutture pubbliche».

Basta essere chiari e dire le cose come stanno.

«Io non ho mai condiviso le decisioni di assecondare le richieste meno nobili della società civile».

Eppure il governo Amato, nell´ultimo anno di attività, ha tentato di assecondarle. Un poco, ma ha assecondato.

«E ché non lo so? Ero ministro e ho messo a verbale la mia contrarietà».

Infatti lei oggi, molto coraggiosamente, dice che bisogna darsi un pizzicotto sulla pancia.

«Se vogliamo investire nella ricerca e nell´istruzione, come giustamente diciamo, e vogliamo tenere alti i livelli di sostegno sociale nel lavoro, negli ospedali».

Il suo discorso fila.

«Mi sembra serio»

L´elettore capirà.

«Intendiamoci: bisogna naturalmente combattere l´elusione fiscale, l´evasione. Far pagare le tasse».

A tutti.

«A quelli che non le stanno pagando».

E´ un segno di equità e di moralità.

«Non so se mi sono spiegata».

(Un girotondino avvicina la Melandri: "´A Giova´, sta storia delle tasse nun me convince proprio").

«Senta, io vorrei essere chiarissima».

Ma lo è stata.

«Innanzitutto lotta all´evasione e lotta ai condoni. Mai più condoni».

Gli avvocati e gli ingegneri.

«Poi una contribuzione progressiva, è chiaro che io dico più tasse per alcuni ma meno tasse per altri».

Meno tasse.

«Non solo i ceti deboli, i più poveri. E mi sembra del tutto normale».

Sono già deboli di loro, lo dice la parola stessa.

«Ma anche la pancia dell´Italia, il ceto medio».

Meno tasse anche per loro.

«Sì, anche per loro».

Lascerebbe fuori solo....

«Io non arretro».

NEW YORK - Il nuovo Iraq nasce con 15 mani alzate nel consiglio di sicurezza dell'Onu a New York, tornato ad assumere rilevanza dopo oltre un anno in cui la crisi irachena era stata gestita quasi sempre lontano dal Palazzo di vetro. Con un voto unanime, i membri del consiglio hanno approvato la risoluzione 1546, messa a punto da Usa e Gran Bretagna, nella quale e' disegnato il futuro iracheno dal 30 giugno 2004 al gennaio 2006.

Il traguardo ha permesso al presidente americano George W. Bush di aprire il vertice del G8 a Sea Island, in Georgia, con in tasca un successo maturato soprattutto nel corso dei colloqui dei giorni scorsi a margine delle celebrazioni per il D-Day, avvenuti in un clima di rappacificazione atlantica. La risoluzione ''e' un momento importante'' che puo' costituire ''un catalizzatore per il cambiamento'' per l'intero Medio Oriente, ha detto Bush accogliendo gli ospiti del G8, senza mancare di sottolineare come ci fosse chi diceva ''che non ce l'avremmo mai fatta''.

L'accordo sulla quinta bozza messa a punto da Washington e Londra, e' stato raggiunto grazie a un compromesso raggiunto in tempo per il G8. La versione finale viene incontro alle residue riserve di Francia e Germania sul peso che il nuovo governo iracheno avra' in futuro nella gestione delle principali operazioni militari da parte della forza multinazionale (MNF) di 160 mila uomini, che restera' sotto il comando americano. Un paragrafo di nove righe ha permesso l'evoluzione verso una risoluzione che prevede un ampia cooperazione tra il governo iracheno e il comando della MNF, senza offrire un potere esplicito di veto a Baghdad sulle questioni militari. La risoluzione approvata alle 16:47 ora di New York (le 22:47 in Italia) nella sala del Consiglio di sicurezza non chiarisce cosa accadra' nel caso, per esempio, di un'offensiva militare americana contro Falluja o Najaf sulla quale il nuovo esecutivo iracheno sia in disaccordo.

Tra lunedi' sera e martedi', uno dopo l'altro da Parigi, Berlino, Mosca e Pechino sono arrivati i via libera al voto, pur senza nascondere le riserve. La Francia, ha detto il ministro degli Esteri Michel Barnier, non e' pienamente soddisfatta, ma ha deciso per il voto a favore ''per trovare in modo costruttivo una via d'uscita politica da questa tragedia''. L'ambasciatore tedesco all'Onu, Gunter Pleuger, ha riconosciuto che Usa e Gran Bretagna hanno avuto stavolta ''grande flessibilita' e accolto molte delle proposte che provenivano dall'approccio creativo e costruttivo di Francia e Germania''. Anche l'Algeria, unico membro arabo in consiglio, ha offerto il proprio appoggio, anche se avrebbe voluto un piu' chiaro potere di veto iracheno sul piano militare. L'Italia, con il ministro degli Esteri Franco Frattini, ha espresso ''viva soddisfazione'' per il traguardo. ''Il popolo iracheno - ha detto Frattini - puo' festeggiare per questo momento. La risoluzione recepisce in pieno i principi che l'Italia ha considerato essenziali per contribuire alla nuova fase della stabilizzazione dell'Iraq: effettivo trasferimento di poteri agli iracheni, ruolo centrale dell'Onu nella transizione politica, trasparenza nel rapporto tra Governo iracheno e forza multinazionale'' L'accordo segna una svolta all'Onu dopo un periodo difficile - cominciato alla fine del 2002 e culminato nella guerra - che il segretario generale Kofi Annan ha definito ''tra i momenti di maggior divisione all'interno del consiglio di sicurezza dalla fine della Guerra Fredda''. Al governo ad interim dell'Iraq viene riconosciuta la ''piena sovranita''' fin da quando il 30 giugno assumera' i poteri dagli americani. Da quel giorno, in teoria, il nuovo esecutivo in base alla risoluzione potrebbe anche chiedere alle forze straniere di andarsene. Ma non lo fara', ha spiegato a New York il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari, perche' le conseguenze in questa fase ''sarebbero catastrofiche''. C'e' il rischio, ha detto, di creare un vuoto ''che noi iracheni non siamo pronti a riempire: ci sarebbe la possibilita' che torni un Saddam junior''. La forza multinazionale, secondo la risoluzione, se ne andra' invece alla fine del processo politico che prendera' il via ora sotto l'egida dell'Onu e prevede l'elezione entro il 31 gennaio 2005 di un'Assemblea nazionale di transizione, che formera' un governo a sua volta di transizione e redigera' la Costituzione. Entro il 31 dicembre 2005 il primo governo eletto su base costituzionale prendera' il potere e dal primo gennaio 2006 la MNF non sara' piu' legittimata a restare, se nel frattempo non avra' gia' ricevuto la richiesta di andarsene dal governo di Baghdad. Usa e Gran Bretagna hanno cominciato alla fine di maggio a presentare bozze di risoluzione, ma la vera svolta e' arrivata nel fine settimana, con due lettere del primo ministro iracheno Iyad Allawi e del segretario di Stato americano Colin Powell, nelle quale sono indicati i termini della cooperazione militare tra l'Iraq e il comando della MNF. Lo strumento-chiave e' un nuovo organismo che nascera' a Baghdad, il Comitato ministeriale per la sicurezza nazionale, dove lavoreranno insime i vertici del governo iracheno, delle forze armate dell'Iraq, dell' intelligence di Baghdad e della MNF. Trasferire questo meccanismo dalle lettere di Allawi e Powell al testo della risoluzione, e' stata la 'magia' diplomatica che nella notte tra lunedi' e martedi' ha permesso l'accordo.

PENSACOLA, Florida - Robert e Schonn Passmore, lo scorso autunno, hanno portato i loro figli a Disney World e ne sono rimasti molto delusi. Da cristiani che rifiutano la teoria dell'evoluzione, i Passmore hanno disdegnato una delle attrazioni del parco, i dinosauri, che comprendono esemplari di brontosauri, branchiosauri e altre creature dell’era preistorica.

”I miei ragazzi hanno trovato molte imprecisioni nella presentazione”, dice la signora Passmore, di Jackson, in Alabama. “Tutta quella storia che milioni-di-anni-fa-i-dinosaùri-dominavano-la-terra. ..”.

Cosi, in aprile, i Passmore hanno scovato un posto meno conosciuto, in Florida: il Dinosaur Adventure Land, un parco e un museo a tema, ispirati al creazionismo, in cui si invitano i ragazzi “a scoprire la verità sui dinosauri”, con giochi che associano scienza e religione, trasmettendo il messaggio che è la Genesi, non la scienza, a raccontare la vera storia della creazione.

Kent Hovind, il religioso che nel 2001 ha aperto il parco, dice di voler diffondere il messaggio del creazionismo attraverso un classico della tradizione americana - i parchi a tema - anziché difenderlo nel corso di conferenze accademiche o nelle aule dei tribunali. L’obiettivo è di confutare tutti i centri scientifici e i musei di storia naturale che spiegano l’ evoluzione della vita attraverso la teoria di Darwin. Ci sono modelli di ossa di dinosauro accompagnati dalla spiegazione che Dio ha creato i dinosauri il sesto giorno della Creazione, come descritto nella Genesi, seimila anni fa.

Dinosauri creazionisti a Dinosaur Adventure Land

”Ci sono molti creazionisti veramente in gamba che sanno confutare bene gli intellettuali, ma i ragazzi si annoiano dopo 5 minuti”, dice Hovind. “Se si segue solo la strada del dibattito intellettuale, si perde il 98 per cento della popolazione”. Al Dinosaur Adventure Land non ci sono giostre meccanizzate, ma un discovery center, un museo e giochi all’aperto, ognuno dei quali ha, affisse accanto, una “lezione di scienze” e una “lezione spirituale”.

Eugenie Scott, direttrice responsabile del National Center for Science Education, afferma che i creazionisti tradizionali hanno ormai smesso da anni di cercare di costruirsi una qualche credibilità intellettuale: “Non mi sorprende che sponsorizzino gruppi di vacanze, parchi a tema e cose del genere”.

Kent Hovind dice di aver dato 700 conferenze all’anno e che il suo parco è stato visitato da 38.000 persone, che hanno pagato un biglietto di 7 dollari ciascuno. I Passmore sono venuti dall’Alabama con un gruppo formato da 8 minibus carichi di famiglie.

"Siamo stati nei musei e nei discovery center in cui devi stare lì seduto a sorbirti tutte quelle storie sulla teoria dell’evoluzione", dice il signor Passmore, “È stato bello poter ascoltare finalmente qualcosa che rafforza la tua fede”.

Solo per veri appassionati: il sito dei creazionisti italiani

Presentando le «aliquote della libertà» Silvio Berlusconi è raggiante. Dopo l’ultimo (ultimo?) vertice di maggioranza, il centrodestra avrebbe trovato la quadra sulle quattro aliquote Ire (ex Irpef), la mancia sull’Irap (500 milioni), le relative coperture e le relative poltrone di governo, che hanno avuto un ruolo importante in tutta la partita. Il premier annuncia una «svolta storica» un «fatto epocale» per il Paese: una diminuzione della presenza dello Stato che assicura all’individuo «più libertà economica, che equivale alla libertà politica e religiosa». Amen. Venerdì la proposta dovrebbe essere varata dal consiglio dei ministri, dove si profilano nuovi malumori da parte della Lega (sull’Irap) e forse di An sui pubblici. In contemporanea si dovrebbe varare la manovra-ter di fine anno.

I numeri più che a una liberazione somigliano a una condanna. Prima novità: in tre anni i dipendenti pubblici (escluso il settore scuola e sicurezza) saranno ridotti di 75mila unità «grazie» al blocco del turn-over. «Ogni cinque pensionati si assumerà un solo lavoratore», dichiara Berlusconi, entusiasta di tagliare posti di lavoro. «Il back office (cioè le spese di funzionamento, ndr) dello Stato è troppo pesante», spiega ancora il premier. Bella prospettiva di libertà. Seconda novità, scritta sulla bozza di emendamento ma taciuta in conferenza stampa: la scuola subirà una riduzione di organico del 2% (14mila unità) nei prossimi due anni scolastici. Tradotto: meno insegnanti, meno bidelli, meno personale per i servizi pubblici. Eppure il premier, spalleggiato dal fido Domenico Siniscalco, assicura: «Non si toccano i servizi pubblici». Della serie: quando la realtà supera la fantasia. Spetta a Siniscalco elencare le «macro-cifre». La manovra «costa» 6,5 miliardi di euro nel 2005, ma sono state reperite coperture (sulla carta) solo per 4,3 miliardi, cioè solo per la parte di cassa. La somma sale a 7,07 nel 2006 e a 6,89 nel 2007. Sembra un po’ poco se si vogliono recuperare i due miliardi mancanti dell’anno prossimo. Inoltre non si vede traccia dell’altro modulo di riforma annunciato da Berlusconi, che ha ssicurato mezzo punto di Pil di qui al 2008 (a elettori piacendo).

Chi pagherà tutto questo? A parte l’alto prezzo sociale delle strutture pubbliche, il resto si inscrive nel mondo delle buone speranze. Quasi la metà delle risorse per il 2005 (4,3 miliardi) arriva dalla proroga del condono edilizio (2 miliardi) e un’altra buona fetta (400 milioni) dall’autocopertura, voce «lafferiana» che convince solo il premier e Bush. «Io non avrei “bollinato” la manovra (il bollino è l’imprimatur della Ragioneria, ndr) - dichiara Vincenzo Visco - Non solo per l’autocopertura, ma anche per i tagli indicati, che sembrano tutti falsi». Invece la Ragioneria non ha avuto esitazioni a dare l’ok, assicurano Berlusconi e Siniscalco. Nessuna resistenza? «Nessuno ha usato violenza ad alcuno», interviene il titolare dell’Economia riferendosi a quei tecnici messi sotto accusa dalla Lega. La voce meno credibile è il taglio dei consumi intermedi, valutato in 600 milioni, mentre altri 400 milioni provengono dalla riduzione degli stanziamenti nelle tabelle della Finanziaria. Che tradotto vuol dire finanziamenti a leggi di spesa, come per esempio le erogazioni per la cassa integrazione (altroché non si toccano i servizi). L’unica cosa certa sono le maggiori tasse su bolli e concessioni per 550 milioni. Una vera beffa. Il blocco del turn over dei pubblici dipendenti non dovrebbe finanziare gli sgravi fiscali nel 2005, ma sarà «dirottato» sugli aumenti contrattuali. «Non si darà meno del 3,7%, ma non si arriverà al 5,1», ha spiegato Siniscalco. Secondo fonti di maggioranza, il governo sarebbe orientato verso il 4,8% in più.

Una spallata alle strutture pubbliche per ridisegnare le aliquote Ire: il 23% fino a 26mila euro, il 33% da 26.00 a 33.500, il 39% oltre quella soglia, un contributo di solidarietà del 4% (dunque un’aliquota al 43%) per i redditi oltre i 100mila euro. La «maggiorazione» per i ricchi è destinata a finanziare le deduzioni (non più detrazioni) per la famiglia.Saranno pari a 3.200 euro per il coniuge a carico e di 2.900 per ciascun figlio a carico. Saliranno a 3.450 euro per i figli con meno di 3 anni e a 3.700 euro per figli con handicap. Il loro valore calerà con l'aumentare del reddito fino ad azzerarsi a 78.000 euro. Di fatto per una famiglia con 2 figli a carico ci sarà un' esenzione dall' Irpef fino a 14.000 euro. Gli effetti medi della manovra saranno pari a un risparmio attorno ai 570 euro per chi guadagna 25.000 euro aunnui, per salire sui 860 euro per i redditi attorno ai 35.000 euro. Si prevede anche una deduzione specifica di 1.820 euro, decrescente al crescere del reddito, delle spese per la badante per i soggetti non autosufficienti.

Penalizzate su tutti i fronti escono le imprese, a cui è destinato un mini-sconto di 500 milioni sull’Irap. Tre gli interventi: la totale detassazione della spesa per i ricercatori; interventi per i neo assunti; il raddoppio degli sconti per i neo assunti al Sud

Le dimissioni di Lucia Annunziata segnano un punto di non ritorno. E’ vero che la Rai ha avuto molte crisi, molte dimissioni, e molti cambiamenti, anche in rapida successione, in passato. Che cosa c’è adesso di diverso? C’è l’idea che aveva avuto il Presidente della Camera, Pierferdinando Casini, di sperimentare un accordo fra gentiluomini.

Consisteva in questo. Alla Rai c’è una maggioranza che occupa tutti gli spazi. Ma può esistere una occupazione capace di autolimitarsi, confrontandosi di volta in volta, di problema in problema, con un presidente di garanzia, la cui presenza vuol dire l’impegno ad ascoltare voci che la maggioranza non rappresenta. Il Consiglio di amministrazione invece si è comportato in modo incomprensibile, se si pensa alla reputazione e visibilità di due dei suoi componenti (Alberoni e Rumi).

Ha scelto di dare sempre e solo via libera al braccio armato della occupazione politica, un tal Cattaneo che, avendo diretto senza gloria, in una carriera non favolosa, soltanto un Ente Fiera, ha creduto di usare maniere dure, tipo “calci in culo” (è una citazione) per mettere in riga la radio e la televisione di Stato al solo scopo di sottometterla commercialmente all’azienda concorrente Mediaset e politicamente al padrone di quella stessa azienda Silvio Berlusconi.

Resterà la memoria di un Consiglio di amministrazione che assiste tranquillamente a liti e aggressioni volgari e anche violente, iniziate e portate a termine dal loro direttore generale contro Lucia Annunziata, la presidente di garanzia di quello stesso Consiglio di amministrazione, senza avere neppure un moto di cortesia formale. Ma tutto ciò è finito per sempre.

Il Consiglio di amministrazione che ha costretto l’Annunziata a dimettersi non ha più valore e deve andarsene subito. È quanto sostiene - a noi sembra con fondamento logico e legale - il presidente della Commissione di Vigilanza Petruccioli.

Non ci sono gentiluomini - e neppure persone legate a vaghe forme di buone maniere - nella Rai occupata. C’è solo occupazione e volontà di più occupazione. Quando Lucia Annunziata ha visto l’elenco un po’ ridicolo e fantasioso (ma anche dotato di chiare intenzioni persecutorie) dell’ultima lista di “nuove nomine” si è resa conto che il “mobbing” contro di lei stava diventando un vero e proprio attacco a lei e alla azienda, condotto in modo brutale e persino deliberatamente teatrale. Conseguenze? Le dimissioni.

Non erano evitabili perché sono l’ultima garanzia che Lucia Annunziata poteva tentare di offrire e anche l’ultimo avvertimento per quel che resta delle istituzioni italiane, il Presidente della Camera e il Presidente della Repubblica. Ma c’è un avvertimento anche per tutto il centro-sinistra, per lo schieramento di coloro che si presentano alle trasmissioni televisive, dette di approfondimento giornalistico. È un appello all’intera opposizione. Una situazione di emergenza così grave - la completa espropriazione della Rai - deve essere resa ben visibile all’opinione pubblica italiana, attraverso la mancanza di ogni rappresentante del centro-sinistra e della sinistra in ogni trasmissione. Quella assenza sarà un messaggio poderoso. Sarà la più chiara testimonianza di ciò che sta accadendo, senza alcuna finzione di una normalità che non esiste.

Coloro che fossero incerti sulla necessità di una simile iniziativa (astenersi da ogni partecipazione in video almeno fino a che il Consiglio di amministrazione, ormai illegale, non si sarà dimesso) potranno trovare una evidenza drammatica dello stato di emergenza nelle dichiarazioni di personaggi come l’On. La Russa, l’On. Cè, l’On. Bondi. Essi salutano con insulti, maleducazione e sarcasmo, grida di “finalmente” le dimissioni di Lucia Annunziata, usando apertamente il gergo e le minacce dei regimi.

Noi crediamo di rappresentare l’opinione di tutti coloro che si oppongono in questo momento a Berlusconi non solo nell’arco del centro-sinistra e della sinistra, ma anche di molti che in passato hanno votato a destra, dicendo insieme: nessuno partecipi al gioco della televisione occupata fino a quando un minimo di legalità - attraverso nuove nomine - sarà stato restituito alla televisione di Stato.

La tenuta di San Rossore, quattromilaottocento ettari di pregiato bosco dentro il parco che da Viareggio si stende fino a Livorno, è il cuore di una disputa che schiera da una parte gli ambientalisti, dall´altra l´amministrazione comunale di Pisa. Due progetti tengono sulle spine le associazioni di tutela. Il primo riguarda un porto che dovrebbe ospitare cinquecento barche, con negozi, ristoranti e alberghi, più appartamenti per centocinquantamila metri cubi: sorgerebbe sulla foce dell´Arno, lungo i bordi del parco, in un lembo delicatissimo, soggetto a un´erosione che ha consumato centinaia di metri di arenile. Il secondo progetto riguarda invece l´ippodromo che da centocinquant´anni è in funzione nella tenuta. Ha strutture inadeguate, sostiene la società che lo gestisce, e ha bisogno di ampliamenti. E pazienza per gli alberi che verranno sacrificati e per gli ettari di terreno compromessi.

Per entrambe le vicende si sono mobilitate Legambiente, Wwf, Lipu e Lav. Sul porto il conflitto dura da alcuni anni. È stato costituito un coordinamento che ha raccolto un centinaio di firme (dal botanico Carlo Blasi al filosofo Remo Bodei, dagli storici dell´arte Lina Bolzoni, Antonio Pinelli e Giacinto Nudi agli storici Ernesto Galli della Loggia, Adriano Prosperi e Paolo Pezzino, dal soprintendente Antonio Paolucci agli urbanisti Pier Luigi Cervellati, Enrico Falqui, Francesco Indovina ed Edoardo Salzano). Ma il sindaco di Pisa, il diessino Paolo Fontanelli, non ha tentennamenti: «Nel mio programma elettorale il porto era un punto cruciale e la maggioranza dei pisani l´ha sostenuto».

La tenuta di san Rossore fino al 1995 era di proprietà della Presidenza della Repubblica, come fino all´Unità lo era stata dei Savoia e prima ancora dei Lorena (ora è della Regione ed è gestito da un Ente Parco). È un territorio paesaggisticamente compatto, celebrato da scrittori e poeti (da Montaigne a D´Annunzio), luogo di colture e di allevamenti biologici. Tutto il parco - che prende i nomi di san Rossore, Migliarino e Massaciuccoli - è dominato da enormi pini marittimi e pini domestici e solcato da cordoni paludosi, le lame, e poi da stagni, fossati e canali che si spingono fino alle dune e agli arenili. È percorso da daini, volpi, aironi cinerini e rossi e da duecento specie di uccelli.

Ma veniamo ai progetti. Il porto sostituirebbe il rudere di uno stabilimento industriale di proprietà della Fiat fino ad alcuni anni fa e poi passato di mano (attualmente è dell´immobiliarista Danilo Coppola). Le case si innalzerebbero alle spalle e intorno alle banchine - sono palazzi e villette - in un terreno che appartiene alla stessa società, dove resistono alcuni edifici bassi, ormai abbandonati. Il viale Gabriele D´Annunzio, che da Pisa porta a Marina di Pisa, verrebbe tagliato e passerebbe alle spalle dell´insediamento.

L´intervento è compatibile con il parco che lo lambisce? È possibile trovare soluzioni alternative? «No», è la risposta secca del sindaco di Pisa. «Il Comune non ha i soldi per espropriare l´area e dunque deve trovare un´intesa con i privati su una soluzione urbanisticamente accettabile, concordata con il Parco. D´altronde lo stabilimento diroccato è grande trecentocinquantamila ettari ed è in condizioni di degrado e di costante pericolo. Non possiamo restare con le mani in mano. E poi siamo convinti che lì un porto serva, se ne parla da decenni, riqualificherà l´area e attirerà più turismo». Il presidente del parco, Giancarlo Lunardi, è in carica da pochi mesi. Il suo predecessore, Stefano Maestrelli, aveva caldeggiato con fervore sia il porto che le case. Attirandosi l´ostilità delle associazioni di tutela e di buona parte della cultura pisana. Lo stabilimento diroccato inquieta anche gli ambientalisti, che sottolineano sia comunque obbligo della proprietà bonificare l´aera impregnata di scarichi nocivi. È il passaggio successivo che li trova contrari. «Il Comune fa dipendere l´opera di risanamento, che è urgente, da un intervento di carattere speculativo, il porto e le case, che produce profitti solo per i privati», sostengono gli esponenti del coordinamento.

La questione è una delle più delicate fra quelle che affollano la scena urbanistica. Non solo pisana, ovviamente. Cosa fare dei grandi stabilimenti dismessi, come recuperarli, come restituire loro una dignità architettonica e farne parte integrante di una città? Soldi i Comuni non ne hanno per acquisirli, e ne avranno sempre meno, si sente dire. Talvolta interviene la mano pubblica, le università per esempio, che acquista e ristruttura. Ma spesso le trasformazioni sono solo quelle più remunerative per la proprietà. E quindi: centri commerciali, residenze, alberghi, parcheggi. Con ingombranti carichi urbanistici.

A Boccadarno, sostengono Fausto Guccinelli e Tiziano Raffaelli, due esponenti del coordinamento, il paesaggio verrebbe sfigurato. Il colpo d´occhio della foce radicalmente alterato. Estensore, una decina d´anni fa, del piano territoriale del parco è stato Pier Luigi Cervellati, che aveva previsto una stazione marittima e non un porto. «Sono due cose molto diverse», spiega l´urbanista. «La stazione marittima deve servire il parco e ospitare solo barche con motori a tre cavalli per visitare il suo complesso sistema di acque. Il porto trasforma quel territorio in una villettopoli. Il parco rappresenta un plusvalore per il porto. Ma il porto è un disvalore per il parco».

Nell´aprile scorso, intanto, è stato presentato anche un progetto alternativo, curato da due architetti fiorentini, Luisa Trunfio e Lorenzo Tognocchi, coordinati da Enrico Falqui e Giorgio Pizziolo. Prevede di ristrutturare le parti pregiate dello stabilimento e di collocarvi un cinema, attività culturali, sportive, congressuali e commerciali. Ma il progetto del porto, superati molti passaggi, va avanti. Attualmente ne discute una conferenza di servizi a livello regionale. «Abbiamo fissato prescrizioni», assicura il sindaco Fontanelli, «vigileremo sulla qualità del progetto».

L´altra iniziativa che allarma gli ambientalisti, l´ampliamento dell´ippodromo, è a un punto cruciale. La società che lo gestisce, l´Alfea, ha preparato un progetto, accompagnato da uno studio di impatto ambientale, per ricostruire gli spalti, attrezzare una struttura sotterranea, ingrandire una curva, allestire una pista di ottocento metri che si spinge dentro il bosco. Il progetto è giunto sulle scrivanie del Comitato scientifico del Parco. Che a metà novembre ha emesso un verdetto negativo: i lavori provocherebbero la distruzione di circa quattro ettari di bosco e la compromissione di altri sette; disturberebbero la vita di molte specie animali; arrecherebbero danni agli ambienti umidi e ai boschi. Sarebbero insopportabili per un ambiente designato come Sito di Importanza Comunitaria e, dall´Unesco, come Riserva della biosfera. E che soffre già troppe aggressioni per poterne tollerare una di quella portata.

Sul Comitato scientifico si è scatenata una bufera (fra i più duri il sindaco Fontanelli). Ma i vertici del parco si sono schierati al suo fianco, e stavolta hanno aderito alle proteste degli ambientalisti bocciando gran parte del progetto, di cui hanno salvato solo l´ampliamento della curva e la ristrutturazione degli spalti. La partita non è conclusa. Fontanelli giudica quella del parco una scelta equilibrata, che consente all´ippodromo di migliorare le strutture e di tutelare «almeno un migliaio di persone che lavorano intorno all´ippodromo, un´attività storica per il territorio pisano». L´Alfea prende tempo. Mentre le associazioni di tutela giudicano positivamente la decisione del parco, ma non demordono: troppi quegli ettari di bosco, da sei a otto, troppi gli alberi sacrificati per la curva di un ippodromo.

A Isola Capo Rizzuto, dove perfino molte cappelle del cimitero sono abusive e le forze dell'ordine hanno appena sequestrato ( sulla carta) 250 nuove case fuorilegge tirate su nel 2004 nella scia del condono, qualcosa è stato demolito: la capanna del Bambin Gesù del presepio vivente. Buttata giù da chi voleva dire: qui gli abbattimenti li decidiamo noi. Tanto è vero che le gare per appaltare le 800 demolizioni già decise prima vanno a vuoto da anni.

Per carità, il centro calabrese è forse un caso limite. Fatto sta che, se gli altri due condoni avevano visto diluviare 5.000 domande ( nove su dieci ammuffite nei cassetti), stavolta le richieste non arrivano a 160. Su almeno 2.000 case abusive costruite dal ' 94, più migliaia di violazioni varie. Auguri.

Dice ottimista il sottosegretario Giuseppe Vegas che la prima rata del condono « ha prodotto incassi per 962 milioni di euro » . E che di questo passo l'obiettivo dei 3,1 miliardi, che dovrebbero per metà coprire i tagli alle tasse, sarà addirittura superato.

Dicono le opposizioni che non si tratta di numeri ma di auspici, che i dati in arrivo da tutto il Paese sono sconfortanti e che la prova del fallimento sta proprio nella scelta del governo d'impugnare, dopo quelle di Emilia Romagna e Toscana, non solo le leggi di Campania, Marche, Umbria ma anche di Veneto e Lombardia che certo « rosse » non sono e che ( come la Liguria) han cercato di contenere gli effetti perversi della legge sul loro territorio. Una scelta che per il lucano Erminio Restaino, coordinatore di tutti gli assessori regionali all'ambiente, « vuol dire una cosa sola: al Tesoro cercano una scusa per fare un'altra proroga » . Si vedrà.

Il braccio di ferro sul condono, col governo che contesta ad esempio all' Emilia del diessino Errani di essersi messa di traverso fissando un tetto condonabile dieci volte più basso dei parametri massimi statali ( 300 contro 3.000 metri cubi, ma addirittura 150 nei centri storici), è in realtà solo uno degli scontri tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome che inondano la Corte Costituzionale. La quale, dopo aver dato ragione all'una o agli altri sui casinò, la vivisezione o l'assegno ai secondogeniti, si trova alle prese con centinaia e centinaia di ricorsi sui conflitti di competenza che, a metterli in fila titolo dopo titolo, occupano complessivamente 97 pagine. Cosa possa voler dire, per la buona salute della Suprema Corte, è facile immaginare.

Ciò che appare scontato è che i conflitti, via via che il processo federalista andrà avanti, sono destinati ad aumentare. E ad assumere un peso sempre più politico in grado di condizionare l'agenda dei partiti, i lavori parlamentari ( come nel caso dell'abolizione del blocco del turnover nelle assunzioni), le strategie finanziarie del governo e quelle degli enti locali. Dopo di che, al di là delle questioni di principio sulle competenze, resterà comunque il tema di cui dicevamo: se è vero, come riconosceva solo due anni fa Sandro Bondi, che il condono è un atto forse ( forse) obbligato ma « profondamente immorale, destinato a premiare i comportamenti illegali e a scoraggiare quelli virtuosi » , può lo Stato passare all'incasso senza allo stesso tempo far rispettare la legge in quel pezzo di Paese dove una casa fuorilegge ha lo 0,97% di probabilità di essere abbattuta anche dopo una sentenza esecutiva? Quanto ai soldi, scrive il Sole- 24 Ore , su dati Legambiente, che solo in Sicilia sono state costruite in dieci anni 70.047 case abusive. Dalle quali dovrebbero arrivare ai Comuni, col condono, 770 milioni di euro contro spese in oneri d'urbanizzazione per un miliardo e 681 mila euro. La metà di quanto ( se va bene) sarà incassato in tutta Italia.

Se è così, proprio un affare.

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