loader
menu
© 2024 Eddyburg

Il 25 gennaio 2016 il nome di Giulio Regeni si aggiungeva a quelli dei tanti egiziani e delle tante egiziane vittime di sparizione forzata. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, il nome del ricercatore italiano si aggiungeva al lungo elenco delle persone torturate a morte in Egitto.

Sono trascorsi due anni da quel 25 gennaio e ancora le autorità egiziane si ostinano a non rivelare i nomi di chi ha ordinato, di chi ha eseguito, di chi ha coperto e ancora copre il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Per questo motivo, oggi in decine di città italiane si accenderanno migliaia di candele alle 19.41, l’ora del 25 gennaio di due anni fa in cui Giulio venne visto per l’ultima volta.

«In questo secondo anniversario di lutto e di domande che la famiglia Regeni fa da 24 mesi senza ottenere risposte, è fondamentale non consegnare Giulio alla memoria, rinunciando a chiedere la verità» – dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. «Noi proseguiamo a coltivare una speranza: che quell’insistere giorno dopo giorno a chiedere la verità, quelle iniziative che quotidianamente si svolgono in Italia e non solo producano il risultato che attendiamo: l’accertamento delle responsabilità per la sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio. Quella verità la deve fornire il governo egiziano e deve chiederla con forza quello italiano».

Al contrario il governo italiano con un colpo di spugna ha ripreso le relazioni diplomatiche e inviato al Cairo l’ambasciatore Cantini, in nome dei buoni affari e delle strette relazioni ecoomiche avviate in questi ultimi anni con l’Egitto, in particolare nel settore energetico. La famiglia Regeni, chi crede nella giustizia, chi non si arrende alla “ragion di stato”, continuano a reclamare quella verità che Roma e il Cairo hanno deciso di occultare.
Articolo tratto da NENAnews online, pagina raggiungibile qui

Nel silenzio del governo italiano prosegue il depistaggio sul rapimento, la tortura e l'assassinio di Giulio Regeni. Una complicità basata su interessi petroliferi? Non c'è bisogno di essere maligni per sospettarlo.

la Repubblica, 11 settembre 2017

Prima hanno messo off line il loro sito Internet. E ora arrestato e “fatto sparire” uno dei loro legali che si stava recando a Ginevra per una conferenza alle Nazioni Unite, dove avrebbe parlato anche del sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni. Continua la guerra dell’Egitto di Al Sisi all’Ecrf (l’Egyptian commission for right and freedom), ossia i consulenti legali della famiglia Regeni al Cairo.

L’offensiva è ripartita nei giorni scorsi quando l’Ecrf ha pubblicato on line il nuovo rapporto sulle sparizioni forzate censendone 378 negli ultimi 12 mesi. Report che in Egitto non si può più scaricare dalla pagina Internet dell’associazione, perché la pagina è stata chiusa dal governo.
Ieri è successo però altro, denunciano dall’Ecrf. L’avvocato Ibrahim Metwaly, 53 anni - una delle persone che fisicamente avevano scritto quel rapporto in cui vengono messe nero su bianco alcune pratiche del regime egiziano, purtroppo ben note in Italia è stato fermato all’aeroporto del Cairo mentre saliva su un volo per Ginevra dove era stato invitato per relazionare al consiglio dei diritti umani sulla situazione in Egitto.
«Metwaly avrebbe dovuto parlare, tra le altre cose, di suo figlio Omar, sparito nel 2013 e anche di quanto accaduto in Egitto a Giulio Regeni », fanno sapere dall’Ecrf. «Ibrahim – dicono ancora – sembra essere sparito nel nulla. Dopo il suo arresto, per accuse che chiaramente non ci sono assolutamente note, non abbiamo saputo più nulla. E per questo siamo molto preoccupati per quanto può accadere».
Che Sisi e il suo governo abbiano nuovamente alzato l’attenzione contro chi si occupa di tutela di diritti umani era, d’altronde, chiaro da giorni. Dopo la pubblicazione da parte di Human Rights Watch di un altro rapporto-denuncia sull’uso sistematico della forze e della tortura da parte dei servizi di sicurezza egiziani, era partito l’ordine di oscurare anche il loro sito per rendere clandestina la ricerca. Si tratta in questo caso di 63 pagine nelle quali vengono raccolte testimonianze di detenuti e familiari di scomparsi che raccontano come «la polizia e i funzionari della Sicurezza nazionale usano regolarmente la tortura nei loro interrogatori per costringere presunti dissidenti a confessare o divulgare informazioni ».
«Quel rapporto è pieno di calunnie», hanno risposto funzionari del governo. Che hanno riservato ad altri lo stesso trattamento di Ecrf e Human Rights: da maggio il governo egiziano ha bloccato 420 siti web e agenzie di informazione, come il giornale on line Mada Masr o i media indipendenti, da Al Jazeera all’Huffington Post Arabic.
Sarà dunque questo il clima che troverà la prossima settimana il nostro ambasciatore, Gianpiero Cantini, che dopo più di un anno riaprirà la sede diplomatica italiana al Cairo. Ed è in questo clima che si dovrebbe tenere, probabilmente entro il mese di settembre, il vertice dei magistrati italiani con la procura generale del Cairo che ha promesso, per l’ennesima volta, «tutto lo sforzo per trovare gli assassini e i torturatori di Giulio». Sforzo che, fino a questo momento, si è rivelato poco più che una presa in giro.

il manifesto, 8 settembre 2017 (m.p.r.) con riferimenti

Come si può esprimere tutta l’indignazione e la rabbia per la triste conclusione (perché di questo si tratta con il ritorno dell’ambasciatore in Egitto) del caso Regeni, ovvero del martirio di un nostro giovane ricercatore? Non si può.

Il grido di dolore e insieme di sdegno resta nella gola, soffocato; tanto è lo sgomento per le ciniche parole del ministro Alfano. Ma in questa tristissima vicenda Alfano non è solo. Si chiama realpolitik, spirito del tempo, realismo e si pronuncia con assassinio di Stato. Perché i rapporti «ineludibili» tra Egitto e Italia, le cosiddette «ragion di Stato», hanno ancora prevalso cinicamente di fronte alla difesa di una vittima innocente, o meglio, colpevole di svolgere un dottorato di ricerca con una indagine sul campo in un paese dove vige una dittatura.

Diciamolo con chiarezza: l’Egitto è un paese governato da un dittatore, amico di un altro degno rappresentante della democrazia: Putin. In quale altro paese democratico si uccide così barbaramente un giovane studioso? E dove giornalisti (Abdallah Rashad non ultimo) vengono sequestrati dai servizi segreti senza che se ne sappia più nulla? Un delitto degno dello Stato più reazionario. Era già successo; succede sempre, e ancora questa volta (nutrivamo qualche speranza!) abbiamo assistito al prevalere degli interessi economici su quello delle persone, cittadini italiani inermi.

Guai a trovarsi in situazioni simili! Si scoprirà che il tuo Paese non ti difende, che hai la disgrazia di essere nato in Italia. Così va il mondo: è il neoliberismo bellezza!! E il silenzio dell’università di Cambridge? Quello della Francia? Gli affari sono affari e una persona è una persona. Questo rattrista e ci riempie di sdegno: se il mondo perde di vista l’umano, ovvero lo mette in second’ordine rispetto al business, niente ha più senso. Il sacrificio di una giovane vita vale assai meno di un affare. Così aumentano le esportazioni egiziane verso il nostro paese: 29% in più, pari ad un valore di 761 milioni di dollari e guai a comprometterle per un banale caso di omicidio.

Questo paese sa solo fare la voce grossa con i migranti, con i «dannati della terra», con quelli che non hanno diritti, ma si inchina perfino ai più biechi dittatori che promettono commesse in cambio del silenzio su un assassinio. Questo mercimonio non ha neppure la dignità di quella tragedia che anteponeva le ragion di Stato invocate dal Re Creonte a quelle dell’amor filiale di Antigone. Nel caso di Giulio Regeni non c’è alcuna tragedia: era tutto scontato che si concludesse così, con una farsa, anzi, una beffa, e dove le «ragion di Stato» si chiamano fare affari. In soccorso al prode Alfano è arrivato un altro alfiere della democrazia: Casini, che ha detto che tutto questo clamore sul caso non è altro che uno sciacallaggio per bieche opportunità politiche. Ben detto, da un esperto di queste cose.

Si prova solo vergogna ad essere cittadini italiani in casi come questo. Non erano le ragioni dei migranti che mettevano in serio pericolo la tenuta democratica del Paese. Il ministro Minniti è nudo: non si è accorto, o non ha voluto vedere, che quella tenuta democratica a rischio non veniva da fuori del Paese, ma dal suo Parlamento, da quella scelta scellerata di far rientrare l’ambasciatore in Egitto. Una decisione che ha inflitto una ferita profonda nella fiducia dei cittadini a essere tutelati nei loro diritti (e nella loro incolumità) da un Paese che si dice democratico. E su tutte pesa il silenzio imbarazzante dell’Ue troppo attenta a non compromettere gli equilibri di quei paesi, al di là del Mediterraneo, che, come la Turchia di Erdogan, hanno dato la loro parola (di dittatori) per contenere (massacrare) i profughi in fuga.

Così, a seppellire le ultime speranze di far luce su questo assassinio, le parole di Alfano: «Contro l’oblio vorremmo fosse intitolata l’Università italo-egiziana la cui istituzione è un progetto che auspico troverà nuova linfa con l’invio dell’ambasciatore Cantini. A Giulio sarà intitolato anche l’auditorium dell’Istituto di cultura italiana al Cairo e saranno organizzate cerimonie commemorative nella data della sua morte nelle sedi di tutte le istituzioni italiane in Egitto». Amen.

riferimenti
eddyburg con attenzione ha seguito la triste vicenda nella sezione eventi 2016: Giulio Regeni assassinio di stato. L'auspicio era di ottenere giustizia per un delitto orrendo. Il ritorno dell'ambasciatore in Egitto e le parole del ministro Alfano, le "ragion di stato", ci dicono purtroppo che giustizia non sarà fatta.

«Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana».

il manifesto, 6 settembre 2017 (m.p.r.)

Pensandoci bene, trascorso un certo numero di ore ed esercitata la più rigorosa autodisciplina per non incorrere in eccessi ineleganti, devo concludere che l’esito dell’audizione del Ministro Angelino Alfano presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato è stato addirittura rovinoso. A parte le solite e lodevoli eccezioni - in questo caso particolarmente rare - il senso complessivo della discussione ha evidenziato alcuni elementi decisamente imbarazzanti. E se le principali considerazioni sul merito e sulla sostanza di un dibattito deludente sono state già espresse, rimangono alcune questioni in apparenza di dettaglio che sono persino più rivelatrici. Eccole.

Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di «doppia morte». È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni.

Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato - a sua insaputa, per carità - una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere. Non esagero (basti ascoltare il resoconto di quel dibattito e i suoi toni). Di conseguenza, se ne dovrebbe dedurre che il regime di Al-Sisi non sarebbe, certo, il più liberale del mondo ma, per «ragioni geo-strategiche» e per realismo politico, le sue responsabilità nell’orribile omicidio di Regeni andrebbero messe in secondo piano rispetto alle più gravi colpe della democrazia inglese. La quale ultima ha mosso e continuerebbe a muovere le fila di una trama spionistico-diplomatica nella quale si è trovato impigliato inavvertitamente «il povero ragazzo».
Si badi al linguaggio. Perché, a tal proposito, insistere nel definire «ragazzo» un giovane uomo di 28 anni? E perché «studente», dal momento che aveva la qualifica professionale di ricercatore? Per la verità, in tanti interventi quelle parole così maldestre e le altre cui alludevano (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’inesperienza) rivelavano un sentimento assai diffuso tra i membri di quelle stesse Commissioni ma anche in parte della classe politica e della stessa opinione pubblica: un astio malcelato nei confronti di chi è giovane, intellettualmente preparato, ricco di talento e - ahi lui - grosso modo di sinistra.
E, infatti, la figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura. Si tratta di meccanismi che degradano l’identità e la reputazione e che richiamano l’odiosa pratica del character assassination. Ancora. Nel corso dell’audizione il deputato Erasmo Palazzotto ha chiesto che le Commissioni Esteri ascoltino i genitori di Regeni e il loro legale, Alessandra Ballerini.

La proposta non è stata finora accolta e temo che non verrà presa in considerazione. Al di là delle motivazioni formali, la vera ragione è che, da sempre, nei confronti dei familiari si assume un atteggiamento sminuente, se non denigratorio, anche quando si propone come massimamente rispettoso. «La più affettuosa comprensione» e la «la più doverosa solidarietà», ovviamente, verso il loro dolore e, allo stesso tempo, la riduzione delle loro parole alla sola dimensione dell’emotività. Dunque, la voce del cuore come contrapposta alla ragion di stato. Ma questo, oltre a essere meschino, è sommamente sciocco.

La politica, l’autentica politica, quella intelligente e razionale, quella lungimirante e capace di una prospettiva strategica, ha sempre tenuto in gran conto la sfera dei sentimenti, delle passioni e delle sofferenze. Le vittime e i familiari delle vittime hanno svolto spesso un ruolo cruciale proprio nel dare profondità e razionalità all’azione pubblica e al ruolo delle istituzioni. I genitori di Giulio Regeni, da oltre un anno e mezzo, svolgono una funzione essenziale non solo perché esprimono il senso di un dolore incancellabile, ma anche - ecco il punto - perché trasmettono un’idea politica saggia sulle cause dell’omicidio del figlio, sulle circostanze e il contesto che lo hanno prodotto e, infine, sulle scelte da adottare affinché quella morte non cada nell’oblio.
Quindi l’audizione dell’altro ieri, tra i molti altri significati (pressoché tutti negativi), si è configurata come una ulteriore occasione persa. La tragedia di Giulio Regeni viene in genere considerata come un fatto non politico o pre-politico o, nell’interpretazione più favorevole, umanitario. Mentre, all’opposto, può ritenersi che le questioni sollevate da questa vicenda - non solo da essa, ovviamente - possano costituire il cuore della politica e il suo fondamento materiale e sociale.
Ancora troppe ombre sul caso Regeni e molte domande che necessitano una risposta.

La Repubblica, 22 agosto 2017 (p.d.)

Caro direttore, la notizia diffusa a Ferragosto dal New York Times secondo cui le autorità americane avrebbero trasmesso nei primi mesi del 2016 al governo Renzi - attraverso l’Aise, afferma Repubblica - un dossier con “ notizie esplosive” e “ prove inconfutabili” sul coinvolgimento di istituzioni egiziane nel sequestro, tortura e omicidio di Giulio Regeni, nonché sulla consapevolezza che ne avrebbe avuto la “leadership dell’Egitto”, ha determinato polemiche e commenti di opposti contenuti: c’è chi dice che queste informazioni non sono mai state comunicate a chi indaga e chi afferma che comunque esse erano inutili e scontate. È preannunciata per il 4 settembre una fase di chiarimento politico, mentre il Copasir intende convocare il premier Gentiloni e forse il suo predecessore.
Premesso che chi scrive non ha alcuna conoscenza del contenuto processuale delle indagini in corso e del fondamento delle notizie diffuse dal Nyt, va comunque osservato che nel dibattito di questi giorni è mancato ogni riferimento ad una domanda pregiudiziale: cosa prevede la legge in casi come questi?
Va subito detto che secondo la legge n. 124/ 2007 ( che disciplina l’attività dei Servizi), l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise, ex Sismi) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero, mentre l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi, ex Sisde) ha lo stesso compito sul fronte interno contro ogni minaccia, attività eversiva ed ogni forma di aggressione criminale o terroristica. Entrambe rispondono al presidente del Consiglio e informano, tempestivamente, i ministri della Difesa, degli Esteri e dell’Interno per le materie di rispettiva competenza.
I rapporti tra il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e l’autorità giudiziaria sono peraltro disciplinati in ossequio ai principi di leale e reciproca collaborazione e del bilanciamento tra l’interesse di giustizia e quello di tutela della sicurezza dello Stato. A tal fine è importante ricordare che l’articolo 23 della legge citata prevede l’obbligo dei direttori delle agenzie di riferire alla polizia giudiziaria (a sua volta obbligata dal codice di procedura a fare altrettanto, “senza ritardo”, nei confronti del pubblico ministero competente) ogni notizia di reato di cui vengano a conoscenza a seguito delle attività svolte dal personale dipendente. E l’adempimento di tale obbligo può essere solo ritardato (non omesso), ma su autorizzazione del presidente del Consiglio. Dunque, ai Servizi spettano fondamentali compiti di prevenzione, ma non attività di indagine giudiziaria in senso stretto, riservate esclusivamente alla polizia giudiziaria ed alla magistratura. Si tratta di previsioni che costituiscono una scelta virtuosa del sistema italiano, anche in chiave di sinergia istituzionale e di efficace contrasto del terrorismo.
Tornando al caso Regeni, ecco allora, alla luce della normativa vigente, le domande da porre all’Aise ( ove sia confermato che tale agenzia abbia ricevuto il predetto dossier) ed al governo:
1) l’Aise ha trasmesso alla polizia giudiziaria le notizie ricevute dalle autorità statunitensi?
2) se lo ha fatto, la polizia le ha inviate, dopo eventuali approfondimenti, alla Procura di Roma?
Se le risposte sono affermative, il problema non esiste e tocca solo ai pubblici ministeri romani valutare in assoluta autonomia e - se del caso - utilizzare le informazioni ricevute.
Ma se l’Aise non ha inviato alla polizia quelle specifiche informazioni, si pongono altre domande:
3) è intervenuto un provvedimento del presidente del Consiglio che ha autorizzato tale ritardo?
4) se sì, quale ne è stata la motivazione, posto che la legge prevede che l’inoltro sia ritardato solo “quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza” (il che non sembra pertinente al caso Regeni)?
Se non è intervenuto alcun atto di questo tipo, le ragioni del mancato doveroso inoltro delle informazioni a chi stava indagando sono da chiarire sotto ogni profilo, con il contributo del presidente del Consiglio, quale responsabile del Sistema dell’intelligence. Né può bastare una risposta del tipo “ma noi già sapevamo del coinvolgimento dei servizi egiziani” nella tragica vicenda. O del tipo: “il reato era già noto”. La notizia di reato di cui è per i Servizi obbligatorio l’invio alla polizia, infatti, può riguardare anche un reato di cui sia già nota la consumazione, mentre ogni valutazione circa il suo effettivo rilievo rispetto alle indagini (anche sotto il profilo del rafforzamento di ipotesi già sotto esame) e la sua eventuale utilizzazione in forma legale spetta esclusivamente alla Procura ed ai presidi di polizia giudiziaria che indagano.
Un’ultima osservazione: fortunatamente, in questa storia, non c’entra il segreto di Stato che, a quanto è dato di sapere, non risulta apposto- opposto: anzi è proprio la pertinenza della notizia a fatti notori che viene addotta come giustificazione della sua presunta irrilevanza investigativa.
I ministri degli esteri che si sono succeduti nei governi ENI-Renzi continuano a smentire le reiterate dichiarazioni del

New York Times. Si coprono il viso di fango pur di non rinunciare agli affari, politici e petroliferi in Egitto e Libia. il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2017

«Sulla verità per Giulio Regeni, promessa a più riprese dalle nostre istituzioni, nessun passo avanti. Secondo il governo italiano, nell’articolo del New York Times non ci sono notizie»

Il governo smentisce ancora il New York Times. Ieri Palazzo Chigi ha accettato di rispondere alle domande del Fatto Quotidiano, le stesse pubblicate in prima pagina il 17 agosto per chiedere chiarimenti sulle rivelazioni del giornale statunitense. In un passaggio della lunga inchiesta sulla morte del ricercatore triestino, il Nyt ha raccontato delle “informazioni esplosive” acquisite dai servizi segreti americani nelle settimane dell’omicidio di Regeni, che dimostravano la mano dei servizi di Al-Sisi nel rapimento e nella tortura del ricercatore triestino, e furono subito comunicate al governo Renzi: “Avevamo l’evidenza incontrovertibile della responsabilità degli apparati egizia

Le domande del Fatto Quotidiano sono rivolte ai protagonisti politici della vicenda: i vertici dell’esecutivo di ieri e di oggi; l’ex premier Renzi, l’ex ministro degli Esteri Gentiloni (oggi presidente del Consiglio), l’ex ministro dell’Interno Alfano (oggi alla Farnesina), l’ex responsabile dei Servizi segreti Minniti (oggi al Viminale).

Le risposte sono arrivate unicamente da Palazzo Chigi. Con una nuova smentita: “Confermiamo quanto detto nella nota diramata a Ferragosto: non c’è stata comunicata nessuna prova esplosiva, né elementi di fatto”.

Abbiamo chiesto di chiarire il contenuto delle comunicazioni tra la Casa Bianca e l’Italia in quei giorni, e il motivo per cui quelle informazioni furono ignorate. Ma per il governo non c’è niente da aggiungere: “Nei contatti tra le Amministrazioni non c’è stata alcuna rivelazione”.

Abbiamo chiesto poi di chiarire il comportamento dei nostri Servizi segreti e il ruolo dell’Eni (secondo la fonte del Nyt, interpellata poi da Repubblica, l’azienda avrebbe “affiancato i Servizi segreti per cercare una soluzione”). “I nostri servizi di informazione – la replica – hanno lavorato e lavorano per aiutare ad accertare la verità sulla morte di Giulio Regeni. Eni è una grande azienda italiana e internazionale, che opera in diversi Paesi, tra cui l’Egitto, e che è spesso in contatto con la nostra rete diplomatica”. L’Eni quindi ha collaborato, ma specificano dal governo, “non c’è stato alcun affiancamento”.

Abbiamo chiesto, infine, se non fosse poco più che una velleità confidare in un successo dell’indagine della Procura di Roma sulla morte di Regeni, vista l’assenza di collaborazione tra governo italiano ed egiziano. “Possiamo ribadire – replica Palazzo Chigi – che il governo ha collaborato in maniera assidua e puntuale, fin dal primo momento, con la Procura di Roma. E ne ha pienamente supportato l’attività investigativa nel quadro della cooperazione giudiziaria con la procura generale del Cairo”. La stessa, aggiungiamo noi, che per settimane ha prodotto solo mistificazioni e depistaggi.

Dopo le documentate denunce della stampa d'Oltreoceano anche i media italiani più vicini ai governi ENI grondano indignazione. Meglio tardi che mai. Articoli di Goffredo De Marchis e Francesca Caferri.

laRepubblica, 17 agosto 2017


REGENI, LITE SUIDOSSIER DAGLI USA
IL GOVERNO: MAI RICEVUTO DOCUMENTI
di Goffredo De Marchis

«Il New York Times:l’Italia fu informata sulle responsabilità dietro la morte del ricercatoreSalvini: gravissimo. I grillini: riaprite le Camere. I genitori di Giulio inEgitto a ottobre»
Il governo è sicuro: non esiste alcun documento trasmesso in via ufficiale dall’amministrazione americana all’esecutivo italiano sulla morte di Giulio Regeni. Dopo l’articolo del New York Times,
la sera di Ferragosto c’è stato un giro di telefonate tra gli attori dell’esecutivo: Gentiloni, Alfano, Minniti e l’ex premier Renzi. Con incarichi diversi, ognuno aveva un ruolo nella vicenda anche al tempo dei fatti raccontati dal quotidiano Usa: alla Farnesina, alla presidenza del consiglio, al Viminale, ai servizi segreti. Nessuno ha ricevuto niente. Mai Barack Obama, nei suoi incontri con il presidente del Consiglio Renzi, ha parlato del ricercatore ucciso. E comunque tutti gli atti in possesso dell’esecutivo sono stati consegnati alla Procura di Roma che indaga sull’omicidio. Questa è la versione di Palazzo Chigi.
Dunque, il New York Times sbaglia, perlomeno nel collegare le “prove esplosive” a livelli istituzionali italiani. Un altro conto sono gli scambi tra intelligence, ma questo non coinvolgerebbe responsabilità politiche. Il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, parla di «bufala» del Nyt, e si spinge a dar voce ad alcuni sospetti che circolano in ambienti di governo: «Con quell’inchiesta si vogliono colpire gli interessi italiani in Egitto e in particolare quelli dell’Eni».
Il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo non subirà uno stop. Ma nella capitale egiziana si preparano ad andare anche i genitori di Regeni. Lo faranno il 3 ottobre, anche se la madre di Giulio, Paola Deffendi, non esclude un viaggio anticipato per «prendere le carte, quelle vere». In un’intervista a Rainews24, i genitori del ricercatore non mettono in discussione la scelta di Gentiloni di riaprire i rapporti diplomatici con Al Sisi. Il punto è usare argomenti diversi dal nome di Giulio, dicono. La ragion di Stato, la presenza italiana in un Paese chiave per le dinamiche mediterranee. Ma non il nome di Giulio.
La mamma e il papà di Regeni chiedono di essere accompagnati al Cairo da «una scorta mediatica» per tenere vivo l’interesse sul caso. Iniziativa sostenuta dal presidente del sindacato dei giornalisti Beppe Giulietti. Il primo a chiedere un congelamento del ritorno dell’ambasciatore, almeno per il tempo utile a tradurre le ultime carte inviate dagli investigatori egiziani. Una linea che trova qualche sostegno anche tra le forze politiche.

Per il momento però le opposizioni sostengono la linea dura puntando il dito sulla scelta diplomatica del governo e chiedendo chiarimenti sui fatti rivelati dal New York Times. Alessandro Di Battista accusa Gentiloni, Renzi, Minniti e Alfano: «Sono traditori della patria. Vengano riaperte le Camere e i protagonisti riferiscano in aula ». I 5 stelle chiedono a una commissione d’inchiesta parlamentare sul caso. Anche Sinistra italiana chiede un informativa urgente, così come Pippo Civati che presenterà un’interrogazione parlamentare. Matteo Salvini incalza: «Se la ricostruzione del Nyt fosse vera, sarebbe gravissimo». Il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani invece non critica la decisione del governo: «Ma questo non significa non continuare a cercare la verità». Verità che l’Egitto giura di aver sempre detto e il ministro degli Esteri del Cairo Ahmed Abou Zeid dice: «Dopo l’ambasciatore, ora tornino i turisti».

L’UOMO CHE PER OBAMA SEGUÌ IL CASO:
“ORDINAI AGLI 007: AIUTATE GLI ITALIANI”
di Francesca Caferri


«La fonte del Nyt:“Le informazioni arrivarono alla vostra intelligence Era chiaro che il delittofu voluto dai servizi egiziani e che i vertici del regime sapevano”».
«Chiedemmo dipassare agli italiani quante più informazioni possibili. La scelta di nontrasmettere tutto quello che avevamo fu fatta per proteggere le fonti che ciavevano aiutato. Per questo non so dire se fu rivelata l’identità dell’unitàspecifica responsabile della morte di Giulio. Molto probabilmente quello chearrivò non era materiale che si poteva usare in un processo, perché non erastato raccolto seguendo canali tradizionali. Ma non ho dubbio alcuno che daidocumenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamofortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabilidel rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni. E che quello che era accadutofosse noto ai livelli più alti dello Stato egiziano ».

L’alto funzionariodell’Amministrazione Obama, una delle persone che ha seguito sin dal primomomento e molto da vicino il caso del ricercatore italiano, pesa le parole unaa una. Ma le dichiarazioni arrivate ieri da Palazzo Chigi non spostano di unavirgola quello che, sempre in forma anonima, ha detto al New York Times e che oggi confermaa Repubblica: nellesettimane successive alla morte di Regeni l’intelligence americana, surichiesta del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, trasmise ai colleghiitaliani le informazioni raccolte dai suoi uomini su quello che era accaduto alCairo fra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016.

La fontericostruisce la vicenda con precisione: «Seguimmo il caso di Giulio con moltaattenzione: perché ci aveva sconvolto e perché temevamo che quello che eraaccaduto potesse capitare di nuovo a uno dei nostri cittadini. Non aprimmonessuna inchiesta specifica, ma raccogliemmo tutto il materiale che potevamo.Concludemmo, con forza, che la responsabilità era dei servizi di sicurezza egiziani.Chiedemmo che la condivisione delle informazioni con gli italiani fosse unapriorità per i nostri servizi segreti: non c’era alcuna resistenza, ma volevamocon forza che il passaggio di informazioni fosse fatto senza ritardi perchécredevamo che potesse aiutare a fare giustizia. So per certo che leinformazioni furono trasmesse via servizi segreti, e non per canalidiplomatici: e che lo scambio avvenne in diverse occasioni, non in una solavolta. Tutto questo accadde nelle settimane successive al ritrovamento delcorpo di Regeni».

Quello che l’ex funzionario non sa o non può dire, è qualiinformazioni esatte siano arrivate a Roma: per evitare di identificare le lorofonti, gli americani decisero di non consegnare l’intero fascicolo ma difornire comunque tutto il possibile agli alleati: «Non so se sia stato rivelatoagli italiani quale unità fu responsabile della morte di Giulio: ma fu di certoindicata la responsabilità dei servizi di sicurezza. E il fatto che i verticidello Stato erano a conoscenza di quanto accaduto». Dette così, leparole del funzionario non aiutano a fare luce su uno dei punti più controversiche ancora oggi, a più di 18 mesi dalla morte, circonda la vicenda Regeni: sela responsabilità dei servizi di sicurezza egiziani è (almeno da parteitaliana) ormai chiara, meno semplice è capire a quale dei tre apparatiparalleli del Cairo, - la Sicurezza nazionale, i Servizi segreti veri e proprie i Servizi segreti militari, spesso in competizione l’una con l’altro - sia daattribuire il rapimento, la tortura e l’assassinio del 28nne di Fiumicello.

A domanda direttala fonte si trincera dietro a una frase interlocutoria: «Non so se siano statetrasmesse informazioni su quale fosse l’apparato responsabile », ripete. Paroleche però dicono molto: gli Stati Uniti avevano informazioni in questo senso.Ovvero, erano in grado di dire quale sia l’apparato di sicurezza responsabiledi quello che è accaduto: «Abbiamo raccolto prove incontrovertibili sulleresponsabilità», si limita a dire il funzionario. C’è solo uninterrogativo che il funzionario americano non è in nessuna maniera in grado disciogliere. Lo stesso che agita le notti di Paola e Claudio Regeni: perchéGiulio è stato ucciso? «Posso capire perché era finito nel mirino: in quellegiornate di tensione per l’anniversario di Piazza Tahrir c’era un clima diparanoia e le sue ricerche avevano destato sospetti. Ma perché sia statoucciso, e in quel modo, non so dirlo. Anche io me lo chiedo ancora ».
Il

NYT ricorda l’omicidio e rivela che col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sarà la politica e non il lavoro di polizia a determinare la conclusione del caso Regeni. 15 agosto 2017 (i.b.)

Premessa

Uno schiaffo ai media italiani. Prontamente pubblicato dal NYT Magazine all’indomani dell’annuncio del rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, questo dettagliato e critico riepilogo degli eventi che precedettero e seguirono la scomparsa del dottorando italiano al Cairo, fanno capire come la notizia sia importante e degna di rilievo, nonostante i media italiani lo abbiano glissato. Solo il manifesto ne ha dato notizia, ripresa qui su eddyburg.
Il capo dell'ufficio del Times al Cairo ripercorre le vicende di Giulio, contestualizzandole nel clima politico del Cairo, che dopo il colpo di stato di Sisi del 2013, “è senza dubbio un posto più duro di quanto non sia mai stato sotto Mubarak”.
L’articolo non manca di spiegare come le buone relazioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto, che continuano all’indomani del colpo di stato e ignorano l’attacco ai diritti umani, si incrinano con l’indagine su Giulio e aprono “fratture dolorose all'interno dello Stato italiano”. Se da una parte, sotto le pressioni della famiglia e delle migliaia di persone che si sono mobilitate per chiedere verità su Giulio, il governo italiano chiede risposte, dall’altra parte ci sono altre priorità. Dai servizi di intelligence italiani che hanno bisogno dell'aiuto dell'Egitto per contrastare lo Stato islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare il flusso degli immigrati in tutto il Mediterraneo all’ ENI, con i suoi interessi e progetti relative all’estrazione di idrocarburi. D'altronde il pozzo Zohr, che come dice l’ENI “è il più grande giacimento di gas nel mar Mediterraneo e uno dei sette progetti #EniRecord” si avvia a cominciare la sua produzione a Dicembre. (i.b.)

The target of the Egyptian police, that day in November 2015, was the street vendors selling socks, $2 sunglasses and fake jewelry, who clustered under the arcades of the elegant century-old buildings of Heliopolis, a Cairo suburb. Such raids were routine, but these vendors occupied an especially sensitive location. Just 100 yards away is the ornate palace where Egypt’s president, the military strongman Abdel Fattah el-Sisi, welcomes foreign dignitaries. As the men hurriedly gathered their goods from mats and doorways, preparing to flee, they had an unlikely assistant: an Italian graduate student named Giulio Regeni.

He arrived in Cairo a few months earlier to conduct research for his doctorate at Cambridge. Raised in a small village near Trieste by a sales manager father and a schoolteacher mother, Regeni, a 28-year-old leftist, was enthralled by the revolutionary spirit of the Arab Spring. In 2011, when demonstrations erupted in Tahrir Square, leading to the ouster of President Hosni Mubarak, he was finishing a degree in Arabic and politics at Leeds University. He was in Cairo in 2013, working as an intern at a United Nations agency, when a second wave of protests led the military to oust Egypt’s newly elected president, the Islamist Mohamed Morsi, and put Sisi in charge. Like many Egyptians who had grown hostile to Morsi’s overreaching government, Regeni approved of this development. ‘‘It’s part of the revolutionary process,’’ he wrote an English friend, Bernard Goyder, in early August. Then, less than two weeks later, Sisi’s security forces killed 800 Morsi supporters in a single day, the worst state-sponsored massacre in Egypt’s history. It was the beginning of a long spiral of repression. Regeni soon left for England, where he started work for Oxford Analytica, a business-research firm.

From afar, Regeni followed Sisi’s government closely. He wrote reports on North Africa, analyzing political and economic trends, and after a year had saved enough money to start on his doctorate in development studies at Cambridge. He decided to focus on Egypt’s independent unions, whose series of unprecedented strikes, starting in 2006, had primed the public for the revolt against Mubarak; now, with the Arab Spring in tatters, Regeni saw the unions as a fragile hope for Egypt’s battered democracy. After 2011 their numbers exploded, multiplying from four to thousands. There were unions for everything: butchers and theater attendants, well diggers and miners, gas-bill collectors and extras in the trashy TV soap operas that played during the holy month of Ramadan. There was even an Independent Trade Union for Dwarfs. Guided by his supervisor, a noted Egyptian academic at Cambridge who had written critically of Sisi, Regeni chose to study the street vendors — young men from distant villages who scratched out a living on the sidewalks of Cairo. Regeni plunged into their world, hoping to assess their union’s potential to drive political and social change.

But by 2015 that kind of cultural immersion, long favored by budding Arabists, was no longer easy. A pall of suspicion had fallen over Cairo. The press had been muzzled, lawyers and journalists were regularly harassed and informants filled Cairo’s downtown cafes. The police raided the office where Regeni conducted interviews; wild tales of foreign conspiracies regularly aired on government TV channels.

Regeni was undeterred. Proficient in five languages, he was insatiably curious and exuded a low-intensity charm that attracted a wide circle of friends. From 12 to 14, he served as youth mayor of his hometown, Fiumicello. He prided himself on his ability to navigate different cultures, and he relished Cairo’s unruly street life: the smoky cafes, the endless hustle, the candy-colored party boats that plied the Nile at night. He registered as a visiting scholar at American University in Cairo and found a room in Dokki, a traffic-choked neighborhood between the Pyramids and the Nile, where he shared an apartment with two young professionals: Juliane Schoki, who taught German, and Mohamed El Sayad, a lawyer at one of Cairo’s oldest law firms. Dokki was an unfashionable address, but it was just two subway stops from downtown Cairo with its maze of cheap hotels, dive bars and crumbling apartment blocks encircling Tahrir Square. Regeni soon befriended writers and artists and practiced his Arabic at Abou Tarek, a four-story neon-lit emporium that is Cairo’s most famous spot for koshary, the traditional Egyptian dish of rice, lentils and pasta.

He spent hours interviewing street vendors in Heliopolis and at the small market behind the Ramses train station. To win their trust, he ate from the same grubby street carts as his subjects; his academic supervisor at American University warned he would get food poisoning. Regeni didn’t care: He glided through Cairo with a quiet sense of purpose.

By chance, Valeriia Vitynska, a Ukrainian he met in Berlin four years earlier, had come to Cairo for work. They reconnected. ‘‘She was more beautiful than I remembered,’’ he texted a friend. They took a trip to the Red Sea, and when she returned to her job in Kiev, they kept the relationship going over Skype. ‘‘It was very intense and beautiful,’’ Regeni’s friend Paz Zárate told me. ‘‘He was so joyful, so full of hope for the future.’’

Yet Regeni was also conscious of Cairo’s dangers. ‘‘It’s very depressing,’’ he wrote Goyder a month into his stay. ‘‘Everyone is superaware of the games that are going on.’’ In December he attended a meeting of trade-union activists in central Cairo and wrote about it, under a pseudonym, for a small Italian news service. During the meeting, he told friends, he spotted a veiled young woman taking his picture with her cellphone. It was disconcerting. Regeni complained to friends that some street vendors were hassling him for favors, like new cellphones. Then his relationship with his main contact, a burly man in his 40s named Mohamed Abdullah, took a strange turn.

Abdullah, who worked for a decade for a Cairo tabloid, in distribution, before rising to the top of the street vendors’ union, was Regeni’s guide, offering advice and introducing him to men he could interview. One evening in early January last year, the two met in an ahua — a cafe where men often smoke water pipes — near the Ramses train station. Over tea, they discussed a £10,000 ‘‘scholar activist’’ grant offered by a British nonprofit group called the Antipode Foundation. Regeni offered to apply for the money. Abdullah had other ideas. Could it be used for ‘‘freedom projects’’ — political activism against the Egyptian government? No, it could not, Regeni replied firmly. Abdullah changed tack. His daughter required surgery, and his wife had cancer. He would ‘‘jump on anything’’ for cash. Regeni, growing exasperated, gesticulated theatrically as he touched the limits of his Arabic. ‘‘Mish mumkin,’’ he said. It’s not possible. ‘‘Mish professional.’’

Two weeks later, on the fifth anniversary of the 2011 uprising, Cairo was in lockdown. Tahrir Square was deserted except for 100 or so government supporters bused in to wave Sisi signs and take selfies with the riot police. The security services had been rounding up potential protesters for weeks, raiding downtown apartments and cafes. Like most Cairenes, Regeni spent the day at home, working and listening to music. Once darkness fell he deemed it safe to leave the apartment: An Italian friend had invited him to a birthday party for an Egyptian leftist. They’d arranged to meet at a cafe near Tahrir Square.

Before heading out, Regeni listened to a Coldplay song — ‘‘A Rush of Blood to the Head’’ — and texted Vitynska. ‘‘I’m going out,’’ he announced at 7:41 p.m. It was a short walk to the subway. But by 8:18 Regeni still had not arrived. His Italian friend began trying to contact him — at first with texts, then with frantic calls.

Among the most intoxicating promises of the Arab Spring was the hope that Egypt’s detested security apparatus would be dismantled. In March 2011, in the heady early months of the uprising, Egyptians stormed the headquarters of State Security, the chief arm of Mubarak-era repression, and emerged with lists of informants, copies of surveillance photos and transcripts of intercepted phone calls. Some found pictures of themselves. There were calls for a radical overhaul of the security sector. But as the country skidded into post-revolution disorder, the talk of reform was lost. After Sisi came to power, in 2013, it became clear how little had changed.

State Security was renamed the National Security Agency, but it remained under the control of the powerful Interior Ministry, which was thought to employ at least 1.5 million police officers, security agents and informants. Officers who had been fired were reinstated and the torture chambers reopened. Opposition leaders, fearing arrest, fled the country. Human rights monitors started to count the numbers of the ‘‘disappeared’’ — critics who vanished into state custody without arrest or trial — until the monitors, too, began to disappear.

Today, Egypt is arguably a harsher place than it ever was under Mubarak. After seizing power, Sisi was elected president in 2014 with 97 percent of the vote. Parliament is stuffed with his supporters, and the jails are filled with his opponents — 40,000 people, by most counts, primarily from the banned Muslim Brotherhood, the Islamist organization founded in 1928, but also lawyers, journalists and aid workers. Sisi justifies these measures by pointing to the danger from extremists. Islamic State militants have been fighting Egyptian soldiers in Sinai since 2014; this year they sent suicide bombers into Coptic churches, killing dozens. A good number of Egyptians worry that without a firm hand, their nation of 93 million could become the next Syria, Libya or Iraq. Most of the country’s elites, fearing the kind of upheaval that followed the Arab Spring, are firmly with Sisi; many of its intellectuals, dismayed by their short-lived experiment with democracy, admit that they are out of ideas.

Unaffiliated with a political party, Sisi draws his authority from the totems of the state — generals, judges and security chiefs — who are increasingly powerful. The guiding principle of this incipient police state is to prevent a recurrence of the events of 2011, one Western ambassador, who asked to remain unnamed because he is not authorized to speak on the subject, told me as we sat in his garden last winter. In his final decade in power, Mubarak made a number of concessions. The Muslim Brotherhood won a fifth of the seats in Parliament; the press enjoyed a measure of freedom; some labor strikes were grudgingly permitted. But none of this saved Mubarak — in fact, in the view of Sisi officials, his laxity hastened his demise. The lesson was clear: ‘‘To give an inch is a mistake,’’ the ambassador said, listing the characteristics of the Sisi regime, ‘‘secrecy, paranoia, the sense that you assert power by looking strong and not showing weakness or building bridges.’’

Deciphering the inner workings of the three major security agencies has become a fixation of Egypt watchers. ‘‘It’s very opaque, like a black box,’’ Michael Wahid Hanna of the Century Foundation, a policy institute based in New York, told me. ‘‘But there are clues.’’

The security agencies are loyal to Sisi, Hanna explained, but are always jockeying for position. National Security, thought to have 100,000 employees and at least as many informants, remains the most visible. Its emergent rival is Military Intelligence, which traditionally steered clear of politics but has expanded under Sisi, who led the agency from 2010 to 2012. The General Intelligence Service is Egypt’s equivalent of the C.I.A. Hugely powerful under Mubarak, it is now viewed as somewhat diminished.

Together, these agencies enjoy inordinate influence. They own TV stations, control blocs in Parliament and dabble in business; their agents patrol the streets and the internet. They draw the red lines in Egyptian society between what is permissible and what is not. That makes Egypt a perilous place to navigate for critics: One wrong move, or even a misjudged joke (Egyptians have been jailed for their Facebook posts), can lead to imprisonment or to being barred from leaving the country. Amnesty International puts the number of disappeared at 1,700 and says that extrajudicial executions are common.

When Regeni arrived in 2015, foreigners were thought to be subject to different rules. It was true that some had run into trouble. Earlier that year, the Australian journalist Peter Greste of Al Jazeera was finally freed after 13 months in jail on charges of ‘‘damaging national security’’; a French student was expelled for interviewing democracy activists. Regeni’s academic advisers warned him to avoid contact with members of the Muslim Brotherhood. ‘‘The situation here is not easy,’’ he messaged a friend a month after he arrived. But on the whole, Regeni, his supervisor later told me, believed that his passport would protect him. His abiding fear was that he would be sent back to Cambridge before he could finish his research.

A week after Regeni vanished, Italy’s ambassador to Cairo, Maurizio Massari, was seized by a sense of foreboding. With his shock of gray hair and his polished charm, Massari was a popular fixture on the Cairo diplomatic circuit. He liked to host gatherings of Egyptian academics and politicians, and on weekends he watched soccer games with his American counterpart, Ambassador R. Stephen Beecroft. Now, he restlessly paced the long marble corridors of the Italian Embassy overlooking the Nile.

News of Regeni’s disappearance was rippling across Cairo. His friends had started an online search campaign with the hashtag #whereis­giulio. Regeni’s parents had flown in from Italy and were staying at his apartment in Dokki. A rumor circulated that Regeni had been snatched by Islamist radicals — a terrifying prospect because, six months earlier, a Croatian engineer kidnapped on the outskirts of Cairo was beheaded by Islamic State militants. The ambassador’s anxiety was amplified by the response of Egyptian officials. The Italian intelligence station at the embassy had no leads, so he sought out the foreign minister, the minister of military production and Sisi’s national-security adviser Fayza Abul Naga. All claimed to know nothing of Regeni. The most disquieting encounter was with the powerful interior minister, Magdi Abdel-Ghaffar, who took six days to agree to a meeting only to sit impassively as the Italian diplomat pleaded for help. Massari left perplexed: Abdel-Ghaffar, a 40-year veteran of the security services, had an army of informants on the streets of Cairo. How could he be in the dark?

The police started a missing-persons investigation but seemed to be pursuing some odd lines of inquiry. When detectives interviewed Amr, a leftist university professor and a friend of Regeni’s who asked that his last name not be used to protect him from retaliation, they repeatedly asked if Regeni was gay. ‘‘I told them he has a girlfriend,’’ Amr said when we met over coffee near his home in the suburb of Maadi. ‘‘Then the next guy goes: ‘Are you sure he is straight? Maybe he’s one of these bisexuals.’ ’’

‘‘I said, ‘You should just find him.’ ’’

The crisis was compounded by the arrival of a high-level Italian trade delegation. Since 1914, Italy had maintained diplomatic ties with Egypt, embracing the country even when others kept their distance. Italy was Egypt’s biggest trading partner in Europe — nearly $6 billion in 2015 — and Rome prided itself on its close ties to Cairo. In 2014 Matteo Renzi, then the Italian prime minister, became the first Western leader to welcome Sisi in his capital, and Italy continued to sell weapons and surveillance systems to Egypt even as evidence of rights abuses mounted.

The day after Massari’s meeting with the interior minister, Italy’s investment minister, Federica Guidi, flew to Cairo with 30 Italian executives, hoping to strike deals in construction, energy and the arms trade. Now Regeni was at the top of the agenda. The group went straight to Al-­Ittihadiya, the main presidential palace, where months earlier, Regeni had helped the street vendors during the police raid outside its back gates. Massari and Guidi were ushered into a private meeting with Sisi, who listened gravely as the Italians outlined their concerns. But he, too, offered only sympathy.

That evening Massari hosted a reception for the trade delegation and Egyptian business leaders at the embassy. About 200 people mingled in the reception hall, sipping wine as they waited for dinner to be served. Among them was Egypt’s deputy foreign minister, Hossam Zaki, who pushed through the crowd to Massari, wearing a dark expression. ‘‘Don’t you know?’’ he said.

‘‘Know what?’’ Massari replied.

‘‘A body has been found.’’

Early that morning, the driver of a passenger bus traveling the busy Alexandria Desert Highway, in western Cairo, noticed something on the side of the road. When he got out, he discovered a body, naked from the waist down and smeared in blood. It was Regeni.

Massari rushed to the Four Seasons hotel, where Guidi was staying, and together they phoned Renzi and the foreign minister, Paolo Gentiloni. They canceled the reception, sending puzzled guests home without explanation. Then Massari and the minister went to Regeni’s apartment in Dokki, where Regeni’s parents were staying. When the ambassador embraced Regeni’s mother, Paola Deffendi, her worst fears were confirmed. ‘‘It’s all over,’’ she later told the press. ‘‘The happiness of our family was so short.’’

Massari arrived at the Zeinhom morgue in central Cairo after midnight. A small team from the embassy, including a policeman, accompanied him. At first, morgue officials refused them entry. ‘‘Open the door!’’ yelled Massari, visibly agitated. Massari was finally led into a chilled room where Regeni’s body was laid out on a metal tray.

Regeni’s mouth was agape and his hair was matted with blood. One of his front teeth was missing and several were chipped or broken, as if they had been struck with a blunt object. Cigarette burns pocked his skin, and there were a number of deep wounds on his back. His right earlobe had been sliced off, and the bones in his wrists, shoulders and feet were shattered. A wave of nausea washed over Massari. Regeni appeared to have been extensively tortured. Days later, an Italian autopsy would confirm the extent of his injuries: Regeni had been beaten, burned, stabbed and probably flogged on the soles of his feet over a period of four days. He died when his neck was snapped.

The office of Ahmed Nagy, the prosecutor who initially oversaw Regeni’s murder investigation, is on the seventh floor of the dilapidated Giza courthouse building, a few miles from Tahrir Square. On any given day, hundreds of people course through the narrow corridors — lawyers, manacled prisoners and their families. When I went to see him a few weeks after Regeni’s death, Nagy, a wiry chain-smoker, was perched behind a Louis XIV-style desk piled with papers and half-drunk cups of coffee.

In the early hours of the investigation, Nagy spoke with astonishing bluntness. He told reporters that Regeni suffered a ‘‘slow death’’ and allowed that the police might be involved: ‘‘We don’t rule it out.’’ But soon after that, the chief detective on the case suggested that Regeni died in a car crash. Lurid theories appeared in the papers and on TV: Regeni was gay and had been murdered by a jealous lover. He was a drug addict or a Muslim Brotherhood pawn. He was a spy. Several reports noted his work at Oxford Analytica, which had been founded by a one-time Nixon administration official, as a probable sign of employment by the C.I.A. or Britain’s M.I.6. At a news conference, the interior minister, Abdel-Ghaffar, dismissed suggestions that the security forces had detained Regeni. ‘‘Of course not!’’ he said. ‘‘This is the final say in the matter: It did not happen.’’

Nagy’s office was cool and dark, the blinds tightly drawn as air spewed from a noisy air-conditioning unit. With his slicked-back hair and flickering smile, Nagy affected an air of easy confidence. But the boldness he once demonstrated about the Regeni case was gone. He responded to my questions with polished evasions, lighting one cigarette after another as he spoke. ‘‘Murders can go unsolved,’’ Nagy concluded after 30 unfruitful minutes. ‘‘We will just have to wait. Inshallah, something will come of it.’’

Egyptian officials have a long record of facing crises in just this way: denial, then obfuscation, followed by running the clock in hopes that the problem will fade away. In September 2015, the month Regeni arrived, an Egyptian helicopter gunship shot dead eight Mexican tourists and four Egyptians as they picnicked in the Western Desert, having mistaken them for terrorists. Instead of apologizing, the authorities tried to blame the tour guides, then promised an investigation that has never reported any findings. The government of Mexico was furious. A month later, Egypt initially refused to admit that an Islamic State bomb had downed a Russian jetliner over Sinai, killing 224 people, even though both Russia and the Islamic State said it had.

But if Egyptian officials thought they could bluff their way out of the Regeni crisis, they miscalculated. More than 3,000 people attended his funeral in his home village, Fiumicello; across Italy, grief turned to outrage as details emerged of his agonizing torture. In the press, Regeni was often portrayed in a photo that showed him smiling with a cat in his arms. Yellow banners with the slogan Verità per Giulio Regeniappeared in cities and villages. ‘‘We will stop only when we find out the truth,’’ Renzi, the prime minister, told reporters. ‘‘The real truth, and not a convenient truth.’’

Renzi’s fury was based on more than a hunch. In the weeks after Regeni’s death, the United States acquired explosive intelligence from Egypt: proof that Egyptian security officials had abducted, tortured and killed Regeni. ‘‘We had incontrovertible evidence of official Egyptian responsibility,’’ an Obama administration official — one of three former officials who confirmed the intelligence — told me. ‘‘There was no doubt.’’ At the recommendation of the State Department and the White House, the United States passed this conclusion to the Renzi government. But to avoid identifying the source, the Americans did not share the raw intelligence, nor did they say which security agency they believed was behind Regeni’s death. ‘‘It was not clear who gave the order to abduct and, presumably, kill him,’’ another former official said. What the Americans knew for certain, they told the Italians, was that Egypt’s leadership was fully aware of the circumstances around Regeni’s death. ‘‘We had no doubt that this was known by the very top,’’ said the other official. ‘‘I don’t know if they had responsibility. But they knew. They knew.’’

Weeks later, in early 2016, John F. Kerry, then secretary of state, confronted Egypt’s foreign minister, Sameh Shoukry, during a meeting in Washington. It was a ‘‘pretty contentious’’ conversation, one Obama official told me, although the Kerry team couldn’t figure out if Shoukry was stonewalling or simply didn’t know the truth. The blunt approach ‘‘raised eyebrows’’ inside the administration, another said, because Kerry had a reputation for treating Egypt, a fulcrum of American foreign policy since the 1979 Egypt-­Israeli peace treaty, with kid gloves.

By then a team of seven Italian investigators had arrived in Cairo to help with the Egyptian investigation. They were hindered at every turn. Witnesses appeared to have been coached. Surveillance footage from the subway station near Regeni’s apartment had been deleted; requests for metadata from millions of phone calls were refused on the grounds that it would compromise the constitutional rights of Egyptian citizens. Some brave Egyptian witnesses visited the investigators at their temporary office in the basement of the Italian Embassy. But even there the Italians were uneasy.

Massari, the ambassador, became concerned about embassy security after Regeni’s death; soon he stopped using email and the phone for sensitive matters, resorting to an old-fashioned paper-based encryption machine to send messages to Rome. Italian officials worried that Egyptians who worked in the Italian Embassy were passing information to Egyptian security forces; they noticed that the lights were permanently off in an apartment across from the embassy — a good spot to place a directional microphone. Massari, still traumatized by the memory of Regeni’s injuries, had become a recluse, avoiding meetings with other ambassadors. His relationship with the Egyptian government was deteriorating; Egyptian officials, infuriated by an interview he gave to an Italian TV station, determined that he was trying to pin the murder on them. ‘‘We deduced he had already taken sides,’’ Hossam Zaki, the deputy foreign minister, told me later. ‘‘He was kind of moot. Useless.’’ When Massari did venture out, people noted that he looked exhausted. Friends said he was struggling to sleep.

International pressure was building on the Egyptians. Italian newspapers sent their most dogged investigative reporters to Cairo. A website called RegeniLeaks sprang up, soliciting tips from Egyptian whistle-blowers. Regeni’s mother began her own campaign to uncover the truth, relating in a news conference that she was able to recognize his battered body only by ‘‘the tip of his nose.’’ Italian actors, TV personalities and soccer players rallied to her side. Egyptians told Deffendi that her son had ‘‘died like an Egyptian’’ — a badge of honor in Sisi’s Egypt. The European Parliament passed a stinging resolution condemning the suspicious circumstances under which Regeni had died; in London, campaigners presented a petition with more than 10,000 signatures to Parliament, calling for the British government to ensure a ‘‘credible investigation.’’ The F.B.I. was also assisting in the Italian investigation; when an Egyptian friend of Regeni’s landed in the United States, on vacation, agents pulled her aside for an interview.

This time stonewalling wasn’t going to work. ‘‘We are in deep [expletive],’’ observed a leading TV host, Amr Adeeb, on his show.

‘‘Do you speak Latin?’’ Luigi Manconi, an Italian senator who championed the Regeni family’s cause, asked when I visited him in Rome in January. ‘‘There is a phrase in Latin — arcana imperii. It means the secrets of power.’’

He paused and looked up for effect.

‘‘That is what we see in Egypt: the dark side of those institutions; the secrets in their hearts.’’

The senator was referring to Egypt’s security agencies, but what he didn’t mention was that the Regeni investigation was also exposing painful rifts inside the Italian state. There were other priorities. Italy’s intelligence services needed Egypt’s help in countering the Islamic State, managing the conflict in Libya and monitoring the flood of migrants across the Mediterranean. And Italy’s state-controlled energy company, Ente Nazionale Idrocarburi, or Eni, had its own stake. Weeks before Regeni arrived in Cairo, Eni announced a major discovery: the Zohr gas field, 120 miles off the north coast of Egypt, which contained an estimated 850 billion cubic meters of gas — the equivalent of 5.5 billion barrels of oil.

Italy is one of Europe’s most energy-vulnerable countries, which makes Eni more than just a $58 billion titan with operations in 73 countries; it makes it an integral part of Italian foreign policy. In 2014, Renzi acknowledged as much, calling Eni ‘‘a fundamental piece of our energy policy, our foreign policy and our intelligence policy.’’ In many countries, Eni’s chief executive Claudio Descalzi — a towering Milanese oilman, who has driven recent exploration efforts across Africa — knows the leaders better than Italy’s ministers do.

As the pressure to solve Regeni’s murder mounted, Descalzi, a regular visitor to Cairo, assured Amnesty International that the Egyptian authorities were ‘‘putting in maximum effort’’ to find Regeni’s killers. He discussed the case at least three times with Sisi. According to one official at Italy’s Foreign Ministry, diplomats came to believe that Eni had joined forces with Italy’s intelligence service in a bid to find a speedy resolution to the case. Eni has a long history of hiring retired Italian spies to staff its internal security division, says Andrea Greco, a co-author of ‘‘The Parallel State,’’ a 2016 year book on Eni. ‘‘They have a strong collaboration,’’ he said. ‘‘I’m sure they may have collaborated in the Regeni case, although it’s not for certain that their interests are aligned.’’ A spokeswoman for Eni says that the company was ‘‘horrified’’ by Regeni’s death and while it had no responsibility to investigate, it continued ‘‘to follow the matter very closely’’ in its interactions with the Egyptian government.

The perceived cooperation between Eni and Italy’s intelligence services became a source of tension inside the Italian government. Foreign Ministry and intelligence officials turned guarded with one another, sometimes withholding information. ‘‘We were at war, and not only with the Egyptians,’’ one official told me. Diplomats suspected that Italian spies, in an attempt to close the case, had brokered an interview by the Italian newspaper La Repubblica with Sisi six weeks after Regeni’s death. (The editor of La Repubblica maintains that the request for the interview came from the newspaper.) In it, Sisi sympathized with Regeni’s parents, calling his death ‘‘terrifying and unacceptable,’’ and vowed to find the culprits. ‘‘We will get to the truth,’’ he said.

On March 24, eight days after the interview appeared, the Cairo police opened fire on a minivan carrying five men, several with criminal records or histories of drug abuse, as it drove through a well-to-do suburb. All five were killed, and the police issued a statement calling them a gang of kidnappers who had been targeting foreigners. In a subsequent raid on an apartment linked to the men, the police said they discovered Regeni’s passport, credit card and student identity card. Soon, state media was reporting that Regeni’s killers had been identified. The Italian investigators, who were at the Cairo airport to fly home for Easter, were recalled, and the Interior Ministry thanked them for their cooperation.

In Italy, news of the shooting met with skepticism — the hashtag #noncicredo, I don’t believe it, circulated on Twitter. The Egyptian account quickly fell apart. Witnesses told several journalists (including me) that the men had been executed in cold blood. One was shot as he ran, his corpse later positioned inside the van. ‘‘They never stood a chance,’’ one man told me, shaking his head. The men’s link to Regeni crumbled: Italian investigators used phone records to show that the supposed gang leader, Tarek Abdel Fattah, was 60 miles north of Cairo the day he supposedly kidnapped Regeni.

Last fall, Egypt’s chief prosecutor told his Italian counterpart that two police officers had been charged with murder in connection with the five deaths. But an awkward question remained: If the dead men hadn’t killed Regeni, then how did his passport get into their apartment?

Italians had little doubt that the whole episode was a crude cover-up, so badly bungled that the Egyptians had incriminated themselves. Yet it had worked. The Italian detectives left Cairo, and the investigation stalled. Massari was replaced with a new ambassador who was ordered to remain in Rome. In Egypt, ‘‘Regeni’’ became a word to be whispered. ‘‘Everyone who cares about Giulio is afraid,’’ Hoda Kamel, a union organizer who helped Regeni in his research, told me. ‘‘It feels like all of the state, with all of its strength, is trying to kill the story.’’

After months of strained diplomatic ties, the Egyptian wall of denial cracked — or seemed to. In a trip to Rome last September, Egypt’s chief prosecutor, Nabil Sadek, publicly admitted that Egypt’s National Security Agency, suspecting Regeni of espionage, had been monitoring him. In a series of meetings over the next few months, he provided the Italians with documents — phone records, witness statements and a video — that showed Regeni was betrayed by several people close to him.

Muhammad Abdullah, Regeni’s contact in the street vendors’ union, was an informant for the National Security Agency. Using a hidden camera, he had taped his conversation with Regeni about the £10,000 grant (the Egyptians handed over the video). He made a statement detailing his meetings with his handler, Col. Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, who, he said, had promised him a reward once the Regeni case was closed.

The identity of the second person was perhaps more surprising. Italian officials came to believe that in the month before Regeni vanished, his lawyer roommate, Mohamed El Sayad, allowed officials from the National Security Agency to search the apartment. In the weeks that followed, phone records showed, Sayad spoke with two National Security Agency officials.

Sayad did not respond to requests for comment, but I had a long exchange, over Facebook, with Regeni’s other roommate, Juliane Schoki. Her account was symptomatic of the climate of mistrust in Sisi’s Cairo. According to Schoki, Sayad voiced suspicions of Regeni within days of his moving into their flat. ‘‘I think Giulio is a spy,’’ she recalled him saying.

After Regeni disappeared, she began to share that view. The two speculated that he was working for Mossad. (Regeni, she said, told her he once had an Israeli girlfriend and had visited Israel.) Schoki, who has since left Egypt, relayed this theory to Egyptian intelligence officers. ‘‘They were surprised because they had the same idea,’’ she recalled.

After Regeni died, she would sit with Sayad watching thrillers on TV, saying, ‘‘That’s exactly how it is!’’ — something that, in retrospect, ‘‘looks a bit ridiculous,’’ she admitted. ‘‘But a year ago it made perfect sense.’’

The Italians used Egyptian phone records to make other connections and discovered that the police officer who claimed to have found Regeni’s passport had been in touch with members of the National Security team that had been following Regeni. Suddenly, Regeni’s parents dared to hope the truth might surface. ‘‘The evil is unraveling slowly, like a ball of wool,’’ his parents wrote in a letter published in La Repubblica on the first anniversary of his disappearance.

But although the Egyptians admitted to surveilling Regeni, they insisted they had not abducted or killed him. And even if that could be proved, the core mystery remained: Why had he been ‘‘killed like an Egyptian’’? One common theory pointed to the work of a rogue officer. At the Interior Ministry, which controls National Security, even low-level officers enjoy considerable autonomy yet are rarely held to account, according to Yezid Sayigh, a senior associate at the Carnegie Middle East Center in Beirut. ‘‘Things may happen that Sisi does not approve of,’’ he said. But there was much else that made little sense. Which Egyptian official figured that torturing a foreigner was a good idea? Why dump his body on a busy highway, instead of burying it in the desert where it might never be found? And why produce his body as a high-level Italian delegation arrived in Cairo?

An anonymous letter sent to the Italian Embassy in Bern, Switzerland, last year and later published in an Italian newspaper, offered another explanation: Regeni had been caught in a shadowy turf war between National Security and Military Intelligence, with one group seeking to use his death to embarrass the other. The details suggested that the author of the account was intimately familiar with Egypt’s security apparatus, yet it also seemed improbable that one person could know so much. Senior American officials told me the letter was consistent, however, with broader intelligence reports of the fierce jockeying for power among rival security agencies. ‘‘They try to use cases as a lever to embarrass one another,’’ one said.

The most alarming possibility is that Regeni’s death was a deliberate message — a sign that, under Sisi, even a Westerner could be subjected to the most brutal excesses. In Rome, an official told me that when Regeni’s body was discovered, it was propped up against a wall. ‘‘Did they want him to be found?’’ the official asked. The Obama official said he believed that someone in the ‘‘upper echelons’’ of the Egyptian government may have ordered Regeni’s death ‘‘to send a message to other foreigners and foreign governments to stop playing with Egypt’s security.’’

No senior Egyptian official agreed to speak to me for this article. But Hossam Zaki, the former deputy foreign minister who is now assistant secretary general at the Arab League, told me that Egyptian officials believe that the murder was the work of an unidentified ‘‘third party’’ seeking to sabotage Egypt’s relations with Italy. ‘‘Egyptians do not treat foreigners badly, full stop,’’ he said.

Nonetheless, Regeni’s death cast a chill over Cairo’s shrinking expatriate community. ‘‘Few things have shaken me so deeply,’’ one European diplomat told me. Before we spoke, the diplomat asked me to deposit my cellphone in a signal-blocking box so that our conversation could not be surveilled. Regeni’s death, the diplomat continued, signaled Egypt’s broader direction: Regeni had fallen victim to the paranoia about foreigners that now coursed through Egyptian society; since the revolution, even small interactions could be fraught. During lunch in Cairo’s Islamic Quarter, the diplomat recounted, an agitated man remonstrated loudly with another guest for taking a photo of a meal — beans, bread and tamiyya, the Egyptian falafel. ‘‘He started to shout: ‘You’re a foreigner. You will use this image to show that we only eat beans and bread!’ ’’

In Fiumicello, where Regeni grew up and his parents still live, a banner reading ‘‘Verità per Giulio Regeni’’ hangs in the main church, but few believe that the truth will ever come out. Regeni’s family has closed ranks, appointing a pugnacious lawyer as its gatekeeper, and begun their own investigation into his murder. (His parents declined to be interviewed for this article but answered some questions by email.) At the Rome headquarters of the Carabinieri’s Special Operations Group, which specializes in counterterrorism and anti-mafia operations, Gen. Giuseppe Governale insists that there is still hope of solving the crime. ‘‘The Arab mentality is to procrastinate until everyone forgets,’’ he said. ‘‘But we will not stop until we find an answer. We owe it to his mother.’’

Italians have what Carlo Bonini, a journalist for La Repubblica who has written extensively on the Regeni case, calls ‘‘the last bullet.’’ Under Italian law, they could press charges in an Italian court against the handful of Egyptian security officials they believe to be responsible. But that might be a Pyrrhic victory: Egypt would never extradite anyone for trial. And there seems little chance that Sisi can be pressured into revealing the truth. In Rome last month officials admitted that the investigation was now little more than geopolitical kabuki; politics and not police work would determine its conclusion. In the 18 months since Regeni was killed, Sisi has had dinner with the German chancellor, Angela Merkel, in front of the pyramids, and in April he received a rapturous welcome at the White House from President Trump. On Aug. 14, the Italian government announced it intended to send its ambassador back to Cairo. The Zohr gas field is on track to start production in December.

In Fiumicello, Regeni lies buried under a line of cypress trees. Flowers, devotional candles and plastic-wrapped volumes of Spinoza and Hesse are piled on his grave, and a small photograph shows him speaking to a crowd, clutching a microphone, his face open and earnest. But unlike the elaborate neighboring tombs that surround it, Regeni’s gravestone is just a plain marble slab. Because the investigation is still open, the parish priest explained, officials might yet need to exhume his remains.

Egitto e Libia: importantissime pedine per gli affari e il potere di chi comanda in Italia. Quindi si rinuncia volentieri a ottenere verità e giustizia: questa è la morale della Repubblica italiana, nelle sue supreme autorità Articoli di Michele Giorgio e Luigi Manconi.

il manifesto, 15 agosto 2017

REGENI,
IL COLPO DI SPUGNA DI ALFANO
di Michele Giorgio

«Italia/Egitto. Citando una presunta maggiore collaborazione tra le procure di Italia ed Egitto sul caso del brutale assassinio del ricercato italiano, il ministro degli esteri ieri ha annunciato l'invio al Cairo dell'ambasciatore Cantini. L'interesse di Stato e i rapporti economici tra i due Paesi prevalgono sull'accertamento della verità. La famiglia: questa decisione è una resa incondizionata»

Alla luce degli sviluppi registrati nel settore della cooperazione tra gli organi inquirenti di Italia ed Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni…il Governo italiano ha deciso di inviare l’Ambasciatore Giampaolo Cantini nella capitale egiziana». Con questa laconica nota ieri il ministro degli esteri Alfano ha dato un colpo di spugna alla crisi con l’Egitto cominciata con il brutale assassinio al Cairo di Giulio Regeni e ha dato il via alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Si avvera perciò la previsione fatta il mese scorso da anonimi funzionari italiani all’agenzia di stampa egiziana Mada Masr, e riportata da Chiara Cruciati sul nostro giornale, dell’invio di Cantini al Cairo a settembre.

La possibilità che tutto fosse programmato da tempo è altissima. I presunti «sviluppi» di cui parla Alfano con ogni probabilità sono un pretesto per concretizzare una decisione già presa. E il fatto che il presidente del consiglio Gentiloni abbia fatto sapere di aver incaricato l’ambasciatore Cantini di «contribuire alla azione per la ricerca della verità sull’assassinio di Giulio Regeni» non offre alcuna rassicurazione. La verità era e resta lontana.

Prevale, come si temeva, la real politik, l’interesse dello Stato sulla verità per la quale si batte la famiglia del giovane ricercatore italiano rapito all’inizio del 2016 al Cairo e torturato a morte. Non sorprende la rabbia dei genitori di Regeni che hanno espresso «indignazione per le modalità, la tempistica ed il contenuto della decisione del Governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo».

Ad oggi, spiegano, «dopo 18 mesi di lunghi silenzi e anche sanguinari depistaggi, non vi è stata nessuna vera svolta nel processo sul sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio. Solo quando avremo la verità l’ambasciatore potrà tornare al Cairo senza calpestare la nostra dignità». La famiglia sottolinea anche che «si ignora il contenuto degli atti, tutti in lingua araba, inviati oggi, dal procuratore egiziano Sadek…La procura egiziana si è sempre rifiutata di consegnare il fascicolo sulla barbara uccisione di Giulio ai legali della famiglia, violando la promessa al cospetto dei genitori di Giulio e del loro legale Alessandra Ballerini».

Alfano invece parla di un Egitto disposto a collaborare senza però offrire elementi concreti. Si sa solo che la procura del Cairo ha trasmesso ieri a quella di Roma gli atti relativi ad un nuovo interrogatorio, sollecitato dall’Italia, cui sono stati sottoposti i poliziotti che hanno avuto un ruolo negli accertamenti sulla morte del giovane. I magistrati egiziani inoltre avrebbero affidato a una società privata il recupero dei video della metro del Cairo, essenziali per ricostruire i movimenti di Regeni il giorno del suo rapimento. Tutto qui. Ad Alfano comunque è bastato per inviare l’ambasciatore Cantini al Cairo. Tutto in nome dei buoni affari economici e politici tra i due Paesi.

A cominciare dall’influenza dell’Egitto sul generale libico Khalifa Haftar, pedina fondamentale che ostacola le manovre italiane in Libia e contro le partenze dei migranti in direzione del nostro Paese. Interessante, a questo proposito, è il commento fatto dal presidente della Commissione affari esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini: «L’intensificarsi della collaborazione giudiziaria sul caso Regeni e le nuove difficoltà insorte, che riguardano in particolare la vicenda della stabilizzazione della Libia, hanno reso indispensabile questo passo del ministro Alfano».

REGENI VITTIMA DELL’INCAPACE
POLITICA ESTERA ITALIANA
di Luigi Manconi

«Italia/Egitto. La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo».
Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, nulla è accaduto che possa segnalare un mutamento, anche il più esile e controverso, nella condotta delle autorità politiche e giudiziarie dell’Egitto a proposito della vicenda di Giulio Regeni. Non il più piccolo atto che manifesti una più sollecita cooperazione con la procura di Roma e non la più sommessa dichiarazione politica di riconoscimento della centralità della questione della tutela dei diritti fondamentali della persona da parte di quel regime.

E nei confronti degli oppositori interni (rapiti, seviziati e uccisi a centinaia) e nei confronti delle associazioni umanitarie egiziane e di chi, come Giulio Regeni, voleva conoscere quel popolo, capirne le ragioni e diffonderne le voci.

Dunque, la scelta così insopportabilmente ferragostana, assunta dal governo, di inviare proprio in queste ore l’ambasciatore italiano al Cairo, risponde chiaramente a tutt’altra logica.

La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo. Un disegno che consenta all’Italia, senza complessi di inferiorità e senza automatismi di schieramento, di svolgere un ruolo davvero costruttivo in un’area così delicata e precaria.

La controprova inequivocabile è rappresentata dal fatto che, nel momento in cui manda al Cairo l’ambasciatore, il nostro paese «non ottiene nulla in cambio».

Gli asseriti «passi avanti» nella cooperazione giudiziaria tra la procura del Cairo e quella di Roma sono giusto una fola e la promessa più impegnativa è che a settembre i magistrati italiani potranno ricevere quelle registrazioni video che avrebbero dovuto ricevere nell’ottobre scorso. Ma non è questo il punto essenziale.

Ciò che davvero va sottolineato è che in più circostanze il premier Paolo Gentiloni si era impegnato, anche con chi scrive, ad adottare misure efficaci e incisive tali da garantire la continuità di una forte pressione sull’Egitto, nel caso che altre considerazioni consigliassero il ritorno dell’ambasciatore.

Così, nei giorni scorsi – sulla base di un ragionamento solo politico, che non coinvolgeva in alcun modo la famiglia Regeni – ho proposto una serie di provvedimenti, capaci di pesare nei rapporti con il regime di al Sisi in alcuni campi decisivi: quello dei flussi turistici italiani ed europei verso l’Egitto (la dichiarazione di quest’ultimo come «paese non sicuro»); quello dei rapporti commerciali nel settore degli armamenti; quello degli speciali accordi di riammissione nel paese d’origine dei profughi egiziani.

Non una di queste proposte è stata accolta.

Il risultato è che la normalità delle relazioni tra Egitto e Italia sembra oggi pienamente ripristinata.

Un altro e infelicissimo contributo a che la vicenda di Giulio Regeni sia consegnata all’oblio.

Resta, di conseguenza, una sola possibilità per quanti credono testardamente che la questione dei diritti umani non possa essere l’ultimo e trascurabile punto nell’agenda politica internazionale, ma priorità tra le priorità. Ovvero restare dalla parte di Paola e Claudio Regeni, consapevoli che la loro così faticosa e dolorosa battaglia riguarda tutti noi e il senso stesso di ciò che chiamiamo democrazia, di qua e di là del mediterraneo.

Nessuno si chiami fuori da questo atroce delitto. Meno che meno i governanti della nazione di cui Giulio pensava di essere cittadino, i quali hanno continuato a fare affari con i mandanti dei colpevoli e gli occultatori dei fatti. Forse per obbedire alla Trilateral Cmmission?

la Repubblica, 7 aprile 2017
«Il 25 gennaio del 2016 un giovane ricercatore italiano scompare al Cairo. Il suo corpo viene ritrovato nove giorni dopo. Comincia così il dramma di una famiglia e la lotta di un intero Paese per cercare di capire chi sono gli assassini, chi li ha coperti, chi ha depistato. Ecco la ricostruzione di come si sono svolti i fatti. E, per la prima volta, i nomi degli alti ufficiali egiziani coinvolti nel delitto»

Prologo

Il Cairo, 25 gennaio 2016. Pomeriggio.
Non era un giorno qualsiasi. Né poteva esserlo. Perché quel giorno, cinque anni prima, tutto era cominciato.
Piazza Tahrir. La Rivoluzione. La caduta dell’immarcescibile Regime di Hosni Mubarak. Il sogno di una Primavera che si era trasformata nel suo contrario e aveva spalancato le porte al colpo di Stato militare del generale Abd Al Fattah Al Sisi. A un nuovo inverno di violenza, sopraffazione, sparizioni, delazioni, per piegare ogni forma di dissenso.

Ahmed Abdallah, ingegnere informatico, professore universitario, attivista per i diritti umani e direttore della ong “Egyptian Commission for Rights and Freedoms”, non poteva immaginare che il suo destino stava per cambiare. Esattamente come quello di un ragazzo italiano che avrebbe conosciuto solo da morto. «Quel 25 decisi di non farmi trovare in casa. Erano in corso retate indiscriminate. Gli arrestati venivano trascinati direttamente di fronte a un tribunale speciale, la Corte Suprema della Sicurezza dello Stato. La mattina, la caffetteria che frequentavo quotidianamente, era stata assaltata da uomini armati a bordo di un automobile senza targa. Erano arrivati prima di me, ringraziando Dio. Avevano chiesto se qualcuno mi avesse visto o sapesse dove fossi. E se ne erano andati prima che arrivassi. Durante il giorno era stato imposto una sorta di coprifuoco. Il Regime aveva paura del popolo. Il popolo aveva paura della paranoia del Regime. Quel giorno respiravamo paura».
Alle 19, sulla riva sinistra del Nilo, nell’appartamento all’ultimo dei quattro piani della palazzina di Dokki dove abitava da quattro mesi, Giulio Regeni digitò sul suo portatile una chiave di ricerca su Youtube. “Coldplay. A Rush of blood to the head”. Aveva voglia di ascoltare quel brano che, anni prima, aveva consacrato la band nata a Londra. Giulio si è laureato in Inghilterra prima a Leeds, poi a Cambridge per il Phd con la ricerca sui sindacati nell’Egitto dei Generali.
Le 19. Aveva tempo. Il suo amico Gennaro Gervasio lo aspettava per le 20.30 in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir. Tre fermate di metropolitana. Insieme sarebbero andati a cena da un professore che entrambi conoscevano, Kashek Hassamein.
Partì il brano dei Coldplay. Giulio non poteva sapere in cosa fosse precipitato. Né immaginare la profezia che era in quelle strofe.
See me crumble and fall on my face
Mi vedo sgretolare e cadere di faccia
See it all disappear without a trace
Vedo tutto scomparire senza lasciare una traccia
Salutò il suo coinquilino, il giovane avvocato Mohamed El Sayed. E uscì di casa poco prima delle 20.
Per l’ultima volta.

Morgue

Il Cairo, 31 gennaio 2016. Pomeriggio.

Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari, ambasciatore italiano in Egitto.
I genitori di Giulio erano arrivati al Cairo il 30. E vivevano nell’appartamento che Giulio divideva con El Sayed e una tedesca, Juliane Schoki.
Paola e Claudio avevano lasciato Fiumicello in fretta e furia. Senza far parola con nessuno del perché fossero partiti per l’Egitto. Gli avevano consigliato di inventare una scusa. Ci aveva pensato Paola con gli amici: « Giulio non sta tanto bene. Una colica renale o un’appendicite. Se c’è da operarlo, meglio a casa». Aveva messo in valigia quello che riteneva potesse servire. «Dissi a Claudio: “Facciamo vedere che nostro figlio ha una famiglia. Una mamma, un papà. Che non è un ragazzo allo sbando. Quindi, portati la giacca. Io porto la collana”». Aveva pensato anche al rossetto. Ma era rimasto in borsa. «Lo dimenticai, perché normalmente non lo uso. Volevamo fare bella impressione perché all’ambasciata facessero tutto quello che era nelle loro possibilità per ritrovare Giulio».

Massari andò dritto al sodo. « Signori, con il ministro egiziano è andata male. Continua a dire che non sa niente di Giulio, quindi…». « Quindi? » , chiesero. « Quindi abbiamo deciso di dare la notizia all’Ansa. Forse in questo modo la pressione della stampa internazionale potrà smuovere un po’ le cose. Ecco, avete cinque minuti per avvisare casa prima che la notizia esca».
Paola chiamò allora Irene, la figlia più piccola, cinque anni meno di Giulio. Era rimasta a Fiumicello. «Le dissi: “Corri più veloce che puoi a casa e prendi tutto quello che ti serve. Poi, scappa, perché arriveranno i giornalisti”».
Alle 18 e 14 lampeggiò l’urgente dell’Ansa: FARNESINA, SCOMPARSO UN 28ENNE ITALIANO AL CAIRO «L’ambasciata italiana al Cairo e la Farnesina stanno seguendo “con la massima attenzione e preoccupazione” la vicenda di Giulio Regeni, studente italiano di 28 anni sparito “misteriosamente” la sera del 25 gennaio nel centro della capitale egiziana. Gentiloni — si legge in una nota della Farnesina — “ha avuto poco fa un colloquio telefonico con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry, al quale ha richiesto con decisione il massimo impegno delle autorità del Cairo, già sensibilizzate dall’Ambasciata, per rintracciare il connazionale e per fornire ogni possibile informazione sulla sue condizioni. Ambasciata e Farnesina sono anche in stretto contatto con i genitori di Giulio”».
2 febbraio 2016. Uffici del ministero dell’Interno. Il Cairo.
Il ministro dell’Interno, Magdy Abdul Ghaffar, aveva ascoltato l’ambasciatore Massari senza muovere un muscolo. A 64 anni, quanti ne aveva, quaranta dei quali trascorsi nei servizi di sicurezza, era l’altro uomo forte del Regime. In silenziosa e ostinata opposizione ad Al Sisi. Se il Presidente poteva contare sulla struttura militare — forze armate e intelligence — Ghaffar controllava la “Stasi” del Medio Oriente, l’occhiuto, onnipresente servizio segreto interno: la National Security, così ribattezzata dopo la rivoluzione di piazza Tahrir in un maquillage che non ne aveva cambiato di una virgola le pratiche. Arresti illegali, torture, sparizioni. Al Sisi non poteva liberarsi di Ghaffar. Ghaffar non poteva fare a meno di Al Sisi. Ma le strutture di spionaggio che facevano capo ai due erano in perenne e paranoica competizione.
Ghaffar conosceva bene Massari, diplomatico cresciuto professionalmente nella Mosca del crollo sovietico e tra Washington e i Balcani, e non gli era sfuggito il modo in cui quel pomeriggio aveva deciso di rompere l’etichetta, tradendo una certa insofferenza. «Per incontrare Ghaffar c’era voluto molto tempo, almeno rispetto alla prassi — ricorda Massari — Non so dire per quanto rimasi seduto di fronte al ministro. Ma non fu una cosa breve. Al Cairo stava per arrivare il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, con una delegazione di nostri imprenditori». L’Eni aveva chiuso l’accordo per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale di Zohr, una partita da 10 miliardi di euro. Gli imprenditori — infrastrutture, edilizia, settore creditizio — che accompagnavano la Guidi guardavano al Cairo come una straordinaria opportunità. «Resi esplicito quale imbarazzo provocava al nostro paese la coincidenza tra quella visita e la circostanza che dal 25 gennaio non sapevamo più nulla del nostro Giulio Regeni. Che da otto giorni le autorità egiziane non ci avevano fornito una sola informazione. Non avevo interprete quel giorno. Parlavo in inglese. E ricordo che continuai a ripetere a Ghaffar: “ We want Giulio back, we want Giulio back”. Rivogliamo Giulio” ».
Ghaffar aveva annuito.
Giulio era già stato ucciso.
3 febbraio 2016, casa di Giulio Regeni, Dokki. Il Cairo
Fuori era buio. Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari.
«Buonasera. Sono con il ministro Guidi. Stiamo venendo da voi». Strano. Avrebbero dovuto vedersi il giorno successivo. Racconta Paolo: «Io e mio marito ci guardammo: “ Perché un ministro viene fin qui se avevamo appuntamento per domani?” » . « Due sono le cose: o vogliono farci una bella sorpresa e portarci Giulio, oppure le notizie sono cattive…», rispose Claudio. «Andavo su e giù dalla finestra… Ero molto nervosa. Mi misi persino a spolverare nervosamente il soggiorno, per ingannare l’attesa… Al Cairo entra molta polvere in casa».
Di nuovo il cellulare. Di nuovo Massari. «Disse che erano in ritardo di dieci minuti. Ma, stavolta, aggiunse che non portavano buone notizie. Al che, guardai Claudio e capimmo. Dissi: è già finito tutto. La felicità della nostra famiglia è durata così poco. Pensai che non sarei mai diventata nonna dei figli di Giulio. Perché a Giulio piaceva l’idea di avere dei figli». Suonò il citofono. Massari entrò nell’appartamento insieme con il ministro Guidi. Abbracciarono Paola. Abbracciarono Claudio.
«Avete cinque minuti di tempo per avvisare casa».
3 febbraio 2016, uffici della direzione del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, Cinecittà. Roma.
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì sollevò il telefono al secondo squillo. Aveva fatto notte a discutere di droga. Sul display riconobbe il prefisso del Cairo. Doveva essere quel collega che in ambasciata seguiva le rotte e il traffico di migranti. «Ciao, dimmi». I migranti non c’entravano. « Fu una di quelle telefonate che un poliziotto non dimentica mai. L’ispettore mi informò che era stato trovato il corpo di quel ragazzo scomparso otto giorni prima». La chiamata si sovrappose al cicalio della linea interna con l’ufficio del direttore del servizio, il Questore Renato Cortese. «Vincenzo, vedi che domani mattina devi andare in Procura. Ti aspetta il pm Sergio Colaiocco, il fascicolo sul ragazzo del Cairo è suo. Vuole fare un gruppo di lavoro misto, con i Carabinieri. C’è da capire rapidamente cosa è successo » . Avrebbero lavorato con la sezione antieversione del Ros dei Carabinieri. La comandava un colonnello di cui, a ragion veduta, si diceva un gran bene, Massimiliano Macilenti.
Notte 3- 4 febbraio 2016, Garden City, Cairo.
Ora o mai più. Se c’era una finestra utile per capire cosa fosse accaduto a Giulio, era quella notte. Maurizio Massari era rientrato in ambasciata da casa Regeni intorno alla mezzanotte, soltanto per riuscirne poco dopo. Un’affidabile fonte egiziana — la stessa che lo aveva avvertito qualche ora prima del ritrovamento del corpo di Giulio e che, peraltro, lo aveva conosciuto bene da vivo — gli aveva anche fornito indicazioni sulla morgue in cui era stato trasferito. Voleva vederlo, prima che quel corpo potesse essere manomesso.
Troppe cose non tornavano. E poi, come facevano gli egiziani a essere certi che quel ragazzo occidentale ritrovato per caso da un tassista con l’auto in panne, semi nascosto da un muro di sabbia, lungo la superstrada Il Cairo- Alessandria fosse proprio Giulio Regeni? Attraversò la città deserta. E all’ingresso dell’obitorio convinse i piantoni a consentirgli l’accesso alle celle frigorifere. Ne aprirono una prima. Sbagliata. Quindi, una seconda. « Non avevo mai visto nulla di simile. I segni di tortura erano evidenti. Sul volto, le braccia, le spalle, le gambe e, soprattutto, sul dorso. Non poteva essere opera di altri che non professionisti della tortura». E chi in quel Paese era professionista della tortura?
Paola non poteva prendere sonno. «Con il telefonino andai sul sito di Repubblica. E lessi che Giulio, secondo le prime indiscrezioni raccolte in Egitto, era stato torturato. Sollevai lo sguardo dal telefono e avrei voluto scaraventarlo contro il cassettone che avevo di fronte. Avrei voluto urlare. E in effetti ho urlato. Piano». Ricevette un primo messaggio di condoglianze da un’amica. Usava belle parole. Le rispose di getto: «Grazie, ma Giulio non è soltanto morto. È stato torturato». Poi, scorse la rubrica, e trovò il numero di Maha Abdelrahman. Era la tutor egiziana di Giulio a Cambridge. La docente che aveva concepito la sua ricerca e deciso il suo semestre al Cairo. «Nel mio inglese pasticciato le scrissi: “Ma non lo sapevi che era pericoloso mandarlo in Egitto?”».
*** 4 febbraio 2016, Sala mortuaria dell’ospedale italiano. Il Cairo.
Riconoscimento. La legge lo chiama così. Non si può riconsegnare un corpo ai suoi cari se non ne confermano l’identità. Ma l’ambasciatore non voleva. Non lì almeno, aveva insistito: « Paola, Claudio, ho provveduto io. È meglio se ricordate vostro figlio com’era». Claudio fece per annuire. Paola si impuntò. A metà mattina erano nella sala mortuaria dell’ospedale italiano del Cairo dove il corpo di Giulio era stato trasferito. «Ci trovammo di fronte un sacco. Un sacco bianco. Come quello dei vestiti dell’Ikea. Era chiuso. Chiesi di vedere almeno i piedi, perché quelli di Giulio erano come i miei, quelli di mio padre e del nonno. Abbiamo tutti le stesse dita » . Massari scosse la testa: «Paola, meglio di no. Davvero». Fuori dalla sala c’erano anche due suore. Una delle due le si avvicinò: «Signora, lo sa che ha un figlio martire?». La gomitata dell’altra la interruppe. «Forse pensava non sapessi». Ora toccava ai medici egiziani. Avrebbero effettuato l’autopsia del corpo di Giulio. Poi sarebbero potuti tornare a casa.
6 febbraio 2016, volo Egyptair Il Cairo-Roma.
Quando si viaggia a 13mila piedi di altezza non si pensa mai a quello che si è caricato in stiva. Il bagaglio si affida al check-in e lo si recupera al nastro. Giulio era in stiva. Una bara di legno chiaro, con i sigilli in cera lacca rossi. «Ci avevano assegnato due poltrone in economy. Finché non si avvicinò un’hostess, facendoci segno di spostarci in testa all’aereo, in business. Ci avevano riconosciuto. Tutto l’equipaggio egiziano venne a salutarci » . Claudio ne rimase impressionato: «Piangevano tutti. Si scusarono. Fu un momento, come dire… forte. E loro furono… splendidi » . E poi erano con Giulio. Paola lo sentiva: «Avevamo la percezione fisica che sotto di noi c’era la bara di nostro figlio». «Atterrati a Roma, attendemmo sotto l’aereo che... insomma... scaricassero Giulio. Sì, scaricassero. La parola giusta è questa».
Una prima verità
6 febbraio 2016, pomeriggio, Policlinico universitario Umberto I, Padiglione di radiologia. Roma.
Il pubblico ministero Sergio Colaiocco aveva incaricato della consulenza medico legale sul corpo di Giulio Regeni, il professor Vittorio Fineschi, direttore dell’istituto di medicina legale di Roma. Aveva accolto lui la bara arrivata da Fiumicino. «Con il pm pensammo di far riconoscere il corpo in una sala diversa da quelle usate normalmente. Lontana dall’obitorio. Scegliemmo un padiglione di radiologia. Un luogo più raccolto».
«I medici mi chiesero: “ Signora, avete già visto Giulio?”. Io gli risposi: “ Devo dirvi la verità, no. E vi avrei chiesto di farlo perché altrimenti mi sentirei una vigliacca per il resto della mia vita”». Il corpo, avvolto in un lenzuolo, con il capo fasciato di garze che lasciavano intravedere soltanto l’ovale del viso, era adagiato su una lettiga al centro del padiglione. «Entrati nella stanza riconobbi il naso di Giulio. Fino a quel momento avevo sperato non fosse lui. Che si fossero sbagliati. E invece era lui. Lo riconobbi dalla punta del naso e non avrei mai pensato di riconoscere una persona cara da quel particolare. Mi tornò in mente una domanda che da allora non mi ha mai abbandonato: come avevano fatto le autorità egiziane a essere certe al momento del ritrovamento che fosse mio figlio? Non aveva indosso i documenti. Era semi nudo, trasfigurato, non somigliava neppure lontanamente al ragazzo della fotografia che avevamo consegnato per le ricerche. A una mamma, a un papà bastano pochi particolari. Ma come avevano fatto degli estranei a riconoscerlo?».
6 febbraio 2016, notte. Sala settoria, Policlinico universitario Umberto I. Roma.
Il professor Fineschi, la sua équipe, i medici incaricati dalla famiglia, lavorarono sul corpo di Giulio per oltre otto ore. Apparve una lavagna dell’orrore. Gli avevano spezzato un polso, le scapole, l’omero destro, le dita di entrambe le mani e piedi, i peroni erano come esplosi, la bocca era offesa dalle lesioni provocate dalla rottura di numerosi denti. La cute era segnata da tagli e bruciature. E chi si era accanito su quel ragazzo lo aveva segnato come si fa con le bestie, come nell’orrore nazista, incidendo lettere dell’alfabeto sul dorso, all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. Sulla mano sinistra e sulla fronte.
Giulio era stato finito da un’ultima violenza. Una torsione improvvisa e letale delle vertebre cervicali. Il che suggeriva più che un’ultima tortura, un’esecuzione. Era un ulteriore dato che scioglieva ogni dubbio. E che avrebbe potuto far concludere al professor Fineschi: «Le lesioni sul corpo di Giulio erano state inflitte in tempi significativamente diversi, nell’arco di giorni » . Giulio, dunque, era stato torturato con metodo. Alternando violenza a sospensione. « Era ipotizzabile che lo avessero colpito con calci, pugni, bastoni, mazze. Scaraventandolo ripetutamente contro muri o pavimenti. Il corpo di quel ragazzo ci aveva raccontato tutto quello che poteva testimoniare».
La ricerca della verità cominciava da qui. È vero, quell’autopsia non indicava il nome degli assassini, ma ne definiva il profilo (professionisti della tortura). Lo sapevano il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco. Ne erano consapevoli il colonnello Massimiliano Macilenti e il primo dirigente Vincenzo Nicolì. «Le lesioni sul corpo di Giulio escludevano una serie di ipotesi investigative. La morte di quel ragazzo non era riconducibile a una vicenda di carattere personale. Non era opera di una persona sola. E che Giulio fosse stato poi torturato in tempi diversi offriva un’ulteriore, cruciale, indicazione. Chi lo aveva sequestrato aveva avuto a sua disposizione un luogo in cui agire indisturbato per giorni, con la tranquillità di non essere trovato. Insomma, avevamo la certezza di trovarci di fronte a una struttura organizzata. Sicuramente di tipo statale o parastatale. L’indagine si complicava».
La Macchinazione

Notte tra il 5 e il 6 febbraio 2016, Aeroporto Mar al-Qhirah al-Duwaliyy. Cairo.
Il piccolo corteo di auto che aveva lasciato l’aeroporto procedeva a fatica verso la palazzina liberty di Garden City, sede dell’ambasciata italiana. L’ispettore dello Sco Alessandro Gallo, uno dei sette, tra poliziotti e carabinieri, della squadra investigativa arrivata da Roma, osservava il traffico impazzito della città. Era la prima volta che metteva piede in Egitto. «Non esistevano accordi di cooperazione, e gli apparati egiziani avrebbero dovuto aiutarci a scoprire gli autori di un omicidio per il quale i principali indiziati erano proprio appartenenti a quegli apparati». La strada era tutta in salita. E i sette ne ebbero la conferma entrando in ambasciata.
Erano stati istruiti a non usare telefoni cellulari nelle comunicazioni con Roma. A non agganciarsi ad alcuna sorgente wi-fi pubblica o in luoghi aperti al pubblico. Ma ora scoprivano che avrebbero dovuto, anche, imparare a riconoscere i luoghi e gli spazi in cui parlare tra di loro. Anche l’ambasciata, infatti, non era terreno franco. Il lato est del villino confinava con condomini ad alveare, dagli appartamenti per lo più abitati. Con un’eccezione. Due case dalle finestre cielo-terra, le cui luci non si accendevano mai. E curiosamente coincidenti, in altezza, con gli uffici dell’ambasciata. In linea d’area, poco meno di un centinaio di metri. Una distanza irrisoria per dei microfoni direzionali. Persino Massari evitava di avere incontri nei saloni che davano su quel lato dell’ambasciata. E aveva l’abitudine di liberarsi del cellulare una volta rientrato nei suoi uffici.
8 febbraio 2016, Ministero della Sicurezza Nazionale. Il Cairo
Il ministro dell’Interno, Maghdi Abdel Ghaffar, sedeva da solo al centro di un grande tavolo alla cui estremità si era sistemato un interprete. Di fronte a lui una folla di giornalisti, per lo più italiani, si chiedeva se il Regime avrebbe messo un punto fermo in quella storia. E quale. Non era un dettaglio. Quando si decide di parlare, inevitabilmente, ci si impegna a una versione dei fatti. E le autorità egiziane lo avevano, sin lì, evitato. Fatto salvo ciò che aveva raccontato, nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Giulio, Khaled Shalaby, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza. Un tipo con precedenti per tortura e un forte peso specifico negli apparati. «Un incidente stradale», aveva detto, liquidando le prime domande sulle circostanze della morte.
Ebbene, quella mattina, il ministro Ghaffar decise di usare un format che avrebbe riproposto per mesi. Evitare di spiegare ciò che era successo, preferendo sostenere ciò che non lo era. «Non conoscevamo Giulio Regeni. Non esistevano indagini a suo carico. Non era mai stato arrestato dalla Polizia né fermato. Non riteniamo si trattasse di un agente segreto, e respingiamo ogni “rumor” o accusa che indichino che sia stato torturato da appartenenti agli apparati della sicurezza del nostro paese. Fino a quando non saranno completati gli accertamenti medico-legali e non avremo sentito tutte le persone che questo ragazzo frequentava al Cairo, quel che viene detto è solo speculazione. La verità è che in Egitto non si tortura e che della morte di Regeni sono incerte sia le circostanze sia il movente. Posso rassicurare che la delegazione italiana che si trova al Cairo per partecipare all’inchiesta viene informata minuto per minuto su tutti i dettagli delle indagini».
I rumors. La stampa filo regime egiziana ne traboccava. Perché strumentali ad accreditare una contro narrazione che consegnasse Giulio a una storia che non era la sua. Un drogato, un omosessuale, uno spacciatore, una spia per conto della Gran Bretagna, quanto meno uno sprovveduto che si era messo nei guai da solo. Peraltro, quella vicenda delle indagini congiunte aveva subito assunto un tratto farsesco. I sette della squadra arrivata da Roma lo capirono alla prima stretta di mano con quelli che sarebbero stati i loro interlocutori per i successivi tre mesi. L’ufficiale della National Security, il servizio segreto interno competente per i reati politici e il terrorismo, che li aveva accolti si era presentato come «colonnello Osan Helmy». Quel poco che aveva aggiunto chiudeva l’indagine prima ancora che si aprisse. «Per noi Giulio Regeni è uno sconosciuto. Nessuno dei nostri uffici si è mai occupato di lui. Bisogna cercare altrove», aveva detto.
24 marzo, Aeroporto Mar al-Qhirah al- Duwaliyy. Cairo.
Alessandro Gallo consegnò la sua carta di imbarco al gate e mostrò il passaporto, mentre gli altri sei colleghi che erano con lui avevano già preso posto nel pullman che li portava all’aereo.
Tornavano a casa. Almeno per Pasqua. Un permesso di qualche giorno. Tanto, non c’era fretta. Se n’erano andati poco meno di due mesi e le tessere del complicato mosaico che erano riusciti a mettere insieme erano costate uno sforzo estenuante. Gli egiziani continuavano a non fornire dati investigativi cruciali. Tabulati telefonici, immagini delle telecamere di sorveglianza delle stazioni della metropolitana dove Giulio era scomparso, testimonianze che non rispondessero a un liso copione di «non so», «non ricordo», «non notai nulla di anormale».
A voler essere brutali avevano solo “prove negative”. Sapevano cioè soltanto ciò che Giulio non era. E ciò che a Giulio non era successo. Sapevano che Giulio Regeni non era stato sequestrato né in casa né nel tragitto che, tra le 19.30 e le 20, del 25 gennaio, aveva percorso a piedi per raggiungere la stazione della metropolitana di El Behoos. Sapevano che alle 19.38 aveva parlato al telefono con il professor Gennaro Gervasio, confermandogli il loro appuntamento, di lì a poco, in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir per raggiungere insieme la cena di compleanno del professor Kashek Hassamein.
Sapevano che alle 19.41 aveva avvertito la fidanzata ucraina che quella sera, non avrebbero potuto fare la consueta video chiamata su Skype.
Sapevano che alle 19.58 il suo telefono aveva squillato a vuoto, che alle 20.02 aveva agganciato la rete dati della metropolitana, prima di spegnersi per sempre.
Sapevano che non era morto in un incidente stradale, né per vendetta personale.
Sapevano che non aveva nulla a che fare con gli stupefacenti, di cui peraltro non faceva alcun consumo come avevano documentato gli esami tossicologici svolti durante la sua autopsia.
Sapevano che non era una spia, e che non aveva mai avuto contatti con agenzie di intelligence di qualsiasi Paese, alleato o terzo.
Sapevano che sulle uniche due figure di interesse investigativo di quei primi 60 giorni di inchiesta gli egiziani avevano giocato opaco. Per dirne una: chi diavolo era davvero Mohammed Abdallah, il leader del sindacato degli ambulanti con cui Giulio, almeno a partire dall’ottobre 2015, aveva avuto rapporti di una certa assiduità e che era tra le ultime persone contattate a ridosso della scomparsa? La testimonianza che il tipo aveva reso alla polizia egiziana era stata fin troppo sbrigativa e generica. Come avesse fretta di farsi dimenticare.
E ancora: che parte aveva avuto Mohamed El Sayed, il coinquilino della casa di Dokki? Lavorando sotto traccia, avevano accertato che durante le vacanze di Natale 2015, durante l’assenza dal Cairo di Giulio, rientrato in Italia, El Sayed aveva ricevuto nell’appartamento la visita di un ufficiale della National Security, intenzionato a ficcare il naso nella stanza e nelle cose di Giulio. Curioso, per apparati che continuavano a smentire di essere mai inciampati nel nome del ricercatore italiano prima della sua scomparsa. E che peraltro continuavano a rimbalzare la richiesta dei tabulati telefonici di quei due tipi, l’avvocato e l’ambulante. Perché non consegnarli se erano “innocui”?
Del resto, l’indagine italiana al Cairo aveva autonomamente acquisito una testimonianza che confermava come la traccia dell’ambulante promettesse bene. Quella di Hoda Kamel, direttrice del “Egyptian Center for Economic and social rights”. Giulio le era stato raccomandato per la ricerca che stava facendo da Fatma Ramadan, docente dell’università americana al Cairo, alla quale era arrivato su segnalazione di Maah Abdelrahman, la sua tutor a Cambridge. Era stata Hoda poi a metterlo in contatto con Mohammed Abdallah. All’inizio il rapporto con l’ambulante aveva funzionato. Poi, si era complicato. Colpa di un finanziamento da 10 mila sterline, messo a disposizione dalla fondazione Antipode e destinato ai paesi in via di sviluppo, per un progetto di ricerca della cui esistenza Giulio aveva parlato ad Abdallah. Cosa che lo aveva prima ingolosito e poi gonfiato di risentimento. Quando era apparso chiaro che quel denaro non sarebbe mai potuto arrivare né a lui né al sindacato. «Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto — aveva raccontato la Kamel — Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo » . Non fosse altro perché anche la Kamel sapeva quello che al Cairo era il segreto di Pulcinella. Gli ambulanti lavorano regolarmente come informatori della Polizia e dei Servizi. Sono l’occhio e l’orecchio del Regime.
L’ispettore Alessandro Gallo aveva ormai raggiunto la scaletta dell’aereo per l’Italia e il cellulare si era messo a vibrare. Era Nicolì. «Ale, stammi a sentire, lo so che tu e i ragazzi state salendo su quel benedetto aereo, ma ora mi fate la cortesia di tornare indietro ». «Cosa?». «Gli egiziani sostengono di aver trovato gli assassini di Regeni». «Vivi o morti?».«Parlano di un conflitto a fuoco». «Immaginavo».
Una cruenta messa in scena
24 marzo, Roma, uffici dello Sco. Notte
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì guardò negli occhi Renato Cortese, il capo dello Sco. Era arrivato dal Cairo il dettaglio di quella che gli egiziani consideravano la conclusione del caso. Cinque predoni a bordo di un pulmino bianco affiancati a un semaforo durante un controllo di routine. Un accenno di reazione. Un conflitto a fuoco. La morte di tutti i sospetti. Quindi, la perquisizione nella casa di quello che si voleva fosse il capo della banda, Tarek Saad Abde El Fattah Ismail. E qui, la sorpresa: da una borsa rossa da calcio, con lo scudetto tricolore della nazionale italiana, erano saltati fuori il passaporto di Giulio Regeni, il suo badge dell’università dell’American University of Cairo, il suo bancomat, il portafoglio, degli occhiali da sole e una pallina di una sostanza marroncina. Hashish, presumibilmente.
Cortese non diede il tempo a Nicolì di parlare. «So quello che mi vuoi dire. Lo penso anche io. Nessun bandito al mondo si sognerebbe di tenere nella sua abitazione la pistola fumante, il collegamento tra lui e un caso di omicidio di cui si sta occupando tutto il mondo. Hai ragione, Vincenzo. Questa storia sta in piedi come un sacco vuoto ».
8 aprile, Procura della Repubblica di Roma, palazzina B, ufficio del sostituto procuratore Sergio Colaiocco
Nella stanza del dottor Colaiocco erano arrivati il colonnello Macilenti del Ros e Nicolì per lo Sco. Le cose si mettevano male. I due giorni di vertice con i magistrati della Procura generale del Cairo, che aveva avocato le indagini, e gli investigatori egiziani si erano risolti in un catastrofico fallimento. Il Governo aveva richiamato per consultazioni l’ambasciatore, Maurizio Massari, congelando di fatto i rapporti diplomatici tra Roma e il Cairo. Davanti a loro c’era il nulla.
«Dipende», disse Colaiocco. «Dipende da dove la vogliamo guardare». Se la si guardava partendo da ciò che mancava e che gli egiziani avevano deciso di non consegnare — tabulati telefonici, sviluppo delle celle interessate la sera del 25 dal tragitto che ragionevolmente Giulio aveva percorso prima di scomparire, i filmati dei circuiti di sorveglianza della metropolitana — non si andava da nes-suna parte. Se invece la si guardava partendo dall’unica cosa che gli egiziani avevano messo al centro del tavolo — la banda dei cinque — era possibile far rientrare dalla finestra ciò che gli apparati del Regime avevano fatto uscire dalla porta. E questo perché se — come tutto lasciava supporre — la storia della banda era una messa in scena, scoprire chi l’aveva architettata significava avvicinarsi agli assassini di Regeni, che da quel depistaggio dovevano essere coperti.
24 aprile, Il Cairo, casa di Ahmed Abdallah

Erano le tre di notte e lo svegliarono prima il rumore del calcio dei mitra battuti sulla porta di ingresso e quindi le urla di una decina di poliziotti in passamontagna che lo buttarono giù dal letto. Il professor Ahmed Abdallah di alcuni riconobbe le uniformi delle forze speciali. Di altri, in borghese, i modi tipici degli agenti della National security, il servizio segreto interno. Da due mesi la sua Ong aveva accettato la consulenza legale per la famiglia Regeni. Ora, lui, ne pagava il conto.

«Chiesi se avessero un mandato di perquisizione. Non mi risposero neppure. Mi sequestrarono il cellulare, perquisirono tutta la casa, infilarono in una borsa alcuni cd che documentavano la mia attività di ambientalista. Quindi mi trascinarono in una stazione di polizia. Qui mi mostrarono alcuni documenti, chiaramente contraffatti, che incitavano a manifestazioni di piazza contro la vendita ai sauditi delle isole di Tiran e Sanafir. Dissi: “Se volete arrestarmi per un reato specifico, contestatemelo. Ma non parlatemi di questi documenti perché non mi appartengono”» .
Gli comunicarono che era accusato di terrorismo, insurrezione e attentato alla sicurezza dello Stato. Rischiava la pena di morte. «Mi misero prima in una piccola cella con altri 12 detenuti, dove ero obbligato a stare in piedi 12 ore al giorno, con la possibilità di dormire al massimo 4 ore. Continuavo a svenire e non riuscivo a tenermi in equilibrio. Poi fui trasferito in una cella di isolamento, buia e con un buco in terra che serviva da gabinetto». L’ufficiale che quella notte aveva firmato le accuse che giustificavano il suo arresto aveva un nome che in quel momento non gli diceva nulla. Ma che molto avrebbe detto in seguito. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdalaal.

La mano del colonnello Mahmud

8 giugno, uffici dello Sco
Allo Sco e al Ros ne erano venuti a capo. Aveva ragione il dottor Colaiocco. La storia della banda era una messa in scena che portava dove gli egiziani mai avrebbero voluto. Gli esami balistici sul pulmino e quelli autoptici sui cadaveri dei suoi cinque passeggeri disposti dalla magistratura egiziana documentavano tre circostanze incontrovertibili. La prima: le cinque vittime erano state uccise con colpi esplosi a bruciapelo dietro la nuca. Incompatibili, dunque, con una qualunque dinamica di conflitto a fuoco. La seconda: tutti i colpi esplosi dalla Polizia avevano raggiunto il pulmino frontalmente. Il che era incompatibile con la dinamica che vedeva una pattuglia aver fatto fuoco durante un affiancamento. La terza: nell’abitacolo del pulmino non c’erano tracce di sangue. Dunque, i cadaveri vi erano stati trascinati.
Di più: Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, il capo della banda, il 25 gennaio non era nella zona del Cairo in cui Giulio era scomparso. Il suo telefono cellulare aveva agganciato — alle 16.00, alle 17.33 e alle 20.32 — una cella dell’area di Awlad Saqr, regione a nord della capitale egiziana.
Restava una domanda: come ci erano finiti i documenti di Giulio nella casa del bandito? Chi ce li aveva portati? Rispondere avrebbe fatto fare alla ricerca degli autori dell’omicidio di Giulio un significativo passo avanti.
Era arrivato in soccorso un testimone che aveva riferito una circostanza che neppure lui poteva immaginare così cruciale. Il giorno della perquisizione dell’abitazione di Tarek Saad Abdel Fattah Ismail, un parente del bandito aveva distintamente visto un ufficiale del Dipartimento investigazioni criminali estrarre dalla propria tasca i documenti del ragazzo italiano che sarebbero poi stati ritrovati nella borsa da calcio rossa. Quell’ufficiale aveva un nome. Il colonnello Mahmud Hendy.

Lo svelamento

9 settembre, Istituto superiore di pubblica sicurezza, via Guido Reni, Roma
Erano tornati in visita a Roma, i magistrati egiziani. Gli apparati della sicurezza del Regime erano in un angolo. Lo svelamento della macchinazione della banda dei cinque li costringeva a muovere. La Procura di Roma sapeva che la National security era dietro la messa in scena del 24 marzo. E, avendo sviluppato autonomamente i pochi tabulati ricevuti dal Cairo, era anche in grado di dimostrare che il coinquilino di Giulio, l’avvocato Mohamed El Sayed, era stato in contatto con almeno due funzionari della stessa National Security, nelle settimane che avevano preceduto la sua scomparsa.
Ce n’era abbastanza per costringerli a non arrivare a mani vuote. E infatti la procura generale del Cairo lasciò cadere sul tavolo dei colleghi italiani un lungo verbale di interrogatorio datato 10 maggio. La chiave per venire a capo del rebus. Documentava il pieno coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani e la menzogna del ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, che li aveva coperti. Dimostrava l’ultimo disperato tentativo del Cairo di sequestrare la verità. Da maggio a settembre quel verbale era rimasto in un cassetto della procura generale egiziana. Ora ne saltava fuori. Probabilmente perché il Regime non aveva più scelta. Qualche pedina andava sacrificata.
Nel verbale era raccolta la confessione di Mohammed Abdallah, l’ambulante di cui Giulio si era fidato e che lui aveva tradito. Un ex giornalista di gossip. Soprattutto, un informatore della Polizia. « Mi chiamo Mohammed Abdullah Saeed, ho 44 anni. Sono un rappresentante dei venditori ambulanti. Nel dicembre del 2015 mi ha chiamato la dottoressa Hoda Kamel per dirmi che c’era un ricercatore che doveva eseguire un dottorato sui venditori ambulanti e mi ha chiesto di incontrarci per vedere in che modo potevamo aiutarci a vicenda: era Giulio Regeni… » . Abdallah riferiva di aver incontrato Giulio almeno sette volte, tra il tardo autunno 2015 e il gennaio 2016. Per portarlo ai mercati Ramses. Per fargli toccare con mano l’oggetto della sua ricerca. Per tirarlo in trappola.
Non aveva importanza se fosse vero o meno che la decisione di tradirlo fosse stata una vendetta per il denaro della ricerca che Giulio gli aveva paventato e che aveva capito non avrebbe mai ottenuto. O, più semplicemente, perché consegnare un’asserita spia alla vigilia del 25 gennaio gli avrebbe fatto guadagnare qualche tipo di ricompensa dal Regime. Ciò che aveva importanza è quanto Abdallah raccontava fosse accaduto tra dicembre 2015 e il 6 gennaio 2016. Aveva prima denunciato Giulio come spia alla Polizia municipale, che aveva quindi trasmesso la pratica alla National security. « Il 4 gennaio venni chiamato dal mio contatto negli uffici della sede centrale del Servizio. Mi chiese di avvertirlo quando avessi rincontrato il ragazzo italiano. Lo feci il 5 gennaio. Mi diedero una telecamera e un microfono con cui registrare clandestinamente il nostro incontro » . Abdallah, del suo contatto al Servizio, ricordava il nome. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal.
“Il ragazzo è partito”
6 gennaio, Il Cairo, mercati Ramses
Il 6 gennaio, ai mercati Ramses, Giulio Regeni si offrì inconsapevole all’occhio elettronico e al microfono nascosti che lo condannavano di fronte alla paranoia della National Security. Intorno alle 22.30 di quella notte, dopo averlo salutato, Mohammed Abdallah chiamò il colonnello Sharif, il suo referente al Servizio: «Pronto Signore… Con il suo permesso vorrei essere contattato urgentemente da qualcuno per questa cosa che ho… Ho paura di spegnerla, di cancellare qualcosa… Vorrei sapere come spegnerla. Vorrei che qualcuno mi chiamasse per questa cosa qui. La spengo o la lascio accesa? Il ragazzo è appena partito».
Il 6 gennaio 2016 Giulio Regeni aveva cominciato a morire. E il Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco avevano ora in mano il bandolo della matassa.
Epilogo

13 marzo 2017, Roma, Piazzale Clodio, Uffici della Procura della Repubblica

Sergio Colaiocco rilesse un’ultima volta il testo della rogatoria che si preparava a notificare alla procura generale del Cairo. Gli uomini del team investigativo si erano avvicendati. E allo Sco era arrivato dalla mobile di Bari un altro sbirro di lungo corso, Luigi Rinella. Il risultato del lavoro non cambiava. Anzi, rafforzava il quadro di sistematico depistaggio della ricerca della verità da parte di appartenenti degli apparati di sicurezza del Regime. Gli ultimi accertamenti tecnici dell’inchiesta italiana documentavano, infatti, attraverso lo sviluppo dei tabulati di almeno una decina tra ufficiali e sottoufficiali del Servizio segreto, che la mano della National security era intervenuta in tutti i capitoli di quella storia.
La National Security aveva arruolato Mohammed Abdallah per incastrare Giulio Regeni. E cinque erano stati i referenti dell’ambulante nel quartier generale del Servizio, a Nasr City. Per giunta, uno di loro era il colonnello Osam Helmy, lo stesso ufficiale che un anno prima aveva accolto la squadra investigativa italiana arrivata al Cairo negando che l’intelligence egiziana avesse mai avuto a che fare con il ricercatore italiano.
La National Security era entrata nella casa di Giulio agganciando il coinquilino di cui lui si fidava. E non era avventuroso immaginare che se qualcuno la sera del 25 aveva avvisato il Servizio del momento in cui era uscito di casa, quello non potesse che essere il giovane avvocato Mohammed El Sayed. La National Security aveva partecipato alla messa in scena del 24 marzo. I due gruppi di ufficiali del Servizio, responsabili del depistaggio e dei rapporti con l’ambulante Abdallah, erano stati costantemente in contatto tra loro, come ora documentavano i tabulati telefonici consegnati dalla procura generale del Cairo e sviluppati dall’inchiesta italiana.
Le indagini difensive dell’avvocato Alessandra Ballerini avevano svelato tre ulteriori dettagli. A loro modo cruciali. Il primo: il colonnello della National Security Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal, che aveva coordinato l’operazione di spionaggio su Giulio, era lo stesso che aveva falsamente accusato e arrestato Ahmed Abdallah, il consulente della famiglia Regeni. Il secondo: lo stesso Sharif aveva agganciato nelle settimane precedenti la scomparsa amici egiziani di Giulio di cui Giulio si era fidato.
Il terzo: era stato il colonnello Mahmud Hendy l’ufficiale che aveva collocato i documenti di Giulio nella casa del capo della banda dei cinque eliminati il 24 marzo.
Si poteva dunque tirare finalmente una riga.
« Questo ufficio, alla luce delle risultanze sin qui acquisite, ritiene che Giulio Regeni, denunciato da Mohammed Abdallah prima del dicembre 2015, sia stato oggetto di accertamenti, per un non breve periodo, ad opera di ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani. Questi ultimi, nel ricostruire le indagini effettuate, hanno riferito, tra molte reticenze, fatti non conformi al vero. Orbene, il perimetro investigativo che conduce ad apparati pubblici, rafforzato dagli accertati rapporti tra coloro che hanno rinvenuto i documenti di Regeni e coloro che lo avevano attenzionato nel gennaio precedente, appare non in contrasto con la circostanza che i soggetti responsabili dei fatti dovevano disporre di un luogo di detenzione dove Giulio Regeni è rimasto sequestrato almeno una settimana e che detto luogo doveva avere una doppia caratteristica: essere idoneo alle torture che sono state riscontrate e che tali torture fossero inflitte senza che terzi estranei ne venissero a conoscenza» .
C’erano voluti 14 mesi per poter mettere nero su bianco in un documento ufficiale le prove che inchiodavano alle loro responsabilità gli apparati del Regime. E che interpellavano i suoi due uomini forti: il ministero dell’Interno, Ghaffar, il Presidente Al Sisi.
Il muro di sabbia cominciava a sbriciolarsi.
*** In Egitto continuano a scomparire non meno di due innocenti al giorno.

Articoli di Emma Mancini, di Amnesty International Italia, di Giovanni Bianconi, Ivan Cimmarusti, da il manifesto, corriere della sera, Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2017

il manifesto
L’ULTIMO TRUCCO DI AL-SISI:
STRINGERE IL CERCHIO SU ABDALLAH
di Emma Mancini

«Caso Regeni. Spunta il video girato dal capo del sindacato ambulanti: Giulio rifiuta di dargli denaro. La vendetta come movente: lo show del Cairo scorda i depistaggi di polizia e governo»

Fuori è già buio: il volto di Giulio Regeni occupa lo schermo della microcamera nascosta addosso a Mohammed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani. È il tardo pomeriggio del 6 gennaio, luogo dell’incontro è il mercato di Ahmed Helmy al Cairo.

Per la prima volta sentiamo la voce di Giulio, lo vediamo gesticolare mentre cerca di frenare l’arroganza dell’uomo che – dicendosi poi orgoglioso di averlo fatto – lo ha denunciato alla polizia egiziana come spia. Anche stavolta, però, nel nuovo tassello dell’intricato puzzle di depistaggi egiziani c’è qualcosa che non va.

Il video, secondo gli esperti e gli investigatori italiani, è stato girato con una minicamera in dotazione alle forze di sicurezza. È appuntata sul vestito di Abdallah e riesce a riprendere per due ore, un tempo troppo lungo per un normale telefono.

Eppure, a settembre il procurato generale del Cairo Sadek riferì alla Procura di Roma che la polizia indagò per soli tre giorni su Giulio (su segnalazione di Abdallah) a partire dal 7 gennaio. I conti non tornano.

In un articolo dell’8 dicembre il manifesto riportava i dubbi mossi da una fonte della Procura di Roma: gli inquirenti avevano visionato il video e già ritenevano possibile il coinvolgimento della polizia.

In secondo luogo il video, più che mettere in cattiva luce o generare sospetti sul giovane ricercatore italiano, svela lo spirito di corruzione che muove il capo del sindacato: è Abdallah che insiste per avere denaro per sé e la famiglia, è Giulio che lo respinge fermamente.

«Non posso usare soldi per nessuno motivo, sono un accademico – dice Giulio – Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca. E mi interessa che voi come venditori ambulanti fruiate del denaro in modo ufficiale».

Regeni continua: per poter avere fondi dalla britannica Antipode Foundation, serve un progetto chiaro, «idee e informazioni prima del mese di marzo» sul sindacato e sulle sue «necessità». Informazioni per un progetto di sviluppo e non per intelligence straniere.

Per questo l’uscita del video proprio in questo momento, a due giorni dal sesto anniversario di piazza Tahrir e ad uno dalla scomparsa di Giulio, il giorno dopo il via libera egiziano agli investigatori italiani a visionare (dopo un anno di dinieghi) le immagini delle telecamere di sorveglianza nella zona di Dokki al Cairo, sembra voler stringere il cerchio.

Non tanto sulla polizia, quanto su Abdallah, che viene dipinto come l’istigatore delle indagini, per mera vendetta o perché a caccia di credibilità all’interno dei servizi segreti. Riportava ieri Agenzia Nova sulla base di fonti citate dal sito Veto Gate – che le immagini sarebbero state rese pubbliche su ordine specifico dello stesso Sadek.

Non a caso domenica l’agenzia di Stato egiziana Mena, dando notizia della consegna dei video delle telecamere di sorveglianza, ripeteva che dopo tre giorni di indagini la polizia si disinteressò a Regeni perché non rappresentava una minaccia. Dimenticando di citare, però, l’ultima chiamata di Abdallah a Giulio, il 22 gennaio, prontamente girata alla Sicurezza Nazionale.

È ovvio che il regime del presidente-golpista al-Sisi stia tentando ancora una volta di allontanare da sé le responsabilità politiche dell’omicidio di Regeni, mandando in prima linea Abdallah e qualche poliziotto mela marcia che lo avrebbe aiutato nella vendetta.

Ma alcuni pezzi del puzzle non possono essere cancellati, a partire dai primi depistaggi fino alla strage di 5 egiziani incolpati della morte di Giulio e al teatrino del ritrovamento dei suoi documenti in casa della famiglia di uno di loro. Ma soprattutto i segni inconfutabili delle torture sul suo corpo.

il manifesto
VERITA' PER GIULIO,
DOMANI IL GIORNO DELLA MOBILITAZIONE
di Amnesty International Italia

Mercoledì 25 gennaio sarà trascorso un anno esatto dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo. Nonostante siano passati 365 giorni, la verità è ancora lontana. Per continuare a chiedere «Verità per Giulio Regeni» Amnesty International Italia ha organizzato una giornata di solidarietà e mobilitazione.

L’appuntamento principale è all’Università La Sapienza di Roma: la manifestazione negli spazi esterni alle spalle del Rettorato (o in caso di maltempo nell’aula T1 della facoltà di Giurisprudenza, piazzale Aldo Moro 5) si aprirà alle 12,30 con il saluto del Rettore, prof. Eugenio Gaudio.

Interverranno Stefano Catucci, del Senato Accademico Sapienza; Antonio Marchesi, presidente Amnesty Italia; Patrizio Gonnella, presidente Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili; Giuseppe Giulietti, presidente Federazione nazionale della stampa italiana; Carlo Bonini, giornalista de La Repubblica.

Nel corso della manifestazione lo scrittore Erri de Luca e gli attori Arianna Mattioli e Andrea Paolotti leggeranno estratti dei diari di viaggio di Giulio Regeni. Interverranno, in collegamento telefonico, i suoi genitori. I partecipanti mostreranno cartelli col volto di Giulio Regeni e numeri da 1 a 365, l’anno trascorso in assenza della verità.
Le adesioni:

A buon diritto, ARCI, Articolo21, Antigone, Associazione Amici di Roberto Morrione, Associazione Italiana Turismo Responsabile, AOI – Associazione delle Organizzazioni Italiane di Cooperazione e Solidarietà Internazionale, Associazione Stefano Cucchi Onlus, Associazione Studentesca «Sapienza in Movimento», CGIL – Area delle politiche europee e internazionali, Cild, Cittadinanzattiva, Conversazioni sul futuro, Coordinamento della Rete della Pace, Cospe, CPS, Focsiv, FNSI – Federazione nazionale della stampa italiana, Iran Human Rights Italia, il manifesto, Italians for Darfur, la Repubblica, Legambiente, LINK-Coordinamento Universitario”, Nexus Emilia Romagna, #NOBAVAGLIO pressing, Radio Popolare, Rai Radio 3, Un ponte per…

La sera a Roma (a San Lorenzo in Lucina, da confermare), Brescia, Bergamo, Rovigo, Pesaro, Pescara, Bologna e Trento verranno accese delle fiaccole alle 19.41, l’ora in cui Giulio uscì per l’ultima volta dalla sua abitazione.

corriere della sera
SPUNTA UN VIDEO SEGRETO DI REGENILA PROVA DEL DEPISTAGGIO EGIZIANO
di Giovanni Bianconi

«Giulio appare come una persona specchiata che aveva solo scopi di ricerca».


Roma. Il video girato di nascosto dall’ex capo del sindacato autonomo dei venditori ambulanti, Mohamed Abdallah, durante un colloquio con Giulio Regeni, diventa un’altra prova delle bugie della polizia egiziana e dei depistaggi messi in atto per occultare la verità su quanto accadde un anno fa al Cairo. È la dimostrazione che le comunicazioni delle forze di sicurezza alla magistratura egiziana, trasmesse dal procuratore generale della Repubblica araba Nabel Sadek al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al sostituto Sergio Colaiocco, erano false.

Avevano detto che Abdallah, che prima s’era mostrato amico di Giulio e poi l’ha tradito dopo aver capito di non poter mettere le mani sui soldi che il ragazzo voleva chiedere per finanziare la sua ricerca e il sindacato, aveva denunciato Regeni il 7 gennaio 2016; che gli accertamenti della National Security durarono solo tre giorni, e già il 10 gennaio era cessato ogni interesse per l’italiano che si occupava dei problemi degli ambulanti. Questa seconda affermazione s’era già dimostrata non vera, visto che dai tabulati telefonici emergevano contatti tra Abdallah e gli agenti egiziani fino al 22 gennaio. Ora cade anche la prima, perché il filmato del colloquio risale al 6 gennaio, e Abdallah l’ha realizzato con un’apparecchiatura sofisticata fornitagli dagli stessi poliziotti; l’ha detto lui, e si capisce dalla qualità delle immagini e dall’inconsapevolezza di Giulio di essere ripreso mentre parla. Niente a che vedere con l’utilizzazione di un telefonino di cui ha parlato la polizia del Cairo.

Dunque l’attenzione degli investigatori egiziani per il ricercatore dell’università di Cambridge cominciò almeno due giorni prima di quanto ammesso finora, e proseguì fino alla vigilia del sequestro di Regeni, scomparso dopo essere uscito di casa per andare a un appuntamento e rapito non davanti all’abitazione, bensì due fermate di metropolitana più avanti. Era il 25 gennaio di un anno fa, giorno delle manifestazioni per celebrare la rivolta di piazza Tahir, anniversario citato nel colloquio tra Giulio e Abdallah. Il sindacalista chiedeva soldi prima di quel giorno, ma lui — che stava cercando di ottenere un finanziamento di 10.000 sterline dalla britannica Antipode Foundation — gli aveva fatto capire che non sarebbe stato possibile.

La magistratura egiziana ha già individuato, e comunicato ai pubblici ministeri romani, i nomi di sette appartenenti alla Polizia municipale (due) e alla National Security (cinque) che hanno avuto a che fare con gli accertamenti su Regeni e con l’invenzione della falsa pista dei criminali comuni, uccisi e indicati come responsabili del sequestro e dell’omicidio di Giulio.

Può essere che il video diffuso ieri in Egitto sia stato reso pubblico con l’intento di sviare l’attenzione dalle indagini avviate su queste persone (alcune già interrogate), e dimostrare che Regeni fosse una spia al servizio di chissà chi, o comunque una persona ambigua. Invece emerge una realtà ben diversa.

Giulio appare per quello che era, una persona specchiata che non aveva altri scopi se non quelli di proseguire la sua ricerca. È ciò che dice esplicitamente al sindacalista: «Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca-progetto. Il mio interesse è questo. E mi interessa che voi fruiate del denaro in modo ufficiale, come previsto dal progetto e dai britannici». Ma Abdallah voleva quei soldi per sé, cercava «una scappatoia per poterli usare a fini personali», e Giulio scrisse sul computer che era una «miseria umana». Poi cominciò l’indagine della polizia.


Il Sole 24 Ore
REGENI,L'ULTIMO VIDEO PRIMA DELLA MORTE
di Ivan Cimmarusti


«Omicidio al Cairo. Nel filmato il ricercatore respinge la richiesta di denaro da parte del capo degli ambulantiRegeni, l’ultimo video prima della morte»

Ripreso con una microcamera dal sindacalista che lo denunciò ai servizi egiziani
Venduto ai servizi segreti egiziani per ciò che in realtà non era: una spia britannica. Il capo del sindacato indipendente Mohamed Abdallah controllava Giulio Regeni per conto della National Security e lo riprendeva con telecamere abilmente nascoste tra i vestiti per incastrarlo. Il particolare è stato rivelato dallo stesso sindacalista in un verbale d’interrogatorio alla Procura generale cairota.

Questo c’è dietro il video diffuso ieri dalla televisione di Stato egiziana, in cui si vede Abdallah che chiede con insistenza le 10mila sterline che il ricercatore di Udine attendeva dalla fondazione inglese Antipode, che stava finanziando uno suo studio sui sindacati egiziani. Giulio non ci sta: quei soldi hanno uno scopo didattico. Quella fermezza di Abdallah nel volersi impossessare del denaro, però, nasconderebbe una precisa strategia del servizio segreto civile cairota, che aveva schedato Giulio come una spia straniera. Ma andiamo con ordine. Il video, della durata di circa due ore, è finito già da tempo sulla scrivania del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco. Sono i particolari a fare la differenza: la registrazione è fatta con un apparato di evidente qualità, ben posizionato e nascosto tra i vestiti del sindacalista. Attivato tempo prima dell’incontro, segno che Abdallah non era nelle condizioni di controllarlo direttamente.

L’incontro avviene pochi giorni prima del 25 gennaio 2016, data della scomparsa di Giulio e anniversario della rivoluzione egiziana del 2011. Nello spezzone andato in onda si sente la voce di Abdallah dire «mia moglie ha il cancro e deve subire un’operazione e io devo cercare denaro, non importa dove». Regeni gli replica: «Il denaro non è mio. Non posso usare i soldi per nessun motivo perché sono un accademico e sulle relazioni all’istituto britannico non posso scrivere che voglio utilizzare questo denaro a titolo personale. Impossibile, se succede è un gran problema per me».

Aggiunge che «i soldi non arrivano attraverso “Giulio” ma attraverso la Gran Bretagna e il Centro egiziano che lo dà agli ambulanti». Alle insistenze di Abdallah, Regeni ribatte comunque che «ci saranno molti progetti ai quali parteciperanno tutti i paesi del mondo» e che quindi «bisogna cercare di avere idee e ottenere informazioni prima del mese di marzo» su «quali sono i bisogni del sindacato», anche a livello di «soldi». Anche se quest’ultima parola non è chiara, si conferma che Regeni stava proponendo un finanziamento di 10mila sterline a favore delle iniziative del sindacato, nuovo, ufficioso e inviso alle autorità.

Un incontro che, sostanzialmente, ha segnato la condanna a morte del povero studioso italiano. I rapporti di Abdallah con il servizio segreto civile sono continui e serrati. Dagli uffici della National security, infatti, partono telefonate verso l’utenza del sindacalista l’8, l’11 e il 14 gennaio. Altre telefonate, invece, le fa lo stesso Abdallah verso funzionari del servizio segreto egiziano.

Comunicazioni in cui si sarebbe parlato proprio di Regeni e di quel denaro di provenienza britannica che voleva devolvere al sindacato indipendente. Il 25 gennaio successivo è la principale ricorrenza in Egitto: l’anniversario della rivoluzione del 2011. Regeni è sotto controllo, anche se una indagine «formale» delle autorità egiziane era stata già chiusa.

Quel giorno deve incontrare il docente italiano al Cairo Gennaro Gervasio, per andare a una cena di compleanno del professore Kashek Hassamein, noto per la sua opposizione al governo di Al Sisi. A quell’appuntamento Giulio non arriverà mai.

Il suo corpo sarà ritrovato il 3 febbraio successivo sull’autostrada che collega il Cairo con Alessandra d’Egitto. L’esame autoptico della salma ha confermato le violenze inflitte al ricercatore, barbarie che portavano la firma «di un professionista della tortura», come era spiegato nella perizia depositata ai magistrati della Procura di Roma. Ora non resta che attendere gli esiti delle consulenze sulle videocamere di sorveglianza della metro del Cairo, dove con tutta probabilità potrebbero essere immortalate le immagini dei carnefici di Giulio.

Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2016 (p.d.)

Nella fiaba Pollicino lascia dietro di sé le briciole di pane per ritrovare la strada verso casa. Nella realtà, tragica, del caso Regeni, la verità raccoglie le briciole, passo dopo passo, senza mai arrivare alla meta finale.

Le dichiarazioni spontanee di Mohamed Abdallah, leader del sindacato egiziano degli ambulanti, rappresentano una delle tante briciole, insufficienti per arrivare alla verità: dare volti e nomi ai responsabili, mandanti ed esecutori materiali, del brutale assassinio di Giulio Regeni. Tanto clamore per le parole di Abdallah, quando, alla prova dei fatti, il suo ruolo nella vicenda era chiaro e la Procura di Roma ne era a conoscenza dal 9 settembre scorso: “È stato Mohamed Abdallah a vendere Giulio alla polizia. Lui stesso ha ribadito che Regeni era una spia e che gli avrebbe chiesto delle ‘informazioni’. Lui è sempre stato convinto che Giulio fosse una spia e come tale l’ha venduto”. È il sunto dell’intervista rilasciata al Fatto da Hoda Kamel, ricercatrice egiziana e amica di Giulio Regeni, alla fine dello scorso aprile. Una briciola importante nel cammino verso la ricerca della verità, confermata dalle parole del procuratore del Cairo, Nabil Sadek, in occasione delle ultime ‘visite di cortesia’ ai colleghi romani e ai genitori del ricercatore friulano.

Sadek aveva confermato il ruolo di Abdallah nella vicenda, ma soprattutto che la polizia aveva ‘attenzionato’ Regeni nei giorni immediatamente precedenti alla scomparsa, la sera del 25 gennaio 2015. Abdallah mercoledì scorso ha rilasciato una intervista alla versione araba dello Huffington Post, i contenuti sono stati ripresi in Italia dall’Espresso: “Regeni interrogava i venditori su questioni che riguardavano la sicurezza nazionale. Chiunque al mio posto avrebbe avvisato le autorità, sono orgoglioso di averlo denunciato. Ho registrato l’ultima telefonata con lui, il 22 gennaio, e l’ho spedita agli Interni”.

Le briciole, necessarie dopo tanto fumo. Depistaggi fantasiosi, a volte irritanti, come nel caso in cui lo studente dell’Università di Cambridge era stato ritenuto un omosessuale e un drogato, quasi che queste condizioni potessero giustificarne la morte. E poi la “sparatoria” con una banda di rapinatori che si conclude con una intera famiglia egiziana sterminata, indicata dalla polizia come responsabile della morte di Regeni, dopo il ritrovamento dei suoi documenti nella casa dei sospettati.

Dopo le false verità messe in scena dall’Egitto di al-Sisi, il cambio di atteggiamento, le visite, reciproche, degli inquirenti, le parziali ammissioni delle autorità del Cairo a proposito dello scenario di fondo. Tentativi di normalizzazione, compresa la presenza del ministro del turismo alla Fiera di Rimini per il rilancio del settore e dei collegamenti aerei; oppure l’arrivo al Cairo, a gennaio, del nuovo ambasciatore italiano, Giampaolo Cantini. Colpi di spugna, tentativi di normalizzare i rapporti tra due Stati, amici di interessi. Le parole del nuovo premier ed ex ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, nella conferenza stampa di fine anno sul caso Regeni, aggiungono poco: “C’è una strada che il governo italiano ha cercato di seguire, della fermezza e della collaborazione – ha detto l’ex responsabile della Farnesina –questa è la linea che abbiamo introdotto con l’Egitto”.

Intanto si avvicina il primo anniversario dalla scomparsa di Giulio Regeni, avvenuta in una giornata particolare per l’Egitto: il quinto anniversario dalla rivoluzione di piazza Tahrir, quella che ha prodotto un terremoto istituzionale senza precedenti, portando alla caduta di Hosni Mubarak e alla successiva presa del potere della Fratellanza Musulmana. Giulio era stato tutto il giorno nel suo appartamento, uscendo intorno alle 20 dalla stanza al civico 8 di via Yanbo, nel quartiere di Doqqi, sulla rive ovest del Nilo. Quattrocento metri a piedi per raggiungere la stazione della metropolitana di Bohooth. Alla quarta fermata del convoglio, Naguib, Giulio è sceso, con l’obiettivo di tornare nei pressi di piazza Tahrir, a Bab al-Louq. Obbligato a farlo, visto che la fermata centrale quel giorno era stata chiusa dalla polizia per motivi di sicurezza. Regeni doveva incontrare un amico italiano e assieme a lui raggiungere l’abitazione di un docente di sociologia e criminologia che li stava aspettando. Da Naguib dl ricercatore si sono perse le sue tracce. Il suo cellulare è tornato attivo per qualche minuto il 26 gennaio, per poi non riaccendersi più. Gli otto giorni successivi sono stati carichi di ansia, fino a quando i passeggeri di un minivan diretto ad Alessandria, costretti a una sosta, non si sono accorti di quel cadavere in un fosso.

«Lo scopo? Archiviare il dossier sulla morte di Giulio Regeni che - per gli anonimi politici egiziani - sarebbero costati al Cairo diversi incidenti diplomatici non solo con Roma, ma anche con altri paesi europei».

La Repubblica, 18 settembre 2016 (m.p.r.)

Roma. Un alto ufficiale della polizia di Giza potrebbe essere il primo imputato in un eventuale processo egiziano sul caso Regeni. L’indiscrezione è pubblicata su Al Arabi al Jadid, quotidiano panarabo, che cita, come fonte, le rivelazioni fatte da alcuni politici egiziani decisi a restare anonimi. Al funzionario della polizia, stando a quanto sostiene il giornale che ha sede a Londra, verrebbe mossa l’accusa di coinvolgimento nelle torture e nell’uccisione del giovane ricercatore italiano. Ma ci sarebbe di più. L’Egitto vorrebbe anche svelare il nome del presunto imputato.

Lo scopo? Archiviare il dossier sulla morte di Giulio Regeni che - per gli anonimi politici egiziani - sarebbero costati al Cairo diversi incidenti diplomatici non solo con Roma, ma anche con altri paesi europei. L’ultimo caso risale al G20 di Hangzhou, in Cina, quando molti leader europei hanno rifiutato incontri bilaterali con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi proprio per il caso Regeni. In poche parole: allontanare le ipotesi di un nuovo depistaggio.

La Repubblica, 11 settembre 2016

La ricerca della verità sul sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni riparte dall’uomo che lo ha tradito vendendolo per quel che non era: una spia. Da Mohamed Abdallah, questo il suo nome. Un sindacalista, si fa per dire. Quello che da ieri, alla Rai e su alcuni siti egiziani, posa a innocente, giurando di non aver mai denunciato Giulio. Di non sapere nulla dell’esposto del 7 gennaio di quest’anno da cui — per quanto ne ha riferito la Procura generale del Cairo alla Procura di Roma — sarebbero partite le indagini della Polizia di Gyza. L’uomo di cui Giulio annota sul computer gli incontri tre volte, traendone una conclusione che suona come un presagio. «Mohamed è una miseria umana».

In questi sette mesi, la vita di Mohamed Abdallah è cambiata. Oggi è vicino a una sigla sindacale filo governativa. Un salto rispetto a quando Giulio lo conobbe senza poter immaginare che quel signore, avido e con un passato da giornalista di gossip, dai modi spicci e carismatici, è un informatore degli apparati egiziani. Abdallah viene presentato a Giulio il 13 ottobre del 2015 negli uffici del Egyptian Center for Economic and social rights da Hoda Kamel, ricercatrice egiziana che in quel Centro lavora e che di Giulio al Cairo è bussola accademica. È l’inizio di una relazione catastrofica, di cui Giulio terrà in parte nota nel suo computer e che l’infido Abdallah, nel febbraio di quest’anno, racconterà a Repubblica con parole di cui oggi è possibile apprezzare l’untuosa falsità. Dice: «Ho incontrato Giulio tre, quattro, forse sei volte in tutto. Fino a quando lui non mi parlò di soldi che potevo avere se lo aiutavo nella sua ricerca. Allora decisi di non volerlo vedere più e anzi compresi di aver fatto male a parlargli, perché questo avrebbe potuto mettere in difficoltà sia il sottoscritto che lui».

È una manipolazione grossolana, svelata a posteriori non solo da quel che a Giulio accadrà, ma da quanto lui stesso annota nel suo computer in tre file, ora agli atti della Procura di Roma. Il primo, datato 13 ottobre 2015, risale proprio al primo incontro negli uffici dell’Egyptian Center for Economic and Social rights, ed è la lunga trascrizione in inglese (12 cartelle) dell’intervista in lingua araba sui temi dei sindacati indipendenti. Il secondo è di sette settimane più tardi, 8 dicembre. Abdallah ha dato appuntamento a Giulio nel quartiere Ramsis per un incontro con gli ambulanti. Scrive Giulio nel suo pc al termine di quella giornata: «Oggi mi sono reso conto di quanto Mohamed sia riconosciuto come leader dalla comunità degli ambulanti».

È ragionevole pensare infatti che in questo momento Giulio sia ancora convinto della possibilità di finanziare una ricerca specifica sul sindacato di Abdallah attingendo alle 10 mila sterline della borsa messa a disposizione dalla fondazione inglese Antipode. L’idea, tuttavia, tramonta rapidamente. Non appena Giulio viene a conoscenza del divieto in Egitto di finanziare sindacati o partiti in qualsiasi forma. Tanto che il ragazzo ne parla con Abdallah il 18 di quel mese di dicembre. Il colloquio tra i due, per quel che se ne ricava dall’appunto sul pc, è tutt’altro che edificante. Abdallah chiede brutalmente quanto ci sia per lui delle 10 mila sterline. Giulio replica che non se ne farà nulla. La sera scrive: «Pensavo che la sua disponibilità fosse per far del bene al sindacato. Non è così. Mohamed è una miseria umana».

In quella fine del 2015, aver troncato i rapporti con Abdallah non sembra preoccupare Giulio. O almeno così sostiene Hoda Kamel che di quel rapporto era stata in qualche modo l’ispiratrice. E tuttavia, intervistata da Repubblica al Cairo nel marzo scorso, è proprio lei a immaginare un ruolo di Abdallah nella fine che attende Giulio. Era dunque mosso dalla sua “miseria umana” Mohamed Abdallah quando il 7 gennaio di quest’anno si presenta in una caserma della Polizia avviando di fatto il conto alla rovescia che porterà Giulio alla morte. Ed è ragionevole pensare che, l’11 dicembre, quando Giulio sarà fotografato in un’assemblea dei sindacati da una ragazza, quella foto sia scattata non dagli apparati ma da qualche militante perché la “spia” potesse essere più agevolmente individuata dalla Polizia alla quale la si stava per consegnare.

Vedremo nelle prossime settimane come camminerà l’inchiesta egiziana. Un fatto è certo. L’aria è cambiata. Ieri è stato scarcerato il Presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, nonché consulente della famiglia di Giulio Regeni, Ahmed Abdallah. E, a fine mese i magistrati egiziani saranno di nuovo a Roma, dove vedranno per la prima volta la famiglia Regeni, che ha accettato l’incontro rassicurati del fatto che non si tratterà di una presa in giro. Non è peregrino immaginare che la Procura Generale del Cairo si presenterà ai Regeni non solo con parole di circostanza.

Da

il manifesto riprendiamo la petizione promossa da A Buon diritto, Amnesty international Italia, Antigone, Cild e la famiglia Regeni e diretta al premier Renzi: «Caso Regeni: l’ambasciatore italiano non deve tornare in Egitto». Lanciata il 3 settembre su Change.org, ha già raccolto quasi 14mila firma su 15mila. 10 settembre 2016

Tra pochi giorni, il 3 settembre, saranno trascorsi sette mesi dalla tragica morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ventottenne rapito, torturato e ucciso al Cairo. In un’intervista rilasciata a Riccardo Iacona (Presa diretta, lunedì 29 agosto) la madre, Paola Regeni, ha affermato: “È importante che il nuovo ambasciatore Cantini non scenda al Cairo: non dobbiamo dare questa immagine distensiva”.

Condividiamo la sua preoccupazione. Il ritorno in Egitto del nostro ambasciatore, infatti, sarebbe inteso dalle autorità egiziane come un segnale della volontà di ristabilire normali rapporti politico-diplomatici tra i due Paesi. Riteniamo che ciò sarebbe assai inopportuno, tanto più alla vigilia dell’incontro tra gli investigatori italiani e quelli egiziani, previsto per l’8 e 9 settembre.

Lo scorso 8 aprile il governo ha richiamato a Roma l’ambasciatore italiano in Egitto, Maurizio Massari “per consultazioni”. Poi, nelle settimane successive, Massari è stato destinato ad altro incarico e sostituito da Giampaolo Cantini. Ma quest’ultimo non ha ancora preso servizio presso l’ambasciata italiana al Cairo e resta, per così dire, “richiamato” in Italia senza che ancora sia stato chiesto al governo egiziano il “gradimento” sul suo nome.

Noi pensiamo che così la situazione debba rimanere per ora. E che il richiamo in Italia dell’ambasciatore rappresenti un primo ed elementare provvedimento da cui non recedere: e da rafforzare, piuttosto, con altre e più incisive misure. Insomma, non può essere consentita una sorta di “distensione” tra i due Paesi dal momento che, da parte delle istituzioni politiche e giudiziarie egiziane, nulla è stato fatto per far progredire la ricerca della verità sull’assassinio del nostro connazionale.

Di conseguenza, il richiamo dell’ambasciatore va inteso come premessa di altre iniziative di pressione democratica nei confronti del regime egiziano. Perché, questo è il punto, il governo italiano finora non ha assunto alcun altro provvedimento efficace: e dalle autorità egiziane sono giunte oltraggiose e false affermazioni, ostinati silenzi e vere e proprie forme di depistaggio.

Dunque, senza risposte adeguate e veritiere e senza atti di concreta cooperazione con le istituzioni italiane, non ha alcun senso che l’ambasciatore Cantini si insedi nell’ambasciata italiana al Cairo.

Luigi Manconi, Presidente di A Buon diritto
Antonio Marchesi, Presidente di Amnesty international Italia
Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone e di Cild – Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili
I genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni
L’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini

Un gesto rivelatore dell'animus del renzismo: dovrebbe aiutare gli italiani ad aprire gli occhi. Si fa finta di minacciare chi ha torturato e assassinato Giulio Regeni, ma non si rinuncia affatto ad armare il governo torturatore ed assassino, per non turbare il business dei mercanti di morte. La Repubblica, 30 giugno 2016

La questione è di forma, visto che dei pezzi di ricambio in questione il mercato è pieno. Però il Senato (nonostante la mancata presa di posizione del governo, che si è rimesso all’aula)ha deciso di mandare all’Egitto un segnale di sostanza sul caso Regeni: l’aula ha ieri approvato l’emendamento al decreto al “decreto legge missioni”, che prevede la sospensione all’Egitto della fornitura di pezzi di ricambio per gli F-16: 159 voti favorevoli, 55 contrari e 17 astenuti. «Non è un atto ostile ma il nostro Paese ha titolo diritto a continuare a tenere sotto pressione l’opinione pubblica e anche l’Egitto» ha detto in aula il relatore del Pd, Gian Carlo Sangalli. In realtà la presa di posizione non creerà problemi pratici: l’Italia ha dagli anni ‘90 pezzi di ricambio di vecchi F16 che, praticamente, non hanno valore commerciale. E lo scorso anno si era deciso di regalarli all’Egitto, seppur nessun pezzo era mai partito. Nessun mistero, anche perché il ministro Pinotti ne aveva parlato in commissione Difesa. Ieri la decisione dell’Aula che, a parte la questione diplomatica, darà poche ripercussioni all’Egitto: pezzi di ricambio di quel tipo sono disponibili, a prezzi molto concorrenziali, sul mercato. Discorso però è l’impatto politico della cosa. Tant’è che ieri il centrodestra è insorto. «Stiamo scrivendo una delle peggiori pagine della storia di quest’Aula”, ha detto il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani. E il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri ha sottolineato: «Con quegli aerei combattono l’Is».

Quella della sospensioni delle forniture militari era stata una richiesta esplicita della famiglia Regeni, l’ultima volta quando avevano visitato il Parlamento europeo. «Ma questo è un atto poco più che simbolico» dice il portavoce di Amnesty, Riccardo Noury. «Ma è comunque una presa di posizione importante del parlamento. Noi però continuiamo a chiedere al governo la sospensione di tutte le forniture di armi all’Egitto, cosa ben diversa rispetto a questo stop».

Qualcosa però il governo ha fatto rispetto alle altre richieste della famiglia Regeni. La storia di Giulio è apparsa infatti da qualche giorno sul sito della Farnesina “Viaggiare sicuri”: fino alla scorsa settimana, la storia di Giulio non era nemmeno citata. «Ora è importante — ha detto la famiglia nei giorni scorsi — che l’Egitto venga indicato nell’elenco dei Paesi non sicuri».

I Regeni hanno presentato all'europarlamento un elenco di misure che i paesi potrebbero prendere: il richiamo degli ambasciatori degli Stati membri, la dichiarazione dell’Egitto come Paese non sicuro; la sospensione degli accordi di fornitura di armi, apparati bellici o per lo spionaggio e la repressione interna; la sospensione degli accordi economici, ... .

La Repubblica, 16 giugno 2016 (m.p.r.)

Roma. Aumentare «la pressione sull’Egitto» da parte dell’Italia ma anche di tutti i paesi dell’Unione Europea. «Ritirate anche voi l’ambasciatore». È questo il messaggio che ieri Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, hanno lanciato da Bruxelles, parlando alla sottocommissione per i diritti dell’uomo del Parlamento europeo. «Bruxelles e Roma facciano di più per aumentare la pressione sull’Egitto, arrivando anche all’isolamento diplomatico ed economico, pur di ottenere la verità sulla morte di Giulio », hanno detto. Spiegando cosa si aspettano dal governo italiano e dagli altri paesi dell’Unione. «Non ho ancora capito - ha detto la signora Paola - se l’Italia è ancora amica dell’Egitto e se l’Europa intrattenga ancora relazioni amichevoli con il Cairo. Noi speriamo - hanno ribadito che oggi possa iniziare una nuova fase: basta commemorazioni, servono azioni».

È ormai chiaro a tutti che la collaborazione del Cairo sia soltanto sulla carta. Gli investigatori hanno messo nero su bianco il tentativo di depistaggio, con la morte di una banda di cinque cittadini egiziani accusati della morte di Giulio. I documenti del ricercatore italiano furono trovati a casa di uno del gruppo. Peccato però, si è scoperto oggi, che l’uomo non fosse nemmeno al Cairo il giorno della scomparsa di Regeni e che nei verbali fatti arrivare in Italia ci sia un lungo elenco di falsi. «Non c’è collaborazione da parte dell’Egitto, non collabora con la nostra procura, che ringrazio e che pensa a Giulio giorno e notte», ha detto la signora Paola. «L’Egitto - ha continuato - non sta collaborando con l’Italia e con l’Europa, perché l’Italia è in Europa, quindi chiediamo forte pressione collettiva. Per ora abbiamo solo carta straccia, solo testimonianza false, per questo non possiamo trovare la verità».
I Regeni, al Cairo insieme con l’avvocato Alessandra Ballerini, hanno presentato un elenco di misure che i paesi potrebbero prendere: il richiamo degli ambasciatori degli Stati membri, appunto, la dichiarazione dell’Egitto come Paese non sicuro; la sospensione degli accordi di riammissione e degli accordi interforze; la sospensione degli accordi di fornitura di armi, apparati bellici o per lo spionaggio e la repressione interna; la sospensione degli accordi economici; il monitoraggio dei processi contro attivisti, avvocati e giornalisti e la protezione di chi può fornire notizie concrete per l’indagine.
La risposta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è arrivata a stretto giro: «Stiamo seguendo la vicenda, nei prossimi giorni cercheremo di nuovo di capire sullo stato dell’arte e l’aggiornamento della situazione, sentiremo i genitori di Giulio» ha detto ieri pomeriggio confermando «il massimo impegno affinché sulla vicenda di Giulio sia fatta luce e chiarezza. Abbiamo sempre dimostrato il nostro impegno, marcando dei punti di grande forza sia sulla politica internazionale che sui rapporti bilaterali ». Al momento l’Italia non ha l’ambasciatore al Cairo: dopo il richiamo per consultazioni di Maurizio Massari, il nuovo incaricato Giampaolo Cantini non ha ancora presentato le credenziali. La sede, quindi, di fatto è scoperta. Il passo successivo dovrebbe essere l’inserimento nella blackout list della Farnesina, sul cui sito - a differenza di altri paesi, a partire dagli Stati Uniti - la questione Regeni però non viene nemmeno citata.
«È importante - hanno ripetuto ieri ancora i Regeni - che l’ambasciatore resti a casa. Ma soprattutto spiegare all’opinione pubblica il perché e il cosa sta accadendo in Egitto. Penso sia arrivato il momento delle scelte. Basta commemorazioni, ora azioni. Abbiamo una documentazione di 266 foto di cosa è successo a Giulio, una vera enciclopedia delle torture in Egitto che non vorremmo mostrare mai, vorrebbe dire che abbiamo toccato il fondo. Giulio era un cittadino europeo, e la battaglia per la verità deve essere una battaglia europea».
I Regeni hanno incontrato anche, oltre alla delegazione degli europarlamentari, Federica Mogherini, che ha assicurato loro che l’Ue «sostiene tutte le iniziative che le autorità italiane stanno prendendo» per arrivare alla verità sulla morte di Giulio. Tutto questo mentre Sinistra italiana ha chiesto, con l’onorevole Nicola Fratoianni, l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio del ricercatore italiano.

Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2016 (p.d.)

Non so, onestamente, se mi colpisce di più la ferocia con cui Regeni è stato ucciso, e soprattutto, la normalità di questa ferocia, o il silenzio dell'Italia. Da una parte, alti funzionari che discutono di come sbarazzarsi di un cadavere come se stessero sbrigando una pratica qualsiasi: ma dall'altra, niente. Se Giulio Regeni fosse stato un turista, uno di quelli che si ruba la tartaruga protetta, il pezzetto di piramide, saremmo stati tempestati di telefonate del console. E invece no. Dall'Italia silenzio totale”.

La ricomparsa dell’Anonimo

Nelle indagini sull'omicidio di Regeni, il ricercatore friulano ritrovato morto al Cairo il 3 febbraio, è comparso un nuovo Anonimo: e il suo racconto coincide con quanto ricostruito al Fatto Quotidiano da Amr Darrag, leader dei Fratelli Musulmani in esilio a Istanbul, che per primo aveva ipotizzato una faida tra Servizi segreti. Se il primo Anonimo, infatti, aveva rivelato che Regeni era stato ucciso perché ritenuto una spia, e non certo rapinato, come maldestramente sostenuto dalle autorità egiziane, il nuovo Anonimo spiega ora più in dettaglio come Regeni sia stato rimpallato tra National Security e Military Intelligence, e infine torturato a morte da quest'ultima. Con la National Security, però, che incaricata di disfarsi del corpo, gli lascia intenzionalmente accanto una coperta di quelle in uso all'esercito: una sorta di firma. Per trasformare quel corpo in un mezzo di ricatto.

“Non immaginavo che Regeni fosse stato seguito dal giorno del suo arrivo al Cairo”, dice adesso Amr Darrag. “D’istinto ho pensato: questo è un regime che non lascia scampo. Ma invece è il contrario. Questo omicidio non è il segno di un regime forte, saldo, ma di un regime che pedina tutti. Che ha paura di chiunque”.

Il regime di Mubarak, dice, non era affatto così. “Molti sono convinti che in Medio Oriente uomini come Al-Sisi, o peggio, come Assad, siano l'unica garanzia possibile di stabilità. Sono convinti che qui lo Stato, altrimenti, crolla. Ma poi leggi l'Anonimo e scopri che Abbas Kamil, che è come dire Al-Sisi, perché è il suo capo di gabinetto, convoca il ministro dell'Interno per sostituirlo e si sente rispondere che se solo ci prova, finisce anche lui in carcere per l'assassinio di Regeni. E questa sarebbe la stabilità? Questo groviglio in cui sono uno sotto il ricatto dell'altro? A leggere l'Anonimo, lo Stato in Egitto è già crollato. Quali che siano gli interessi che volete tutelare difendendo Al-Sisi, e che certo non sono i nostri di egiziani, questo non è un regime: questo non è il fascismo, con i treni che arrivavano in orario, questa è Gomorra”.

Solo affari, niente critiche

E però niente, dice: l'Italia tace. Tra i Paesi europei è il primo partner economico dell'Egitto, terzo al mondo dopo Stati Uniti e Cina, potrebbe mettere in riga Al-Sisi subito: e invece tace. “E infatti l'Anonimo è riapparso. Evidentemente pensavano che se vi avessero fornito un po' di indizi, se vi avessero un minimo instradato, non avreste avuto più scuse per non agire. Ma niente. Persino l'Anonimo non si aspettava tanto cinismo. E credo non sia propriamente uno stinco di santo”.

La sensazione, dice Amr Darrag, è che gli investigatori italiani siano stati lasciati soli nel ginepraio del Cairo. A scapito di quella che definisce la verità politica. “Perché questo non è un semplice omicidio, qui non è questione di trovare l'assassino. L'esecutore materiale. Quello che conta, qui, è la catena di comando. Qui non c'è solo un movente, c'è una prassi”, dice. “E limitarsi a cercare un assassino che probabilmente non si troverà mai è un modo molto sottile di insabbiare tutto”. Lasciare, cioè, gli investigatori a inseguire un obiettivo irraggiungibile.

L’Eni e la scommessa del giacimento Zohr

Nelle ultime settimane, la repressione al Cairo si è ulteriormente intensificata. Ormai quasi la metà della popolazione è sotto la soglia di povertà, gli egiziani sono tornati a imbarcarsi verso l'Europa e a morire in mare. Il regime ha risposto alle manifestazioni con retate preventive. Ma per la prima volta, segmenti significativi degli apparati di sicurezza non sono intervenuti, schierandosi, di fatto, contro Al-Sisi. In questo, in effetti, il suo regime somiglia a quello di Mubarak: nei giorni della sua fine. Tutto questo, tuttavia, non sembra impensierire l'Eni, che continua a pompare gas. Il giacimento Zohr, scoperto pochi mesi fa al largo di Alessandria, è uno dei più vasti al mondo. La presenza di gas nell'area era nota da anni ma nessuno si era avventurato a estrarlo. Forse un errore di valutazione. O forse, il timore di un rapporto con l'Egitto, un paese a corto di energia: e che al momento, non paga le sue bollette.

“Avevamo un debito di 9 miliardi di dollari con i nostri fornitori di gas, ridotto negli ultimi mesi a tre”, dice Amr Darrag, che con Mohamed Morsi al potere è stato ministro proprio dello Sviluppo economico. “Ma è stata l'Arabia Saudita a pagare per noi, e ora l'Arabia Saudita è in crisi per via del crollo del prezzo del petrolio. Non può più aiutarci. La nostra economia è ferma: non siamo strutturalmente in condizione di pagare. Né il gas né nient'altro. E a sentire Khaled Abdel Badie, l'amministratore delegato di Egas, tutto il gas sarà venduto al
l'Egitto”.

Si tiene al potere Al-Sisi per farci affari? O forse, al contrario, si fanno affari con Al-Sisi per tenerlo al potere? “Quello che è certo, per ora, è che Al-Sisi si aspetta il gas. E per quella che è la nostra esperienza, non ama essere contraddetto”.

«La nomina del pur stimato ex console di Gerusalemme, Giampaolo Cantini sortisce l’effetto di una nuova, tranquillizzante disponibilità al compromesso e apertura di credito ad Al Sisi. Con risvolti, temiamo, anche sulle pur limitate indagini».

Il manifesto, 12 maggio 2016 (m.p.r.)

Non appare proprio come un normale avvicendamento diplomatico la scelta di «promuovere» Maurizio Massari alla prestigiosa e importante sede di Bruxelles al posto di Carlo Calenda nominato nelle stesse ore ministro dello sviluppo. Né convincono le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi che indicando nel nome di Gianpaolo Contini il nuovo ambasciatore al Cairo, evidentemente avveduto sui sospetti che la scelta avrebbe potuto suscitare, ha dichiarato: «Allo stesso tempo, per evitare che la sede del Cairo rimanga anche simbolicamente senza ambasciatore, considerando la situazione particolare - anche se oggi registriamo le dichiarazioni del procuratore capo Pignatone, a cui siamo totalmente affidati per le indagini - per evitare anche un solo giorno di mancanza di ambasciatore abbiamo individuato in Giampaolo Cantini, grande esperto di Nord-Africa, il nuovo ambasciatore in Egitto».

Una lunga e affannosa dichiarazione dalla quale trapelano troppe ambiguità. La più evidente è che proprio nel momento peggiore per la verità su Giulio Regeni, l’ambasciatore Massari, testimone e protagonista fin dalle prime ore del caso, viene praticamente allontanato ancora di più dalla scena politica di questo delitto di Stato.

Massari era stato giustamente richiamato in Italia «per consultazioni» l’8 aprile scorso, come risposta tardiva ma corretta all’atteggiamento arrogante del regime egiziano e dello stesso presidente golpista Al Sisi. Lo stesso per il quale Renzi si è speso in questi ultimi due anni in elogi, trattative e sdoganamenti. Ripetutamente le autorità del Cairo, dal ministero degli interni a quello degli esteri ai media legati al potere, hanno insabbiato, depistato, infangato con menzogne il nome di Giulio Regeni. Ribadendo a più riprese la bugia che di «caso isolato» si trattava, mentre siamo di fronte ad un regime che si regge su una violenza sistematica fatta di sparizioni forzate, arresti prolungati, torture e uccisioni di oppositori e attivisti. È stato recentemente incarcerato, non a caso, anche Ahmed Abdallah attivista dei diritti umani e consulente egiziano della famiglia Regeni: deve essere subito liberato.

È poi a dir poco limitato se non miope, attribuire valore salvifico alle indagini della procura italiana, che insiste a dire che le indagini «le fanno gli egiziani», e che già si è trovata di fronte allo smacco del «niente» portato a Roma dagli investigatori del Cairo, e che rincorre al Cairo verbalizzazioni, ipotetici tabulati e celle telefoniche, pezzi di carta. Nell’affannosa quanto improbabile ricerca della verità dalle sole indagini delle polizie e dei magistrati, viste le ripetute bugie e i depistaggi anche sanguinosi come l’uccisione di cinque «malviventi» presunti responsabili del sequestro di Giulio Regeni. Con le sole indagini, spesso impedite e contradditorie, non si arriverà, temiamo, da nessuna parte. Aspettando nuovi documenti, nuove «scoperte d’Egitto» si sta probabilmente solo preparando una verità se non di comodo, sicuramente di serie B e con tanti capri espiatori.

C’è invece un’altra verità, politica, che era e resta da perseguire. Vale a dire rispondere all’interrogativo su chi aveva interesse a sequestrare, torturare e uccidere Giulio Regeni che ricercava sulla natura dei nuovi sindacati egiziani e le loro difficili attività dopo il golpe militare dell’estate 2013. E da questo punto di vista il testimone Maurizio Massari era decisivo. Fu infatti lui nella notte della scoperta del corpo trucidato di Giulio Regeni ad intervenire subito, a non accontentarsi della versione delle autorità egiziane, a intuire la tragedia che si era consumata, ad informare la ministra Guidi in missione d’affari che interrogò su questo lo stesso presidente Al Sisi. È sempre lui il depositario di un interrogativo fin qui rimasto senza risposta: chi decise un silenzio lungo i sei giorni del sequestro verso l’opinione pubblica e i media italiani non informati della sparizione di Giulio Regeni, certo ucciso come gli attivisti egiziani, ma cittadino italiano a tutti gli effetti?

È solo una delle tante domande rimaste inevase. Ora il cosiddetto avvicendamento sposta Massari nel cuore di altre dinamiche internazionali. E la nomina del pur stimato ex console di Gerusalemme, Giampaolo Cantini - a suo tempo avvicendato poco diplomaticamente pure lui dall’ex ministro Terzi - sortisce l’effetto di una nuova, tranquillizzante disponibilità al compromesso e apertura di credito ad Al Sisi. Con risvolti, temiamo, anche sulle pur limitate indagini. Resta da vedere se anche Cantini risulterà ancora «richiamato a Roma per consultazioni», lasciando cioè ancora vacante la sede del Cairo di fronte alla non collaborazione egiziana, oppure se sarà rispedito subito al suo ruolo diplomatico al Cairo. Se così fosse non si tratterebbe come qualcuno incosapevolmente scrive di uno «sblocco dello stallo con gli egiziani che ormai rischiava di diventare una partita infinita». Ma della vittoria della diplomazia del silenzio.

«Inviata per "errore" una mail contenenti le strategie del Ministero degli Interni per difendersi dalle proteste dei giornalisti.

Daily New Egypt: in meno di un anno 8 i casi di censura». Il manifesto, 4 maggio 2016 (p.d.)

Censura sul caso Regeni e gamba tesa contro la stampa egiziana in rivolta: è il contenuto, in breve, delle istruzioni a uso interno che per errore il Ministero degli Interni ha inviato ai media dal proprio indirizzo mail. Ufficialmente per errore: dopo l’invio, il dicastero ha parlato di «malfunzionamento tecnico», ma nei corridoi si rincorrono voci diverse. C’è chi parla di un hackeraggio, chi di atto volontario da parte di qualcuno interessato a ostacolare l’uscita dal tunnel in cui il regime di al-Sisi si è infilato.

Il presidente appare indebolito: la campagna di repressione di società civile e stampa è così brutale da avere prodotto l’effetto opposto, almeno all’interno dei confini nazionali. Se fuori la comunità internazionale continua a coccolare Il Cairo, in casa la gente esprime una rabbia crescente. Il governo, dice quel documento diffuso per errore, corre ai ripari ed indica le linee guida per zittire le proteste, quella che viene definita «un’escalation deliberata» ordita dai leader sindacali che puntano ad ottenere vantaggi politici. «C’è da aspettarsi – si legge – una feroce campagna mediatica da parte di tutta la stampa in solidarietà con il sindacato», violato domenica scorsa dal raid della polizia e dall’arresto di due giornalisti.

Per questo, ordina il Ministero, si deve rimanere fermi nelle propri posizioni e «coordinarsi con programmi tv, esperti e generali in pensione per invitarli a parlare a favore del Ministero»: «Non possiamo fare un passo indietro ora: una retromarcia significherebbe ammettere di aver fatto un errore. E se c’è un errore, chi è il responsabile?». Di certo ieri uno sbaglio, volontario o meno, è stato commesso e il Ministero ha già fatto sapere di aver avviato indagini interne per risolvere il mistero della mail incontrollabile.

Ad emergere, però, da quelle righe è anche una pratica spesso utilizzata dal governo cariota: la censura su fatti sensibili e potenzialmente distruttivi. Come il caso Regeni: alla procura generale (quella che dovrebbe collaborare con gli investigatori di Roma) è stato chiesto di imporre il silenzio sull’omicidio del ricercatore. Non è la prima volta: secondo quanto riportato dal Daily News Egypt, dal 29 giugno 2015 alle proteste di massa del 25 aprile, sono stati almeno 8 i casi di censura su fatti interni.

Quel giorno di un anno fa veniva ucciso l’ex procuratore generale Hisham Barakat, omicidio che ha dato il via ad un’ondata di divieti per la stampa: è successo con il caso dei fondi esteri alle Ong egiziane; con la denuncia di corruzione mossa da Hisham Geneina, presidente (poi licenziato) dell’istituto Central Auditing Organization che dal 1942 monitora i casi di corruzione; con le mazzette ricevute da funzionari del Ministero dell’Agricoltura. L’obiettivo è palese: impedire ai giornalisti di investigare, alla gente di discuterne.

Ma ieri, nella Giornata Internazionale per la Libertà di Stampa, i giornalisti egiziani hanno continuato a manifestare. Di fronte alla sede del Sindacato della stampa, proseguono nel sit-in indetto per costringere il ministro degli Interni Ghaffar alle dimissioni e per ottenere il rilascio dei due giornalisti di January Gate, Amr Badr e Mahmoud el-Sakka. I due lunedì si sono visti allungare l’ordine di detenzione di due settimane, con l’accusa di aver diffuso notizie false e aver incitato al colpo di Stato.

Sopra l’edificio la bandiera del sindacato è stata sostituita da bandiere nere, listate a lutto per ricordare le condizioni di lavoro dei giornalisti egiziani. Oggi si terrà un’assemblea generale durante la quale il sindacato annuncerà le prossime mosse. Per ora hanno ottenuto un sostegno inatteso: la mano tesa del giornale governativo al-Ahram. In un editoriale definito in Egitto «senza precedenti», il quotidiano di proprietà dell’esecutivo del Cairo si fa carico indirettamente delle stesse richieste dei colleghi: le dimissioni del ministro Ghaffar.

Il raid contro il sindacato della stampa, scrive al-Ahram, è «una mossa inaccettabile» da parte di un Ministero che «ha commesso tanti errori nell’ultimo periodo, concludendo con il suo infelice comportamento nei confronti dei diritti dei giornalisti e dei lavoratori dell’informazione».

Eppure, aggiunge il quotidiano, Ghaffar «non riuscirà nel suo pernicioso obiettivo di chiudere le bocche e reprimere le libertà di espressione e opinione». Un affondo durissimo che dà la misura delle crepe che si stanno moltiplicando nel monolitico blocco del potere del presidente golpista.

Mentre da una parte si tortura e si uccide, dall'altre si balbetta e si accetta ogni inominia per non perdere affari d'oro. Forse perché Giulio era un ricercatore innocente e non un assassino in uniforme. Articoli di Eleonora Martini e Luigi Manconi. Il Manifesto, 30 aprile 2016

GENTILONI BALBETTA,
IL CAIRO MORDE

di Eleonora Martini

La chiama «collaborazione assolutamente inadeguata», il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ma dalle autorità egiziane, ben lungi da ammettere la sistematica violazione dei diritti umani in patria, continua ad arrivare solo qualcosa di più simile ad una sfacciata provocazione.

Probabilmente il titolare della Farnesina pronunciando queste parole ieri non si riferiva all’ultima sfida lanciata dal vicepresidente della Camera dei rappresentanti del Cairo, Soliman Wahdan, che ha rinverdito la falsa pista di Giulio Regeni spia dell’intelligence, arrivando perfino a paventare «enormi problemi» con l’Italia se ciò risultasse vero. Né di certo alle invettive dell’ex ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim Yossef che ieri ha di nuovo rilanciato la tesi del complotto «criminale». E neppure alle richieste fin troppo propagandate dal ministero degli Esteri egiziano di fare altrettanta chiarezza su casi di cittadini scomparsi o morti in circostanze da chiarire a Roma, a Chicago e, ultimo, lunedì scorso a Londra, come risposta esplicita alle pressioni esercitate anche dal governo britannico e da quello americano sul caso Regeni.

Però non può essere sfuggito, al ministro Gentiloni, che uno dei capi di imputazione addossati ad Ahmed Abdallah, il consulente della famiglia Regeni arrestato il 24 aprile scorso, è di «leader di gruppo terroristico», un reato per il quale rischia la pena di morte.

Difficile dunque capire a cosa si riferisca l’esponente del governo Renzi quando parlando aRadio 1 ieri mattina ha confermato «la nostra pressione e la nostra ricerca di verità» sul caso Regeni anche se «purtroppo l’Italia ancora non ha avuto risposte soddisfacenti» dal Cairo. Per Gentiloni aver richiamato per consultazione l’ambasciatore Maurizio Massari dall’8 aprile scorso è stato già «un gesto molto forte nei rapporti tra Stati». Ora il governo attende solo di vedere i «risultati» dei «nuovi contatti tra le procure», dopo che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone «ha inviato una nuova rogatoria in Egitto». Sia chiaro, precisa il ministro: «Se qualcuno immaginava che il trascorrere del tempo avrebbe diminuito l’attenzione dell’Italia, per noi il ritorno alla normalità delle relazioni dipende solo da una collaborazione seria che continuiamo ad esercitare anche con altre forme una pressione diplomatica perché si arrivi alla verità, ma sappiamo che non sarà facile».

Il capo della Farnesina riferisce ancora di aver «parlato della questione anche a Lussemburgo», riscontrando durante la riunione dei ministri degli Esteri europei «una consapevolezza generale del fatto che si sia trattato di un caso gravissimo, anche per le modalità terribili in cui è avvenuto». Ma nelle parole di Gentiloni si percepisce la preoccupazione del governo Renzi di perdere nuove opportunità per una partnership privilegiata con il regime di Al Sisi: «Non siamo ingenui – ha ammesso il ministro – sappiamo che in questo raffreddamento delle relazioni tra Italia ed Egitto ci sarà qualcuno che cercherà di inserirsi per conquistare relazioni privilegiate nei rapporti con il Cairo». Anche se, ha concluso, «non possiamo essere mossi in modo prevalente da questo».

Molto meno cauto, il discorso pronunciato davanti alle telecamere di un’emittente privata cairota, la Ten Tv, dal vicepresidente della Camera egiziano: «L’omicidio di Regeni rappresenta un incidente isolato ed è stupido accusare il governo di aver avuto un ruolo in questo crimine – ha detto Soliman Wahdan – L’Egitto è uno stato di diritto e lavorerà per trovare i responsabili e giudicarli. Se però fosse dimostrato che Regeni era una spia si creerebbe un problema enorme tra l’Egitto e l’Italia. La fiducia tra i due paesi verrebbe meno».

Secondo l’Agenzia Nova, la seconda carica del Parlamento egiziano ha poi ripetuto la versione ufficiale egiziana paragonando l’omicidio Regeni a quello del procuratore generale Barakat, come «già in passato avevano fatto sia il presidente Abdel Fatah al Sisi che il ministro dell’interno Shoukry», riferisce l’agenzia stampa internazionale. «Per il nostro procuratore generale Nabil Sadeq, Regeni non è meno importante del martire Hesham Barakat – ha affermato il vicepresidente della Camera Wahdan – Anche se Barakat è stato ucciso in un attacco terroristico, dopo 7 mesi abbiamo trovato i colpevoli. Le indagini richiedono tempo. La delegazione che si è recata in Italia per fare il punto sulle indagini ha fatto il suo dovere, nonostante le accuse al governo egiziano».

E invece per le opposizioni italiane è ormai “time out“: l’«attenzione» assicurata dal ministro Gentiloni, dicono, va sostituita con azioni concrete. Secondo Nicola Fratoianni, Sinistra Italiana, «forse è arrivato il momento di dichiarare l’Egitto “Paese non sicuro” soprattutto se, come sta accadendo, si inasprisce ancor di più la repressione del regime di Al Sisi nei confronti degli attivisti egiziani per i diritti umani». Per i deputati della commissione Esteri del M5S, «il governo deve attuare, ora più che mai, un immediato embargo di armi e di ogni materiale che possa essere utilizzato dal Paese per la sua repressione interna, come previsto da una decisione del Consiglio dell’Unione europea dell’agosto 2013 e come richiesto con vari atti presentati alla Camera».

NE UCCIDE PIU' L'EUFEMISMO
CHE LA SPADA

di Luigi Manconi

Siamo in molti – persone pacate, razionali e fin moderate – a chiederci: ma che cosa si sta aspettando? Che cosa sta aspettando l’Italia per far sentire la propria voce e tutta la propria determinazione alle riluttanti, e sempre più ostili, autorità egiziane? Dopo il richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo – provvedimento significativo, anche se assunto in ritardo – si è parlato insistentemente di «nuove misure allo studio». Ma finora, di quelle possibili misure, non si è colta alcuna traccia.

E proprio ieri il ministro degli Affari esteri, Paolo Gentiloni, ha pronunciato parole che non possono in alcun modo rassicurare. Certo, ha dichiarato la propria «insoddisfazione» ma – per definire l’atteggiamento delle istituzioni egiziane – ha utilizzato la seguente formula: «collaborazione assolutamente inadeguata». Ora, qui siamo incondizionatamente disponibili ad assecondare l’arte della parafrasi fino alle sue più esauste espressioni, ma le parole sopportano una deformazione eufemistica che pure ha un suo limite. E chiamare inadeguato un atteggiamento, quello del regime egiziano, che è decisamente oltraggioso, mi sembra davvero troppo. Tanto più che il ministro Gentiloni sembra seriamente impegnato nel tentativo di trovare una soluzione e qualche mossa opportuna, l’ha pur fatta.

Ma sembra anche risentire di una sorta di complesso di inferiorità che, tradizionalmente, la nostra politica estera ha rivelato di fronte a congiunture particolarmente drammatiche e a conflitti che tendevano a farsi più acuti. In altre parole, il governo italiano temporeggia, differisce, esita. E, in un gioco geopolitico tanto complesso e delicato, rischia non solo di lasciare l’iniziativa al regime di Al Sisi, ma anche di concedergli un tempo eccessivo per decidere le proprie mosse, modificarle, adattarle all’evolversi delle circostanze. E, invece, palesemente non c’è tempo da perdere.

Da settimane più voci sostengono la necessità di fare pressione su alcune essenziali leve economico- commerciali all’interno del sistema dei rapporti tra Italia e Egitto. Mi limito qui a considerare una sola di tali leve: quella relativa ai flussi turistici. Nonostante il notevole calo registrato negli ultimi anni, questo settore rappresenta tutt’ora una percentuale assai elevata (non lontana dal 13%) del prodotto interno lordo. L’ipotesi di ricorrere a questo strumento democratico di pressione e a questo esercizio di forza rigorosamente non bellica, costituisce il senso di un appello che oltre 100 europarlamentari hanno indirizzato all’Alto rappresentate per gli affari esteri dell’Unione europea, Federica Mogherini (ed è possibile aderire scrivendo a: abuondiritto@abuondiritto.it) . Ma è un’opinione che si va largamente diffondendo: un osservatore equilibrato come Lucio Caracciolo ha dichiarato opportuno che il governo «sconsigli formalmente agli italiani il turismo in Egitto».

E in senso analogo si sono pronunciati autorevoli columnist di giornali stranieri; ed è di qualche giorno fa la decisione dell’Associazione italiana per il turismo responsabile (Aitr) di sospendere le proprie attività verso l’Egitto. Insomma, rappresentanti istituzionali e studiosi, associazioni e soggetti organizzati della vita collettiva, si orientano verso un obiettivo capace di rispondere alla necessità di interferire proficuamente nel complesso di relazioni tra l’Europa e l’Egitto. Si afferma l’idea che l’Egitto vada dichiarato un paese non sicuro perché non lo è stato per Giulio e potrebbe non esserlo per i tanti turisti, lavoratori, studenti e ricercatori europei che vi si recheranno in futuro.

E perché non lo è, in questo momento, per centinaia e centinaia di egiziani reclusi, per coloro che sono stati rapiti e sottoposti a torture e sevizie, per quanti sono spariti per poi essere ritrovati cadaveri. E ogni giorno al quadro, già gravemente compromesso, si aggiungono ulteriori elementi, a cominciare dai recentissimi arresti di massa di giornalisti e militanti politici. Pensiamo a quanta angoscia può aver provocato ai genitori e ai legali di Regeni la notizia dell’incarcerazione per promozione del terrorismo di Ahmed Abdallah, attivista per i diritti umani, e prezioso interlocutore di Amnesty international e dei familiari di Giulio Regeni.

Ebbene, questa esibita brutalità della repressione di stato, sembra contenere un messaggio di sfida nei confronti di quanti, non solo in Italia, denunciano la pesantissima torsione dispotica che il regime va rapidamente assumendo. Una sfida cui il governo italiano non può che rispondere con atti formali sempre più determinati, altrimenti si rischia di rimanere inevitabilmente subalterni alle scelte di Al Sisi. A quasi tre settimane dal richiamo in patria dell’ambasciatore italiano in Egitto, infatti, e in assenza di alcuna rilevante novità sul caso, il nostro governo non può che dichiarare l’Egitto paese non sicuro, con tutto ciò che questa decisione comporta.

Anche perché suona stridente fin quasi a manifestare un’offensiva insensibilità, certo non consapevole, che sul sito Viaggiare sicuri della Farnesina, nella sezione sicurezza, è come se la morte di Giulio Regeni non solo non risulti registrata, ma è come non fosse mai avvenuta. Vi si legge, infatti, che «in considerazione del deterioramento della generale situazione di sicurezza nel Paese» si consiglia di «di evitare i viaggi non indispensabili in Egitto in località diverse dai resort sul Mar Rosso e dalle aree turistiche dell’Alto Egitto e di quelle del Mar Mediterraneo» e si raccomanda la massima prudenza dato il clima di «instabilità e turbolenza che spesso sfocia in turbative per la sicurezza e in azioni ostili anche di stampo terroristico». Ancora una volta: ne uccide più l’eufemismo che la spada.

Gli alleati dell'Italia di Renzi, dell'Eni e dei fabbricanti di armi continuano la loro truce opera. Il popolo si ribella . E continuano le tremule rimostranze dei nostro governo. Articoli di Fabio Scuto e Giuliano Foschini. La Repubblica, 26 aprile 2016




MASSACRATO UN ALTRO ATTIVISTA
“TORTURATO DALLAPOLIZIA”
PRESENTATRICE INSULTA REGENI
di Giuliano Foschini
Lo hanno scaricato in una strada in mezzo al deserto, all’ingresso del Cairo. Aveva il corpo martoriato da torture, bastonate e, forse, scariche elettriche. Era stato arrestato 24 ore prima, tra il 22 e il 23 aprile, in uno dei blitz per prevenire le manifestazioni di ieri. Ora è in terapia intensiva in un ospedale della capitale: è ancora in pericolo di vita ma dovrebbe farcela. Il finale, per fortuna, è l’unico pezzo che non rende la storia di Khaled Abdel Rahman, giovane attivista di Alessandria, identica a quella di Giulio Regeni. Secondo quanto denunciano infatti la sorella del ragazzo e alcune Ong il ragazzo sarebbe stato preso nei giorni scorsi, torturato e poi abbandonato quasi morto con segni evidenti di tortura su tutto il corpo. «Ne ha ovunque — ha raccontato la sorella- e ci sono segni sui genitali di scariche elettriche».

Il caso di Khaled sarebbe l’ennesimo, secondo quanto denunciano le associazioni che seguono la vicenda dei desaparecidos egiziani, che si è verificato in questi mesi, a riprova che la morte di Giulio non è stato un fatto isolato. Non è un caso che ieri tra le persone arrestate ci sia anche Ahmed Abdallah, il direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’associazione che aveva e sta seguendo direttamente il caso di Giulio e quello degli altri ragazzi spariti nel nulla o uccisi in circostanze tutte ancora da chiarire. E’ stata fermata poi anche Basma Mostafa, la giornalista che aveva intervistato i familiari dei banditi uccisi nel conflitto a fuoco con la polizia, che accusavano gli agenti di aver portato e fatto ritrovare a casa loro i documenti di Giulio. La polizia ha poi denunciato la Reuters per lo scoop sull’arresto di Regeni, con il capo dell’agenzia internazionale di stampa che avrebbe dovuto lasciare il Cairo. Insomma, una situazione sempre più tesa che conferma il nervosismo delle autorità egiziane attorno al caso Regeni: Giulio sta diventando un simbolo anche in Egitto, nelle manifestazioni di ieri così come nei giorni scorsi decine di persone brandivano la sua fotografia come un vessillo di libertà contro il regime di Al Sisi. «Ed è per questo che a lui che dedico il mio 25 aprile» ha detto ieri Roberto Saviano.

Eppure nelle scorse ore erano arrivate, seppur timide, aperture agli investigatori italiani che hanno fatto ben sperare in tema di collaborazione. Gli egiziani hanno inviato qualche nuovo documento, ed è possibile che nelle prossime ore possano arrivare i primi tabulati richiesti dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Sergio Colaiocco che stanno conducendo le indagini. In settimana, su iniziativa egiziana, erano ripresi i contatti per riattivare i canali di cooperazione proprio dopo la nostra nuova rogatoria anche sulla base di un protocollo, firmato dalla Direzione nazionale antimafia in tema di sbarchi e traffico di persone, che assicura la piena reciprocità nelle indagini tra i due paesi. Ed, effettivamente, gli investigatori italiani hanno messo a disposizione tutto quello he c’era da mettere. Con il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari l’Italia aveva voluto lanciare un segnale chiaro che, però, fino a questo momento non aveva avuto alcun atto conseguente da parte dal Cairo. Al contrario, come ha dimostrato la scenetta della giornalista egiziana che ieri ha insultato in diretta Giulio (“Regeni? Un complotto. Che andasse al diavolo”), o le inchieste sui desaprecidos italiani (l’elenco degli scomparsi di Chi l’ha visto) condotte dai giornali governativi egiziani, si stava andando verso lo scontro totale. Ora, questa apertura. Che, visti i precedenti, potrebbe però avere il solito rumore della presa in giro.
BLINDATI, ARMI E AGENTISEGRETI
TRA I MANIFESTANTI BRACCATI
MA LA PIAZZA GRIDA: “AL SISI VIA”
di Fabio Scuto
“Le forze del male”, come il Feldmaresciallo Abel Fattah Al Sisi definisce i suoi oppositori, scompaiono dai marciapiedi intorno a Piazza Tahrir in un batter di ciglio. Le strade del centro pullulano di soldati, poliziotti, agenti in divisa e mukhabarat, uomini dei Servizi. Basta un sospetto e si finisce isolati dai passanti, spinti contro un muro. Poi un pullmino bianco accosta al marciapiedi, apre le porte scorrevoli e si finisce così inghiottiti da uno dei tanti apparati di sicurezza che il regime egiziano si è dato per dare la caccia ogni tipo di opposizione e restare in piedi. Scene simili a quelle di tre mesi fa, il 25 gennaio scorso quando anche Giulio Regeni fu “inghiottito” da una retata a strascico con il tragico esito che tutti conosciamo. Che ieri si è ripetuta per decine di volte nel centro del Cairo, dove il via vai abituale ieri era sostituito dagli agenti in borghese e il rumore dei clacson dal gracchiare delle radio appese alla cintura.
La polizia ha chiuso “per motivi di sicurezza” tutte le strade che portano alla sede del sindacato dei giornalisti. Via Abdel Khalek Tharwat, dove c’è lo stabile che lo ospita, è stata sbarrata con recinzioni in acciaio e presidiata dalle forze di sicurezza. L’esercito ha schierato mezzi blindati a Piazza Tahrir, epicentro delle proteste che nel 2011 portarono alla caduta dell’ex presidente Hosni Mubarak, e in altri punti nevralgici della città. Il ministro dell’Interno, Magdy Abdel Ghafar aveva, dagli schermi della tv, ammonito i manifestanti dallo scendere in piazza, «non abbiamo dato alcun permesso per le manifestazioni di oggi e non permetteremo la violazione della legge in nessun caso. Le forze di sicurezza non consentiranno alcun attentato alla sicurezza della nazione».
In realtà i sostenitori di Al Sisi - qualche migliaio - hanno avuto la possibilità di entrare a Piazza Tahrir sventolando bandiere egiziane e cantando le lodi del Feldmaresciallo mentre nel cielo sfrecciavano i caccia.

Nel centro della capitale due settimane fa c’erano già state le prime proteste contro la “svendita” di due isolette sul Mar Rosso ai sauditi, intesa che ha risvegliato l’opposizione e l’ha spinta a scendere in piazza, unita nel voler usare come bandiera il nazionalismo ma sostanzialmente divisa in tante, troppe, anime come dimostra l’elenco eterogeneo dei fermati e le centinaia di sparizioni forzate segnalate negli ultimi quattro giorni.

L’Egitto di Al Sisi dice che le isolette Tiran e Sanafir, al largo del Sinai, appartengono all’Arabia Saudita, che le mise sotto protezione del Cairo nel 1950 perché temeva che Israele se ne potesse impadronire. Una “contesa” che ha aspettato 66 anni per trovare una soluzione (che fra l’altro soddisfa anche Israele). L’annuncio del “passaggio” è arrivato durante la “storica” visita - due settimane fa - dal monarca saudita, re Salman, che ha annunciato un pacchetto multi-miliardario di aiuti e investimenti, alimentando così i sospetti che le isole siano state vendute. «L’Egitto ha bisogno che la verità sia rivelata alla sua gente: attraverso il dialogo, non l’oppressione, con i documenti, le prove e le mappe, non con incursioni della sicurezza e arresti arbitrari » ha scritto l’editorialista Abdullah el-Sinnawy ieri sul quotidiano al-Shorouk. Al-Sisi insiste però sul fatto che l’Egitto non ha restituito un «pollice del suo territorio » e ha chiesto che la gente smetta di parlare di “svendita”. Ma è indubbio che il leader egiziano – due anni dopo aver preso il potere rovesciando il presidente islamista Mohammed Morsi – stia perdendo parte del consenso che aveva raccolto dal 2014 e anche settori della società che avevano premuto per una sua discesa in campo oggi si trovano su posizioni molto diverse. Le aspettative di un maggiore benessere si sono dissolte, il terrorismo islamico ha reso deserte le spiagge del Mar Rosso dopo la bomba sul jet dei turisti russi a Sharm el Sheikh. Se l’economia è in serie difficoltà, il rapimento, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni all’inizio di quest’anno hanno avvelenato i rapporti con l’Italia, uno dei più convinti sostenitori di Al Sisi nell’Ue e primo partner commerciale europeo.

Nel pomeriggio l’attenzione si è spostata a Giza, distretto dell’area metropolitana del Cairo sulla sponda occidentale del Nilo. Qui, come spiega un collega del quotidiano Al Masry Al Youm, la security ha ricevuto l’ordine di arrestare «qualsiasi manifestante». Infatti alle cinque sulla Mesaha Square, nel quartiere impiegatizio di Dokki dove fra l’altro abitava Giulio Regeni, non appena duecento persone si sono ritrovate e hanno iniziato a gridare slogan tipo “Pane, Libertà e Isole” e “Al Sisi Vattene” è intervenuta la polizia sparando gas lacrimogeni e pallottole di gomma. I manifestanti sono fuggiti nelle strade vicine per poi disperdersi. In meno di un’ora 23 arresti, decine di fermati. Ma a Dokki è successo anche qualcosa di “particolare”. Temendo un’altra ondata di disordini, dopo anni di turbolenze, molti residenti e negozianti si sono mostrati ostili verso i manifestanti. Dai balconi molti abitanti gridavano “traditori” ai dimostranti riuniti sotto in piazza, altri hanno cominciato a lanciare secchiate d’acqua, mentre la polizia si portava via sui suoi pullmini bianchi 4 giornalisti stranieri, incurante di permessi e accrediti stampa. Il giornalista, specie se straniero, nell’Egitto di Al Sisi è una categoria assimilabile al nemico.


GAS LACRIMOGENI SUGLI OPPOSITORI
OLTRE CENTOARRESTI
di Fabio Scuto


Vietate le proteste contro la cessione di due isole ai sauditi. Fermati 35 giornalisti: 10 restano in carcere
IL CAIRO. Un’ondata di arresti soprattutto al Cairo, caccia aperta non solo agli oppositori ma a tutti coloro che con una telecamera o un cellulare hanno cercato di riprendere le proteste nella capitale egiziana. Tutte le città d’Egitto ieri erano blindate fin dalle prime ore del mattino. Auto, camion e mezzi blindati di polizia e dell’esercito schierati a presidio dei luoghi simbolo, come piazza Tahrir al Cairo, migliaia di agenti per bloccare le manifestazioni annunciate dai gruppi di opposizione al presidente Abdel Fatah Al Sisi. Le proteste — subito vietate — erano contro la cessione delle due isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Incidenti, gas lacrimogeni e un centinaio di fermati solo nella capitale.

Il centro del Cairo è stato completamente isolato dal resto della città, alcune strade come quella che ospita il sindacato dei giornalisti — uno degli organismi di punta contro la repressione del regime — è stata chiusa con paratie d’acciaio. Chiunque ha cercato di avvicinarsi è stato fermato. Qui è finita in manette Basma Mustafa, la collega che intervistò per prima i familiari dei “presunti assassini” di Giulio Regeni uccisi tutti però in uno scontro a fuoco con la polizia. E poi ancora i colleghi Mohamed al Sawi, Mohamed al Shama e Mustafa Reda. Fra i fermati una decina di attivisti del Partito socialdemocratico egiziano, qualcuno del Movimento 6 aprile. Di prima mattina, era stato arrestato anche Ahmed Abdallah, capo della Commissione egiziana per i diritti e libertà, organizzazione che documenta le sparizioni forzate nel Paese. Altre decine di fermati, poi rilasciati a Dokki nel pomeriggio, dove un’altra protesta di 200 persone è “fallita” per l’intervento della polizia con gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Il sindacato dei giornalisti ha denunciato l’arresto di 35 colleghi, 25 dei quali poi rilasciati in serata. ( f. s.)

«L’agenzia Reuters: Giulio fermato il giorno della sua scomparsa, condotto in caserma e poi trasferito “Le informazioni sono confermate da sei fonti dell’intelligence e degli apparati di sicurezza egiziani”». La Repubblica, 22 aprile 2016

Sei diverse fonti di Polizia e Intelligence del Cairo convincono la prestigiosa agenzia di stampa inglese Reuters a ritornare sul sequestro e la morte di Giulio Regeni per concludere che si è trattato di un omicidio di Stato. Perché Giulio venne fermato la sera del 25 gennaio dalla Polizia egiziana durante uno dei tanti rastrellamenti nella zona di piazza Tahrir per poi essere consegnato agli interrogatori e alle torture della Sicurezza Nazionale, il tentacolare Servizio segreto Interno.

Le sei fonti, cui la Reuters garantisce l’anonimato per proteggerle dal regime, ricostruiscono una catena di eventi logicamente compatibile con le poche e lacunose risultanze investigative di due mesi e mezzo di indagini. E il loro racconto, nella sostanza, lì dove cioè accredita che Giulio venne fermato dalla Polizia per poi essere “ceduto” ai Servizi, torna a sovrapporsi al cuore della testimonianza in chiaro postata su Facebook il 6 febbraio scorso dall’ex generale dissidente Omar Afifi, al contenuto delle mail anonime ricevute da Repubblica tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile, alla ricostruzione che la stessa Repubblica ha fornito nelle settimane scorse sul luogo della scomparsa di Giulio - la zona di piazza Tahrir, per l’appunto - e sull’identità dei suoi sequestratori, squadre della Polizia egiziana che, quella sera del 25, erano sotto il comando del generale ed ex torturatore Khaled Shalaby.

Nel dettaglio, le fonti della Reuters riferiscono che Giulio venne prelevato la sera del quinto anniversario della Rivoluzione da uomini della Polizia egiziana durante un rastrellamento in una zona vicina alla fermata del metro “Gamal Abdel Nasser”, un chilometro in linea d’aria, 15 minuti a piedi, dall’altra fermata del metro “Sadat” di piazza Tahrir dove, ne sono convinti i nostri investigatori, proveniente da Dokki, Giulio arriva intorno alle 20 del 25 gennaio per raggiungere l’amico Gennaro che lo aspetta in un bar non lontano. Con Giulio - aggiunge la Reuters - viene fermato un non meglio identificato cittadino egiziano ed entrambi vengono caricati su un «minivan bianco con targa della Polizia» che li depositerà nella caserma di Izbakiya, dove un ufficiale di polizia riferisce all’agenzia di stampa inglese di ricordare il trasferimento di “un italiano” e da dove, dopo appena trenta minuti, saranno trasferiti nel famigerato compound di Lazoughli, uno dei buchi neri in cui la Sicurezza Nazionale normalmente seppellisce oppositori e “sospetti” destinati a non rivedere più la luce.

Naturalmente, la ricostruzione della Reuters è stata immediatamente smentita dal portavoce del Ministero dell’Interno egiziano, così come da fonti della Sicurezza Nazionale (citate dalla stessa agenzia) che sono tornate ad escludere qualsiasi coinvolgimento di Polizia e Intelligence sostenendo che l’unico contatto di Giulio con gli apparati della sicurezza egiziana sia stata la stampigliatura del visto sul passaporto al momento del suo ingresso al Cairo.

Smentite che equivalgono ormai da due mesi a vuote petizioni di principio perché sempre lontane da qualsiasi fatto o circostanza obiettiva. E a cui non solo non crede il nostro Paese, ma, ora, ufficialmente respinte anche dagli Stati Uniti in occasione dei recenti incontri avuti al Cairo dal Segretario di Stato John Kerry con i vertici del governo e della Presidenza egiziana. «Abbiamo ribadito — ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby — che i dettagli che sono venuti alla luce dopo la morte di Giulio Regeni hanno sollevato domande sulle circostanze stesse della morte che riteniamo possano essere risolte solo con un’indagine imparziale e completa».
«Voglio chiarire qualcosa di importante alla comunità europea ed anche agli egiziani: il nostro lavoro è proteggere una nazione di 90 milioni di persone. Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese crollasse». Lo stato di polizia con conosce eccezioni: Italia, Egitto, ... .

La Repubblica, 18 aprile 2016 (m.p.r.)

Parigi. «Siamo esposti a forze malvagie che cercano con tutte le loro energie di scuotere la stabilità dell’Egitto e tentano di dare un’impressione non vera su quello che succede nel nostro Paese». Abd al-Fattah Al Sisi è costretto alla difensiva nel giorno dell’arrivo di François Hollande al Cairo. I due leader si abbracciano a bordo pista, poi però la conferenza stampa congiunta prende una piega non gradita al presidente egiziano. «I diritti dell’uomo sono un mezzo per lottare contro il terrorismo» dice subito Hollande rispondendo alla domanda di una cronista francese sulle continue violazioni dei diritti umani. Al Sisi è visibilmente innervosito dall’argomento. Il leader socialista, accusato in patria da alcune Ong di un “silenzio assordante” a proposito di repressione e abusi del regime del Maresciallo, è costretto a prendere una posizione ufficiale. «La lotta contro il terrorismo», spiega Hollande, «suppone fermezza, ma anche uno Stato, ed uno stato di diritto, è questo che la Francia evoca quando parla di diritti umani: i diritti umani non sono un vincolo, sono anche un modo di combattere il terrorismo».

La visita di Hollande era prevista da tempo per suggellare nuovi affari tra i due Paesi e discutere di questioni internazionali, dalla Siria alla Libia. Ma il debutto è teso. Hollande sostiene di aver parlato con Al Sisi sia del caso di Giulio Regeni che di quello di Eric Lang, insegnante francese trovato morto in un commissariato del Cairo nel 2013. «Ne ho discusso con il presidente perché ci sono domande che riguardano questi ed altri incidenti» ha sottolineato Hollande.
«Accuse che puntano ad indebolire la polizia, la giustizia» risponde Al Sisi. «Ho offerto le mie condoglianze per la morte del ricercatore italiano più di una volta. Ho detto che siamo trasparenti e siamo pronti a ricevere qualsiasi team investigativo ». Il presidente egiziano poi però aggiunge, quasi come una minaccia: «Voglio chiarire qualcosa di importante alla comunità europea ed anche agli egiziani: il nostro lavoro è proteggere una nazione di 90 milioni di persone. Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese crollasse». E sulla richiesta di rispetto dei diritti umani la conclusione è netta: “le norme europee non possono applicarsi a Paesi in difficoltà come l’Egitto. L’area in cui viviamo è molto turbolenta».
L’accoglienza al leader francese non è insomma delle migliori a dispetto delle gigantografie disseminate per le strade del Cairo con il messaggio: “Benvenuto François Hollande”. Per il capo di Stato arrivato da Parigi è una tappa cruciale della tournée in Medio Oriente cominciata sabato in Libano e che terminerà domani in Giordania. Hollande era già andato nove mesi fa in Egitto per l’inaugurazione dei lavori sul Canale di Suez, tra i pochi leader occidentali presenti, un gesto molto apprezzato da Al Sisi. Il nuovo viaggio dovrebbe portare alla firma di accordi commerciali per oltre un miliardo di euro. Le relazioni tra i due leader sono “di grande fiducia” sottolinea a Repubblica una fonte diplomatica. L’Eliseo considera il presidente egiziano una pedina fondamentale nella stabilizzazione della regione, sul nuovo asse Cairo- Riad.
Nei giorni scorsi, Hollande si era impegnato ad affrontare durante la visita il caso del ricercatore italiano ucciso e di Lang. La famiglia di quest’ultimo ha accusato il governo di voler “insabbiare” l’affaire. In un primo tempo, l’Eliseo sperava di poter discutere in via riservata delle questioni più sensibili ma la pressione internazionale, con il New York Times che ha definito “vergognoso” l’atteggiamento della Francia, è diventata insostenibile. Hollande aveva già avuto modo di parlare degli abusi del regime quando Al Sisi era venuto la prima volta a Parigi, nel novembre 2014. Il Maresciallo aveva dato allora una risposta tagliente: «Sono al cento per cento per i diritti umani, ma non adesso».
© 2024 Eddyburg