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L’Italia si dà una legge “organica” sulla pianificazione del territorio, buona ultima fra le nazioni europee, e con un ritardo di quasi tre lustri sui primi tentativi di riforma, nel pieno della guerra mondiale. Alcune delle (poche) letture storiche sulla genesi della legge urbanistica attribuiscono tra l’altro proprio al clima anomalo generato dal conflitto il merito dell’approvazione, che varie correnti politiche avversavano apertamente, sin dal primo tentativo parlamentare del 1933.

Il testo che si approva è così in gran parte più “legge degli urbanisti” che “legge urbanistica”, nel senso che propone un’idea di città forse razionale ed equilibrata, ma espressione del solo ceto professionale emerso dalle facoltà di Architettura, di Ingegneria e dalle strutture corporative che lo rappresentano: non certo di altre importanti componenti sociali, per quanto elitarie.

La stessa architettura generale, che dalla dimensione territoriale vasta, a quella della città, arriva sino alla definizione spaziale del piano particolareggiato, appare più come il frutto di una discussione emersa da convegni teorici e commissioni di concorso, che derivata dalla dialettica fra le esigenze di governo dell’assetto territoriale e i complessi intrecci degli enti locali, della loro organizzazione interna, delle competenze reali e circoscrizioni amministrative. Curiosamente, proprio nello stesso articolo del 1928 in cui si tratteggia la futura “gerarchia dei piani”, Gustavo Giovannoni ricordava di prestare la massima attenzione alle “provvidenze amministrative e combinazioni finanziarie”, ovvero enti locali e forze economiche. Senza questa centralità, qualunque piano rischiava di rimanere sulla carta, o peggio di far danni pur con le migliori intenzioni.

Ma è proprio con questi presupposti che nasce, nel 1942, la legge. E una delle principali difficoltà degli urbanisti, a guerra conclusa e nel nuovo contesto dell’Italia democratica, della Costituente, delle Regioni, sarà quella di cercare la legittimazione sociale che alla legge in gran parte manca. Significativo il fatto, ad esempio, che un esponente della Democrazia Cristiana inaugurando ancora a metà anni ’50 un convegno ideologico del partito sui piani territoriali, li definisca candidamente una “idea di alcuni architetti”. A riprova del vizio di fondo di una legge ottima, ma che fatica e faticherà ad imporsi come prassi comune, “idea di città” condivisa.

I testi – d’epoca e non - che compongono la cartella dedicata alla Legge Urbanistica del 1942, sono scelti per la loro capacità di ricostruirne alcuni punti salienti riguardo al percorso culturale, tecnico, dei soggetti via via impegnati nella sua definizione, e infine qualche cenno al passaggio dall’Italia fascista al dopoguerra.

Fabrizio Bottini, Urbanisti e Legge Urbanistica (da Storia dell’Architettura Italiana: il Primo Novecento, Electa 2004) riporta brevemente il percorso culturale che dagli anni ’20 all’approvazione della Legge porta gli urbanisti ad imporre un proprio modello, certamente valido ma non pienamente condiviso da parte del ceto politico

Vezio De Lucia, La Legge Urbanistica del 1942 (da Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001) ripercorre l’evoluzione normativa nazionale e i piani regolatori più significativi, che contribuiscono a costruire la struttura della Legge

Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica: cause di errori urbanistici e possibili rimedi (Urbanistica n. 1, 1935) descrive lo “stato dell’arte” disciplinare a metà anni ’30, dopo il rinvio del progetto di legge del 1933 e nel pieno del dibattito sul futuro della città e del territorio italiani

Vincenzo Civico, Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione (Critica Fascista, 15 maggio 1942) alla vigilia dell’approvazione della legge passa in rassegna i grandi problemi del rapporto fra organizzazione territoriale e governo dello sviluppo economico alla scala vasta

Alberto Calza Bini, Il Nuovo Ordine Urbanistico (Urbanistica n. 5, 1942) espone le prospettive – e i problemi - che si aprono per la disciplina e le decisioni, dopo l’approvazione della legge

Giovanni Ortolani, Legge Urbanistica e deurbamento (Il Rinnovamento amministrativo, n. 9, 1942) si sofferma sul significato e le implicazioni dell’articolo (1) e le sue intenzioni di “frenare la tendenza all’urbanesimo”.

I cenni sul Dibattito parlamentare tra fascismo e Costituente (Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965) rendono conto sia del perdurare di alcune opposizioni politiche, sia dell’articolazione degli interessi con cui la legge viene ad interferire

Ancora a dodici anni dall’approvazione, e dopo il tumultuoso periodo dei piani di ricostruzione, in pieno boom economico, la Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici, Istruzioni per la Formazione dei Piani Regolatori Comunali: Generali e Particolareggiati (1954), stimola le amministrazioni locali ad applicare la legge del 1942

Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965

LA LEGGE URBANISTICA DEL 17 AGOSTO 1942, N. 1150

Dopo l'approvazione del nuovo Piano Regolatore Generale della città di Roma si sviluppò in Italia un vasto interesse per i problemi urbanistici, che proprio dagli studi e dalle discussioni svoltesi intorno alla Capitale furono posti alla più generale attenzione a causa soprattutto delle dimensioni e della complessità da essi assunti per la città di Roma. Del resto non poche delle soluzioni adottate per Roma furono riprodotte nella successiva legge urbanistica generale del 17 agosto 1942, n. 1150, i cui autori furono in parte gli stessi del piano di Roma del 1931.

La proposta di una legge organica, che superasse le necessità contingenti che fino ad allora avevano determinato interventi legislativi limitati a singole città, fu presentata alla Camera dei fasci e delle corporazioni dal ministro dei lavori pubblici, Gorla il 23 giugno 1942 (Atto n. 2038 della Camera) nel testo predisposto, dalla Direzione generale dell'urbanistica di recente istituita, in base ai lavori di una Commissione appositamente nominata con la rappresentanza dei Ministeri più direttamente interessati.

Le ragioni che avevano determinato la presentazione di tale legge sono indicate nella relazione del ministro proponente.

Esse consistono essenzialmente nella ormai dimostrata inadeguatezza delle disposizioni della legge del 1865, cosi individuata: a) assenza di ogni facoltà per l'Amministrazione comunale di contemplare nel piano regolatore le aree da destinare ad edifici pubblici o ad impianti di interesse collettivo; b) distinzione, sempre più inattuale, tra piano regolatore edilizio e piano di ampliamento; c) assenza di ogni considerazione per gli interessi di ordine estetico, storico ed artistico; d) mancanza di ogni facoltà del Comune di espropriare le aree necessarie per la costruzione di edifici pubblici e per la costituzione di un demanio comunale, che è ritenuto lo strumento adatto per frenare gli eccessi della speculazione privata; e) inesistenza di ogni vincolo di «zonizzazione» per la determinazione del tipo o della destinazione delle costruzioni nei diversi quartieri...

Tra le considerazioni relative alle finalità prefisse si dichiara che la disciplina urbanistica è concepita come fondamento di una sana convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale e pertanto la legge urbanistica si appalesa come il mezzo più efficace per attuare il deurbanamento. In questa direttiva vengono inquadrati gli istituti del « piano territoriale di coordinamento » e del «piano regolatore generale» esteso alla totalità del territorio comunale.

Si dichiara di considerare i piani regolatori in prevalente funzione dell'interesse generale, senza tuttavia prescindere

« ...da una giusta tutela degli interessi privati sia mediante il corrispettivo di una congrua indennità per tutti gli obblighi e i vincoli di carattere non generale, sia attraverso il riconoscimento di diritti di prelazione e di retrocessione, quando non vi sia necessità di mantenere le preminenti potestà dell'amministrazione comunale ».

(Raccolta di atti e documenti della Camera dei fasci e delle corporazioni -XXX Legislatura- Vol. XXI - Stampato n. 2038, pag. 3).

Affermata l'esigenza di «unità di criteri sostanziali e procedurali» tra norme regolatrici dell'attività edilizia e disciplina urbanistica, si dichiara, viceversa, che, per rendere omogeneo il contenuto della legge urbanistica, era stato omesso di regolare alcuni istituti - come quelli del contributo di miglioria o dell'indennità di espropriazione - che «pur interessando in alto grado l'attuazione dei piani regolatori, hanno tuttavia più largo campo di applicazione»: per la parte da essi regolata si effettuano rinvii alle disposizioni vigenti ( che, per quel che riguarda l'indennità di espropriazione, sono quelle della legge del 1865!) delle quali si promette una «eventuale rielaborazione», da effettuarsi « ...a parte ».

L'esame e l' approvazione del progetto di legge urbanistica ebbe luogo, alla Camera, in seno alla Commissione lavori pubblici e comunicazioni, in sede deliberante, nella seduta del 2 luglio 1942. Durante la discussione il relatore Begnotti sottolineò, tra l'altro, che merito particolare della legge era quello di aver creato un potere accentrato, capace di garantire l'applicazione dei nuovi principi urbanistici contro l'indisciplina delle Amministrazioni periferiche. Dopo che il deputato Massimino ebbe sottolineato l'alto valore morale e urbanistico della possibilità di creare, attraverso l'espropriazione, un demanio comunale di aree, e dopo che il dep. Cavallazzi, raccomandando il massimo rigore per la integrale applicazione delle norme intese a reprimere le speculazioni fondiarie, ebbe richiamata l'attenzione sulla situazione finanziaria dei Comuni incaricati di attuare tali misure, il ministro Gorla replicò difendendo l'impostazione della legge contro ogni proposta di modifica che ne avrebbe alterato i concetti fondamentali. Infatti furono successivamente respinti tutti i numerosi emendamenti (tranne qualcuno riguardante l'aspetto formale degli articoli) presentati dal deputato Spinelli rappresentante della Federazione dei proprietari di fabbricati.

Anche al Senato l'approvazione avvenne in seno alla commissione lavori pubblici e comunicazioni, in data 21 luglio 1942. Nella sua illustrazione il relatore Cozza, sottolineò, in particolare, come l'indirizzo voluto dalla legge, attraverso

« ...la formazione dei piani regolatori regionali, dei piani regolatori generali per il territorio di ogni Comune e... dei piani particolareggiati, assicura che lo sviluppo delle varie attività interessanti i singoli aggregati urbani e i territori connessi sarà studiato con quella visione d'assieme non prima raggiunta e che il graduale svolgersi di tali attività avverrà in modo organico e completo ».

(Resoconto delle discussioni delle Commissioni parlamentari del Senato del Regno -XXX Legislatura -Commissione dei lavori pubblici e delle comunicazioni - pag. 584 ).

Tra gli interventi è da segnalare quello del senatore Theodoli di Sambuci che si compiacque vivamente del ritorno al principio della legge del 1865 per la liquidazione delle indennità (rammaricandosi che i piani già approvati rispondessero ad altro criterio) ed avanzò alcune riserve sulla opportunità e sul rendimento dell'art. 18 relativo alla costituzione del demanio comunale di aree edificabili.

Il disegno di legge fu quindi approvato senza modifiche e fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 244.

REGIONI E URBANISTICA NELLA COSTITUZIONE

L’art. 117 della Costituzione, tra le materie di competenza legislativa regionale, contempla anche l'«urbanistica ».

Il problema dell'autonomia regionale ebbe la sua prima impostazione ed elaborazione - sin dalla fase preliminare dei lavori della Commissione per la Costituzione - presso la II Sottocommissione che doveva occuparsi dell'ordinamento costituzionale della Repubblica. Nella seduta della Sottocommissione del 27 luglio 1946 {Commissione per la Costituzione, Discussioni, II Sottocommissione, 27 luglio 1946, pagg. 6, 7), il deputato Ambrosini nello svolgere una relazione orale sull'impostazione generale da dare al problema delle autonomie locali, riparti le materie che si sarebbero dovute attribuire alla competenza legislativa della regione in tre gruppi distinti: un primo gruppo di materie, attinenti ad interessi prevalentemente locali, da attribuirsi alla competenza esclusiva della Regione; un secondo gruppo di materie per le quali si sarebbe dovuto lasciare agli organi legislativi dello Stato la facoltà di stabilire i principi fondamentali, lasciando alla Regione la facoltà di dettare norme di esecuzione; per un terzo gruppo di materie infine, assegnate in principio alla competenza degli organi legislativi dello Stato, la Regione avrebbe potuto dettare norme fino a quando lo Stato non avesse fatto uso della propria facoltà di legiferare in materia (competenza concorrente).

La relazione del deputato Ambrosini fu seguita da un'ampia discussione; vanno sottolineate le dichiarazioni del deputato Uberti (Atti, cit., 29 luglio 1946, pag. 25), il quale rivendicò alla Regione la competenza legislativa per quanto riguarda i «piani regolatori delle città», trattandosi, a suo avviso, di una materia di spiccato interesse locale.

Il 1° agosto 1946 la Sottocommissione incaricò un comitato di dieci membri della stesura di un progetto articolato. Del Comitato furono chiamati a far parte i deputati Ambrosiani, Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, Einaudi, Grieco, Lami Starnuti, Lussu, Uberti, Zaccagnini.

Nello schema di progetto elaborato da tale «Comitato di redazione per l'autonomia regionale» la competenza legislativa della Regione è regolata dagli artt. 3 e 4, cosl formulati:



Art. 3. -Compete alla Regione la potestà legislativa nelle seguenti materie, in armonia con la Costituzione e coi principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato e nel rispetto degli interessi nazionali:

● agricoltura e foreste, cave e torbiere;

● strade, ponti, porti, acquedotti e lavori pubblici; pesca e caccia; urbanistica;

● antichità e belle arti; turismo;

● polizia locale urbana e rurale ; beneficenza pubblica; scuole professionali;

● modificazione delle circoscrizioni comunali.



Art. 4. -Compete alla Regione la potestà legislativa di integrazione delle norme direttive e generali emanate con legge dello Stato per le seguenti materie:

● industria e commercio;

● acque pubbliche ed energia elettrica; miniere;

● riforme economiche e sociali ; ordinamento sindacale; rapporti di lavoro;

● disciplina del credito, dell'assicurazione e del risparmio; istruzione elementare;

e per tutte le altre materie indicate da leggi speciali.

Nella relazione scritta del deputato Ambrosiani, che accompagna tale schema, si rileva che le materie attribuite alla competenza del nuovo Ente sono «di carattere strettamente regionale» e di «importanza meramente locale». Tale concetto fu ribadito dallo stesso deputato Ambrosini quando riferì alla II Sottocommissione sull'anzidetto schema di progetto elaborato dal Comitato di redazione (Commissione per la Costituzione, Discussioni, II Sottocommissione, 13 novembre 1946, pag. 482).

Per quanto concerne in particolare l'urbanistica il deputato Fabbri, nel corso della discussione sull'art. 3 dello schema, dichiarò trattarsi a suo avviso di materia concernente quasi esclusivamente la competenza dei Comuni; il deputato Perassi chiarì che, dovendo i piani regolatori essere approvati per legge, era logico affermare la competenza legislativa della Regione. (Atti, cit., seduta del 20 novembre 1946, pag. 542).

Dopo un ampio dibattito, la Sottocommissione conservò il primo tipo di potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva: art. 3 dello schema), aggiungendo la limitazione del rispetto degli obblighi internazionali; conservò parimenti il secondo tipo (potestà legislativa di integrazione ed attuazione delle leggi dello Stato: art. 4 dello schema), e aggiunse inoltre un terzo tipo di potestà legislativa, per l'attuazione in loco delle leggi nazionali, senza obbligo per queste ultime, per le materie elencate nella disposizione in parola, di limitarsi alla emanazione di principi e direttive generali (potestà legislativa concorrente). La nuova formulazione proposta dalla Sottocommissione si concretizzava quindi in tre articoli (109, 110, 111 del progetto di Costituzione).

Allorché il progetto di Costituzione, formulato in sede di Sottocommissione, fu portato all'esame della Commissione dei 75, si manifestarono numerose discordanze, e non poche critiche furono mosse alla soluzione accolta in materia di competenza legislativa delle Regioni.

Per evitare che tutto fosse rimesso in discussione, fu deciso di nominare un «Comitato di redazione dei 18» con l'incarico di riesaminare tutte le proposte formulate.

Per quanto concerne la materia trattata dagli artt. 109, 110, 111 del progetto, il Comitato di redazione elaborò un nuovo testo nel quale, rinunciandosi al tipo di legislazione esclusiva, si concentrarono in una sola figura la legislazione concorrente e quella integrativa. La nuova formulazione si concretizzava per- tanto in un solo articolo. L'urbanistica, che anteriormente era inclusa, sia nello schema predisposto dal Comitato di redazione per l'autonomia regionale (art. 3 ), sia nel progetto formulato dalla Sottocommissione (art. 109), tra le materie di competenza esclusiva della Regione, fu pertanto compresa nell'elenco di materie che l'articolo unificato predisposto dal Comitato dei 18 (poi art. 117 della Costituzione) assegnava alla competenza legislativa della Regione «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempre che le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre regioni».

In sede di discussione all'Assemblea Costituente furono presentati ad iniziativa dei deputati Nobile, Di Fausto e Bernini emendamenti volti ad escludere l'urbanistica dall'elenco delle materie da attribuirsi alla competenza legislativa delle Regioni. Tale iniziativa fu sostenuta, nella seduta dell'8 luglio 1947, dal deputato Renato Morelli il quale sostenne che l'urbanistica non può essere ritenuta materia di interesse soltanto locale, specialmente in considerazione delle connessioni esistenti fra lo sviluppo urbanistico e la tutela delle antichità e belle arti (Atti della Costituente, Discussioni, pagg. 5520-5521) e, per motivi diversi, dal deputato Bozzi, il quale osservò:

«Sotto l'espressione urbanistica, in realtà, si comprende una somma di poteri e di facoltà che oggi, in gran parte, per ciò che riguarda le attività locali, sono demandati ai Comuni...: affidando questa materia alla Regione, non potrà avvenire domani che la Regione sottragga questa potestà normativa ai Comuni ? ...Questa è in sostanza una preoccupazione di carattere generale, perché mentre vogliamo smantellare l'accentramento statale, corriamo l'alea di creare un accentramento regionale, che sotto parecchi aspetti potrebbe essere peggiore del primo. Non solo, ma in materia di urbanistica vi è un complesso di aspetti per i quali è necessaria una legislazione unitaria; io richiamo, sorvolando, la vostra attenzione sulle espropriazioni per pubblica utilità. Voi sapete che la materia urbanistica comporta espropriazioni; domando: la Regione, disciplinando questa materia, sia pure con norme ristrette nell'ambito dei principi fondamentali delle leggi dello Stato, non potrà creare disparità fra Regione e Regione? Io credo che togliendo questa materia alla Regione non si sminuisca la potestà legislativa del nuovo ente ». (Ibidem, pag. 5521).

Il deputato Cingolani dichiarò infine che il gruppo democristiano avrebbe votato in favore dell'inclusione dell'urbanistica tra le materie di competenza legislativa della Regione, allo scopo, oltretutto, di evitare l'uniformità urbanistica conseguente all' accentramento del relativo potere decisionale; mentre il deputato Cifaldi preannunciò il voto contrario del gruppo di Unione democratica nazionale, affermando che, in particolare, i piani di ricostruzione delle città danneggiate dalla guerra - compresi nella competenza urbanistica - non avrebbero dovuto redigersi secondo visioni particolari ma in coordinamento con aspirazioni di interessi più vasti. (Ibidem) pagg. 5521-5522).

Abbiamo recentemente affermato (Critica Fascista del 1 marzo) che l'unità urbanistica non è più oggi la città, ma la nazione; e che pertanto uno dei compiti essenziali dell'urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale. Lo strumento tecnico urbanistico è da tempo forgiato e non richiede che di essere usato: il piano territoriale. Ma perché l'opera dell'urbanista venga resa possibile ed efficace occorre prima l’azione politica. La distribuzione della popolazione è infatti la conseguenza, non la causa; è l'effetto ultimo di una causa fondamentale: il lavoro. La popolazione non si distribuisce a capriccio, ma si raggruppa e si organizza dove trova lavoro, cioè mezzi e possibilità di vita: è la legge umana più semplice e primordiale, elementare ed insopprimibile.

Ecco dunque la vera enunciazione del problema: distribuire il lavoro per poter distribuire la popolazione. E la distribuzione del lavoro è compito dell’uomo politico, del regime politico.

La distribuzione attuale della popolazione italiana è fondamentalmente sana e nell'insieme soddisfacente, ma presenta “punte” patologiche particolarmente gravi, ad eliminare le quali è stata indirizzata costantemente l'azione del Fascismo.

La lotta contro l'urbanesimo è stato uno dei fondamenti dell'azione politica del Fascismo. Il processo di inurbamento dura tuttora, ma è ormai contenuto e disciplinato; i risultati dell'azione del Regime sono già visibili e sarebbero ben maggiori se essa non avesse trovato molteplici ostacoli in troppi interessi precostituiti, in troppe cattive volontà, in troppe resistenze sorde e passive.

L'esagerato, spesso esasperato sviluppo delle città è stato determinato, fondamentalmente, dal nascere e dallo svilupparsi delle industrie le quali, non controllate ne disciplinate, si sono polarizzate verso le città, le hanno invase con i loro impianti ed i loro stabilimenti, con le migliaia e migliaia dei loro operai, si sono moltiplicate a libito, senza che i reggitori, né dello Stato né delle singole città, si preoccupassero per avventura di esaminare se questo vertiginoso addensamento di nuove fonti di lavoro in così ristretto spazio potesse minare l'organismo urbano e lederlo con gravissime malattie o se, peggio ancora, potesse sottrarre braccia al lavoro della terra, spopolare le campagne, minare le basi stesse della salute e della potenza della nazione, dando libero sfogo alla mania suicida dell'inurbamento.

È ben vero - è questa la comoda e semplicistica spiegazione del fenomeno che tanti vogliono dare - che la corsa alla città trova fondamento nel desiderio di vivere una vita più piacevole, più comoda, meno faticosa e nello stesso tempo più redditizia; di godere i cosiddetti “piaceri” delle città; ma è anche e soprattutto vero che ci si inurba sperando di trovare nelle città da lavorare più e meglio che in campagna o in paese; speranza ben giustificata dalla constatazione che tante e così cospicue fonti di lavoro sono state e continuano ad essere addensate quasi esclusivamente nelle città, Ma poiché, anche in una città grandissima e gonfiata all'inverosimile, le fonti di lavoro restano pur sempre limitate, si è giunti invece all'effetto nettamente opposto, che aveva raggiunto, sotto i passati regimi, proporzioni gravissime: la disoccupazione. Altro che piaceri della città, maggior guadagno, vita allegra e via dicendo.

Appare pertanto chiara, univoca, inequivocabile la soluzione vera del problema: togliere gradualmente, ma decisamente, dalle città maggiori una partedelle fonti di lavoro e, principali tra di esse, le industrie. Lo ripetiamo: è necessario compiere a ritroso il processo storico. Se le industrie addensatesi nelle città, verranno tolte e distribuite organicamente in altre zone del territorio, le rispettive maestranze non potranno non seguirle: cosi le città vedranno diminuire la loro popolazione e il fenomeno dell'urbanesimo si esaurirà poco a poco. Tolta la causa, tolto l'effetto.

Si guardi, del resto, a quanto il Regime ha già realizzato nel settore agricolo. Con la bonifica integrale sono state offerte nuove terre, cioè nuove fonti di lavoro, agli agricoltori; le campagne bonificate danno oggi lavoro e vitto sano a migliaia e migliaia di famiglie ed hanno consentito, anzi reso necessaria, la creazione di centri abitati, nettamente funzionali, modesti di proporzioni, sani e ridenti come lo sono tutti i nostri centri minori, permeati di campagna, di aria, di sole.

Con la eliminazione del latifondo si va operando una diversa distribuzione del lavoro e di conseguenza una diversa distribuzione della popolazione, che da esso anche prima traeva i mezzi di vita: si guardi alle grandiose opere in corso in Puglia e in Sicilia. Dotando i nuovi villaggi rurali, ed anche le singole unità poderali, delle comodità e dei ritrovati della moderna vita civile, secondo il preciso comandamento del Duce, si va attirando in essi anche una parte di coloro che si erano distaccati dalla terra o, quanto meno, si elimina la ragione di continuare ad inurbarsi.

Come nel settore agricolo, cosi occorre operare nel settore industriale. Una grande nazione moderna, bene organizzata e potente, non può essere soltanto rurale, pena la sua decadenza: deve essere anche, in giusta misura, una nazione industriale. Tutto sta nel ripartire organicamente e accortamente su tutto il territorio nazionale le varie attività, siano rurali o industriali o di qualunque altro i genere.

Un concetto fondamentale va innanzi tutto affermato: è assurdo ritenere che l'organizzazione industriale debba far perno sulla grande città; è vero anzi esattamente l'inverso. Nella grande città non esistono quasi mai le fonti di produzione delle materie prime che l'industria deve lavorare: tutto deve giungervi, con perdita di tempo e di denaro, con difficoltà di trasporto, dalle materie prime all'energia elettrica al carbone alle maestranze, che difficilmente sarà possibile far abitare nelle vicinanze degli stabilimenti. I prodotti industriali saranno di conseguenza molto più cari: si pensi che, soltanto per quanto riguarda gli operai, i salari dovranno esser più alti, date le spese di trasporto e dato, soprattutto, che la vita nella grande città è enormemente più cara. L'ideale, per una industria economicamente e socialmente sana, è di poter lavorare alla fonti le materie prime, aver a portata di mano, in quartieri di abitazione appositi a breve distanza, le proprie maestranze: e potremmo citare esempi cospicui felicissimi, se non temessimo di esser accusati di far gli agenti di pubblicità.

Ma v'è una ragione vitale che impone il decentramento industriale, l'allontanamento dai centri abitati: la ragione bellica. Ragione, si badi bene, non contingente, ma permanente: l'avvento del mezzo aereo ha abolito di fatto le frontiere tra gli Stati, ha reso possibile l'offesa su tutto il territorio nemico.

Certo il problema è particolarmente grave e complesso, non foss'altro in considerazione degli impianti esistenti nelle città, molti dei quali recentissimi, Ma ecco innanzitutto una norma inderogabile da sancire e far assolutamente rispettare: vietare la creazione di nuove industrie nelle città già inurbate, portandole invece possibilmente nelle zone di produzione delle materie prime o dell’energia motrice necessaria al loro funzionamento, in prossimità di linee di comunicazione, sia stradale che ferroviaria o per via d'acqua, per la organica rapida economica distribuzione dei prodotti in tutte le zone necessarie, ubicate in modo da esser il più possibile sottratte all'offesa aerea. Ed avviare, intanto, la sistematica smobilitazione e la nuova, accorta distribuzione delle industrie ubicate nelle città, a cominciare da quelle più vecchie e più bisognose di radicale rinnovamento.

Il processo di decentramento industriale porterà con sé, di conseguenza, un grandioso, complesso e interessantissimo e sano processo urbanistico. I lavoratori di queste industrie decentrate daranno vita a grandi e piccoli nuclei abitati a fondamento e funzione nettamente industriale, ma che presto si completeranno, per processo naturale, di tutti gli altri elementi di vita di un qualsiasi centro urbano, dal commercio all’artigianato e via dicendo. Si avrà così tutta una fioritura di nuovi centri, nei quali la popolazione sarà organicamente distribuita, perché organicamente distribuito sarà il lavoro. Questi nuovi centri a base industriale, stabilimenti da un lato, quartieri di abitazione dall'altro, opportunamente distaccati e organicamente distribuiti a servizio delle industrie, potranno esser veramente perfetti e sani, pieni di luce e di aria, e tenuti in quei limiti di popolazione che si vorranno; basterà infatti dosare per ognuno il numero e il genere delle industrie autorizzate a crescervi i propri impianti e a svolgervi la propria attività.

Cesserà, allora, per spontaneo esaurimento, l’affannosa, speculativa costruzione dei nuovi, brutti, spesso malsani quartieri di ampliamento, tutti a casoni e grattacieli, nelle città esistenti. Queste anzi, gradatamente, si svuoteranno di quanto di artificioso, di pleonastico, di assurdo vi aveva accumulato un secolo di errori e di “lasciar correre”, e un po' alla volta guariranno del loro male, torneranno a più efficienti e sane funzioni nel grande quadro delle attività della nazione.

Non si dimentichi che se ancor oggi, malgrado tutto, la nazione è sana, ciò è dovuto al fatto che la massima parte della popolazione è distribuita nelle campagne in ben ottomila circa centri abitati, dei quali appena due-trecento superano i ventimila abitanti. Quando questi centri maggiori - e soprattutto quelli che contano a centinaia di migliaia i propri cittadini - si saranno ridotti a poche diecine; e quando saranno sorte altre migliaia di piccoli centri, sia rurali che industriali, il problema potrà dirsi definitivamente risolto, Sarà infatti, un totalitario, autentico ritorno alla terra, non nel senso che tutti divengano contadini, ma che ognuno sia contatto diretto con la natura e con la campagna, divenute spesso un miraggio, un'utopia per i cittadini delle grandi città, Ne deriverà una maggiore sanità fisica e morale, ne scaturirà un sicuro potenziamento della razza.

L'indirizzo politico del Regime è tutto volto a questa grande mèta: ed è superfluo ricordare ancora parole e fatti del Duce. Basti citare, per quanto riguarda appunto il settore industriale, la legge per il decentramento industriale nel Mezzogiorno e nelle isole. Ma, anche qui tutto sta ad assicurare che la volontà limpida e lungimirante del Capo non venga tradita o comunque deformata nelle pratiche realizzazioni, C'è una legge: ma occorre darne la giusta interpretazione, garantirne la piena efficacia. Non per nulla F.M. Pacces ammonisce che quello del decentramento industriale è un tasto che bisogna continuare a battere, anche se fosse necessario un piano decennale … unicamente per la battuta del tasto.

Che cosa sta accadendo, infatti? Mentre si sancisce legislativamente la necessità assoluta del decentramento industriale, non soltanto per contingenti necessità belliche ma per creare il presupposto della potenza e della granitica invulnerabile solidità avvenire della nazione, assistiamo proprio ora al dilagare di un'altra pericolosissima moda, da noi già più volte denunciata: quella delle “zone industriali”, cioè di vaste estensioni di territorio tutte zeppe di stabilimenti ed impianti industriali, che vengono create e sviluppate - realtà romanzesca - proprio e specialmente nelle grandi e grandissime città, e cioè proprio nei centri urbani che abbisognano di una energica, drastica azione di svuotamento, di disurbanamento. Dopo la mania metropolitana, ecco la mania industriale prendere i capoluoghi: Bolzano, Ferrara, Apuania, Palermo, Roma e via dicendo, hanno già le loro grandi zone industriali consentite da appositi provvedimenti legislativi; molti altri brigano e si agitano per ottenere provvedimenti analoghi, come Pescara Pistoia ecc. Non basta. Lo stesso decentramento nel Mezzogiorno e nelle isole come viene attuato, in effetti, in molti, in troppi casi? Creando industrie, o zone industriali, non accortamente decentrate e distribuite fuori dei centri urbani, ma proprio in essi, anzi nei maggiori di essi, a cominciare da Napoli e da Bari.

C'è di che rimaner perplessi - per non dir altro - di fronte a questa singolare interpretazione del concetto di decentramento industriale: non resta che augurarsi che, come per il settore del risparmio e dei prezzi, giunga l’inflessibile volontà e la decisa azione del Duce, con le buone se possibile, con la forza se necessario.

La nuova legge urbanistica è dunque ormai Legge dello Stato con tutti i crisma ufficiali.

Chi ha seguito su questa stessa Rivista il nostro tenace lavoro preparatorio, chi ha letto sui giornali politici o sui resoconti parlamentari il nostro pensiero, o ha seguito attraverso la radio o le comunicazioni in convegni di studiosi l'appassionata alternativa delle speranze o dei timori, immagina quale sia la nostra esultanza per la meta raggiunta, e la nostra legittima soddisfazione per la non inutile opera compiuta.

Al Ministro Gorla che da uomo di fede di volontà e di competenza tecnica ha saputo superare le non lievi difficoltà conducendo intatta in porto la navicella della sua legge, abbiamo espresso già, e ripetutamente, il nostro plauso e la nostra riconoscenza.

Ma da questo nostro organo, al Duce che ha voluto che, anche in momenti duri e difficili come quelli che attraversiamo, non venisse trascurata la preparazione fondamentale della disciplina e dell’ordine urbanistico di domani, e al Ministro Gorla, artefice presentatore e difensore della legge, vogliamo rinnovare il fervido commosso ringraziamento degli urbanisti italiani, che nella legge vedono lo strumento di un feconda disciplina, e di una vera rinascita dell'arte urbanistica. Arte e disciplina che varranno, vogliamo sperarlo, a dare ordine e bellezza al volto della Patria nei giorni avvenire, quando sarà possibile riprendere in pieno quel fervore di attività creatrice che è stato proprio del primo ventennio del Fascismo e che, dopo la Vittoria, dovrà tornare ad essere una delle più significative prerogative del Regime.

Abbiamo espresso la nostra fede nella bontà dello strumento che il Governo Fascista ha predisposto, e altrettanto ripetiamo a proposito del Regolamento che con celerità veramente eccezionali il Ministro dei lavori pubblici sta per emanare. Naturalmente l'efficacia dei più sani e lungimiranti provvedimenti dipende dal buon senso, dalla rettitudine e dalla intelligenza con cui sono applicati; e a coloro che al nostro entusiasmo oppongono lo scetticismo sulla incapacità e malavoglia degli uomini, rispondiamo che abbiamo invece piena fiducia che gli organi di propulsione e di controllo che la legge crea al centro e alla periferia gioveranno ad assicurare la buona realizzazione dei postulati della più sana ed evoluta urbanistica italiana.

La nostra Segreteria ha commentato la legge articolo per articolo, e quel commento fa seguito in questa nostra pubblicazione, al testo della legge e alla riproduzione delle interessanti discussioni alla Camera e al Senato.

Qui vogliamo porre in rilievo solo i lineamenti essenziali profondamente innovatori della legge.

Primo: il concetto di Piano Territoriale

Si ricorderà che la nostra Rivista iniziando il nuovo ordinamento lo scorso anno, impostò proprio sui Piani territoriali il suo primo articolo di fondo, ponendo in rilievo la importanza fondamentale che per una giusta e sana distribuzione delle forze produttive del paese e per una efficace azione di disurbamento ha una buona politica di previsione e di coordinamento di tutte le attività urbanistiche in una determinata estensione di territorio. Il Ministro Gorla ha voluto che i Piani territoriale si chiamassero appunto di coordinamento, e ne ha avocata la compilazione diretta o indiretta allo stesso Ministero dei lavori pubblici attraverso le Sezioni Urbanistiche.

Secondo: la creazione delle Sezioni Urbanistiche

Uffici periferici con funzioni tecniche autonome, anche se amministrativamente collegati col Genio Civile. Sezioni che hanno delicati e difficili compiti di propulsione, di incitamento, di controllo, e di raccolta di elementi e dati da fornire agli organi centrali; e che pertanto dovranno essere affidate a funzionari provetti ed esperti della materia.

Una legge preesistente, non ancora prima applicata, ha posto il Ministero nella condizione di poter assumere per chiamata diretta alcuni egregi camerati che conoscono le discipline urbanistiche per aver a lungo, per quanto giovani, militato nella schiera dei combattenti per la buona causa dell’urbanistica; ad essi, tutti a noi cari e tutti assai favorevolmente noti nel campo degli studi per opere, pubblicazioni e concorsi va la nostra sicura fiducia.

Ma non basta: le Sezioni Urbanistiche sono sedici; e manca ancora un buon gruppo di giovani autorevoli per la riconosciuta competenza e salda preparazione. Facciamo pertanto voto che i nostri giovani urbanisti che ormai dalle Facoltà di Architettura, e da qualche anno anche da quelle di Ingegneria, escono agguerriti e consapevoli, accorrano alla chiamata del Ministro e si accingano a dare alla pubblica Amministrazione, e attraverso essa alla Patria, il meglio delle loro energie.



Terzo: la netta e decisiva definizione di piano generale e di piano particolareggiato

La precisazione dei caratteri dei primo, che possono dirsi di esclusivo valore tecnico e programmatico, e del valore giuridico assunto dai secondi con la imposizione, solo a tempo limitato, di oneri e vincoli.

Insistiamo su questo concetto che è fondamentale; e che non vuol dire affatto che il piano generale possa essere una espressione vaga e indecisa che i piani particolareggiati debbano poi precisare in modo completo; ché anzi nulla dovrebbe vietare che il passaggio dal piano generale alla preparazione dei piani particolareggiati possa essere immediato. Ma resta ben fermo il concetto fondamentale che, anche se predisposti in linea tecnica per una più ampia zona, i piani particolareggiati possono essere approvati anche per piccoli settori, e solo allorché i Comuni stessi hanno la sicurezza di poter presentare un piano finanziario organico e saldo, e quindi realizzare di fatto nel tempo prescritto.

Tralasciamo di dilungarci sul valore tecnico di molti dei principi fondamentali che la legge instaura: come quello della rettifica dei confini della obbligatorietà dei comparti, con i quali sarà possibile vedere finalmente rimossi quegli inconvenienti ce sino ad oggi, per la esistenza di tante piccole proprietà frazionate e intersecatesi, impedivano la realizzazione armonica di un qualsiasi complesso urbanistico; o quelli della prescrizione degli isolati in tutto corrispondenti ad unità fabbricabili secondo la tipologia prescelta; o della obbligatoria presentazione delle sagome e dei profili dei fabbricati lungo le vie o piazze principali; o infine delle precise norme per il regolamento edilizio.

Tutti principii di assoluto valore tecnico oltre che giuridico, che verranno finalmente a permettere l concezione di un piano regolatore nella sue terza dimensione.

Ci preme però di far rilevare ancora una volta come le disposizioni relative alla espropriabilità delle aree, specialmente riferite alle zone di espansione, mettano una buona volta i Comuni nella condizione di poter disciplinare le attività edilizie, consentendolo solo nelle zone e nelle direzioni dove, con un organico piani di realizzazione di opere di Piano Regolatore, l’espansione dell’aggregato urbano e la creazione di nuovi nuclei satelliti corrispondano al preventivo programma urbanistico; non solo, ma anche, le disposizioni medesime, permettano ai Comuni, con la attenta manovra dei prezzi delle aree, di consentire una edilizia veramente sana, moderna, corrispondente alle esigenze estetiche igieniche e politiche della nostra razza.

Questo punto non sarà mai abbastanza illustrato e posto in rilievo ed è senza alcuna incertezza che noi vediamo in esso, se sarà bene compreso e bene applicato, la chiave di una vera rinascita della urbanistica nostra tanto sotto il profilo estetico quanto sotto quello sociale.

Ai più o meno disinteressati tutori dell'assurdo quanto astratto diritto di proprietà, secondo il quale ogni proprietario di aree, sebbene tuttora utilizzate a sola destinazione agricola, dovrebbe avere la libertà di far trasformare in qualunque tempo, e a spese del pubblico erario, i loro campi in zone edilizie per arricchirsi con fantastici sopraprofitti, opponiamo solo la visione di una più sana ed equa giustizia, che nulla tolga alla proprietà di quanto è già in essere, acquisito o anche di prossima acquisizione; ma che permetta anche alla oculata politica amministrativa dei Comuni, di poter regolare l'attività edilizia dei privati nel tempo e nello spazio, evitando inutili spese e dannosi sperperi di pubblico denaro; e permetta anche di garantire a tutta la popolazione presente e futura il godimento di quartieri di abitazione sani e ridenti, di ampie riserve verdi per la gioia e la sanità dell'infanzia, di tutto quel complesso di provvidenze e di istituzioni accessorie, politiche, religiose, sportive, assistenziali che dovranno fare dei nostri centri abitati dei vari modelli di urbanistica italiana e fascista.

A chi teme che tutto ciò resti nel campo degli ideali sognati per difetto di mezzi o incapacità degli uomini possiamo rispondere: che sì, il difetto di mezzi è purtroppo prevedibile, poiché per procedere alla espropriazione delle aree che occorre pagare al giusto valore venale senza riduzioni di capitalizzazione di imponibile o coacervo di fitti, occorrono dei mezzi finanziari che non si sa ancora bene dove e come i Comuni potranno procurarsi.

Può darsi che il Governo voglia provvedere con qualche speciale accorgimento in considerazione che si tratterebbe di una esposizione finanziaria la quale dovrebbe, ad opera compiuta, dare invece un certo margine di utile col quale provvedere a nuove opere.

Chi legge queste nostre note ricorderà che proprio per ovviare all'inconveniente di un notevole disborso di denaro, e all'altro più grave di un possibile arresto di attività produttiva nel campo agrario, noi dell'Istituto avevamo proposto un sistema di valutazione e di catasto economico che avrebbe permesso lo stesso congegno di disciplina e di coordinamento, quasi senza anticipazione di fondi da parte dei Comuni.

La proposta è parsa acerba ed è rimasta allo stato di proposta; ma noi abbiamo fede che l'avvenire ci darà ragione. Comunque è a ritenersi che in un modo o nell'altro i Comuni potranno, e noi diciamo anzi dovranno, giovarsi delle benefiche disposizioni di legge.

Quanto all'argomento della eventuale incapacità degli uomini ... è argomento vecchio quanto la storia del mondo. E nessuna legge potrebbe mai essere presentata se non sorreggesse la fiducia della sua bontà intrinseca e della onestà e capacità di chi deve applicarla.

Prima di iniziare la trattazione dei problemi urbanistici sotto il profilo legale è forse opportuno dare uno sguardo, per così dire, panoramico alla situazione urbanistica italiana, al fine di esaminare se e fino a qual punto lo stato attuale della legislazione abbia influito o possa influire sulla progettazione e sull'esecuzione di buoni piani regolatori.

Quando, nel settembre 1929, fu inaugurata in Roma la I Mostra Nazionale Urbanistica, molti delegati stranieri, convenuti in Italia per prender parte al XII Congresso Internazionale dell'abitazione e dei piani regolatori, ebbero espressioni di plauso e di meraviglia nel constatare, attraverso una documentazione di inoppugnabile evidenza, che l'Italia, da molti giudicata un paese ancora agli albori della scienza urbanistica, aveva invece compiuto e stava compiendo un lavoro notevole per la preparazione di piani di trasformazione e di ampliamento delle proprie città rispondenti alle moderne esigenze dell'igiene, del traffico e dell'estetica.

Quella mostra nazionale ebbe, quindi, il merito di svolgere un'utile funzione di propaganda presso scienziati e uomini politici stranieri, fornendo una prova del grande impulso dato dal Fascismo al rinnovamento del paese anche in questo settore importantissimo riflettente il miglioramento delle condizioni di vita materiale delle popolazioni.

Ma un altro vantaggio assai notevole essa recò, e fu quello di richiamare l'attenzione di molte amministrazioni municipali, rimaste fino ad allora pressoché inerti, sulla necessità di risolvere i problemi di sistemazione e di ampliamento dell'aggregato edilizio, come mezzo per eliminare molteplici inconvenienti più o meno gravi nello svolgimento della vita cittadina, e per assicurare la conservazione e il miglioramento del patrimonio di bellezze artistiche e panoramiche, che la maggior parte dei nostri comuni posseggono in misura doviziosa.

Infatti, mentre fino al 1929 solo poche grandi città avevano provveduto a preparare e far approvare piani regolatori edilizi e di ampliamento, da quell’anno in poi si moltiplicarono i progetti degli uffici municipali e numerosi furono i concorsi banditi per fissare i criteri più idonei da seguire nella loro compilazione, Ne il movimento di rinnovamento urbanistico si fermò alle città maggiori, che anche amministrazioni di centri appartati di provincie vollero fissare in piani più o meno bene studiati nuovi criteri di assetto dell'abitato.

Dall'Annuario delle Città Italiane, importante pubblicazione edita in questi ultimi mesi dall'Istituto Nazionale d'Urbanistica, risulta che dei 93 capoluoghi di provincia, 32 hanno oggi un piano regolatore approvato e 4710 hanno in compilazione; di guisa che solo 13 non hanno ancora affrontato la soluzione integrale dei problemi urbanistici.

Non è mia intenzione affermare che siffatti risultati debbano unicamente ascriversi alla funzione di richiamo e di propaganda esercitata dalla Mostra del 1929. A queste importanti realizzazioni contribuì in grande misura la parola appassionata di vecchi e di giovani urbanisti, di scienziati e di neofiti, i quali non cessarono di far presenti in tutti i modi, dalla cattedra e dalle colonne dei quotidiani, dalle Commissioni edilizie e dalle adunate di tecnici, i dannosi effetti di un'attività edilizia disordinata. Vi contribuì una conoscenza più approfondita delle esigenze demografiche, economiche, culturali e sociali in genere dei nostri aggregati urbani da parte di amministratori e di organi centrali e locali di controllo. Vi contribuirono le polemiche fra studiosi di problemi municipali, dalle quali quasi sempre emerse chiaro che alle esigenze predette non corrispondeva la struttura degli aggregati edilizi o non vi avrebbe più corrisposto in avvenire se non si fosse pensato a indirizzarne in modo idoneo la trasformazione e l'accrescimento.

Certo è che molte amministrazioni municipali riconobbero in questi ultimi anni la necessità di provvedere ad un conveniente assetto dell'abitato e affrontarono i problemi edilizi con una sollecitudine e con una buona volontà che talvolta disorientarono coloro stessi che avevano protestato contro l'inintelligente neghittosità di Consigli e di Giunte comunali, rimaste per lungo tempo impassibili di fronte all'incalzare dei bisogni relativi allo sviluppo cittadino.

Vi sono state esagerazioni? Alcuni ne dubitano. Altri lo affermano in modo reciso, dichiarando che la vanità personale di amministratori, desiderosi di legare il loro nome ad opere colossali, più che il reale bisogno di trasformazioni edilizie ha dato esca alla formazione di piani implicanti vaste demolizioni di edifici dove si sarebbe potuto provvedere con semplici modificazioni di dettaglio, ha spinto all'esecuzione di opere giustificate con necessità di traffico, d'igiene, di decoro, talvolta assolutamente inesistenti, spesso artatamente amplificate, ha condotto alla previsione di nuovi estesi quartieri di abitazione, con conseguenti vincoli alle proprietà private per la formazione di reti stradali, laddove il coefficiente d'incremento della popolazione avrebbe potuto render necessaria la costruzione di poche case in un periodo abbastanza lungo, ha spinto infine alla creazione di zone verdi e di spazi liberi dove questi risultavano superflui o comunque non indispensabili, impedendo un conveniente sfruttamento edilizio di vasti appezzamenti di terreni situati in ottima posizione.

Con il corredo di ben colorite relazioni anche sulla disoccupazione locale, si è detto, sono stati imbastiti grandiosi piani di sventramento, mastodontici progetti di bonifica igienica, sontuose trasformazioni estetiche, che, mentre hanno gravato molti bilanci comunali di pesi insostenibili per mutui o per anticipazioni onerose, non hanno risoluto definitivamente i problemi messi allo studio, giungendo quindi all'unico vero risultato di peggiorare la situazione dei contribuenti e di infliggere alla proprietà privata inutili limitazioni.

Il quadro è alquanto catastrofico! Non si può tuttavia negare che talvolta si sia andati troppo innanzi e che non solo sia stata Eseguita qualche opera non del tutto necessaria, ma che numerosi vincoli siano stati imposti sui beni privati senza la certezza di poter dar corso alle sistemazioni relative. Inconveniente questo assai grave, perché, se è fuori dubbio che l'interesse privato debba cedere di fronte a quello della collettività, è da considerare iniquo, e perciò inammissibile, che il cittadino debba soffrire una diminuzione del suo patrimonio senza che ne derivi un corrispondente vantaggio per la collettività. Di vera diminuzione patrimoniale deve, infatti, parlarsi quando un immobile, gravato della « servitus non aedificandi», perché destinato a passare nel demanio comunale con l'attuazione del piano regolatore, viene di fatto ad essere posto fuori commercio e subisce quindi una svalutazione più o meno grave, quasi sempre non compensata da altro beneficio economico per il proprietario.

Ne ad eliminare tali inconvenienti ha giovato il sistema del pubblico concorso per la preparazione del piano regolatore, sistema largamente usato in questi ultimi tempi, che, si riteneva, avrebbe assicurato i migliori risultati, chiamando a collaborare ad un compito così importante le migliori energie. Di fatto molto spesso le Commissioni giudicatrici si son trovate di fronte a proposte geniali e a piani profondamente studiati, ma altrettanto gravosi per le finanze comunali e non meno criticati dai rappresentanti degl'interessi della proprietà privata rispetto a quelli preparati direttamente dagli uffici municipali.

Quali le cause di una situazione tanto strana? Forse l'eccessivo ardimento di tecnici portati a seguire principi teorici senza la preoccupazione delle possibilità pratiche di realizzazione? O forse il carattere incompleto e anacronistico delle disposizioni che regolano in Italia la formazione e l'esecuzione dei piani regolatori?

Noi vorremmo poter scartare la seconda ipotesi: invece onestamente dobbiamo riconoscere che proprio a questa causa sono da attribuirsi in gran parte gli eccessi deplorati nel campo urbanistico.

Purtroppo, mentre per la parte tecnica sono stati compiuti progressi notevolissimi e i nostri architetti ed ingegneri si sono messi alla pari dei loro colleghi stranieri, se non li hanno addirittura sopravanzati, nella formulazione di progetti in tutto rispondenti alle esigenze dei centri da sistemare, le norme che regolano la materia sono rimaste ancora quelle di settanta anni or sono, contenute negli ultimi nove articoli della legge 24 giugno 1865 sull'espropriazione per pubblica utilità, norme emanate quando in tutti i campi, estetico, igienico, sociale, le esigenze erano infinitamente minori di numero e profondamente diverse nella sostanza.

Che le predette disposizioni siano ormai sorpassate è dimostrato da un cumulo di considerazioni. Ne accenneremo alcune rapidamente.

Anzitutto la legge del 1865 vuole il piano regolatore limitato a quelle parti dell'aggregato edilizio nelle quali si notino inconvenienti igienici o di traffico. Questa limitazione era concepibile moltissimi anni fa, quando piccole modificazioni nell'allineamento dei fabbricati e l'apertura di una via o l'allargamento di un'altra bastavano a risolvere problemi gravi di assetto edilizio. Oggi le cose sono totalmente cambiate, e non è più possibile predisporre provvedimenti edilizi in una parte dell'abitato senza considerare le conseguenze che ne deriveranno in altre parti anche lontane. Infatti, con 10 sviluppo dei mezzi di trasporto a trazione meccanica e con l'aumentata rapidità della circolazione, può una trasformazione edilizia avere ripercussioni in zone assai distanti dando luogo a rarefazione o congestionamento della circolazione in misura più che notevole.

La legge del 1865 esige che nella formulazione del piano regolatore si tenga conto dei bisogni attuali: principio assolutamente inammissibile, poiché, dato l'alto costo delle trasformazioni edilizie, si deve evitare la necessità di attuarne altre nel futuro, e quindi si devono considerare nella preparazione del piano anche bisogni che prevedibilmente si manifeste- ranno a scadenza più o meno lontana.

Nell'ambito del diritto urbanistico vigente è possibile riservare, attraverso il piano regolatore, solo le aree necessarie per costruzione o trasformazione di strade. Ora, se più di mezzo secolo fa, in un regime di vita che comincia ad apparirci patriarcale, nulla o quasi era la necessità di grandi impianti per servizi pubblici, all'epoca attuale, in cui Stato e Comuni provvedono direttamente alla soddisfazione di numerosi bisogni della collettività, i servizi pubblici si sono moltiplicati, ed è assolutamente inconcepibile che il piano regolato re si disinteressi totalmente dei problemi relativi alloro impianto, data l'influenza che essi esercitano sulle condizioni di vita della popolazione.

La legge del 1865, infine, non contiene disposizioni intese ad attuare una disciplina rigorosa delle costruzioni. Ora l'attività edilizia del dopo guerra ci ha dimostrato che cosa significhi lasciar sorgere interi quartieri senza un controllo accurato da parte delle autorità locali. Nel corso di pochi mesi vasti aggruppamenti di abitazioni sono sorti alla periferia dei maggiori centri urbani, senza collegamento con l'abitato esistente, disposti in modo da rendere quanto mai difficile l'estensione dei pubblici servizi.

Donde un triste spettacolo di miseria in w ne che apparivano prima veramente suggestive, sfoghi capricciosi di mania edilizia in località che per evidenti ragioni estetiche avrebbero dovuto rimanere molti anni ancora libere da costruzioni, imbarazzi gravi di amministrazioni, impossibilitate a curare il materiale benessere di molte centinaia di famiglie, dimoranti in località prive di ogni servizio pubblico, mentre altre zone, già da lungo tempo sistemate, erano disertate dalle nuove costruzioni!

Non può quindi recare meraviglia se, di fronte a siffatto stato di cose, sono stati invocati provvedimenti di eccezione, capaci di ovviare agli inconvenienti più gravi; ne può impressionare il fatto che, una volta riconosciuta la necessità di derogare al!a legge generale, le amministrazioni locali si siano spinte a richiedere posizione e privilegi speciali, e abbastanza facilmente le autorità centrali si siano indotte ad eccedere a tali domanda, anche se eccessive.

Gli eccessi sono derivati in questo caso dalla scheletrica semplicità della legge urbanistica, la quale non offre mezzi sufficienti per impedire mali, che possono in taluni casi raggiungere proporzioni preoccupanti ed avere conseguenze dolorose dal punto di vista della sanità fisica e morale del popolo, e assai scarsamente si presta a realizzare il canone fondamentale della scienza urbanistica, che è quello di assicurare la sistemazione degli aggregati edilizi in modo che la vita dei cittadini vi si possa svolgere nelle migliori condizioni possibili.

Ma v'è di più: in molti casi i rimedi che la legge pone a disposizione per eliminare deficienze edilizie, specialmente nei riguardi dell'igiene, applicati integralmente, risultano tali da favorire soluzioni criticabili urbanisticamente, perché assai costose per le amministrazioni comunali, rovinose per l'estetica cittadina, gravemente lesive degl'interessi della proprietà edilizia. Poche argomentazioni sono sufficienti a chiarire il fondamento di questa che può sembrare, e non è, affatto paradossale.

Un metodo generalmente riconosciuto adatto a realizzare il risanamento di quartieri antigienici, salvando le peculiari caratteristiche dei nostri aggregati urbani"e tuttavia assicurando l'eliminazione di quello stato di miseria edilizia, che solo pochi visionari o qualche turista in cerca di sensazioni di dubbio valore estetico vorrebbero mantenuto a tutela del cosiddetto «colore locale», è quello del diradamento, le cui particolarità furono più di venti anni or sono chiaramente indicate dall'Accademico d'Italia, professore Giovannoni. È possibile, con tale sistema, portare aria e luce in mezzo ai tuguri e assicurare un singolare miglioramento del patrimonio artistico-architettonico di molte nostre città, senza attuare nessuno di questi disgraziati «sventramenti» che hanno rovinato molti ambienti deliziosi, provvedimenti altrettanto brutti nel nome quanto deprecabili nelle loro conseguenze. Basta adoperare sapientemente l'arma della demolizione, procedendo ad un oculato abbattimento di costruzioni addossate, in tempi di oscura decadenza, agli edifici maggiori, basta creare piccoli slarghi là dove fabbricati di minore importanza si prestano a parziali e poco costose trasformazioni, basta tendere al miglioramento delle condizioni dell'igiene e della circolazione non preoccupandosi di attuare rettifili insignificanti e monotoni.

Molti compilatori di piani non hanno forse tenuto presente questo importante principio urbanistico nello studiare il risanamento di vecchi quartieri, ma dobbiamo pur riconoscere che, anche se lo avessero fatto, sarebbe poi loro mancata la possibilità di giungere alla formulazione di un piano eseguibile, perché la legge generale vigente non fornisce i mezzi per attuare soluzioni del genere di quelle che formano l'essenza del metodo del «diradamento edilizio».

Una prova convincente si ha in quello che è accaduto a Roma quando si è voluto affrontare in pieno la questione dell'assetto del quartiere del Rinascimento. Lo studio del delicato problema, iniziato fin da epoca anteriore alla guerra, completato e tradotto in un piano di massima da una Commissione nominata nel 1923, non è stato mai potuto trasformare in provvedimento definitivo perché si è riconosciuto che le norme in vigore non offrivano allora, come non offrono oggi, la possibilità di svolgere quell'azione complessa che si richiede per l'esecuzione di una sistemazione fondata su trasformazioni di dettaglio non precisabili attraverso un comune piano regolatore.

Nella stessa condizione si sono trovate molte altre amministrazioni comunali, alle quali si presentavano problemi analoghi da risolvere: esse hanno quindi creduto opportuno seguire la via più semplice, anzi l'unica che la legge loro offriva, quella del risanamento edilizio attraverso demolizioni su vasta scala, quella della bonifica dell'abitato radendo al suolo interi quartieri o aprendo grandi squarci nelle costruzioni, a costo di cambiare totalmente l'aspetto di determinate zone e sacrificare definitivamente quanto di bello esse offrivano.

A questo proposito, peraltro, s'insiste nell'affermare che troppo spesso si è ricorso agli sventramenti, anche quando il bisogno di risanamento igienico non era molto sentito; ma in ciò è da riconoscere un' altra prova dell'imperfezione della legge 25 giugno 1865, per la parte riflettente la formazione e l'approvazione dei piani regolatori. Essa esaurisce, si può dire, tutta la materia in due brevi disposizioni: quella dell'art. 86, nel quale è detto che «i Comuni con popolazione accentrata di più di 10.000 abitanti possono per causa di pubblico vantaggio, determinato da attuale bisogno di provvedere alla salubrità e alle necessarie comunicazioni, fare un piano regolatore, nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell'abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici, per raggiungere l'intento»; e quella dell'art. 93, in cui è stabilito che «tutti i Comuni, pei quali sia dimostrata l'attuale necessità di estendere l'abitato, potranno adottare un piano regolatore di ampliamento, in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifici, a fine di provvedere alla salubrità dell'abitato ed alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione».

Ora è la tacitiana laconicità della legge la causa principale della indecisione che vige nella disciplina dell'assetto degli aggregati edilizi. Pur senza seguire il metodo di una regolamentazione dettagliatissima adottato in altri paesi, se la nostra legge o il regolamento generale per la sua applicazione {che la legge prevedeva ma che non è stato mai emanato) fornissero un criterio qualsiasi di orientamento, o se, quel che sarebbe preferibile, fosse affidato ad un organo autorevole e urbanisticamente attrezzato il compito di dettare norme per la formazione dei piani regolatori e per indirizzare l'attività urbanistica con criteri idonei, forse nei concorsi non si avrebbero proposte che le commissioni giudicatrici debbono, sia pure con molto riguardo, deplorare piuttosto che segnalare come meritevoli di essere prese a fondamento per la formazione del piano definitivo, forse non si avrebbero progetti di uffici municipali che, una volta compilati, pubblicati e discussi, assai difficilmente possono essere respinti, anche se sostanzialmente errati ed anche se gli organi chiamati a dar parere sul loro contenuto intendono assumere una posizione di netta intransigenza.

Nelle condizioni attuali, pertanto, vi è chi si augura che molti Comuni si astengano dal formulare un piano regolatore, affermando che è meno dannosa un'attività edilizia non controllata affatto che uno sviluppo delle costruzioni disciplinato da un piano sbagliato.

A questo augurio noi non possiamo certo associarci. Occorre evitare gli inconvenienti, ma non si può rinunciare alla formazione dei piani, poiché, se è impossibile erigere un fabbricato di grande mole senza la guida di un progetto che tenga conto dell'uso cui l'edificio è destinato, dell'ambiente in cui deve sorgere e dei materiali con i quali deve essere costruito, è assurdo ritenere che un'opera molto più complessa, quale è la costruzione o la trasformazione di un nucleo edilizio di una certa importanza, dalla cui disposizione più o meno indovinata dipenderà la migliore soddisfazione di innumerevoli esigenze della collettività, possa essere compiuta senza un piano prestabilito. Quando per un complesso disgraziato di circostanze questo si verifichi, l'amministrazione municipale finirà, prima o poi, per trovarsi in questa alternativa: o tollerare uno stato di cose pregiudizievole dal punto di vista igienico ed estetico, e sarà un danno grave per la collettività, o adottare provvedimenti edilizi, che nella maggior parte dei casi porteranno a demolizioni, cioè a distruzioni di ricchezze, e anche questo rappresenterà un danno grave per la collettività, poiché su essa in definitiva si riverseranno le conseguenze economiche di tali distruzioni.

Del resto, direttive precise in questo campo sono indispensabili anche perché è attraverso un razionale sviluppo dell'abitato che la spesa per l'estensione dei servizi pubblici può essere contenuta in limiti convenienti. Questo lato del problema acquista, oggi che le finanze dei Comuni devono essere liberate da ogni inutile peso, importanza grandissima. Nell'impossibilità di gravare ulteriormente il contribuente, le amministrazioni municipali debbono essere messe in condizione di impiegare bene i fondi stanziati per la costruzione di nuove strade, per l'impianto di linee tranviarie, per l'estensione di canalizzazioni elettriche, idriche, telefoniche e soprattutto di ottenere che abbiano uno sfruttamento adeguato quelli erogati per siffatti impianti nell'aggregato edilizio esistente.

Quali sono, allora, i rimedi indispensabili per ovviare ai temuti eccessi nel campo urbanistico e per assicurare una disciplina dell'attività edilizia in tutto rispondente alle necessità della vita moderna?

Secondo il nostro avviso, essi sono essenzialmente due. Il primo deve consistere in una propaganda fra i nostri tecnici, tendente a far conoscere la portata delle norme vigenti nel campo urbanistico e i criteri da seguire nella loro attuazione, allo scopo di soddisfare le esigenze dei singoli aggregati edilizi senza contravvenire alla lettera della legge, ma adattando questa, per quanto è possibile, ai nuovi tempi e ai nuovi bisogni. A tale scopo di grande utilità sono senza dubbio i corsi di cultura urbanistica, sul tipo di quello fondato presso gli Istituti superiori di ingegneria e di architettura di Roma.

L'altro rimedio deve necessariamente consistere nell'emanazione di una legge generale urbanistica che sostituisca le antiquate disposizioni contenute nella legge sull'espropriazione per pubblica utilità, offrendo ai Comuni la possibilità di formare piani regolatori completi e perfetti e l'opportunità di attuarli razionalmente.

A giustificare la generale aspirazione verso norme urbanisticamente più appropriate alle condizioni attuali bastano gl'interessi estetici connessi con un conveniente assetto dell'abitato. Come, infatti, poter contribuire alla salvaguardia dell'importante patrimonio artistico e archeologico di molti nostri centri se la legge attuale non permette di tener conto di siffatta esigenza nella formazione di piani regolatori, ma solo di considerare i bisogni dell'igiene e del traffico? Come tutelare le bellezze paesistiche, che la natura ha profuso nella nostra tetra, se la legge non contempla la formazione dei piani regionali, con i quali soltanto è possibile assicurare il rispetto di una zonizzazione che vada oltre i-confini del territorio di un solo Comune? E come raggiungere questo scopo, anche entro i ristretti limiti di una circoscrizione municipale, se la zonizzazione stessa è principio sconosciuto alla nostra legge urbanistica, talché solo mediante legge speciale si è potuto finora disciplinare i vari sistemi di fabbricazione previsti dai recenti piani regolatori?

L'incompletezza delle disposizioni generali in vigore dà ragione dell'uso ormai invalso di approvare per legge ogni piano regolatore, unico mezzo per riparare alle deficienze delle disposizioni stesse. Ma evidentemente non potremo ridurci ad avere tante leggi di piano regolatore quanti sono i comuni d'Italia. Già troppi sono i provvedimenti legislativi speciali, nella cui congerie è difficile orientarsi anche al più colto fra i nostri urbanisti.

D'altra parte con una nuova e più completa legge urbanistica deve anche essere colmata la lacuna, che tuttora esiste, riguardante la precisazione dei criteri direttivi per la formazione dei Regolamenti edilizi comunali. Agli effetti del razionale sviluppo di un aggregato edilizio il piano regolatore non è tutto. La sua compilazione non esaurisce tutte le esigenze di un organismo urbano, al quale si vogliano dare sani elementi di vita. Se ci si consente un raffronto con altra arte, diremo che il piano regolatore è, nell'urbanistica, quello che in pittura è il disegno. Il disegno serve ad assicurare una opportuna distribuzione delle masse e dei piani: ma il colore, il particolare originale del quadro è dato dal pennello. Così nel campo urbanistico, il piano regolatore fissa i criteri di trasformazione o di sviluppo dell'abitato, ma i dettagli fisionomici dei singoli quartieri sono disciplinati dal regolamento edilizio. E questo che permette, nelle linee generali tracciate dal piano regolatore, di mantenere l'unità di direttive, senza la quale il piano regolatore è praticamente annullato. È questo solo che impedisce che il tracciato solenne e maestoso delle vie venga tradito da costruzioni inadeguate, o troppo meschine o troppo sfacciate: che il beneficio di spazi liberi e di parchi pubblici, disegnati perché la città respiri, venga in pratica neutralizzato dalla fabbricazione di case antigieniche; che l'intensità delle costruzioni in determinati quartieri annulli le precauzioni prese nel piano regolato re per assicurare al traffico un andamento normale.

Attualmente così delicata materia è pressoché lasciata in balia dei Comuni, poiché il regolamento esecutivo della Legge comunale e provinciale, nel disciplinare la compilazione dei regolamenti edilizi, si limita a circoscrivere il campo nel quale essi possono spaziare, e due circolari, una del Ministero dei Lavori Pubblici e una del Ministero dell'Interno, ambedue vecchie e in molte parti contrastanti fra loro, forniscono criteri invero molto arretrati circa la formazione di queste importanti norme urbanistiche locali. Siamo perciò in condizioni tutt'altro che propizie nei riguardi di un severo controllo delle costruzioni: e ad assicurarlo in modo conveniente nuove disposizioni generali occorrono, orientate sul principio dell'etica fascista, che vuole rispettato il diritto sacro della proprietà privata, ma non permette che il ius utendi attribuito al proprietario trascenda in un colpevole ius abutendi, raramente vantaggioso per il soggetto che vi si abbandona, sempre assai dannoso per gli interessi della collettività.

La necessità di un'ondata rinnovatrice nel campo della legislazione urbanistica balza, del resto, evidente dall'esempio di quanto è stato fatto in tutti gli Stati europei, compresi quelli di recente formazione.

In Inghilterra la legge urbanistica del 1919, benché relativamente recente, è stata aggiornata due volte: col «Town Planning Act» del 1925 e col «Town and Country Planning Act» del 1932.

In Francia si sono avute nell'ultimo ventennio le leggi generali urbanistiche del 24 marzo 1919 e del 19 luglio 1924.

In Prussia dopo la legge sui piani di allineamento del 1875 sono state emanate la cosiddetta legge Adickes del 28 luglio 1902 sulle lottizzazioni, le leggi 2 giugno 1902 e 15 luglio 1907 contro il deturpamento degli abitati, nonché le leggi del Reich 28 marzo 1918 sulle abitazioni e 6 giugno 1931 per la tutela dell'economia tedesca, che contengono anch'esse un aggiornamento delle norme urbanistiche.

In Sassonia la legge generale urbanistica del 1° luglio 1900, generalmente considerata la migliore del mondo, anche se contenente troppo dettagliate disposizioni, è stata modificata con le leggi 20 maggio 1904 e 20 luglio 1932 per venire incontro alle nuove esigenze relative all'assetto degli abitati.

In Baviera l’ordinanza edilizia del 2 ottobre 1863 è stata in progresso di tempo sostituita da quelle in data 30 agosto 1877, 31 luglio 1890 e 17 febbraio 1901, completata quest'ultima dall'ordinanza del 3 agosto 1910 sugli allineamenti e dalla legge del 4 luglio 1923 sulla disciplina della sistemazione di zone inedificate.

In Olanda la legge urbanistica del 22 giugno 1901, impropriamente chiamata «Legge sulle abitazioni» è stata modificata nel 1921 e completata nel 1931 con disposizioni riguardanti la formazione di piani regionali.

In Isvezia le precedenti disposizioni generali in materia urbanistica sono state aggiornate con legge 29 maggio 1931 e uguale aggiornamento è stato operato in epoca recente in Norvegia con legge 22 febbraio 1924.

In Polonia nuove disposizioni generali in materia urbanistica sono state dettate con decreto-legge del Presidente della Repubblica in data 16 gennaio 1928.

In Jugoslavia una legge urbanistica informata a principì modernissimi è stata emanata il7 giugno 1931.

In tutta Europa, quindi, per tacere delle altre parti del mondo, un'attività legislativa modernizzatrice si è svolta, in questi ultimi anni, nel campo urbanistico, partendo dal presupposto che norme intese a disciplinare la sistemazione dell'ambiente dove la vita di una collettività deve svolgersi non possono essere influenzate dalle modificazioni sostanziali verificatesi nei mezzi e nei modi di soddisfazione dei bisogni umani.

In Italia, invece, se numerosi sono stati i provvedimenti di eccezione per Comuni singoli, la legge generale urbanistica è rimasta quella del 25 giugno 1865, che regola insieme I'espropriazione per pubblica utilità e la formazione dei piani regolatori. Ciò significa che, all'epoca delle automobili-razzo e degli aeroplani capaci di attraversare in poche ore gli oceani, lo sviluppo degli abitati è regolato ancora con norme pensate, discusse e approvate quando non esisteva nemmeno la bicicletta!

La necessità di eliminare questa incongruenza lasciataci in eredità dai regimi passati è stata perfettamente compresa dal Governo Fascista. Infatti nel nuovo testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, nella cui compilazione il Governo era autorizzato, sentito il Consiglio di Stato, a modificare e a integrare le disposizioni di legge emanate in materia sanitaria, è stata inserita all'art. 230 la seguente disposizione: «Sono sottoposti al parerei del Consiglio superiore di Sanità i piani regolatori generali dei Comuni, i piani regolatori particolareggiati dei Comuni, tenuti per legge alla compilazione del piano regolatore generale ed i regolamenti edilizi dei Comuni predetti».

Si parla qui di piani regolatori generali e di Comuni tenuti per legge a compilarli: ma sta in fatto che ne la legge del 1865 ne le altre posteriori contengono disposizioni in proposito. Solo Leggi speciali sono state finora emanate, non per imporre la compilazione di piani generali bensì per approvare quelli compilati di loro iniziativa dai Comuni interessati e che in base alla legge 1865 non avrebbero potuto riportare l'approvazione per Decreto Reale.

Come si spiega, dunque, la norma contenuta nell'art. 230? Forse i compilatori del Testo Unico e lo stesso Consiglio di Stato ignoravano le norme urbanistiche generali in vigore in Italia? Tutt'altro! La ragione, molto chiara e semplice, è fornita dalla circolare interpretativa diramata dal Ministero dell'Interno (Direzione Generale della Sanità) il 20 agosto successivo. In essa è detto che l'art. 230 «riporta le disposizioni dell'art. 22 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2889, modificate in modo da essere armonizzate con le disposizioni contenute nel progetto di legge urbanistica generale, predisposto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed in corso di approvazione».

Possiamo quindi considerare la predetta norma come l'araldo annunziatore della tanto invocata legge urbanistica, la quale provvederà a regolare in modo completo la trasformazione e lo sviluppo dei centri abitati: e questo ci permette di guardare all'avvenire urbanistico dei nostri Comuni con la fiducia in uno stato di cose assai migliore dell'attuale. Infatti con l'emanazione di norme generali più appropriate alle esigenze della vita moderna non solo sarà eliminato una stato di incertezza, che è incentivo a programmi edilizi mirabolanti o è causa di inerzia assoluta, ma sarà portato un notevole contributo a quel processo di meditata evoluzione legislativa, che ha caratterizzato fin dal suo inizio l'attività del Regime Fascista e che ha condotto l'Italia in tutti gli altri campi alla avanguardia delle Nazioni più progredite.

1. Le fonti della prima legislazione urbanistica italiana vanno cercate negli ordinamenti degli Stati preunitari, in particolare di quelli che avevano subito in misura maggiore l’influenza francese. E’ il caso degli statuti murattiani che prevedevano, tra l’altro, l’acquisto da parte del comune di tutte le aree comprese nei piani; quelle edificabili erano concesse ai privati mediante il pagamento di un canone trentennale [1].

Nello Stato unitario, com’è noto, la prima disciplina relativa ai piani regolatori è contenuta nella legge del 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità (legge 25 giugno 1865, n.2359). Erano previsti due tipi di piano: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento (capi VI e VII della legge). Il primo, consentito soltanto per i comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, concerneva l’abitato esistente, e aveva lo scopo di migliorarne la disposizione dal punto di vista dell’igiene e del traffico; doveva anche contenere “le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifizi, per raggiungere l’intento”. Il piano di ampliamento riguardava invece la formazione di nuovi quartieri, secondo un programma di progressivo sviluppo, assolvendo anche a funzioni di carattere estetico (sicura, comoda e decorosa disposizione dell’abitato). Ambedue i piani erano adottati dal consiglio comunale e approvati con decreto reale, avevano una durata limitata nel tempo, non più di venticinque anni, la loro approvazione equivaleva a dichiarazione di pubblica utilità e comportava per i proprietari dei terreni e degli edifici in essi compresi l’obbligo di uniformare le ricostruzioni, le trasformazioni di edifici esistenti e le nuove costruzioni alle linee indicate nei piani medesimi.

“Tali piani erano in sostanza dei piani di allineamento modellati su quelli codificati dal diritto napoleonico, per il quale le linee tracciate dal piano avevano l’effetto di sottoporre i terreni non costruiti all’immediato arretramento, se aperti, alla servitù non aedificandi, se recintati, ed i terreni costruiti al divieto di lavori atti a prolungare la durata dei fabbricati. Tuttavia la legge del 1865 prevede due istituti che – modellati anch’essi sulla legislazione francese – meritano di essere sottolineati per il loro contenuto innovatore: l’espropriazione per zone (articolo 22) e l’imposizione dei contributi di miglioria (articolo 77)” [2]. La prima norma consente di estendere l’espropriazione non solo alle aree strettamente necessarie alla realizzazione dell’opera pubblica prevista, ma anche a quelle attigue. Disposizione analoga consentì in Francia la realizzazione di opere pubbliche “che colpiscono l’immaginazione per la loro magnificenza”, mentre nel Belgio (in cui tale disposizione mancava) “si riuscì ad avere costruzioni meschine e talvolta prossime all’assurdo” [3].

Le disposizioni in materia di urbanistica della legge del 1865 ebbero scarsa applicazione e furono sostituite da leggi speciali, una per ciascun nuovo piano regolatore: furono quasi cinquanta gli strumenti urbanistici approvati in tal modo, fra i quali ricordiamo: il piano di Giuseppe Poggi per Firenze capitale (1865), i piani per l’espansione di Roma di Alessandro Viviani (1873, 1892), di Edmondo Saint-Just di Teulada (1911, al tempo dell’amministrazione di Ernesto Nathan), il piano di risanamento di Napoli (1885, dopo il colera), il piano di Milano di Cesare Beruto (1889). Nel 1935 risultava che, dei 93 capoluoghi di provincia, 32 disponevano di un piano regolatore approvato e 47 lo stavano predisponendo, solo 13 non avevano affrontato la questione urbanistica [4].

Negli anni del fascismo la tecnica urbanistica si era perfezionata, i nuovi piani regolatori (sempre approvati con leggi speciali) adottarono forme evolute di elaborazione e di rappresentazione. Alcuni sono piani moderni e convincenti, e i provvedimenti di approvazione anticipano la legge del 1942, ispirandosi ad alcuni principi uniformi, fra i quali vanno ricordati:

la distinzione fra piano regolatore di massima e piano particolareggiato: il primo contenente direttive e criteri generali, il secondo tendente a sviluppare e a dettagliare le direttive;

il ricorso allo strumento dell’espropriazione per attuare le sistemazioni previste;

il divieto di procedere, al di fuori dei limiti del piano regolatore di massima, a lottizzazione di terreni.

In alcuni casi operano disposizioni più radicali di quelle della stessa legge del 1942. Per esempio, la legge di approvazione del piano regolatore della città di Roma del 1931 prevede l’esproprio delle aree fabbricabili comprese nei piani particolareggiati anche prima dell’approvazione degli stessi piani. Anche per quanto riguarda la “forma” del piano, in quegli anni si raggiungono risultati ragguardevoli. Cito per tutti il piano regolatore di Napoli approvato nel 1939 e, per alcuni aspetti di cui trattiamo in seguito, il piano di Roma del 1941. Il piano di Napoli del 1939 è forse il miglior piano di cui sia stato dotato il capoluogo campano [5]. A esso collaborò Luigi Piccinato, che probabilmente ne curò la stesura. E’ accompagnato da una relazione lucida ed esauriente, che analizza la documentazione statistica disponibile, individua i problemi fondamentali della città e propone idonee soluzioni. Per segnalarne l’attualità, basta ricordare che, nella relazione, ampio spazio è riservato all’inquadramento regionale: vi si legge che le questioni della città andrebbero “proporzionate e risolte” in un piano regionale; ma ipotizzare un piano regionale, in assenza di “una ossatura amministrativa” con i necessari poteri, “rimarrebbe uno studio puramente platonico”. Nonostante questa “forzata limitazione” il piano deborda in alcuni comuni limitrofi.

Fra i risultati sicuramente positivi dell’urbanistica di quegli anni vanno ricordati almeno altri due piani ai quali anche collaborò attivamente il giovane Piccinato: mi riferisco a Sabaudia e all’E42, ampiamente documentati [6]. Le esperienze cui abbiamo accennato sono tutte precedenti alla legge del 1942 e le stese ragioni culturali e pratiche che le avevano generate sono evidentemente all’origine della legge.

2. Di una nuova legge urbanistica si era cominciato a parlare nella “Commissione reale per la riforma della legge sull’esproprio per pubblica utilità”, istituita nel 1926 dal ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza [7]. Il 30 aprile 1932 Di Crollalanza insediò un’apposita “Commissione ministeriale per la riforma delle disposizioni di legge sui piani regolatori” che dopo pochi mesi, nel settembre 1932, aveva già predisposto un primo “Progetto di legge sulla sistemazione e sull’ampliamento degli abitati”, cui seguì, due mesi dopo, il “Progetto di legge generale urbanistica”, probabilmente elaborato da Virgilio Testa: progetto aggiornato più volte, fino alla stesura definitiva del maggio-giugno 1933 [8]. Quest’ultimo è un testo di indiscutibile importanza, anticipatore della legge del 1942 che, anzi, per certi versi, sembra che abbia fatto passi indietro rispetto al progetto di dieci anni prima. Per esempio, per quanto riguarda il rapporto fra piano regolatore e piano particolareggiato: il piano regolatore (o “piano di massima”, secondo l’ultimo testo del 1933) rappresenta “la trama sulla quale verranno sviluppate le varie sistemazioni edilizie, perciò non crea vincoli a carico dei proprietari all’infuori dell’obbligo di osservare le linee e le norme di zonizzazione. Ad esso si dà carattere di durata illimitata com’è richiesto dalla sua funzione ed estensione. Solamente i piani particolareggiati sono qui considerati come di pronta attuazione e con efficacia da costituire vincoli veri e propri di espropriazione sulle proprietà in essi comprese” [9]. Per la disciplina urbanistica di più comuni può essere disposta la formazione di un piano regionale che comprende, tra l’altro, anche “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche”.

Il progetto non riceve però l’adesione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia e non è approvato in consiglio dei ministri. Poco dopo Di Crollalanza è sostituito. Di legge urbanistica non si parla più per quattro anni, fino al primo congresso nazionale dell’Inu del 1937, significativamente inaugurato da Giuseppe Bottai [10]. Si ratifica allora l’alleanza fra l’ideologia corporativa e la disciplina urbanistica e ricomincia la discussione per la nuova legge. Nell’ottobre 1940, l’Inu pubblica i “Criteri fondamentali di una legge urbanistica” elaborati da una commissione presieduta da Alberto Calza Bini [11]. Il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla agisce con determinazione. Nel dicembre 1941 insedia anch’egli una commissione ad hoc che rapidamente elabora un testo di legge sottoposto al consiglio dei ministri nel marzo 1942. Interviene ripetutamente il ministero delle Corporazioni, rivendicando e ottenendo che la localizzazione dei nuovi impianti industriali potesse avvenire fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e altre agevolazioni. Alla Camera dei fasci e delle corporazioni e al Senato la discussione fu breve ma intensa, soprattutto fra i difensori a oltranza della proprietà e coloro che alla proprietà intendevano porre dei limiti [12]. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”.

3. La nuova legge urbanistica fu promulgata nell’agosto 1942 da Vittorio Emanuele III a Sant’Anna di Valdieri dov’era in vacanza [13]. Non si può liquidarla come una legge “fascista”. E’ invece una legge moderna, che attribuisce all’urbanistica i connotati, ancora attuali, del governo del territorio, non quelli dell’architettura su grande scala. Non è certo un caso se la legge del 1942 è in vigore ormai da quasi sessant’anni, nonostante il nuovo modello costituzionale che ha direttamente inciso sulla materia urbanistica, trasferendone le competenza dallo Stato alle Regioni (mentre così non è stato, o lo è stato solo in parte, per le leggi di tutela del 1939), mentre i tentativi di riforma si susseguono inutilmente dalla seconda metà degli anni Cinquanta.

Al centro del sistema configurato dalla legge sta l’ambizione di includere nella pianificazione urbanistica l’insieme delle forme e degli istituti funzionali al governo del territorio. Nel commento predisposto dall’Inu subito dopo l’approvazione della legge si osserva che alla “nuova legge ha presieduto adunque un concetto di integralità della disciplina urbanistica; si è ravvisata la necessità di una regolamentazione degli aggregati urbani, ma anche delle campagne; e non soltanto degli elementi strettamente planimetrici dell’organismo cittadino e della sua zona di influenza, ma anche di tutti gli altri elementi dell’attività urbana” [14]. L’urbanistica, insomma, come disciplina che si estende alla totalità del territorio e delle trasformazioni che lo riguardano.

La legge è articolata su un sistema di piani urbanistici: i piani territoriali di coordinamento, che dovrebbero indirizzare e coordinare l’attività urbanistica in determinate porzioni del territorio nazionale ed alle cui direttive dovrebbero uniformarsi i piani regolatori intercomunali e comunali; i piani regolatori intercomunali, aventi per oggetto la sistemazione urbanistica di due o più comuni contermini con particolari caratteristiche di sviluppo; i piani regolatori generali (Prg), estesi all’intero territorio comunale, di cui stabiliscono le direttive per l’assetto e lo sviluppo urbanistico; i piani particolareggiati, che precisano tali direttive con riferimento a porzioni limitate del territorio comunale, per consentire l’attuazione dei piani generali. La formazione dei piani regolatori generali è obbligatoria per i comuni indicati in appositi elenchi ministeriali, è facoltativa per gli altri comuni che, se non intendono adottare un Prg, sono obbligati a dotarsi di un programma di fabbricazione, che è una specie di Prg semplificato nei contenuti e nelle procedure di approvazione e di attuazione.

Il sistema si fonda sulla presenza congiunta dei poteri statali e comunali. Secondo la legge del 1942, l’approvazione dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione è quindi un “atto complesso” alla cui formazione concorrono ugualmente la volontà del comune e dell’autorità statale (il ministero dei Lavori pubblici). Soltanto i piani territoriali di coordinamento sono di esclusiva competenza dello Stato. A essi si attribuiva un’importanza decisiva nella politica del fascismo. Secondo Alberto Calza Bini, i piani territoriali sono il “vero strumento di armonica disciplina, per il quale soltanto possono ordinatamente raggiungersi gli scopi che il Regime si prefigge: l’allontanamento dei disoccupati dai grandi centri cittadini, l’equa distribuzione del lavoro produttivo su tutto il territorio nazionale, la valorizzazione e il potenziamento delle naturali risorse del suolo” [15].

L’impostazione risente evidentemente delle tecniche giuridiche elaborate in età liberale riguardo ai rapporti fra l’amministrazione centrale dello Stato e i comuni, che il fascismo esasperò assicurando allo Stato un ruolo nettamente predominante. Al riguardo fu coniato dalla dottrina giuridica il concetto di autarchia, intesa come l’insieme dei poteri attributi all’ente pubblico locale al fine di perseguire gli interessi propri dello Stato [16]. Il ruolo dello Stato è evidenziato subito, all’articolo 1, dal potere di vigilanza attribuito al ministero dei Lavori pubblici e dall’istituzione di organi periferici con la specifica competenza a controllare l’attività urbanistica e a orientarla.

Al ministero spetta anche l’approvazione dei piani regolatori, dei piani particolareggiati e dei programmi di fabbricazione e di decidere riguardo alle osservazioni e alle opposizioni. Ciò dipende, evidentemente, dall’impianto ideologico del regime ma risponde anche alla sfiducia nelle possibilità per le amministrazioni comunali di gestire il proprio territorio in autonomia senza l’intervento attivo dello Stato [17].

Altro fondamentale elemento innovativo introdotto dalla legge del 1942 è la zonizzazione, cioè la suddivisione del territorio in zone, distinte per omogeneità di destinazione edilizia. E’ una modalità conformativa della proprietà privata, già ampiamente utilizzata dai piani regolatori approvati con leggi speciali prima del 1942, cui fanno riferimento anche le leggi, immediatamente precedenti, relative ai vincoli paesistici, ai beni artistici, al vincolo idrogeologico, alle servitù militari, alla bonifica integrale. E’ proprio l’attribuzione alle autorità urbanistiche del potere di zonizzare, e quindi di conformare le proprietà private, che consente di eliminare il ricorso alle leggi speciali, una per ogni nuovo piano.

4. Il centro della politica urbanistica è sempre costituito dai dispositivi di controllo della proprietà fondiaria. Fermiamoci a considerare quest’aspetto nella legge del 1942, cominciando dalla proposta dell’Inu del 1940, dove si legge che “il possedere e liberamente disporre della proprietà terriera non come strumento di produzione e ricchezza, ma come mezzo di arricchimento e di speculazione senza lavoro e senza merito mal si concilia con la funzione sociale della proprietà. Partendo da tali premesse e dalla considerazione dell’interesse pubblico che è insito nella destinazione del terreno ad uso urbano, si è provveduto a fissare la nuova disciplina giuridica dell’intera materia delle aree urbane”. La normativa proposta dall’Inu prevedeva perciò l’espropriazione delle “aree urbane”: l’indennità si differenziava fra le aree da considerare già urbane, anche in assenza del piano regolatore, prima dell’emanazione della legge, e quelle che lo divengono successivamente. Per queste “la legge, sin dal momento della sua emanazione avverte che il proprietario in caso di esproprio riceverà il prezzo ragguagliato al puro valore di mercato che il terreno, considerato nella sua ordinaria utilizzazione agricola o industriale, avrà alla data del decreto di espropriazione […]. In tal modo ciò che non si pagherà più dall’ente espropriante sarà il plusvalore, che sulle aree urbane già esistenti al momento dell’emanazione della legge o sui terreni agricoli o industriali, si formerà in avvenire. E’ dunque soltanto la speranza di un futuro guadagno del privato che la nuova legge toglierebbe ai privati. Ma questo “futuro guadagno” del privato non è frutto dell’attività produttrice del privato stesso bensì della collettività e della pubblica Amministrazione, cui sono dovuti l’espansione dell’abitato e l’attrezzatura urbanistica” [18].

Lo stesso obiettivo è perseguito dall’articolo 18 della legge del 1942, certamente quello più incisivo sul regime di proprietà dei suoli, che consente ai comuni di espropriare, dopo l’approvazione del Prg, i terreni destinati all’edificazione nell’ambito delle zone di espansione, a un prezzo che non tenga conto degli incrementi di valore derivanti dalle previsioni del piano. Questa norma avrebbe dovuto consentire la formazione di demani comunali, strumento indispensabile per indirizzare l’espansione urbana nelle zone ritenute più idonee, esercitando al tempo stesso un’azione calmieratrice sul mercato delle aree. A proposito dell’articolo 18, il ministro Gorla dichiarò che “fino ad oggi chi ha profittato delle espansioni che hanno avuto le nostre città è stato il privato, anzi, più che il privato, lo speculatore. Lo scopo della legge è proprio quello di impedire la speculazione, non di danneggiare il privato, di togliere al singolo il vantaggio di appropriarsi di tutto il plusvalore che i terreni acquistano per i lavori eseguiti dagli enti pubblici” [19].

Su questo argomento, la riflessione più utile mi pare che sia quella di Piero Della Seta e di Roberto Della Seta [20]. Essi contestano le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica del fascismo e quella del primo dopoguerra sostenendo, tra l’altro, che “i governi democristiani dei primi decenni del dopoguerra nemmeno sfiorarono” i risultati che si produssero durante il fascismo, in particolare nel campo della legislazione. E ancora, “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. Molto innovativa, “addirittura rivoluzionaria”, è considerata la politica del fascismo per Roma. Al riguardo gli autori ricordano il piano regolatore di massima per l’espansione di Roma verso il mare, già prima citato, approvato con regio decreto del gennaio 1941, decaduto nel 1943 per la mancata conversione in legge a causa della guerra e, probabilmente, per le proteste dei proprietari: certo è che le norme sulle espropriazioni di quel provvedimento penalizzavano la proprietà più di quelle previste da qualunque legge precedente [21], e non saranno confermate dalla legge urbanistica dell’anno successivo. Si prevedeva l’esproprio preventivo e generalizzato di tutti i 12 mila ettari appositamente perimetrati – a cavallo della via Imperiale, fino al Tevere – dov’era previsto lo sviluppo lineare della città verso Ostia che avrebbe dovuto ospitare 800 mila abitanti. Il perimetro del piano comprendeva l’E42, dove cinque anni prima erano già stati espropriati 500 ettari circa destinati all’Esposizione universale di Roma [22].

5. Se la politica fondiaria rappresenta il fondamento dell’urbanistica, la sua parte strutturale, non si devono però trascurare le altre componenti della disciplina, quelle relative alle strategie territoriali, alla forma degli insediamenti, alle conseguenze sul piano sociale, ai rapporti con l’edilizia storica, eccetera. E’ soprattutto su questi temi che si coglie l’ambiguità nota del fascismo, il contrasto fra indiscutibili elementi di modernità e ingombranti sovrastrutture retoriche: gli strumenti operativi straordinariamente efficaci del decreto del 1941, e della legge del 1942, sono a servizio dell’espansione di Roma verso il mare, una scelta urbanisticamente sbagliata, perché la più lontana dall’entroterra regionale, dalle principali reti di trasporto e inesorabilmente bloccata dalla linea di costa, destinata perciò a trasformarsi in un’altra, illimitata, direttrice di espansione perpendicolare alla prima. La scelta era, in effetti, esclusivamente ideologica, l’obiettivo era il ricongiungimento di Roma con il “suo” mare (sono gli anni in cui si consuma l’avventura etiopica).

La medesima ambiguità lega la formazione delle leggi di tutela alla pratica degli sventramenti che si sviluppa proprio in quegli anni, anch’essa prevalentemente motivata da ragioni ideologiche. Lo stesso elogiato piano di Napoli del 1939 proponeva pur limitati sventramenti e diradamenti.

6. Concludiamo con due rapide riflessioni. La prima, sul tema, ancora attualissimo, del rapporto fra la legge urbanistica del 1942 e le leggi di tutela del 1939. I progetti di legge del 1932 citati prima comprendevano, come si è detto, “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche” fra i contenuti dei piani regionali. Il repentino stop imposto alla legge urbanistica nel 1933 sgomberò il campo a favore delle leggi del 1939, e del piano paesistico. Si stabilì allora una netta distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche. Distinzione che ha retto anch’essa al trascorrere degli anni e delle vicende storiche (nonostante ripetuti tentativi di riforma, e nonostante l’ambiguità dei “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali” della legge 431 del 1985).

Il doppio regime è stato convalidato dalle numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con indiscutibile coerenza, dal 1968 al 1999. Né può essere posto in discussione dalla apprezzabile tendenza delle più recenti leggi regionali – e dalla diffusione, nella formazione degli strumenti urbanistici – ad annoverare le tutele fra i contenuti essenziali della pianificazione urbanistica, a considerarle anzi in guisa di condizione prioritaria agli interventi di trasformazione. In questi casi si tratta, infatti, di contenuti aggiuntivi rispetto a quelli tradizionali dell’urbanistica. Mentre resta ferma la competenza esclusiva in materia di tutela di altre figure pianificatorie e di altri poteri statali e regionali [23].

La seconda riflessione conclusiva riguarda la lunga durata della legge del 1942, cui si è già accennato prima, nonostante le evidenti incompatibilità con la carta costituzionale del 1948 e, in specie, con il profondo processo di riforma che ha avuto inizio a partire dal 1990. Si è passati da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali – non solo in materia di diritto urbanistico – titolari di proprie attribuzioni. E, quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più l’ universitas dello spazio fisico, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici). E, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, eccetera).

La legge del 1942 è insomma sopravvissuta al suo tempo, alle condizioni storiche, istituzionali e giuridiche che l’avevano determinata. Se continua a essere in vigore è per merito della sua eccellente fattura. Ma soprattutto per l’incapacità del legislatore repubblicano di mettere mano alla riforma della materia urbanistica.

Note

[1] Camera dei Deputati, quarta legislatura, disegno di legge presentato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini di concerto con altri ministri, recante Norme per una nuova disciplina della materia urbanistica, presentato alla Presidenza il 3 febbraio 1967. Atti Camera n.3774. Relazione, p.2.

[2]Ibidem.

[3] Relazione Pisanelli alla legge del 1865, citato in Camera dei Deputati, quarta legislatura, cit., p.3.

[4] Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica. Cause di errori urbanistici e possibili rimedi, in Urbanistica, n.1, 1935, p.5.

[5] Cfr. Urbanistica, n.65, luglio 1976, p.5 sgg. Il piano del 1939 fu formato per iniziativa di Giuseppe Cenzato, presidente della Sme, industriale, promotore di iniziative importanti per Napoli e il Mezzogiorno (cfr. in proposito, Stefania Barca, L’etica e l’utilità: appunti sul “meridionalismo razionale” dell’ingegner Cenzato, in Meridiana, n.31, gennaio 1998).

[6] Cito solo, per Sabaudia, Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Feltrinelli, 1976; per l’E42, Italo Insolera, Luigi Di Majo, L’Eur e Roma dagli anni Trenta al Duemila, Laterza, 1986.

[7] Di Crollalanza fu un protagonista, negli anni del fascismo, della politica del territorio, per usare un’espressione di oggi. Fu ministro dei Lavori pubblici dal 1926 al 1933 e poi presidente dell’Opera nazionale combattenti dal 1933 al 1939 quando si completarono la bonifica pontina e le “città nuove”.

[8] Sui lavori preparatori della legge del 1942, cfr. Pier Giorgio Massaretti, Dalla “regolamentazione” alla “Regola”: Sondaggio storico-giuridico sull’origine della legge generale urbanistica 17 agosto 1942, n1150, in Rivista giuridica dell’urbanistica, 1998, p.437 sgg. Vedi anche il saggio di Francesco Ventura, L’istituzione dell’urbanistica. Gli esordi italiani. Alfani, 1999, dov’è riportato integralmente il progetto di legge del novembre 1932 e la relazione di Virgilio Testa. Virgilio Testa (1889-1978) fu funzionario del Comune di Roma, poi del Governatorato, di cui fu nominato segretario generale da Giuseppe Bottai nel 1935; accademico di San Luca; nel dopoguerra, fino al 1973 è stato commissario dell’Eur ed esperto urbanistico della Dc.

[9] Relazione del ministro Di Crollalanza, in Massaretti, cit., p.449.

[10] L’Istituto nazionale di urbanistica era stato fondato il 25 gennaio 1930 per iniziativa dei componenti del comitato italiano per il XII Congresso internazionale dell’abitazione e dei piani regolatori – che si era svolto a Roma nell’anno precedente – utilizzando a tal fine l’avanzo di bilancio dell’iniziativa. Scopo dell’istituto era lo “studio dei problemi tecnici, economici e sociali, relativi allo sviluppo dei centri urbani e l’esame delle questioni relative all’organizzazione ed al funzionamento dei servizi pubblici di carattere municipale”. Si cercò in tal modo di recuperare il ritardo culturale dell’Italia rispetto ai paesi d’Europa più progrediti dove i problemi della pianificazione si dibattevano dall’inizio del secolo. Nel novembre del 1930 fu fondata la prima sezione, quella piemontese, che nel gennaio 1932 pubblicò la rivista Urbanistica, destinata a diventare, nell’anno successivo, l’organo ufficiale dell’istituto. Negli anni dal 1948 al 1976, quando direttore era Giovanni Astengo (1915-1990), Urbanistica raggiunse un insuperato prestigio internazionale. Nel 1943 l’Inu ebbe il riconoscimento di ente morale e di istituto di alta cultura e nel 1949 di ente di diritto pubblico. Fra i presidenti dell’Inu vanno ricordati Adriano Olivetti, Edoardo Detti, Saverio Tutino, Edoardo Salzano e Giuseppe Campos Venuti.

[11] Le proposte dell’Inu in Urbanistica, n.2, 1941.

[12] Interessante è l’esame degli emendamenti raccolti dalla legge rispetto al testo della commissione ministeriale. Cfr. Massaretti, cit., p.465 sgg.

[13] Legge 17 agosto 1942, n.1150, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 1942, n.244

[14]Urbanistica, numero speciale, ottobre 1942, p.29.

[15] Alberto Calza Bini, Il “piano territoriale” come strumento della politica fascista del disurbanamento, in Urbanistica, n.1, 1941, p.3.

[16] Una ricognizione della dottrina giuridica in materia in Giorgio Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Cedam, 1969.

[17] Lo stesso può dirsi per non rare forme di recente centralismo regionale, almeno fino a tutti gli anni Novanta, impostato su rapporti con i Comuni di tipo gerarchico.

[18]Urbanistica, n.2, 1941, cit., p.7.

[19]Urbanistica, numero speciale, cit., p.27.

[20] Piero Della Seta e Roberto Della Seta, I suoli di Roma, Editori Riuniti, 1988.

[21] L’indennità di espropriazione era ragguagliata al valore venale del terreno del 1930, capitalizzato al tasso del 4% annuo, senza tener conto di “qualsiasi incremento di valore verificatosi in dipendenza dell’approvazione del piano regolatore o dell’esecuzione di opere pubbliche”.

[22] Il ricorso all’esproprio preventivo delle aree da trasformare era pratica corrente in quegli anni, in particolare a Roma e nell’area romana. Oltre a quelli per la realizzazione di Cinecittà, della nuova università, del Foro Mussolini, dell’Eur, della zona industriale (1.500 ettari lungo la via Tiburtina), vanno ricordati gli imponenti espropri, operati senza riguardo ai proprietari, per le grandi operazioni di bonifica: più di 1.200 ettari per la sistemazione del Tevere e ben 75.000 ettari per le bonifica delle paludi pontine (Della Seta, cit., p.111 sgg.).

[23] Il perseguimento di obiettivi di tutela attraverso il piano regolatore non è recente. Basta citare il decreto del ministro dei Lavori pubblici (che era Giacomo Mancini) di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965, quello ancora vigente, che introdusse – per “preminenti interessi dello Stato” – una modifica d’ufficio al piano adottato dal Comune, destinando a parco pubblico gli oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. E’ bene ricordare che precedenti proposte di piano paesistico prevedevano invece l’edificabilità a cavallo della regina viarum.

L’affermazione di una certa idea di urbanistica, e di piano regolatore, è il risultato di un conflitto, che si sviluppa in Italia parallelamente al trionfo del fascismo, ed insieme il frutto di una precisa scelta “politica” tra due opzioni. La storia della legge urbanistica nazionale, che introduce l’idea di piano generale esteso indefinitamente nel tempo e nello spazio, è insieme anche la storia del prevalere di un’opzione su un’altra, e del sostituirsi di nuove contraddizioni a quelle antiche, che avevano generato il conflitto.

Negli anni del primo dopoguerra, cresce l’interesse per le città, per il loro futuro, per le strategie da adottare e le relative conoscenze scientifiche e tecniche da mettere in campo. Due punti di vista si fronteggiano. Da un lato un approccio vicino alle esigenze dei municipi, attento alla multidisciplinarità, ma che eredita le “colpe” di una cultura accusata di essere burocratica, tecnicista, poco sensibile alla storia e alle istanze sociali emergenti. D’altro canto, gli architetti, portatori di un punto di vista maturato lentamente a cavallo tra i due secoli, ma che ora ha una nuova legittimazione professionale, che intende allargare al campo della città nel suo insieme. [1] Chiameremo urbanismo l’approccio municipalista allo studio della città, per distinguerlo dalla urbanistica degli architetti.

La Mostra di Attività Municipale di Vercelli del 1924 [2], o il congresso di “urbanesimo” di Torino del 1926 [3], sono occasioni di visibilità e rilancio dell’ urbanismo. A Torino il segretario comunale Silvio Ardy propone una scuola/associazione di funzionari a scala nazionale, [4], e parallelamente su iniziativa di Cesare Albertini si costituisce a Milano con riconoscimento internazionale la Associazione Nazionale per l'Abitazione e i Piani Regolatori[5].

Semplificando al massimo, l’ urbanismo si articola secondo dodici linee di azione, tante quante dovrebbero essere le sezioni dei servizi tecnici comunali [6]. In questo spazio si colloca l’azione delle varie professionalità, interne o esterne all’amministrazione ma con ruoli ben distinti, ferma restando la centralità del ruolo decisionale politico. L’unitarietà di azione è quindi da ricercarsi nell’equilibrio con cui i vari aspetti progettuali e gestionali si collocano via via nel processo di attuazione, piuttosto che nella sola “organicità” di un’idea prefigurata di spazio fisico.

Al “dodecalogo” dell’ urbanismo, Gustavo Giovannoni indirettamente contrappone in un “decalogo” l’idea di piano degli architetti/urbanisti: piano regionale; piano regolatore generale comunale; piano dei quartieri di espansione; piano di diradamento e valorizzazione del centro storico; distribuzione delle funzioni per zone; coordinamento del piano stradale e di azzonamento con un piano del traffico [7]. Sono gli elementi base della “ricetta” che si sta imponendo nell’approccio alla città, e negli anni a venire sarà perfezionata, prima nel Bando tipoper concorsi di piano regolatore, poi nel dibattito per la legge urbanistica.

La prevalenza dell’ urbanistica sull’ urbanismo ha sanzione ufficiosa al XII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori, convocato a Roma sul tema dei centri antichi nel 1929. L'intervento di Cesare Chiodi ben riassume lo stato del dibattito nazionale: buone intenzioni, rare esperienze concrete, nessuna azione istituzionale. Oltre e sopra i confini amministrativi, agiscono le forze economiche, occorre affrontare la questione spostandola dalla scala comunale a quella metropolitana [8]. La “regione” posta da Giovannoni in apertura al suo decalogo diventa così elemento costante di riferimento, senza che si discuta delle questioni amministrative, o semplicemente geografiche. Questi temi, affrontati a Torino nel 1926, resteranno, semplicemente, in sospeso.

Resta comunque, ancora da tradurre in legge qualunque idea di piano, regionale e non, diversa da quella del 1865, via via definita e innovata per frammenti, in modo insoddisfacente, a definire un piano tutt’altro che “generale”. Gli studi sulla riforma dell'esproprio per pubblica utilità, pubblicati nel 1928 [9], deludono la cultura urbanistica italiana. Ci si aspettava uno stimolo a procedere in direzione almeno di un abbozzo di legge “urbanistica”, ma lo sviluppo delle città è quasi ignorato dai legislatori [10]. Appare evidente che per la legittimazione della disciplina uno stretto collegamento con i meccanismi gestionali rappresenta una tara: molto meglio scorporare le norme sui piani regolatori da quelle sull’espropriazione, e affermare almeno in linea di principio la nuova idea di città [11].

Gli urbanisti ritengono improcrastinabile una legge generale, meglio se modellata sul “decalogo” disciplinare. Solo per fare un esempio pratico di questa urgenza, a cinquant’anni dal dibattito sul risanamento di Napoli esiste ancora all’ordine del giorno una urgente questione igienica urbana, al punto che «si comprende come l'urbanista e il medico sociale siano dei veri alleati» [12]. Il tema della città “malata”, richiama la questione del decentramento, dei relativi piani regionali: unico concreto strumento di bonifica, attraverso la modernizzazione delle campagne e l’eliminazione del divario tra le qualità della vita [13]. Una singolare proposta in questo senso, è quella sostenuta da L’Industria, che propone, né più né meno, un modello decentrato per company towns[14]. È un’interpretazione nemmeno troppo forzata del pensiero di Giovannoni: là dove nelle «Questioni urbanistiche» si indicava la centralità dell’impresa nel determinare il successo o il fallimento di un piano, ora L’Industria propone l’interesse privato anche come promotore/controllore dello sviluppo. In questo contesto nasce l’Istituto Nazionale di Urbanistica, e si emargina in buona parte l’ urbanismo, centrato sulle professionalità interne ai municipi. Contemporaneamente, assumono grande visibilità i concorsi di piano regolatore, le prime realizzazioni nei centri cittadini, e nei nuclei di fondazione, la richiesta di una legge. Su quest’ultimo aspetto, si concentra la maggior parte delle aspettative.

Istituzioni e associazioni lavorano alacremente [15], sostenute dal ministro dei Lavori Pubblici, Araldo Di Crollalanza, che istituisce una Commissione ad hoc[16] con il compito di dare forma di articolato alla nuova idea di città e di urbanistica [17], Il piano della città moderna, della città fascista, dovrà articolarsi secondo tre zone distinte: l’area edificata, indicando le trasformazioni degli spazi saturi e di quelli ancora disponibili; l’espansione, studiando in base all’incremento demografico le linee generali dei nuovi quartieri; l’area rurale, soggetta o meno a futura urbanizzazione. Né più, né meno, che lo schema di massima del “decalogo”, o di uno qualunque dei bandi di concorso che le riviste pubblicano ogni mese. Uno schema di ampio respiro che accoglie, anche se in forme piuttosto confuse, l’idea di regional planning[18], per lo sviluppo delle grandi reti infrastrutturali, il sistema dei centri minori, la localizzazione produttiva, la tutela ambientale. Le aspettative dell’INU sulla legge urbanistica, però, devono fare i conti con le necessità di carriera politica del suo maggiore sponsor: per evitare un controproducente scontro con interessi confliggenti (militari, industriali, ferrovie), Crollalanza ritira il progetto.

Fallito il primo approccio istituzionale, l’urbanistica punta sull’ampliamento del consenso sociale. I concorsi di piano regolatore si trasformano in una sorta di laboratorio, e la città italiana sembra vivere soprattutto sulle pagine delle riviste specializzate dove si restringe lo spazio dedicato alle questioni teorico/istituzionali, mentre si dilata e ristruttura quello dedicato alle singole città, alle mostre degli elaborati presentati ai concorsi, alle spigolature dei giornali locali [19]. Questa strategia, anche se in piccolo, necessita di strumenti normativi e di unificazione nazionale, come il Bando Tipo per concorsi di piano regolatore, e l' Annuario delle Città Italiane[20], per il controllo qualitativo dei piani, e una relativa garanzia “scientifica” nell’impostazione.

La neonata urbanistica rurale convive con l’idea secondo cui «L'urbanesimo è il fenomeno che accompagna l'ascendere della nostra civiltà e l'intensificazione di tutte le manifestazioni umane ... annientarlo vorrebbe dire retrocedere» [21]. Ma l’antiurbanesimo sarà il tema centrale, se non altro per visibilità, al primo Congresso nazionale INU, convocato a Roma nel 1937 [22]. Anche l'intellettuale progressista Giuseppe Bottai, propone «l'urbanistica come antiurbanesimo, come antidoto dell'urbanesimo» [23]. In generale, il Congresso potrebbe apparire il sintomo di uno stallo nel dibattito. La stessa urbanistica rurale è presentata come «sistemazione igienico-edilizia e organizzazione dei servizi pubblici nella campagna nell'ambito del piano regionale» [24]: definizione ineccepibile, ma piuttosto generica in una sede di dibattito specializzato. Ma va considerato che il senso del congresso è, soprattutto, politico. Le forze tecniche e culturali italiane si contano: ai funzionari, accademici e professionisti, si affiancano ora amministratori, tecnici, intellettuali, la pubblica opinione più informata.

Con accresciuto potere contrattuale, si invoca l'approvazione della legge nazionale che ora, indipendentemente dai contenuti, appare anche come spazio di interazione delle diverse anime della cultura urbanistica cresciute in questi anni. È del 1938 un significativo cambio di “nome”: visto che la dizione “piani regionali” disturba la cultura centralistica di qualche gerarca, ci si affretta a ribattezzarli “territoriali” [25], senza chiarirne ancora una volta estensione e autorità preposte.

La fine degli anni Trenta sancisce il ritorno dei temi istituzionali al centro del dibattito [26], ma anche una vera e propria rivincita della città, ovvero dei temi che oltre la cortina fumogena dell’antiurbanesimo occupano la maggior parte delle ragionevoli aspettative professionali. Basta osservare, ad esempio, la Tavola sinottica dell'urbanistica che Piero Bottoni propone alla Triennale [27], e l’interpretazione del tema del decentramento nel Piano provinciale per l'abitazione operaia[28], che della tavola è figlio legittimo, per toccare con mano il nocciolo di buona parte della cultura del piano italiana. Non borghi rurali né idilli pastorali, ma immagini decisamente urbane, pur nella logica della bassa densità, dell’integrazione agro-industria, insomma di quanto intelligentemente era stato definito intercittà al congresso INU. I centri urbani, anche quelli medi, crescono in termini di popolazione, e di ruolo, e questo non scandalizza, anzi è considerato dagli operatori economici tutto sommato un buon segno [29]. Critica Fascista, diretta da Giuseppe Bottai, esamina la questione urbana, con una serie di articoli dedicati alla «funzione sociale dell'urbanistica», ospitando tra gli altri due contributi di Vincenzo Civico, che ripercorrono l'intero arco del rapporto tra deurbanamento, ideologia, sviluppo economico, e recuperano i temi della localizzazione industriale e del piano regionale [30]. Non sembra più l’epoca della Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista, come Civico stesso aveva intitolato un suo intervento nel 1937. Ora, molto più ragionevolmente, egli sostiene che un piano deve tenere massimo conto delle attività produttive e della scala a cui operano le maggiori forze economiche. Finita l’epoca della radicalità, dei proclami, è il momento del realismo e della contrattazione, come ben sa l’ingegner Giuseppe Gorla, neoministro dei Lavori Pubblici che ha deciso di farsi carico dell’antico progetto Di Crollalanza per una legge urbanistica nazionale.

Riecheggiano le precisazioni del decalogo giovannoniano: «non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, ... ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie» [31]. A queste “provvidenze” e “combinazioni”, come aveva imparato Crollalanza e come ben sa Gorla, si aggiunge l’intreccio di interessi pregiudizialmente contrari all’idea di piano sottesa alla legge urbanistica. Ma al contrario del Crollalanza, politico “puro”, Gorla è indirettamente coinvolto nella cultura urbanistica, e ritiene di aver ricevuto in questo senso un mandato pieno [32]. Così, pur tra numerosi conflitti, non solo si affermano i principi generali già maturi nel progetto del 1932, ma la struttura della legge arriva a coincidere quasi perfettamente con il decalogo del Giovannoni, con gli schemi dei bandi di concorso, insomma con la raffigurazione del piano ideale, così come almeno quindici anni di dibattito hanno contribuito a perfezionare. Ma, insieme a questa struttura, la legge si porta appresso anche una tara ideologica, figlia tra l’altro anche dei conflitti che, alla fine degli anni Venti, avevano visto l’ urbanismo municipalista sconfitto dall’ urbanistica dei professionisti. Forse anche a questa tara è da attribuirsi l’isolamento che circonda la legge dopo l’approvazione e che proseguirà [33]: «una legge che si ponga al di là dei traguardi già conseguiti dai conflitti sociali ... è destinata a rimanere sulla carta» [34].

NOTE

[1] Cesare Chiodi, ritiene che non sia possibile «concepire l’Urbanismo come un dominio esclusivo dell’architetto o del costruttore di città … Il problema è più vasto, si estende a tutte le condizioni infinite dell’esistenza umana, e principalmente – ma non esclusivamente – nelle agglomerazioni sovrappopolate e pulsanti che l’industria sviluppa sotto i nostri occhi». Cesare Chiodi, «Per la istituzione di una scuola di urbanismo», La Casa, febbraio 1926, p. 81. Commentando questo e altri tentativi di reazione (i vari convegni che negli anni Venti si organizzano soprattutto al nord per un’urbanistica non egemonizzata dagli architetti), è stato osservato che «prende … corpo lungo il fronte Torino-Vercelli-Milano l’ultima offensiva ufficiale contro le “teorie estetizzanti degli architetti” e del “loro preteso dominio sulle questioni urbanistiche”. Ma i “giochi” si decideranno a Roma». Guido Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Jaca Book, Milano 1989, p. 141. Lo stesso scontro ideologico e professionale, esteso all’intero arco della formazione e professione dell’architetto, è la tesi di: Paolo Nicoloso, Gli architetti di Mussolini. Scuole e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime, Franco Angeli, Milano 1999.

[2] Cfr. Cesare Albertini, «L’attività municipale a Vercelli», Le Vie d’Italia, dicembre 1924; «La premiazione alla prima Mostra italiana di attività municipale», Il Rinnovamento Amministrativo, n. 2, 1925

[3] Cfr. «Congresso di Urbanesimo a Torino, La Casa, marzo 1926.

[4] Cfr. Silvio Ardy, Proposta di creazione di un Istituto di Urbanesimo e di Alti Studi Municipali, Congresso Internazionale dell’Urbanesimo, Torino, 28 maggio 1926, IV Tema, S.AV.I.T., Vercelli 1926. La critica più radicale a questo progetto, e insieme una proposta alternativa (e vincente): Alberto Calza Bini,Per la costituzione di un Centro di Studi Urbanistici in Roma, Estratto dagli Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma 1928.

[5] Cfr. Cesare Albertini, «L'Associazione Nazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori», La Casa, maggio 1926

[6] Anche se certo non riassume la complessità dell’urbanismo, la ripartizione in dodici sezioni può essere presa a utile metro di paragone. Cfr. Silvio Ardy, «Rassegna Urbanistica», Grande Genova, gennaio 1928

[7] Cfr. Gustavo Giovannoni, «Questioni urbanistiche», L’Ingegnere, gennaio 1928. Giovannoni osserva anche che «A veder bene, non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l'attuazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, con un ordine di successione che può secondare o può annullare il concetto informatore del piano stesso». È un indiretto ma esplicito riconoscimento delle ragioni profonde della cultura “gestionale” dei municipalisti, ma questo apparentemente ovvio realismo rappresenta una posizione niente affatto scontata, anzi piuttosto isolata nella cultura degli architetti dell’epoca. Cfr. Paolo Avarello,Cinquant'anni di legge urbanistica in Italia, in ANCE, La città del futuro - nuove regole per la crescita urbana, ANCE, Roma 1993

[8] Cfr. Cesare Chiodi, Lo sviluppo periferico delle grandi città in Italia, in Atti del XII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori, Vol. I, International Federation for Housing and Town Planning, Roma 1929

[9] Cfr. Commissione Reale per la riforma della legge sulla espropriazione per pubblica utilità, Progetto di legge sulle espropriazioni per il pubblico interesse e sulle requisizioni, Libreria del Provveditorato Generale dello Stato, Roma 1928

[10] Cfr. Virgilio Testa, Dispense del corso di «Legislazione Urbanistica», Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, Anno accademico 1933-34

[11] Cfr. Edile, «La nuova legge sulle espropriazioni», La Casa, settembre 1928

[12] Guido Salvini, «Tubercolosi e urbanesimo», in Atti del II Congresso Internazionale di Tecnica Sanitaria e Igiene Urbanistica, Reale Società di Igiene, Milano 1931, p. 179

[13] Cfr. Cesare Chiodi, «Zone fabbricate e spazi liberi nello studio dei piani regolatori», ivi

[14] Gustavo Bullo, «Sui benefici dell'obbligatorietà dei piani regolatori», L'Industria, gennaio (I) e febbraio (II) 1931

[15] In dettaglio: «Le proposte della Sezione piemontese dell'Istituto Nazionale di Urbanistica per l'inchiesta promossa per lo studio della nuova Legge sui Piani Regolatori», Urbanistica, VI, 1932; «Studio dell'Ingegner Cesare Albertini, dirigente dell'Ufficio Urbanistica del Comune di Milano», Concessioni e Costruzioni, n.8, 1932 (articolo riportato anche su La Casa, novembre 1932, col titolo: «Per una legge sui piani regolatori»); «Intorno alla nuova legge sui piani regolatori», Architettura, ottobre 1932 (anche su L'Ingegnere, settembre 1932, col titolo: «Proposte in merito alla nuova Legge sui Piani Regolatori»); Federazione Nazionale Fascista della Proprietà Edilizia, Sulla disciplina giuridica dei Piani Regolatori, 2 Voll. Roma 1932; Sullo studio della FNFPE, si veda Cesare Albertini: «Per una nuova Legge sui Piani Regolatori», La Casa, aprile 1933

[16] Sulla figura di Crollalanza, e i suoi rapporti con la disciplina urbanistica Cfr. Rosa Angela Làera, Carmela Riccardi, Pianificazione urbana e territoriale nella politica di regime di Araldo di Crollalanza, in Giulio Ernesti (a cura di), La costruzione dell'utopia, Ed. Lavoro, Roma 1988

[17] In questo senso, ho dato conto alcuni anni fa della relazione generale, pubblicandone alcuni stralci ne «Dall’utopia alla normativa. La formazione della legge urbanistica nel dibattito teorico», Bollettino DU, n. 4, 1984; ora lo stesso saggio è riportato in G. Ernesti, op. cit. Anche la relazione è stata nel frattempo pubblicata integralmente, insieme ad altri documenti coevi, su Le riforme possibili. Le proposte dell’INU per la legislazione urbanistica a partire dalla formazione della legge del 1942, a cura di Luigi Falco, Urbanistica Quaderni, n. 6, 1995

[18] Cfr. Virgilio Testa, «Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica», Urbanistica, luglio 1933

[19] Cfr. Lucia Nuti, Roberta Martinelli, Le città di Strapaese, la politica di fondazione nel Ventennio, F.Angeli, Milano 1981. Un importante osservatorio, per comprendere la trasformazione del dibattito sulle città, è la rubrica «Notizie e commenti di urbanistica», che Vincenzo Civico cura in questi anni sulle pagine de L'Ingegnere

[20] Il Bando Tipo è pubblicato su Urbanistica IV, 1933, con aggiornamenti in Vincenzo Civico, «Per la disciplina dei concorsi di piano regolatore», L'Ingegnere, gennaio 1935; l'Annuario delle città italiane, in due volumi di cui uno di appendice statistica, è pubblicato a cura dell'INU nel 1935

[21] Achille Bassetti, Le città giardino nei loro aspetti economico – igienico – sociale, in Atti del Convegno Lombardo per la Casa popolare nei suoi aspetti igienico-sociali, Reale Società di Igiene, Milano 1936, p. 125

[22] I pareri non sono unanimi, a questo proposito. Per esempio, Giorgio Ciucci sostiene che «Il tema dei piani regolatori e dei relativi vantaggi economici fu la questione centrale del congresso, alla quale erano collegate quelle dell’urbanistica coloniale e dell’urbanistica rurale», Giorgio Ciucci, Il dibattito sull’architettura e la città fasciste, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, dal Medioevo al Novecento, Volume terzo, il Novecento, Einaudi, Torino 1982, p. 371. È comunque certo che la grande mole ed estensione qualitativa dei temi e degli interventi consente molteplici letture del congresso

[23] Giuseppe Bottai, Discorso inaugurale, in Atti del I Congresso Nazionale di Urbanistica, INU, Roma 1937, Volume II, Discussioni e resoconto, p. 4

[24] Enzo Fidora, Scipione Tadolini, Mario Zocca, Criteri basilari per l'inquadramento dell'elemento rurale nel piano regionale, ivi, Vol. I, Parte II, Urbanistica Rurale, p. 53. Un po’ polemicamente, qualcuno si chiede anche: «Come si può far rientrare nell'etichetta di urbanistica il programma mussoliniano della casa pei contadini?», «Alcuni rilievi sull'urbanistica rurale», Concessioni e costruzioni, n.8, 1937

[25] Cfr. Vincenzo Civico, «Progressi dell'urbanistica italiana: dai piani regionali ai piani territoriali», L'Ingegnere, aprile 1939

[26] Cfr. Armando Melis, «Dopo il Congresso di Roma», in Urbanistica, III, 1937

[27] Cfr. Piero Bottoni, Urbanistica, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938
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[28] Cfr. Redactor, «Un Piano Provinciale per la soluzione del problema dell'abitazione operaia», Lo Stile, marzo 1941

[29] Cfr. Giovanni Balella, «L'industria nell'Italia fascista», Concessioni e Costruzioni, gennaio 1940

[30] Cfr. Vincenzo Civico, «L'urbanistica come problema nazionale», Critica Fascista, marzo 1942; «Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione», idem, maggio 1942

[31] Gustavo Giovannoni, «Questioni urbanistiche», cit., p. 9

[32] Cfr. Giuseppe Gorla, L'Italia nella Seconda Guerra Mondiale - Diario di un milanese Ministro del Re nel Governo di Mussolini, Baldini & Castoldi, Milano 1959

[33] A metà degli anni Cinquanta, un dirigente della Democrazia Cristiana, introducendo un convegno sui piani regionali, attribuirà - innocentemente quanto significativamente - al progetto professionale degli architetti, più che a una scelta politica del fascismo, la legge del 1942. Cfr. Atti del convegno internazionale sulla pianificazione provinciale e regionale (Passo della Mendola 3-7 novembre 1955), pubblicati a cura della Camera di Commercio di Trento

[34] Marco Romano, L'urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo - 1942-1980, Marsilio, Venezia 1980, p. 26

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