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Mi pare indispensabile ricordare ai lettori più giovani che il piano del centro storico di Bologna dei primi anni Settanta del secolo scorso è stato una pagina fondamentale della moderna cultura urbanistica. Con quel piano si affermò operativamente il principio, fino ad allora sostenuto solo sul piano teorico, che l’intero centro storico è un monumento e che quindi gli unici interventi ammissibili nel suo ambito sono i restauri. Ebbero origine così il concetto e la disciplina del restauro urbano che da Bologna si diffusero nel mondo. E a dare maggiore prestigio all'esperienza fu il fatto che si trattava di un piano per l’edilizia economica e popolare volto a bloccare l’esodo dal centro dei ceti sociali più sfavoriti a favore delle famiglie benestanti. Utilizzare per il restauro conservativo la legge per l'edilizia economica e popolare significava riconoscere che l'integrità di un centro storico è anche subordinata alla presenza di abitanti di diverse condizioni sociali, in particolare tutelando mestieri e ceti sociali originari che per secoli ne hanno contribuito a determinarne le caratteristiche.
Pierluigi Cervellati, progettista del piano non è un archistar, ma era l’assessore dell’amministrazione comunale, sindaci i comunisti Guido Fanti e Renato Zangheri.

è davvero esigua e le prossime votazioni (segue)

è davvero esigua e le prossime votazioni per il rinnovo del consiglio direttivo nazionale sono l’ultima occasione per un’inversione di senso. Credo che sia impossibile tornare all’età dell’oro, quando Italia Nostra fu l’indiscussa protagonista della salvezza di Firenze, di Venezia, dell’Appia Antica, della Costiera Amalfitana, senza sconti per nessuno. La mostra “Italia da salvare” fece il giro del mondo.

Dalla fondazione, per mezzo secolo, è stata in prima linea nella difesa della capitale dagli assalti speculativi. “Roma sbagliata”, del 1974 (“un’impressionante radiografia della capitale dopo un secolo di malgoverno”, scrisse Antonio Cederna), insieme alle denunce di Dom Franzoni e della Caritas di Luigi Di Liegro, aprì la strada alle amministrazioni di Argan e Petroselli. Quanti ricordano che fu Italia Nostra alla fine degli anni Ottanta a far esplodere lo scandalo per il famigerato progetto Fiat Fondiaria, primo caso di urbanistica contrattata (ancor oggi tenuto in vita dal comune di Firenze)?

A mano a mano, con il passare degli anni, sempre di più hanno prevalso il piccolo cabotaggio, la prudenza, il buonsenso. L’urbanistica di rito ambrosiano, che ha aperto la strada in tutt’Italia alla controriforma e agli energumeni del cemento armato, come Maurizio Lupi, Italia Nostra non l’ha affatto combattuta con l’energia e la determinazione necessaria. E negli anni più recenti gli episodi di regressione si sono infittiti.

Nel 2010 Italia Nostra della Lombardia ha addirittura tentato un’inaudita operazione di revisionismo proponendo di “aggiornare” il pensiero di Antonio Cederna. E infine sono costretto a ricordare che Italia Nostra tiene a distanza Desideria Pasolini dall’Onda, ultima esponente di quel glorioso drappello che fondò l’associazione nel 1955, e che è stata la Bianchi Bandinelli, nel febbraio scorso, a ricordare e premiare Desideria (“una vita per la tutela”).
Non si può tornare all’età dell’oro, ma credo che abbiamo il dovere – per quanto mi riguarda è l’ultima volta – di cercare intanto di riannodare i fili di una vicenda non ancora del tutto consunti.

Voterò per Ilaria Agostini, Luigi De Falco, Raffaella Di Leo, Maria Pia Guermandi, Giovanni Losavio, Tomaso Montanari, Emanuele Montini, Francesco Vallerani. Non sono gli unici candidati meritevoli di fiducia, nella lunga lista a disposizione degli elettori ce ne sono almeno altrettanti che possono contribuire alla difficile impresa.

Il testo base della legge sul consumo di suolo che il Parlamento sta approvando è un disastro. Adottato dalle commissioni riunite... >>>

Il testo base della legge sul consumo di suolo che il Parlamento sta approvando è un disastro. Adottato dalle commissioni riunite VIII e XIII della Camera riprende la cosiddetta proposta Catania (AC 2039). Il dispositivo fondamentale per il contenimento del consumo del suolo è basato sui seguenti tre passaggi:
1. la “riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo di suolo a livello nazionale”. La riduzione è definita con decreto del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con i ministri del Mibac e delle Infrastrutture e trasporti, avendo acquisito il parere della conferenza Stato Regioni (art. 3, c. 1);
2. la riduzione nazionale è in seguito ripartita fra le Regioni con deliberazione della Conferenza unificata (art. 3, c. 5);
3. infine, la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).

Consideriamo uno per uno i tre passaggi. Penso che un diligente ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi l’entità della riduzione del consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.

Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Essendo certamente in maggioranza le Regioni meno sensibili alla salvaguardia del territorio non urbanizzato (eufemismo), la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).

Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, avendo acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).

Questo è il punto. Per quanto ne so, almeno in materia di politica del territorio non è mai stato esercitato dallo Stato il potere di sostituire le Regioni, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio. Comunque, possiamo pure ammettere che il Consiglio dei ministri intervenga in via sostitutiva per attuare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale, operazione che, in fondo, di per sé, non fa direttamente male a nessuno.

Molto diverso è il caso delle Regioni che non provvedono a fissare per ciascun comune il limite al consumo di suolo. Qui si toccano concretamente e materialmente gli interessi fondiari e mi pare assai difficile che il Governo possa farsene carico. Si tenga conto che in Consiglio dei ministri siedono alcuni garanti storici delle ideologie espansionistiche, a cominciare dal ministro delle Infrastrutture. Non è certo per caso che il ministro Lupi ha pubblicizzato, come fosse un ammonimento, la sua proposta di riforma urbanistica (consumo del suolo illimitato) proprio quando prendeva corpo il dibattito sul contenimento della crescita.

Certamente, in via di ipotesi, non si può escludere che, un bel giorno, il Governo possa fissare i limiti all’espansione, Comune per Comune, delle Regioni inadempienti. Ma, ammesso che succeda, scatterebbe allora, puntualmente, l’inerzia dei Comuni che non intendono porre limiti all’edificazione. Insomma, non ci vuole molto per dedurre che la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più urgente. Oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre al cemento.
Come volevasi dimostrare.

Ed ecco, molto sinteticamente, altre tre osservazioni:

1) La proposta di legge 2039 definisce come consumo del suolo l’impermeabilizzazione (art. 2, c. 1, lett. b), determinando inutili e dannose conseguenze, come il ricorso alla compensazione (art. 2, c. 1, lett. g). Il parametro da utilizzare è invece il territorio urbanizzato, che comprende anche i parchi pubblici e altri spazi non impermeabilizzati ma costitutivi dell’organizzazione urbana. L’impermeabilizzazione è invece un fenomeno settoriale, a macchia di leopardo, estraneo alla logica dell’urbanistica. Chiarissimo, in proposito, l’intervento di Antonio di Gennaro in Contenere il consumo del suolo. Vedi anche la seconda proposta di legge eddyburg e la legge urbanistica regionale 65/2014 della Toscana.
2) Un altro gigantesco equivoco sta nell’attribuzione della materia contenimento del consumo del suolo (ma si dovrebbe ormai puntare all’azzeramento del consumo del suolo) al ministero delle Politiche agricole, che trascina con sé altri soggetti alieni come il Consiglio per la ricerca in agricoltura e per l’analisi dell’economia agraria. Senza togliere alcun merito all’ex ministro Mario Catania, la materia va restituita in primo luogo al Mibac cui compete il piano paesaggistico che è l’unico strumento vigente di assetto territoriale a scala regionale, strumento quasi del tutto ignorato nella proposta in esame (che con ciò contribuisce a legittimare l’irresponsabile inerzia del Mibac).
(3) Infine (ma si potrebbe continuare), i compendi agricoli neorurali periurbani (art. 5). Terribile, pericolosissima invenzione che agirebbe, al contrario di come si vuol far credere, proprio da fomite ai cambi di destinazione d’uso e al consumo del suolo.

Conclusione. Il testo sul contenimento del consumo del suolo in discussione alla Camera è, secondo noi, inemendabile. E va sostituito con la seconda proposta eddyburg , l’unica che, tra l’altro,consentirebbe convincenti risultati in tempi brevi.

Note
(1) Contenere il consumo di suolo. Saperi ed esperienze a confronto,a cura di Gian Franco Cartei e Luca DeLucia, Napoli 2014

Finalmente una buona notizia per l’urbanistica italiana. Viene dalla Toscana ma dovrebbe avere riflessi ...>>>

Finalmente una buona notizia per l’urbanistica italiana. Viene dalla Toscana ma dovrebbe avere riflessi positivi per l’intero Paese. Mi riferisco alla proposta di riforma della legge urbanistica approvata nei giorni scorsi dalla Giunta regionale. Si tratta di un provvedimento ampio e complesso, ben 226 articoli, che: riorganizza le procedure e le regole relative all’informazione e alla partecipazione (rafforzando i poteri d’intervento regionali); istituisce il monitoraggio dell’esperienza applicativa della legge e della sua efficacia; introduce il suggestivo concetto di «patrimonio territoriale»; valorizza la pianificazione di area vasta; immette le politiche abitative fra i contenuti della pianificazione urbanistica; rafforza le regole di prevenzione e mitigazione dei rischi sismici e idrogeologici; valorizza l’attività agricola e il mondo rurale; corregge il lessico (il «regolamento urbanistico» diventa più correttamente «piano operativo»); riduce i tempi della pianificazione (gli attuali 6 anni in media per i piani comunali dovrebbero ridursi a 2); adegua la legislazione regionale al Codice del paesaggio.

Sono tutti importanti contenuti sui quali avremo occasione di tornare. Ma la svolta dirompente riguarda le norme che inibiscono il consumo del suolo, e soprattutto su di esse si sta concentrando la discussione. Nel presentare la proposta insieme all’assessore Anna Marson, il presidente Enrico Rossi ha dichiarato: «Tracciamo una linea netta tra territorio urbanizzato, in cui concentrare l’attività edilizia, soprattutto promuovendo riuso e riqualificazione, e territorio rurale, in cui non saranno consentite nuove edificazioni residenziali». Ed è esattamente questa la novità che più di ogni altra caratterizza e qualifica la proposta. La cui elaborazione è partita dall’analisi critica delle norme vigenti: in effetti, dal 1990 la Toscana è dotata di precetti volti a contenere il consumo del suolo, la legge vigente (n. 1/2005) prevede che «nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti» (art 3). Ma soprattutto a causa della carenza di verifiche e di piccole furbizie, la norma non ha impedito il dilagare incontrollato dell’urbanizzazione.

Per rendere davvero efficace la riduzione al minimo del consumo del suolo (obiettivo tenacemente sostenuto dall’assessore Marson) il nuovo disegno di legge (art. 4) introduce la rigorosa perimetrazione del territorio urbanizzato. In sostanza, il territorio di ogni comune è diviso in due parti: quella urbanizzata e quella rurale. All’interno del territorio urbanizzato deve essere concentrato ogni nuovo intervento di nuova edificazione o di trasformazione urbanistica. All’esterno del territorio urbanizzato non sono mai consentite nuove edificazioni residenziali. Sono invece possibili limitate trasformazioni di nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di pianificazione di area vasta (alla quale partecipa la Regione) cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi) alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti. Finisce la stagione degli ecomostri e delle villette a schiera.

Meglio di così mi pare impossibile. Il pregio della proposta toscana si coglie appieno confrontandola con le proposte di legge per il contenimento del consumo di suolo presentate in Parlamento negli ultimi tempi: sono finora ben 13 (8 alla Camera e 5 al Senato), presentate dal governo e da quasi tutte le forze politiche. I dispositivi previsti sono in genere molto complicati, certe volte bizzarri, o addirittura controproducenti: anche di questo tratteremo in altra occasione. Mi sembra solo importante ricordare che mentre in tutte le sedi ci si affanna a proporre nuove leggi nazionali, giace dimenticata una buona legge, misteriosamente approvata all’inizio del 2013 (n. 10, «Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani»), che rappresenta una base più che sufficiente per avviare, se non altro in via sperimentale, politiche nazionali e locali di contenimento del consumo di suolo. Ma nel nostro Paese, com’è noto, alla gestione delle politiche si preferisce generalmente la scorciatoia di una nuova legge. È meno faticoso e dà più visibilità.

In conclusione mi permetto di suggerire al presidente Rossi e all’assessore Marson che, mentre si avvia il dibattito in Consiglio regionale, si attivino per far conoscere al meglio su scala nazionale la loro proposta di riforma, rivendicando consapevolmente il primato della Toscana nei temi del consumo del suolo.

Vedi qui la presentazione della legge da parte dell'assessore Marson e il link al resto della proposta approvata dalla Giunta regionale

Mi pare che Ignazio Marino sia partito bene. È stata soprattutto la grande partecipazione...>>>

Mi pare che Ignazio Marino sia partito bene. È stata soprattutto la grande partecipazione di cittadini romani alla notte della via dei Fori, nonostante miserevoli tentativi di boicottaggio, a confermare la bontà dell’iniziativa. Non mi riferisco alla, molto parziale, pedonalizzazione, ma all’idea di collocare l’archeologia al centro della vita moderna. E qui occorre qualche precisazione.

Il Progetto Fori, quello autentico, quello che volevano Antonio Cederna, Luigi Petroselli, Adriano La Regina, prevedeva l’eliminazione della via dei Fori per portare alla luce il complesso archeologico più importante del mondo: i Fori di Cesare, di Augusto, di Nerva, di Traiano che, insieme a basiliche e altri edifici, formavano il centro direzionale dell’impero romano. Ma nell’attuale rilancio del Progetto l’eliminazione della via dei Fori sembra rimossa, mi pare che nessuno dei protagonisti istituzionali, a cominciare dal sindaco, ne parli esplicitamente e sembra che l’obiettivo sia solo la pedonalizzazione integrale da piazza Venezia al Colosseo. Ma così non può essere, il Progetto Fori non può essere la folla che passeggia lungo la strada voluta da Benito Mussolini.

Serve una breve ricostruzione storica. Negli anni Trenta del secolo scorso, nell’area da piazza Venezia al Colosseo fu perpetrato il più vasto e grave degli sventramenti fascisti perché Roma avesse al suo centro una strada adatta alle grandi parate militari, in uno scenario che doveva celebrare la continuità fra l’impero romano e il regime di Mussolini. Fu scelto un tracciato «dritto come la spada di un legionario» e i lavori furono condotti a ritmo di record (dall’ottobre 1931 all’ottobre 1932). Fu raso al suolo un grande quartiere di impianto cinquecentesco e furono ridotte in polvere almeno cinque chiese, lo splendido giardino di Palazzo Rivaldi, case e palazzi per oltre cinquemila vani e gli abitanti furono deportati in borgata. Appena tornati alla luce, i resti dei fori furono subito sepolti sotto la nuova via dell’Impero (così fu chiamata all’inizio l’attuale via dei Fori imperiali). Da allora, il più importante complesso archeologico del mondo è spaccato in due da un incongruo nastro d’asfalto.
Si deve a Leonardo Benevolo il primo studio che mise in discussione quella strada: nel libro Roma da ieri a domani, del 1971, propose per il centro storico della capitale di conservare gli edifici antichi, di demolire invece molti di quelli costruiti dopo l’Unità, e di sostituire con spazi verdi gran parte delle strade formate a seguito degli sventramenti post unitari. Sette anni dopo, nel dicembre del 1978, il soprintendente archeologico Adriano La Regina riprese il tema, denunciando le drammatiche condizioni dei monumenti corrosi dall’inquinamento, e introdusse allora, per la prima volta, una diretta connessione fra destino dell’area archeologica e assetto urbanistico della parte centrale della città.

La cronaca dei primi passi della proposta e dell’interesse che riscosse in Italia e all’estero è stata raccontata da Italo Insolera e Francesco Perego nel libro Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma dove sono raccolti i documenti, le testimonianze e le immagini fondamentali della vicenda dal 1870 al 1983. Per Insolera e Perego l’operazione Fori propone «una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’“antico” non è più inteso come “monumento”, né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare».

Il sindaco Giulio Carlo Argan, gli assessori Vittoria Calzolari e Renato Nicolini si schierano subito con La Regina e la sua proposta di realizzare un grande parco archeologico dai Fori fino all’Appia Antica, allontanando il traffico automobilistico, «uno degli elementi più deturpanti della città». Ma a imporre l’archeologia e il Progetto Fori al centro del dibattito politico e culturale fu l’elezione a sindaco di Luigi Petroselli (il 27 settembre 1979), quando Argan si dimise. L’idea-obiettivo che guidò l’azione di Petroselli era di accorciare le distanze fra il mondo marginale delle periferie e la città riconosciuta come tale, e perciò voleva che anche la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi ma di tutto il popolo di Roma, anche quello più sfavorito. Sospinto dall’entusiasmo di Petroselli, il recupero dei Fori diventò l’insegna del rinnovamento della capitale, mobilitò le migliori energie, raccolse un consenso vastissimo, dalle autorità di governo alla grande intellettualità internazionale, dagli abitanti delle borgate che si stavano risanando a coloro che partecipavano all’Estate romana di Renato Nicolini.

L’esordio di Petroselli sui problemi dell’archeologia fu la decisione di smantellare via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il Comune deliberò l’eliminazione del piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. L’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore il primo febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stessa clima festoso dell’Estate romana. (E l’altra notte sono tornati alla memoria brandelli commoventi di quella stagione).

Mi pare importante ricordare che a favore del Progetto Fori si schierò subito Il Messaggero, diretto da Vittorio Emiliani. Il quotidiano diventò un protagonista dell’operazione, lo stesso quotidiano che oggi dà la linea alla destra. Allora all’opposizione stava solo Il Tempo, che all’avvicinarsi delle elezioni del maggio 1981 cominciò a insinuare che la chiusura di via dei Fori fosse suggerita più da odio al fascismo che dall’esigenza di risolvere problemi archeologici o urbanistici.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciarono a morire il Progetto Fori e l’immaginazione al potere, e cominciò la crisi della città pubblica, sostituita dall’urbanistica contrattata, drammaticamente incollata alla concretezza degli affari. Con la scomparsa del sindaco, veli sottili di opportunismo e di circospezione avvolsero lentamente il progetto, e anche importanti intellettuali (tra gli altri, Federico Zeri, Cesare Brandi, Luca Canali) ne presero le distanze. I tempi si prolungarono all’infinito. Il parco archeologico centrale a mano a mano perse attendibilità, fu spostato nel novero delle cose molto difficili, poi impossibili, infine svanì nel nulla.

Nel 1993, dopo la sconfitta del 1985, la sinistra tornò in Campidoglio con Francesco Rutelli (sindaco dal 1993 al 2001). Poteva essere la grande occasione per riprendere le idee di Petroselli. Ma la svolta non ci fu. Anzi Rutelli si dichiarò contrario all’eliminazione della via dei Fori. Una strada che intanto – a seguito dei provvedimenti dell’assessore Walter Tocci per la drastica riduzione del traffico di attraversamento e per l’inserimento della via nella zona a traffico limitato – ha finito con l’assumere un aspetto insensato per l’esubero dello spazio impegnato dalla viabilità. Nel 1996, ripresero comunque gli scavi ai lati della via dei Fori, ma non ci si preoccupò di dar loro un disegno compiuto. Venne anche ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali, ma la chiusura definitiva della strada alle automobili fu rinviata alle calende greche.

Un autorevole stop al Progetto Fori è stato imposto nel 2001 con un decreto di vincolo monumentale che congela lo stato di fatto dalla via dei Fori e dintorni fino alle terme di Caracalla. La sistemazione voluta da Mussolini è presentata come «un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto». Un vincolo posto con un decreto ministeriale si rimuove con un altro decreto ministeriale. Ma non è questo il problema. Il problema è che il vincolo sulla via dei Fori è evidentemente un prezzo pagato alla cultura della destra nostalgica. Una cultura, soprattutto a Roma, non certamente minoritaria, e attiva nelle articolazioni della società. Non mi pare che serva adesso uno scontro ideologico, serve invece un’azione culturale diffusa e convincente, che faccia leva sull’assoluta modernità del progetto Fori. Nel senso che non si tratta di un’(impossibile) operazione antistorica di ripristino dell’assetto spaziale precedente agli anni del fascismo ma, al contrario, di partire dalla sistemazione degli anni Trenta per realizzare, nel migliore dei modi, un nuovo e autentico rapporto con i più famosi resti dell’impero romano, considerando l’archeologia una componente vitale della città contemporanea, ecologica e pedonale.

Tutto ciò impone un lavoro, non facile e forse non breve, che coinvolga le università, le scuole di ogni ordine e grado, la stampa, le istituzioni scientifiche di altri paesi presenti a Roma, eccetera. Un lavoro che soprattutto mobiliti i cittadini romani per farli partecipare da protagonisti alla costruzione della nuova immagine della capitale. La grande partecipazione dell’altra notte è stata una magnifica conferma che la Roma democratica e popolare, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini, è d’accordo con il Progetto Fori. Allora, coraggio, andiamo avanti. Non credo che ci sia un problema di risorse finanziarie, serve in primo luogo l’impegno delle persone giuste, cominciando da due amministratori che da sempre sono stati a favore del Progetto: l’archeologo Rita Paris e l’e l’assessore all’urbanistica Giovanni Caudo.


L'articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del 15 giugno del disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo...>>>
L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del 15 giugno del disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo edificato rende in parte meno stringente l’urgenza di contrastare la proposta di legge Realacci e altri (anch’essa recante Norme per il contenimento dell’uso del suolo e la rigenerazione urbana) che era all’origine dell’iniziativa di oggi.

Della proposta di legge Realacci mi limito perciò a ricordare solo i difetti essenziali:
- il contenuto contraddice vistosamente l’obiettivo dichiarato nel titolo. Nessuna norma della proposta persegue davvero il contenimento del consumo del suolo. Lo stesso contributo speciale per la rigenerazione urbana, previsto all’art. 2 a carico delle attività di trasformazione che determinano nuovo consumo di suolo, può paradossalmente tradursi – come ha osservato Anna Marson – in un incentivo ai comuni a promuovere nuovo consumo di suolo per poter disporre di finanziamenti da destinare al recupero. Il recupero pagato dall’espansione.
- tutti gli altri articoli incentivano, esplicitamente o implicitamente, il consumo del suolo. Gli istituti e i dispositivi previsti – perequazione, comparto, compensazione, incentivazione, diritti edificatori – sono quelli propri dell’espansione. Quelli propri dell’urbanistica romana degli ultimi venti anni, che ha previsto, o comunque consentito, l’incontrollato dilagare dell’edificazione in ogni segmento del territorio comunale. Istituti e dispositivi che la proposta Realacci tende a legalizzare e quindi a rendere obbligatori in tutti i comuni italiani.

Il disegno di legge governativo opera invece effettivamente nell’ambito dell’obiettivo dichiarato. Riprende, come si sa, il disegno di legge dell’ex ministro Mario Catania con gli emendamenti espressi dalle regioni e dagli enti locali, e rappresenta una buona base di discussione. Mi sembra particolarmente apprezzabile la norma transitoria, immediatamente efficace, sullo stop triennale al consumo di suolo.
Il giudizio positivo sul testo del governo non mi trattiene tuttavia dall’osservare con preoccupazione che detto testo determina un improprio, pericolosissimo e surrettizio trasferimento di competenze dal ministero dei Beni culturali al ministero delle Politiche agricole. Obiettivi del provvedimento sono infatti : la tutela del suolo non edificato, con particolare riguardo alle aree e agli immobili sottoposti a tutela paesaggistica (art. 1, c. 1)
- la priorità del riuso e della rigenerazione edilizia (art. 1, c. 2)
- il coordinamento delle politiche di tutela e di valorizzazione del paesaggio, di
- contenimento del consumo di suolo e di sviluppo territoriale sostenibile con la pianificazione territoriale e paesaggistica (art. 1 c. 3).
Il perseguimento dei suddetti obiettivi è però affidato a un apposito Comitato, che opera – nientemeno – presso la Direzione generale per la promozione della qualità agroalimentare del Dipartimento delle politiche competitive, della qualità agroalimentare e della pesca (art. 3, c. 7). Da non credere. Il paesaggio come la cucina. I Trulli di Alberobello come le orecchiette con le cime di rapa. Le colline di Fiesole come la ribollita. Le ville palladiane come la sarda in saor.
Come se un infausto destino perseguitasse il ministero dei Beni culturali. Che fa il ministro Massimo Bray? Mi sembra che si stia perfettamente allineando ai predecessori Lorenzo Ornaghi, Giancarlo Galan, Sandro Bondi. È appena il caso di ricordare che, se si fossero formati, e a regola d’arte, i piani paesaggistici, secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio, non avremmo bisogno di una legge ad hoc per fermare il consumo del suolo.

Mi restano da dire poche cose relativamente alla proposta eddyburg sulla salvaguardia del territorio non urbanizzato. Il ritmo frenetico assunto negli ultimi anni dall’espansione edilizia ha già drammaticamente alterato i connotati del paesaggio italiano, e siamo a un passo dal baratro dell’irreparabile. Siamo perciò convinti che non è opportuno, come propongono quasi tutti i provvedimenti in discussione, il ricorso a materie oggetto di legislazione concorrente, quelle cioè del c. 3 dell’art. 117 della Costituzione, per le quali spettano allo Stato i principi fondamentali e alle regioni le norme operative. Non è opportuno perché: richiede tempi incompatibili con le dinamiche in atto deve fare i conti con la prevedibile inerzia delle regioni, e in specie di quelle più gravemente afflitte da disastrosi fenomeni di crescita edilizia sono, com’è noto, inconsistenti i provvedimenti sostitutivi dello Stato.

S’impone, viceversa, secondo noi, il ricorso a materie di esclusiva competenza dello Stato, ovvero quelle del c. 2 dell’art. 117. Ciò significa che non dobbiamo assumere a riferimento la materia governo del territorio (oggetto di legislazione concorrente) ma la materia tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (oggetto di legislazione esclusiva dello Stato), che sarebbe subito estesa a tutti i comuni italiani.

La proposta di eddyburg, nell’imporre, illic et immediate, l’azzeramento in tutti comuni del consumo di suolo, fatte salve circostanze davvero eccezionali, riprende in parte gli emendamenti della giunta toscana alla legge regionale 1/2005 (grazie in particolare ad Anna Marson). È pertanto una proposta meno estrema e provocatoria di quanto potrebbe apparire. È infine evidente che lo spostamento dell’iniziativa dalle regioni ai comuni, obbligati da subito alla perimetrazione del territorio urbanizzato, determinerebbe condizioni ottimali per garantire la più ravvicinata e produttiva partecipazione di cittadini, e di loro rappresentanze di base, alla formazione dei provvedimenti.

4. Devo infine ringraziare quanti si sono prodigati per organizzare l’iniziativa di oggi. Per tutti ringrazio Anna Maria Bianchi e Cristiana Mancinelli Scotti.

Questo testo costituisce l'intervento di Vezio De Lucia a conclusione dell'assemblea di Roma, 19 giugno 2013
Non convince la proposta del ministro Mario Catania. >>>
Non convince per gli antiquati e storicamente inconcludenti procedimenti a cascata, per l’imprevedibile lunghezza dei tempi, non convince soprattutto perché, alla fine, a decidere sono le regioni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le regioni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel centro Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù (Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud) lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato rapidamente emarginato. Insomma, con la proposta Catania, l’obiettivo logicamente prioritario, che dovrebbe essere di imporre le misure più severe laddove maggiore è sregolatezza, diventa francamente velleitario: ve le immaginate la Campania, il Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo? Servono perciò soluzioni radicalmente diverse.
E urgenti.
Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le regioni si convertano al buogoverno, significherebbe toccare il fondo, annientare materialmente l’unità d’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è irreversibile. E allora? Andando subito al merito, secondo me, e scusandomi del carattere anche molto tecnico dell’esposizione, dovrebbero essere praticabili due percorsi che provo a illustrare. Il primo percorso fa capo al Codice dei Beni culturali che, com’è noto, sottopone a tutela (art. 131, c. 2) il paesaggio dotato di “quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”: parole che riprendono quelle scritte da Benedetto Croce in occasione della legge 778 del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”). Il paesaggio come identità nazionale non può essere evidentemente tutelato in autonomia da 20 regioni, e perciò il Codice dispone (art. 135, c. 1) che i piani paesaggistici siano elaborati “congiuntamente” tra ministero dei Beni culturali e regioni: mentre prima, al tempo della legge Galasso, i piani paesistici erano di esclusiva competenza regionale.
Che lo Stato non debba partecipare solo nominalmente o in via subordinata alle iniziative regionali, ma debba essere invece il motore della pianificazione è previsto dalla seguente norma che secondo me è la più importante del Codice (art. 145, c.1): “La individuazione, da parte del Ministero, delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali” (una norma d’importanza capitale di cui va anche apprezzato il ritorno al lessico del noto e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616 del 1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica). Ma quest’aspetto davvero innovativo del Codice, è totalmente disatteso. Delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione” non c’è traccia. Non è stata possibile neanche l’individuazione dell’ufficio che dovrebbe occuparsene. Il ministero dei Beni culturali, più volte sollecitato in proposito (per esempio da Italia Nostra, nell’ambito del primo – e ahimè unico – Rapporto sulla pianificazione paesaggistica dell’ottobre 2010, e dall’associazione “Salviamo il paesaggio” con una nota al ministro del febbraio di quest’anno) non ha dato segni di vita.
Riguardo al contenuto delle linee fondamentali, non mi pare che possano esistere dubbi sul fatto che al primo posto debba essere collocato lo stop al consumo del suolo, riconoscendo in esso il male assoluto, quello che distrugge il paesaggio come identità nazionale e perciò da fermare con inflessibile determinazione. Se necessario, individuando formalmente nello spazio aperto una specifica categoria del territorio (ex legge Galasso) meritevole di tutela assoluta. Esiste forse un’emergenza più avvertita? (Allo stop al consumo del suolo possono certo affiancarsi altri obiettivi, per esempio Italia Nostra propone anche un vincolo di tutela generalizzato per tutti i centri storici). Si può qui osservare che anche il percorso che sto proponendo alla fine fa capo alle regioni. È vero. Ma è anche vero che in questo caso le regioni sarebbero ingabbiate in un’unica procedura nazionale, con precise scadenze e poteri sostitutivi ope legis (art. 143, c. 2), e il perseguimento della tutela del territorio attraverso i meccanismi di una pianificazione immediatamente cogente e direttamente riferita alla complessità del reale appare più convincente delle contorte modalità della proposta Catania. Ma più ancora delle procedure dovrebbero contare l’impegno politico-culturale del governo e la sua azione sull’opinione pubblica per obbligare le regioni a fare la loro parte: da questo punto di vista mi pare decisivo lo spostamento del comando dal ministero dell’Agricoltura a quello dei Beni culturali con il conseguente spostamento dell’oggetto della tutela dalla produzione agricola, importante quanto si vuole ma non come il paesaggio, connotato costitutivo e costituzionale del nostro Paese. Ovviamente, adesso è inutile sperare in una resipiscenza dell’attuale compagine governativa. Con Lorenzo Ornaghi forse è peggio che con Sandro Bondi, ma non si può dare ragione a chi sostiene che il ministero del Collegio Romano sia ormai destinato all’estinzione. Dobbiamo invece sperare che al più presto un nuovo governo, con un prestigioso ministro dei Beni culturali, affronti con risoluta autorevolezza la questione del consumo del suolo. Magari come occasione per la riforma e il rilancio del ministero. O addirittura con la responsabilità diretta del presidente del Consiglio come garante dell’impegno collegiale del governo nella tutela del paesaggio.
E se, sognando a occhi aperti, il nuovo governo fosse davvero sensibile, si potrebbe anche pensare – è il secondo percorso che propongo – a una spietata decisione statale – un decreto legge o una legge di principi in attuazione dell’art. 9 della Costituzione – che azzeri subito tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obblighi a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, riparazione, risistemazione, riutilizzo, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.
Questo secondo percorso è molto meno feroce di quello che sembra. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia di una grande e insormontabile linea rossa da tracciare intorno allo spazio urbanizzato non è un’utopia. Sa che le possibilità di riuso e simili sono sconfinate. Sa che stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero, perché i bisogni da soddisfare – in misura diversa al variare delle circostanze – sono comunque sconfinati (a cominciare dalle residenze per gli strati sociali sfavoriti). Sa che in una logica di riuso e simili ogni investimento volto al soddisfacimento di bisogni è al tempo stesso un’azione di recupero ambientale. D’altra parte non sono poche le recenti esperienze di pianificazione senza consumo di suolo. Non è solo Cassinetta di Lugagnano. Ci sono anche, che io sappia, a zero consumo di suolo, il piano regolatore di Napoli del 2004, il piano territoriale della provincia di Torino del 2010 e il piano territoriale della provincia di Caserta approvato nel luglio di quest’anno. Non mi pare poco (ma sarebbe bene disporre di un quadro aggiornato delle altre analoghe situazioni).

. Aggettivo che ha fatto anche comodo per isolarlo in un perimetro lontano dalla politica dura e pura di chi sa come va il mondo.

L’estate romana è stata la pagina più straordinaria dell’urbanistica di Roma capitale e in generale della moderna cultura della città. Prese il via nel 1977, sindaco Giulio Carlo Argan con una giunta di sinistra insediata in Campidoglio dopo trent’anni di amministrazioni democristiane, quelle del sacco di Roma, mentre gran parte dei romani viveva nella vergogna delle borgate. Nicolini era assessore alla cultura. Fino ad allora le iniziative estive erano l’Aida alle Terme di Caracalla, il teatro romanesco di Checco Durante, qualche concerto. Con Nicolini cambiò tutto, e per sempre.

Ma per cogliere la profondità della svolta si deve ricordare che erano gli anni del terrorismo, delle brigate rosse, dell’assassinio di Aldo Moro, quando un clima cupo induceva a non uscire di casa. Nicolini fissò un grande schermo nella basilica di Massenzio, tremila posti, ogni sera una maratona di film, cinema alto e basso senza steccati. Senso di Visconti insieme alle fatiche di Ercole, ogni volta un successo. A mano a mano palcoscenici furono montati ovunque, in centro, a piazza Farnese e a santa Maria in Trastevere, e in periferia, al Tiburtino III, a Ostia, a Primavalle, Villa dei Gordiani e villa Lazzaroni. Poi il circo, il teatro di strada, il festival dei poeti sulla spiaggia di Castelporziano. E a Roma tornarono le mostra di prestigio, Matisse, Cézanne, Kandisky, Chagall, la Vienna Rossa, i musei di Berlino Est.

Cominciarono subito le polemiche sull’effimero, da destra (ma un po’ anche da sinistra), che il sindaco Argan stroncò da par suo riferendosi al precedente storico del barocco: “Il barocco romano ha scoperto il pensiero immaginativo e l’ha definito, soprattutto con Bernini, con lo stesso rigore con cui negli stessi anni Cartesio definiva il pensiero razionale”. Insomma, contrapporre l’effimero allo storico dimostrava solo la sprovvedutezza delle critiche.

L’estate romana era l’altra faccia del progetto Fori che in quegli stessi anni il nuovo sindaco Luigi Petroselli, succeduto al dimissionario Argan, metteva a punto insieme ad Adriano La Regina, Antonio Cederna, Italo Insolera e altri. Non era solo una diversa sistemazione archeologica del cuore di Roma, non era solo la liberazione dalla morsa del traffico era soprattutto un modo strepitoso di attuare l’idea dell’unificazione di Roma, accorciando le distanze fra il centro e la periferia, portando il popolo delle borgate a farsi custode della storia di Roma antica. Le domeniche pedonali volute da Petroselli nella via dei Fori, sotto la basilica di Massenzio, rispondevano alla stessa filosofia dell’estate romana.

Nel 1981, con l’improvvisa morte di Petroselli, morì il progetto Fori e cominciò il declino dell’amministrazione di sinistra finita nel 1985. L’estate romana è intanto copiata in mezzo mondo, in Italia non ci fu città o paese che non fece iniziative all’aperto. È continuata anche a Roma, ma senza lo spirito di ricerca e di sperimentazione che le aveva impresso Renato Nicolini.

Ma Renato non è stato solo estate romana. Altri celebreranno il suo impegno parlamentare, accademico, professionale e di quando ha fatto l’assessore a Napoli con la prima amministrazione Bassolino. Mi interessa qui ricordare la sua presenza nel dibattito di oggi sull’urbanistica romana e sul futuro della città dopo Alemanno. A fine giugno su queste pagine ha scritto un articolo che possiamo considerare come il suo testamento politico. Si è rammaricato che nessuno associasse il suo nome alle prossime candidature a sindaco di Roma e, accanto a Zingaretti, ha fatto i nomi di Medici e di Berdini. Ha richiamato due concetti alla base del pensiero di Petroselli: l’importanza della cultura nel governo della città e la necessità di rompere con l’idea che la crescita di Roma debba dipendere dall’edilizia. Al riguardo ha scritto che apprezzava particolarmente l’appello di Paolo Berdini (“non è più possibile tacere”) e che quello del 2008 è il peggior piano regolatore della storia di Roma capitale. Concludeva che il suo obiettivo non era il Campidoglio ma la necessità di contribuire a una svolta dell’amministrazione capitolina: non basta vincere bisogna anche cambiare rispetto ai quindici anni di Rutelli e Veltroni.

Addio Renato, lasci un vuoto incolmabile.

L'articolo è pubblicato anche sul manifesto, 5 agosto 2012

del libro patrocinato da Italia Nostra Lombardia con l’intento di “rivedere” e “aggiornare” il pensiero di Antonio Cederna. L’immediato e deciso intervento di Giulio, Camilla e Giuseppe Cederna, cui fece seguito un appello di decine di intellettuali – da Alberto Asor Rosa a Corrado Stajano –, indusse Electa a interrompere subito la distribuzione del libro. Ma all’interno del consiglio nazionale dell’associazione la vicenda fu condotta molto maldestramente. La presidente Alessandra Mottola Molfino – d’accordo con la maggioranza – rifiutò di assumere qualunque provvedimento nei confronti degli autori del pasticcio. Mise anzi sullo stesso piano i responsabili del libro impropriamente attribuito a Cederna e i componenti del consiglio – soprattutto il sottoscritto, Maria Pia Guermandi ed Elio Garzillo – che contro quel libro avevano preso posizione pubblica, con il che avrebbero danneggiato l’associazione. Alla stampa fu comunicato che la vicenda si era conclusa nel migliore dei modi e tutti i consiglieri erano allineati alle posizioni della presidente.

Ho ricordato queste cose perché nei prossimi giorni i soci di Italia Nostra votano per il rinnovo delle cariche elettive e potrebbe finalmente concludersi uno dei periodi più tristi nella vita della benemerita associazione, un periodo caratterizzato da un’attività tanto estesa e propagandata, quanto superficiale, anodina e inconcludente. Solo un esempio. L’Aquila, in particolare il centro storico. A leggere i documenti ufficiali sembra che l’azione di Italia Nostra sia stata decisiva per il suo recupero. Ma non è così. A fine marzo [cfr. eddyburg] autorevoli esponenti del governo hanno formalmente condiviso un inaudito documento dell’Ocse e dell’università di Gröningen che propone di svuotare gli interni degli edifici del centro storico dello sventurato capoluogo abruzzese conservando soltanto le facciate. Una cosa inverosimile, che avrebbe preteso (e tuttora pretende) un energico e risoluto intervento sui vertici del ministero dei Beni culturali. Con i quali la presidenza di Italia Nostra vanta rapporti inutilmente cordiali.

Ma non è tutto. Il dato più grave dell’inerzia di Italia Nostra riguarda l’atteggiamento di fronte alla crisi della cultura, dell’etica, della politica che sta travolgendo la società italiana. In una realtà drammaticamente caratterizzata dalla perdita di riferimenti, nella quale la rappresentanza istituzionale non ha più credito, che sembra destinata al si salvi chi può, l’azione di un soggetto come Italia Nostra – storicamente impegnato in nient’altro che non sia l’interesse generale – dovrebbe essere obbligatoriamente orientata a ricomporre, compattare, organizzare brandelli di società intorno al nostro patrimonio d’arte e di cultura. Non per sostituirsi ai partiti, ma per contribuire con la propria specificità alla ricostruzione di un più vitale tessuto civile. Invece, in questa direzione, di Italia Nostra non è traccia se non nel senso di una retorica perorazione di buone pratiche.

Mi pare francamente più utile ed efficace l’azione di eddyburg. Penso all’impegno per lo stop al consumo del suolo, alla critica inesorabile alla mala urbanistica capitolina, all’attenzione sempre disponibile nei confronti di comitati e tensioni emergenti (anche all’Aquila). Perciò mi sembra importante segnalare la candidatura del direttore e del vicedirettore vicario al consiglio nazionale di Italia nostra insieme ad altri che possono considerarsi parte della squadra di eddyburg: una bella novità che può essere decisiva per la rinascita di Italia Nostra.

Concludo ricordando che in questi giorni è stato pubblicato un libro commissionato da Legambiente a Francesco Erbani su Antonio Cederna, nel quindicesimo anniversario della sua morte. Un libro che ricostruisce con puntualità il rigore e l’intransigenza di quel grande italiano, fondatore del moderno ambientalismo. Come sappiamo, Cederna è stato il più autorevole esponente di Italia Nostra ed Erbani lo scrive con esattezza. Che ciò sia raccontato in un libro voluto da Legambiente mi pare che sia meritevole di apprezzamento, non disgiunto dal rammarico per l’ennesima occasione persa da Italia Nostra.

In allegato il programma della lista: Nel nome di Cederna

Rendere le Regioni più forti in seguito a un disastro naturale. Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila. Si intitola così il documento che l’OCSE e l’università di Groningen hanno reso pubblico in questi giorni e che dovrà essere discusso nel Forum previsto all’Aquila per sabato 17 marzo. Lo studio è stato finanziato dal ministero dello Sviluppo economico (Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica) e da CGIL, CISL, UIL. [il testo è scaricabarile in calce]

È un testo inverosimile. Da anni, da decenni, non si leggevano stoltezze simili, sembrano chiacchiere da bar. Non riesco a credere che invece sono state scritte da istituzioni autorevoli come l’Ocse, l’università di Groningen, il ministero dello Sviluppo e le confederazioni sindacali. Mi riferisco alla parte seconda del documento, in particolare ai paragrafi Raccogliere la sfida della ricostruzione e L’aquila: concorso internazionale di architettura e candidatura al titolo di Capitale europea della cultura. Molto in sintesi, eliminando preamboli e preliminari, si propone di “utilizzare moderne soluzioni architettoniche e ingegneristiche per modificare gli interni degli edifici con lo scopo di creare luoghi moderni destinati alla vita quotidiana, al lavoro e al tempo libero, conservando e migliorando allo stesso tempo le facciate storiche degli edifici. I requisiti architettonici possono essere incentrati sulla celebrazione del passato, vista come mezzo di costruire un futuro nuovo e sostenibile”.

Sta scritto proprio così. E non è finita. Per realizzare lo scempio si dovrebbe organizzare un concorso internazionale di architettura consentendo “che venga modificata la destinazione d’uso” degli edifici, permettendo altresì ai proprietari di “modificare la struttura interna delle loro proprietà (in parte o in totalità)”.

Alla giuria del concorso dovrebbero partecipare “architetti di fama mondiale e di livello internazionale” e per pubblicizzare l’iniziativa al concorso verrebbero affiancati un documentario televisivo e altre operazioni di comunicazione che valorizzino la natura della sfida.” Aiuto!

A questo punto – per ora – solo qualche domanda. Lo sanno gli autori del documento che esiste una cultura del recupero, che da più di mezzo secolo ha messo a punto principi, procedure e regole per intervenire nei centri storici? Lo sanno che questa cultura è un vanto dell’Italia e che dall’Italia si è a mano a mano diffusa in Europa e nel resto del mondo? Hanno mai sentito parlare della Carta di Gubbio? Fu approvata nel 1960 e per la prima volta dichiarò che i centri storici sono un organismo unitario, tutto d’importanza monumentale, dove non è possibile distinguere, come si faceva prima, gli edifici di pregio (destinati alla conservazione), dal tessuto edilizio di base (disponibile invece per ogni genere di trasformazione, come quelle che propongo Ocse e soci). Lo sanno che l’impostazione della Carta di Gubbio fu raccolta da una legge della Repubblica nel 1967 (allora, negli anni del primo centro sinistra, succedeva che governo e parlamento fossero sensibili ai progressi della cultura). Lo sanno che la stessa impostazione, approfondita e perfezionata, nella prima metà degli anni Settanta guidò la formazione del piano per il centro storico di Bologna che diventò un modello apprezzato, imitato, invidiato in mezzo mondo? Che da allora altre città, grandi e piccole, anche esposte a rischio sismico, hanno seguito la stessa strada (cito solo Como, Venezia, Palermo, Napoli)?

Al Forum di sabato 17 dovrebbe partecipare il ministro Fabrizio Barca delegato dal presidente Monti a seguire la ricostruzione della sventurata città dell’Aquila. Siamo certi che chiederà agli autori di cancellare le eresie insensatamente proposte e che l’Aquila faccia tesoro delle migliori esperienze italiane in materia di centri storici e di politiche di recupero.

Nell’economia, nella ricerca, nella scienza precipitiamo all’indietro. Qualcuno ricorda gli anni d’oro del dopoguerra? Gli anni del miracolo economico italiano. Tanto per dire: l’Oscar del «Financial Times» alla lira ai tempi di Donato Menichella; il calcolatore di Olivetti, prima degli americani; la plastica di Giulio Natta; il Cnen di Felice Ippolito; l’Eni di Enrico Mattei; il sincrotrone di Edoardo Amaldi; le innovazioni dell’Iri (senza dire del cinema e delle arti). Poi le cose sono andate come sappiamo e ci troviamo oggi agli ultimi posti in Europa. Allora? Non ci resta che piangere? Che altro ci resta?

Ci resta la Storia. Non nel senso che dobbiamo ritirarci nella memoria rinunciando al domani ma, al contrario, adoperando la storia come motore per il futuro. Specialmente per il futuro delle nostre città.

Pensavo queste cose partecipando nei giorni scorsi all’affollata presentazione di un magnifico libro, «Il teatro di Neapolis», curato dalla soprintendenza archeologica, dal comune e dall’università Orientale di Napoli. Un libro che racconta e documenta accuratamente il lungo lavoro, avviato dopo il terremoto del 1980 da un gruppo di benemeriti studiosi – Bruno D’Agostino, Ida Baldassarre, Roberto Einaudi integrato negli anni successivi da Stefano De Caro, Daniela Giampaola, Giancarlo Ferulano, Fabiana Zeli e altri – che stanno realizzando il recupero dell’antico teatro romano nel cuore della Napoli greco-romana. Una straordinaria impresa di archeologia urbana, alla quale collaborano da tempo, con sorprendente concordia, la soprintendenza, il comune e l’Orientale. Non si tratta di isolare l’antico monumento (come pure, molto recentemente, è stato proposto da uno storico dell’architettura autorevole come Renato De Fusco) ma di promuoverne la riscoperta, rispettando la storia della città e documentandola. Il teatro romano si trova infatti sotto la complessa stratificazione edilizia che si è formata nei secoli a partire dal tardo antico e i suoi resti sono adesso visibili al di sotto dell’isolato moderno. Parte della cavea è stata messa in luce nel giardino di via S. Paolo ed è già stata utilizzata per una prima rappresentazione teatrale.

Il recupero della città storica è uno degli obiettivi prioritari del piano regolatore di Napoli che all’uopo prevede appositi piani attuativi, mentre per le ordinarie operazioni di conservazione edilizia sono previsti interventi diretti, regolati da norme fondate sull’analisi e la classificazione tipologica. L’archeologia urbana non è limitata al teatro romano, altre aree interessate sono l’acropoli, sopra piazza Cavour, ancora occupata dal vecchio policlinico, il complesso di Carminiello ai Mannesi, nei pressi di via Forcella, una parte delle mura aragonesi. Napoli è una città delle italiane in cui si pratica in modo rigoroso la procedura dell’archeologia urbana. A Roma il progetto Fori – che prevedeva di smantellare la via dei Fori, quella voluta da Mussolini per offrire uno sfondo imperiale alla sfilata delle truppe, e per vedere il Colosseo da piazza Venezia – è stato anch’esso seppellito.

È ora diffusa ovunque l’”archeologia derivata”, quella dipendente dalle opere pubbliche: parcheggi, metropolitane, strade, ferrovie, e via scavando. E quindi l’archeologia come sorpresa, come occasione eterodiretta, decisa altrove, “non conseguente a una domanda di ordine storico” (Piero Guzzo). Il “rischio archeologico” come il rischio geologico, la ricerca archeologica come lo sminamento, come la bonifica, spesso solo un costoso intralcio alle opere pubbliche. Con l’inevitabile corredo di vetrine, finestre, piccoli recinti specializzati, dall’esito estetico insignificante, dove sono esposti i resti recuperati e spesso incomprensibili,

Anche se, intendiamoci, l’archeologia derivata contribuisce lo stesso alla conoscenza e importanti risultati sono stati raggiunti proprio a Napoli grazie ai lavori della metropolitana seguiti da Daniela Giampaola: l’antico porto di piazza Municipio, la fortificazione bizantina di piazza Bovio. Ma l’archeologia che serve alle nostre città e al paesaggio è l’archeologia urbana, componente vitale dell’urbanistica moderna. Secondo me all’archeologia urbana si deve riconoscere addirittura un valore integrativo e sostitutivo – se volete di supplenza – nei confronti dell’urbanistica propriamente detta. È un argomento secondo me attuale e importante, da riprendere e sviluppare più estesamente in altra occasione. Qui mi limito a schematizzare che purtroppo, come sappiamo, l’urbanistica è una disciplina in via di rimozione, negletta, talvolta vilipesa, e con essa sono in discredito obiettivi una volta indiscutibili, lo spazio pubblico, il bene comune, il diritto alla città. Perciò è un’ottima cosa se questi stessi obiettivi sono parte di un progetto di archeologia urbana (si pensi ai parchi archeologici suburbani). L’archeologia, a differenza dell’urbanistica, è una disciplina che tutti gradiscono.

Sempre, nei momenti di crisi e di incertezza, quando non si capisce il futuro, ci si interroga sul passato.

Roberto Giannì se ne va. Lascia il dipartimento di urbanistica del comune di Napoli e si trasferisce a Bari dove assumerà la direzione dell’urbanistica regionale pugliese. Per un verso è un ritorno a casa, Roberto è nato in provincia di Lecce e non ha mai interrotto il rapporto con la sua terra. Venne a Napoli a studiare e subito dopo la laurea cominciò a collaborare con il comune insieme agli altri “ragazzi del piano” negli anni dell’amministrazione di Maurizio Valenzi (quando erano davvero ragazzi). Si deve a essi il cosiddetto piano delle periferie, approvato dal consiglio comunale prima del terremoto del novembre 1980 e poi in larga misura realizzato con gli interventi per la ricostruzione, di cui si occuparono gli stessi ragazzi del piano.

Ma non è solo un ritorno. Mi pare evidente che, per un temperamento come quello di Roberto – un commis d’état che non ama la routine –, dev’essere irresistibile l’idea di ricominciare e di contribuire all’esperienza di una regione per tanti versi all’avanguardia, grazie anche all’altissimo profilo dell’assessore al territorio Angela Barbanente e al fascino del presidente Nichi Vendola.

La partenza di Giannì non è una notizia privata, né di poca importanza. Sono coinvolto – e me ne scuso, non mi succede quasi mai su queste pagine – ma non credo di cedere a sentimenti personali se scrivo che a Napoli finisce una stagione, nonostante tutto una bella stagione. Di cui Roberto Giannì è stato indiscusso protagonista. Mi riferisco agli anni dal 1993 a oggi, dalla prima amministrazione di Antonio Bassolino all’ultima di Rosa Russo Iervolino (in carica fino alla prossima primavera). Anni in cui è successo di tutto, dall’estate sfolgorante del G7, quando lo splendore della città conquistava le prime pagine dei giornali del mondo, all’orrore dei rifiuti e alle prime pagine di segno opposto. Una stagione lunga e contraddittoria durante la quale però un segmento dell’attività comunale, quello dell’urbanistica, ha tenuto il passo con coerenza, conservando uno standard eccellente. Dall’impostazione alla stesura del nuovo piano regolatore tutto all’interno degli uffici, dal progetto per Bagnoli alla tutela delle residue aree verdi, dallo studio delle tipologie dell’edilizia storica alla gestione dell’edilizia privata: sono queste le tappe di un percorso diverso da quello di Milano, Firenze, Roma, e della stragrande maggioranza delle città italiane grandi e piccole. A Napoli non comanda l’urbanistica contrattata, non sono praticate la deroga e altre scorciatoie, non esistono “atti negoziali” che prevalgono sulle norme di piano. Non ci sono scandali.

Se l’urbanistica è politica, il merito è indubbiamente dei sindaci e degli amministratori ma, si sa, i buoni risultati, e soprattutto quelli di lunga durata, si realizzano solo se procede perfettamente l’abbinamento fra il potere politico e quello specialistico. A Napoli ha funzionato mirabilmente. La riprova è che l’attività edilizia privata – che negli anni passati nella capitale del Mezzogiorno era quasi scomparsa, soverchiata dall’edilizia pubblica e da quella abusiva – si è moltiplicata in ogni settore urbano, dal centro storico alle periferie. E non si contano gli articoli e le dichiarazioni di costruttori e di esponenti del mondo imprenditoriale che apprezzano l’azione del comune.

Ho scritto che quella stagione adesso finisce. Farei un torto a Roberto se pensassi che dopo di lui il diluvio. Auguro a lui e a tutti noi, agli amministratori e ai ragazzi del piano ormai stagionati (qualcuno è andato in pensione) che a Napoli cominci subito un’altra bella storia. Però un’altra storia, quella di prima è finita.

Vedi anche l'intervista a Roberto Giannì e i materiali nella cartella " Una città un piano: Napoli

Nelle ultime settimane, a Napoli, Salerno, Avellino, Caserta e nei piccoli centri dell’interno, ci sono stati molti incontri, convegni, appuntamenti, in memoria del terremoto di trent’anni fa e poi servizi giornalistici e televisivi, e altre iniziative sono in programma nelle prossime settimane. Non era stato così nei precedenti anniversari dieci e venti anni fa, quando furono poche e trascurabili le occasioni per commemorare la catastrofe. È stata forse la prossimità del terremoto e la drammatica attualità della mancata ricostruzione dell’Aquila a sollecitare i ricordi, e vale la pena di proporre qualche piccola e riflessione.

Per prima cosa, una rapida ricostruzione dei fatti. Alle 19,30 circa del 23 novembre del 1980, una violentissima scossa lunga oltre un minuto – con epicentro al confine fra le province di Salerno, Avellino e Potenza – distrusse o danneggiò gravemente decine di comuni. I morti furono circa tremila. Ma, come si disse allora, se il baricentro sismico era stato nel cuore degli Appennini, il baricentro sociale fu a Napoli e nell’area metropolitana, dove il terremoto assestò il colpo di grazia a un patrimonio edilizio affetto da secolari processi di degradazione, provocando centinaia di migliaia di senzatetto. La situazione diventò subito terribile. A soffiare sul fuoco furono le brigate rosse mobilitate “contro la deportazione dei napoletani”. L’episodio più grave fu il rapimento dell’assessore regionale all’urbanistica Ciro Cirillo e l’assassinio della sua scorta, che generò un sordido intrigo fra terroristi, camorristi e servizi segreti. Se poco più di tre anni prima, in occasione del rapimento Moro, il fonte della fermezza era stato vasto e compatto, nel caso Cirillo la disponibilità alla trattativa fu immediata e unanime. Una vicenda tenebrosa che faceva seguito ad altri fatti di pochi mesi prima ancor più spaventosi e mai del tutto chiariti: la strage di Ustica del 27 giugno del 1980 e la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto.

Ma torniamo al terremoto. I soccorsi furono caotici, i ritardi paurosi. Funzionò invece benissimo la televisione arrivata dovunque per prima. Il presidente della repubblica Sandro Pertini intervenne con inusitata durezza contro il governo Forlani, di fatto determinandone le dimissioni. La vicenda va ricordata a coloro che in questi giorni accusano Giorgio Napolitano di scarso equilibrio nei rapporti con il governo Berlusconi.

La ricostruzione delle zone interne fu gestita ancora peggio dell’emergenza. Si cercò di far tesoro delle precedenti esperienze, il terremoto del Belice del 1968 e quello del Friuli del 1976. Nel primo caso, nonostante la regione a statuto speciale, la ricostruzione fu opera del ministero dei Lavori pubblici ed è difficile immaginare risultati peggiori da ogni punto di vista, dai ritardi smisurati agli esiti deludenti dei paesi ricostruiti altrove. Del tutto diversi i risultati in Friuli dove il potere fu subito affidato ai comuni, coordinati da un’attenta ed efficace azione regionale. In dieci anni la ricostruzione fu completata e non è forse un caso se da allora prese corpo il repentino sviluppo del Nord Est. [Per una storia sintetica ma completa, chiara e documentata dei terremoti dal Belice all’Aquila, cfr. Francesco Erbani, Il disastro, Laterza, 2010].

In Irpinia si cercò di fare come in Friuli, ma finì in tragedia. Le regioni Campania e Basilicata restarono alla finestra, tutto il potere fu affidato ai comuni, in assenza di coordinamento e di controlli, in un quadro politico comandato dal clientelismo e dagli affari. Per dire, i comuni terremotati, che erano in realtà qualche decina – 71 secondo lo studio di Manlio Rossi Doria, sul quale torno dopo – diventarono ufficialmente quasi settecento, tutti beneficiati dal pubblico erario. Comuni piccoli e piccolissimi gestirono decine di miliardi di lire. Quasi diecimila, dei cinquantamila miliardi di lire stanziati per la ricostruzione, finirono nelle tasche dei tecnici dell’edilizia, ingegneri, architetti, geometri, il ceto sociale più ricco, potente e famelico di questa parte d’Italia. Tutti di ferrea appartenenza partitica. Una delle pagine più scandalose fu l’insediamento di nuove aree industriali in montagna (quasi ottomila miliardi di lire), spesso dentro il letto dei fiumi e servite da inutili strade sopraelevate, oggi semiabbandonate.

Ci furono anche, qua e là, risultati apprezzabili a opera di volontari, amministratori e tecnici benemeriti, ma furono casi eccezionali. La verità è che, trent’anni dopo, è cambiata la geografia. A poche settimane dal terremoto Manlio Rossi Doria curò un rapporto sul territorio colpito, definito come “il cuore e la parte più bella dell’Appennino meridionale, una regione antica e di antica e solida civiltà”. Un territorio che presentava la minore estensione delle terre incolte o abbandonate di qualunque altra zona d’Italia o d’Europa. Alla fine del ‘700, mentre l’Italia nel suo complesso e il Centro Nord avevano un terzo della popolazione attuale, nei luoghi del terremoto era invece insediata la stessa popolazione di oggi. [Università degli studi di Napoli. Centro di specializzazioni e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980, Einaudi, 1981]. Prima del 1980 la popolazione era concentrata nei paesi, pochi i residenti nelle case sparse. Dopo il terremoto, gli antichi abitati si sono spopolati, si vive soprattutto in villette sparpagliate in campagna. E si resta sconcertati dal contrasto fra l’opulenza, lo spreco, il lusso di molte nuove case e lo squallore prevalente degli spazi pubblici e del paesaggio. Credo che sia stato Franco Arminio a raccontare meglio di tutti la mutazione anche antropologica di quelle terre. [Per esempio: “Il desiderio secolare di poter contare sul pane e su un po’ di povera lietezza non doveva trasformarsi nel desiderio del contributo”, in Viaggio nel Cratere, Sironi, 2003].

Concludendo, nelle zone terremotate e poi in tutta la Campania le conseguenze disastrose del dopo terremoto si sono sommate alla più generale decadenza della cultura urbanistica e alla crisi irreversibile della pianificazione, cominciate proprio all’inizio degli anni Ottanta, con la new wave della deroga come regola, dell’abusivismo condonato, del furore privatistico, fino all’infamia del piano casa. La conseguenza più vistosa di tutto ciò è che, in trent’anni, dal 1980 al 2010, è raddoppiata la superficie urbanizzata e il consumo del suolo continua a ritmo vertiginoso.

Per la realizzazione di Roma capitale il governo ha appena approvato il primo decreto attuativo, per ora riguardante solo l’assetto istituzionale. Un provvedimento retorico e demagogico che, se andasse avanti, provocherebbe un inverosimile sconquasso istituzionale, di fatto eliminando dalla geografia e dalla storia la regione Lazio e la provincia di Roma così come le conosciamo. Per quanto se ne sa, i poteri da trasferire alla capitale con successivi decreti legislativi dovrebbero riguardare i beni culturali, lo sviluppo economico e il turismo, l’assetto del territorio, le aree protette, l’edilizia pubblica e privata, la mobilità, i rifiuti, l’energia, la protezione civile e altre eventuali materie, tutte sottratte in particolare alla regione e alla provincia. Che sarebbero snaturate. Alla regione resterebbe integralmente la sanità e poco di più.

Si guardi il disegno: che senso avrà, come si potranno formare il piano territoriale di coordinamento o governare i trasporti di una provincia di Roma ridotta a spazio residuale, con un buco in mezzo? La popolazione provinciale – quella virtualmente riferita alle materie elencate sopra – si ridurrebbe da oltre 4 milioni di abitanti a meno di un milione e mezzo. E non tanto diverso sarebbe il declassamento della regione Lazio che, sempre astrattamente riferendoci a quelle stesse competenze, avrebbe una popolazione quasi dimezzata, e nella graduatoria delle regioni per peso demografico, scenderebbe dal terzo posto (dopo Lombardia e Campania) al decimo posto, dopo la Toscana e prima della Calabria. Insomma, un pasticcio incomprensibile che, tra l’altro, collocherebbe Roma e dintorni in una prospettiva molto peggiore di quella prevista per le ordinarie città metropolitane.

Il Sole 24 Ore dei giorni scorsi ha fatto il punto sui ritardi nell’avvio delle 9 città metropolitane previste dalle norme sul federalismo approvate l’anno scorso. Esse sono Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Reggio Calabria, Torino e Venezia e dovrebbero sostituire le vigenti province, ereditando lo stesso territorio, oppure uno diversamente organizzato, in questo caso i comuni non ricadenti nella città metropolitana andrebbero assegnati alle restanti province “ordinarie”. Sarebbe quindi ridisegnata la geografia amministrativa, secondo principi dettati dalla logica e dal buon senso. Sempre che logica e buonsenso sopravvivano nel nostro povero Paese, e che la riforma vada avanti.

Roma capitale dovrebbe invece convivere con una provincia e una regione depotenziate, mortificate, superflue. Non serve la zingara per capire che siffatta impostazione non andrà avanti, se non altro per l’opposizione (giustamente) furiosa di regione e provincia. E allora si dovrà rimettere mano alla questione. Secondo me, la prima decisione da prendere dovrebbe essere di attribuire a Roma capitale il rango di regione, com’è stato fatto per altre capitali europee che comprendono sempre vasti territori (la comunidad autonoma di Madrid comprende 179 comuni). Di conseguenza si dovrebbe decidere se la regione Lazio sopravvive (con una diversa articolazione delle province) o viene spartita fra Toscana, Abruzzo e Campania. Insomma, un’autentica riforma. Inconcepibile con l’attuale personale politico, dell’una e dell’altra parte.

Il punto di partenza fu, nell’estate del 1994, il restauro e poi la pedonalizzazione di piazza del Plebiscito. Giornali, intellettuali, esperti di mobilità, esponenti politici di destra e di sinistra, tutti sostanzialmente contrari, previdero il traffico impazzito e la città in rivolta. Fu invece un trionfo, la piazza era un incanto, diventò lo sfondo preferito per le foto ricordo, e si cominciò a parlare di rinascimento. Ma il simbolo più forte della nuova Napoli fu il progetto per la trasformazione dell’area ex industriale di Bagnoli, circa 200 ettari, ai piedi della collina di Posillipo, di fronte all’isola di Nisida. Un luogo di suprema bellezza, noto dalla più remota antichità, carico di storia e di significati, collocato proprio al centro della sterminata area metropolitana che si estende da Caserta a Salerno e oltre, quasi ne fosse l’ombelico. La scelta di fondo fu di restituire la spiaggia alla balneazione (com’era stato prima dell’industria) e di destinare la maggior parte della superficie disponibile a un grande parco pubblico, anche con l’intento di rendere evidente l’avvio del riscatto della città–simbolo della speculazione, mostruosamente cresciuta nel dopoguerra, senza spazio per respirare, solo cemento e asfalto. Oltre al parco, molto limitate previsioni di attività ricettive, per la cultura, la ricerca scientifica, residenze e servizi, un porto turistico per circa 350 posti barca.

Tutto ciò fu oggetto di un’apposita variante urbanistica approvata nel 1998 e di un successivo piano attuativo. La realizzazione fu affidata a una società di trasformazione urbana formata ad hoc, la Bagnoli futura che, in effetti, finora ha concluso ben poco. L’unica opera condotta a termine è la spettacolare, e subito frequentatissima, passeggiata a mare ottenuta dalla trasformazione del pontile dove attraccavano le navi che scaricavano le materie prime per la produzione dell’acciaio. Ci saranno sicuramente ragioni che spiegano i ritardi, legati soprattutto ai finanziamenti e alle complicate procedure per la bonifica, ma non riesco a sottrarmi al convincimento che ci sia dell’altro. E cioè che 120 ettari di parco siano considerati uno spreco, un vuoto insopportabile, un insulto al valore assoluto rappresentato dai volumi edificabili. Se ne sono lette e sentite di tutti i colori, che un’area così bella non può non essere intensamente utilizzata, che il portafogli viene prima del verde, che il comune non avrà mai le risorse per un parco così vasto (non mi stanco mai di ripetere che il comune di Ferrara gestisce benissimo la sua “addizione verde”, un parco dieci volte più grande di quello di Bagnoli). In sostanza, secondo me, si cerca e si aspetta l’occasione buona per rimettere tutto in discussione. Come fu al tempo della Coppa America, nel 2003, quando Napoli partecipò alla gara, poi vinta da Valencia, per ospitare l’importante manifestazione velistica: i piani urbanistici furono considerati carta straccia e si scatenarono i peggiori istinti cementiferi. Da allora, opinionisti, industriali, economisti, architetti, politici in lista d’attesa, continuano a proporre alternative, infischiandosene delle decisioni e delle prerogative dell’amministrazione comunale, che peraltro sembra poco interessata. L’ultimo a intervenire è stato Vincenzo De Luca che ha proposto, da candidato alla presidenza della regione Campania, di impiantare nel parco di Bagnoli un campo da golf, non servono commenti. E adesso esplode lo scandalo dei pini insensatamente abbattuti dalla Bagnoli futura, di cui ha trattato il Corriere del Mezzogiorno ripreso ieri da eddyburg. Insomma, l’impresa pubblica il cui precipuo fine sociale sarebbe la realizzazione di un grande parco verde comincia la sua opera con la distruzione del verde esistente. Una vicenda inverosimile, vertiginosa. (Mi ha ricordato un’altra storia paradossale, quella raccontata da Letizia Battaglia, la nota fotografa palermitana, quando era assessore ai giardini del comune di Palermo, sindaco Leoluca Orlando. Le fu sottoposto un progetto che prevedeva di spiantare l’agrumeto del parco della Favorita, per sostituirlo con ilmuseo dell’agrumeto.)

Qui adesso interessano molto poco gli argomenti addotti dalla Bagnoli futura nel tentativo di salvarsi. Che l’abbattimento degli alberi fosse imposto per ragioni di bonifica, che sia o no previsto dal piano attuativo, non mi pare che abbia importanza. Conta la verità dei fatti: il parco di Bagnoli, che dovrebbe essere aperto ai cittadini da almeno un lustro, ancora non c’è (e i napoletani continuano ad affollare gli esigui spazi della villa comunale). Va avanti invece la realizzazione di opere edilizie, di cui non si avverte l’urgenza e, per favorirle, si elimina il verde esistente.

Ce n’è abbastanza perché il comune di Napoli intervenga liberandosi finalmente di una compagine inadeguata e incapace.

Bisogna riconoscere che stavolta è stata Legambiente a lanciare per prima l’allarme. Con inusitata durezza, il presidente dell’associazione Vittorio Cogliati Dezza ha dichiarato che, se approvato, il disegno di legge sugli stadi in discussione alla Camera può dare il via alla più grande speculazione urbanistica nelle città italiane dal dopoguerra. E che parlare di europei di calcio e di miglioramento degli impianti è un’ipocrisia. I disastri di Italia ’90 sono niente di fronte alle prospettive spalancate dal nuovo provvedimento. Mirko Lombardi e Roberto Musacchio hanno scritto su Gli altri che l’enormità della proposta in discussione fa impallidire la famigerata legge Lupi del precedente governo Berlusconi.

Eddyburg ha già dato trattato l’argomento, ma è bene riprenderlo. Dunque, la commissione cultura del Senato, il 7 ottobre scorso, ha approvato all’unanimità, il disegno di legge intitolato “disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi e stadi anche a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”. L’approvazione all’unanimità evita il passaggio in aula e trasferisce il testo di legge direttamente alla Camera, dove è in corso la discussione, anche qui in commissione cultura.

Gli europei di calcio, i tifosi, lo sport sono un paravento, il cuore del provvedimento sono i “complessi multifunzionali” che si possono costruire insieme agli stadi e possono comprendere interi pezzi di città: attività commerciali, residenziali, ricettive, direzionali, di svago, culturali e di servizio. Perfino in aree non contigue allo stadio che dovrebbe legittimarle. Tutto ciò con procedure derogatorie, come al solito e più del solito. A promuovere le iniziative sono le società sportive o soggetti a esse collegati che presentano uno studio di fattibilità, il sindaco promuove un accordo di programma che determina le necessarie varianti urbanistiche e, nientemeno, la “dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità e urgenza”, quasi fossero opere pubbliche. Non basta, sono previsti addirittura agevolazioni e contributi finanziari e, infine, gli interventi possono essere realizzati con una semplice Dia – dichiarazione di inizio attività –, istituto in origine pensato per semplificare la costruzione di opere interne alle abitazioni, a mano a mano dilatato fino alla scala urbanistica.

Opportunamente, Legambiente ha fornito anche i dati relativi al confronto tra il nuovo stadio del Bayern di Monaco inaugurato nel … – e considerato un autentico gioiello, uno degli impianti più funzionali del mondo – e quelli di cui si discute nella capitale per le squadre della Roma e della Lazio. Riporto qui solo le quantità riguardanti il consumo del suolo: a Monaco, tutto compreso, 14 ettari; a Roma i nuovi stadi (insieme agli inevitabili complessi polifunzionali) dovrebbero occupare rispettivamente 150 e 600 ettari, con il consenso di regione e comune.

Che devo dire? Mentre è ancora aperta la drammatica vicenda delle leggi regionali per il piano casa, scatta quest’altra immonda e unanime proposta. A generare il mostro è ancora una volta l’atteggiamento di resa senza condizioni del potere pubblico. Il governo del territorio è ormai legalmente e dichiaratamente passato nelle mani della speculazione fondiaria. Possiamo andare avanti così? Che dobbiamo fare? A chi dobbiamo dirlo? Siamo sfiniti. Non è più un problema di urbanistica, è un problema di democrazia e di regole fondamentali della società.

Nota: per la legge Stadi si vedano anche gli articoli da La Gazzetta dello Sport dell'aprile 2009; da Terra dello scorso ottobre e di pochi giorni fa quello dal Corriere della Sera (f.b.)

Perché l’Italia frana quando piove. È l’endecasillabo che recitava Antonio Cederna dopo ogni alluvione, frana, dissesto. E spiegava che c’è un solo fattore che mina l’integrità fisica del territorio: la mano dell’uomo. La pioggia è il più naturale dei fenomeni atmosferici. Se si trasforma in catastrofe, quando supera anche di poco i livelli medi, è per l’uso dissennato che si è fatto e si continua a fare del nostro territorio. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove più violentemente sono stati alterati antichi e fragili equilibri.

Spero che almeno per un po’ di tempo si smetta di piangere sul fatto che sono troppi i vincoli che frenano l’attività edilizia e le spinte alla trasformazione del suolo. I giornali portano la contabilità dei danni, sette morti all’anno per frane, centinaia a partire dalla tragedia del Sarno di dieci anni fa. Già allora, tutti i cronisti misero a nudo la fragilità del territorio, i disboscamenti, la devastazione della natura, l’abbandono dell’agricoltura, l’abusivismo, le cave gestite dalla malavita, l’espansione caotica delle città, la speculazione edilizia. Si lessero serie indagini sul deficit di cultura civile che sta all’origine di tutti i guai del Mezzogiorno, dove le catastrofi cosiddette naturali svelano sempre disastri sociali: l’imprenditoria miserabile, l’intreccio fra l’economia legale e quella malavitosa, il controllo camorristico dei beni pubblici, la rassegnata solitudine, o la fuga, dei cittadini migliori.

Ieri, dopo poche ore di pioggia, di nuovo lutti e devastazioni. Non si può che ripetere, ancora una volta, la solita predica. Non serve inseguire l’emergenza e pensare a politiche straordinarie. Straordinario deve essere solo l’impegno a recuperare il tempo perduto. E a mettere mano alle cose che finora non sono state fatte, in primo luogo all’attuazione dei piani di bacino, obbligatori per legge da circa vent’anni. Che però, in particolare nelle Regioni meridionali, sono oggetti sconosciuti. I piani di bacino sono il cardine della politica di difesa del suolo. Vanno elaborati con grande cura, utilizzando risorse tecniche e scientifiche di prim’ordine. E pretendono un’attuazione rigorosa, eliminando, per esempio, le costruzioni sorte nelle aree a rischio. Le autorità di bacino dei grandi fiumi del Centro-Nord operano abbastanza efficacemente. I guai sono nel Mezzogiorno. Dove la difesa del suolo, la gestione dell’acqua non possono essere affidate a istituzioni da troppi anni inadempienti. E’ indispensabile che intervenga il governo centrale, sostituendo le Regioni incapaci. Ma figuriamoci.

E poi c’è il capitolo abusivismo che continua senza freni, più intenso proprio dove non sono garantite condizioni di sicurezza. Un solo dato: a Roma le domande di condono presentate nel 2003 sono state oltre 85 mila, quasi la metà del totale nazionale. Riguardano gli anni dal 1994 al 2003, quando in Campidoglio sedevano prima Francesco Rutelli, poi Walter Veltroni. 85 mila abusi denunciati in nove anni significa che nella capitale non c’è controllo del territorio. Resta Rita Paris, la benemerita archeologa che si occupa dell’Appia Antica, intrepida e imperterrita a denunciare, per lo più inascoltata, lo scandalo delle costruzioni abusive a ridosso della regina viarum che il comune continua a sanare.

Su eddyburg, documenti e articoli sulla frana di Agrigento del 1966 che rivelò agli italiani le conseguenze dell'uso dissennato del territorio

, autori dei due articoli gemelli,su questo sito il 3 ottobre scorso, abbiano letto il libro di Antonio Iannello, L’inganno federalista (Vivarium, Napoli, 1998), con prefazione di Giovanni Russo, pubblicato poco prima della scomparsa dell’autore. Il messaggio è lo stesso, uguale la denuncia, cioè la perdita della coscienza e dell’appartenenza nazionali, l’opportunismo delle forze politiche di fronte al federalismo fasullo. Secondo Asor Rosa, la disarticolazione e frammentazione dell’unità politica, economica, identitaria e istituzionale dell’Italia perseguita dalla Lega è, evidentemente, un processo, che però "diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell’essere «italiano». Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani". Per Piero Bevilacqua, il lavoro orchestrato dalle Tv Mediaset ha fatto leva sulla parte "più arcaica e anarcoide" dello spirito nazionale. E ricorda quel «particulare» che già Francesco Guicciardini aveva individuato come un tarlo nella coscienza civile degli italiani. Questa ideologia dissolvitrice ha trasformato "i cittadini in produttori e consumatori, ciascuno libero in casa propria (ma anche fuori di essa), individui solitari privati di un’idea di nazione come comunità solidale, monadi isolate, ispirate esclusivamente dalla ricerca dei propri privati interessi".

I medesimi ragionamenti, dieci anni fa, e perciò con una sorprendente lucidità e una capacità di analisi politica che pochi gli accreditavano, li formulò Antonio Iannello. Fin da quando si era delineato il movimento della Lega, Iannello era stato fra i primi, per quanto posso ricordare il primo in assoluto, a comprenderne e a denunciarne la pericolosità. I lettori di questo sito sanno chi era Antonio Iannello (Napoli, 1930-1998), architetto, dirigente del partito repubblicano e a lungo impegnato in Italia nostra, di cui fu segretario generale dal 1985 al 1990. "Un po’ guerrigliero, un po’ certosino, ogni sua battaglia è stata animata da un rigoroso senso etico a favore dell’interesse pubblico. Contro una lottizzazione abusiva o un piano regolatore che piaceva troppo agli speculatori alternava irruenza, sottigliezza giuridica e gusto della beffa": così lo ritrae Francesco Erbani nel libro Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente (Laterza, 2002). E Giovanni Russo scrive nella prefazione che "battersi contro le tesi della lega, così come ha fatto contro le deturpazioni urbane e del paesaggio, diventa per lui naturale".

L’inganno federalista raccoglie gli interventi all’assemblea costituente degli oppositori all’ordinamento regionale: Francesco Saverio Nitti, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Benedetto Croce, Concetto Marchesi, Aldo Moro, Tristano Codignola, Emilio Lussu e tanti altri. Nell’ampio saggio introduttivo, Iannello riporta all’attualità il pensiero dei padri costituenti antiregionalisti, svela l’inconsistenza e i mascheramenti dei riti celtici, denunzia l’imperdonabile errore di quasi tutte le forze politiche che per compiacere la Lega si mettono in fila per partecipare allo sconquasso dell’ordinamento statale. Coglie le analogie fra il separatismo siciliano del primo dopoguerra ("una sparuta minoranza rozza, faziosa, violenta ed eversiva") e quello leghista, ma anche una fondamentale differenza "che rende ancor più incomprensibile e inaccettabile il cedimento di fronte alle proposte leghiste. Le spinte autonomiste siciliane provenivano da una realtà socialmente depressa, nella quale vigevano ancora inalterati i rapporti feudali e lo sfruttamento dei contadini. Oggi le spinte indipendentiste provengono da una delle zone più ricche del Paese e, incredibilmente, stampa e forze politiche parlano di un «malessere del nord» che non esiste, se non i termini culturali e spirituali, ma non certamente economici".

Ma la parte, secondo me, più importante del saggio introduttivo è quella in cui Iannello tratta del fallimento delle regioni, e giustamente si chiede perché si affronta la questione del federalismo senza aver sentito la necessità di fare prima un bilancio dell’azione regionale. Contesta gli argomenti di chi sostiene che i risultati deludenti dovrebbero addebitarsi al ritardo con il quale furono istituite le regioni ordinarie, chiamando in causa l’esperienza ancor più sconfortante delle regioni a statuto speciale, come la Sicilia, istituita ancora prima dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana. Esamina in particolare i temi a lui più consueti, l’assenza della pianificazione territoriale, la "delittuosa improvvisazione" in materia di protezione del paesaggio, la mancata repressione degli abusi edilizi. E così di seguito.

Sono passati dieci anni e un bilancio rigoroso, obiettivo e approfondito dell’attività regionale, come atto propedeutico alla discussione sul federalismo, ancora non è stato fatto. Dovrebbe essere compito prioritario dell’opposizione, che invece è impegnata soprattutto nel confermare la propria acritica adesione al federalismo.

Concludo riprendendo ancora Asor Rosa: "ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (…). Ma dov'è?".

Postilla: Antonio Iannello non poteva immaginare che si sarebbe arrivati al trasferimento dei poteri di tutela al comune di Roma, con tanto di benservito a quei coraggiosi soprintendenti statali che anche in tempi recentissimi hanno contrastato scempi e devastazioni. Il nuovo assessore comunale all’urbanistica ha dichiarato che bisogna accantonare l’ideologia della sacralità dell’agro romano. Ha detto proprio così. Uno spaventoso futuro incombe sulla capitale.

Salvatore Settis, all’inizio della sua brillante e molto applaudita relazione al convegno della rete dei comitati del 28 giugno a Firenze, ha ricordato il complicato intreccio fra legislazione di tutela e legislazione urbanistica. Ha contrapposto le norme di tutela del 1939 (leggi 1089 e 1497) alla legge urbanistica del 1942 , sostenendo che la tutela si è fermata alla porta delle città, lasciando queste ultime alla disciplina urbanistica (ma la legge del 1942 stabilisce che il piano regolatore deve considerare la totalità del territorio comunale). Credo che serva qualche precisazione. Credo soprattutto che si debba chiarire che la legislazione urbanistica italiana, dal 1942 a tutti gli anni Settanta, ha sempre racchiuso in sé anche contenuti di tutela, molto spesso esercitati con efficacia. Anzi, per farla breve, almeno fino alla legge Glasso del 1985, quel tanto di tutela che si è praticata in Italia è stata dovuta alla legislazione urbanistica e ai piani regolatori e non a specifici provvedimenti di tutela. Ricordo al riguardo, in primo luogo, che dei piani paesistici del 1939, fino alla legge Galasso, ne erano stati formati soltanto una dozzina (Ischia, S. Ilario Nervi, Osimo, Portofino, Appia Antica, Versilia, Gabicce Mare, Argentario, Sperlonga, Assisi, Ancona Portonovo, Procida, Terminillo), alcuni limitati a esigue porzioni di spazio, tutti disattesi. Come furono disattesi piani paesistici patrocinati alla fine degli anni Sessanta dalla cassa per il Mezzogiorno nelle aree turistiche del Sud.

Il caso sicuramente più clamoroso di pessimo piano paesistico è quello dell’Appia Antica del 1960 che prevedeva l’edificazione di quasi 5 milioni di metri cubi ai lati della regina viarum. Tant’è che, come molti sanno, si deve al decreto di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 (firmato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini) la cancellazione di quelle inaudite previsioni e la dichiarazione di inedificabilità di tutti i 2.500 ettari del comprensorio poi destinato a parco regionale.

Né vanno dimenticati i piani regolatori di Firenze del 1962 (sindaco Giorgio La Pira, assessore all’urbanistica Edoardo Detti), che proteggeva la piana fiorentina poi avviata al disastro dalla famigerata variante Fiat Fondiaria degli anni Ottanta; il piano di Bologna e moltissimi piani dell’Emilia Romagna degli anni Sessanta e Settanta; i piani coordinati dei comuni della maremma livornese degli anni Sessanta e Settanta; il piano di Napoli del 1972 (e anche quello del 2004); eccetera.

Si deve infine ricordare che si deve alla legge ponte urbanistica del 1967 la sostanziale salvezza dei centri storici italiani. La legge, raccogliendo le proposte della Carta di Gubbio del 1960 (succedeva allora che le leggi facessero proprie la migliori acquisizioni del mondo della cultura), affermò l’integrale intangibilità dei centri storici. Posiamo perciò vantarci di essere l’unico Paese al mondo che ha energicamente posto un freno alla sistematica distruzione del suo patrimonio urbano storico che aveva avuto inizio subito dopo la guerra. Si poteva fare meglio e di più e non mancano, anche recentemente, e in luoghi eccellenti, dolorose eccezioni, come a Fiesole. Ma tant’è.

In conclusione, la legislazione urbanistica italiana “storica” (cioè fino ai condoni e alle norme derogatorie dagli anni Ottanta in avanti) non può considerarsi alternativa alle leggi di tutela del ministero dei beni culturali. In Italia vige da sempre una sorta di doppio regime nel governo del territorio e del paesaggio, ma non mi pare che ciò sia un danno. Certamente, come auspica anche Salvatore Settis, è indispensabile un effettivo, efficace e finora mai operato coordinamento. Dovrebbero pensarci Stato e regioni nell’attuazione del Codice del paesaggio, ma non mi sembra che si sia presa la giusta direzione di marcia.

29 giugno 2008

Dopo la carneficina di Genova del 2001, credo che sia impossibile dir bene del G8. Comprendo appieno le perplessità, le preoccupazioni, le ansie, i no a prescindere, che pervadono gli interventi del “manifesto sardo” per il G8 del 2009 nell’isola della Maddalena. Tuttavia, mi sento obbligato a ricordare che il G7 di Napoli del 1994 fu un'altra cosa (G7 e non G8 perché la Russia allora non faceva parte dei grandi). Senza il G7 non ci sarebbe stata quella stagione di fiducia e di speranza che fu chiamata il rinascimento napoletano. Un rinascimento dissennatamente dissipato negli ultimi anni e poi sepolto sotto una montagna di rifiuti.

Un po’ di cronaca. Alla fine del 1993, Antonio Bassolino era stato eletto sindaco, vincendo al ballottaggio un duello con Alessandra Mussolini che per mesi aveva appassionato l’Italia. Napoli era in ginocchio, stremata dal malgoverno, dagli scandali, dalla corruzione degli anni precedenti. Non funzionava più nulla, dai rubinetti usciva acqua marrone. Il comune era stato dichiarato in dissesto, cioè fallito, si riusciva solo a pagare gli stipendi. Come facemmo a restituire condizioni di vita decenti e ad avviare il riscatto della città è stato raccontato altre volte. Qui è importante ripetere che, senza il G7, i nostri obiettivi non sarebbero stati raggiunti. Non tanto per le risorse finanziare stanziate per l’occasione: disponevamo solo di 20 miliardi di lire, ai quali mi riuscì di aggiungerne altri 35, con un’operazione contabilmente eretica, anticipati dal ministero dei Lavori pubblici dai fondi per l’edilizia popolare. Alla fine spendemmo meno di 50 miliardi con i quali furono pavimentate le strade che i protagonisti del vertice avrebbero percorso; furono restaurate la villa comunale e le fontane delle piazze più importanti da lustri all’asciutto; fu tirata a lucido la galleria Umberto. Ma l’intervento più ambizioso fu il ripristino della piazza del Plebiscito che, prima del G7, era un luogo da incubo, in parte occupata da un cantiere abbandonato della metropolitana, il resto un immenso, terrificante parcheggio. La nuova pavimentazione, e soprattutto la decisione – contrastata da quasi tutta la stampa, da sedicenti esperti (mai fidarsi degli ingegneri del traffico) e dalla maggioranza degli intellettuali – di rendere permanente la pedonalizzazione della piazza, furono la carta vincente. La città si schierò compatta in difesa della giunta, cominciò il rinascimento di Napoli. “Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze”: così scrisse Donata Righetti su La Voce, allora diretta da Indro Montanelli.

Può servire il ricordo dell’esperienza napoletana nel dibattito sul G8 della Maddalena? Forse no, sono situazioni incomparabilmente diverse. Ma una riflessione sul metodo può essere utile. A Napoli, furono realizzati interventi assolutamente ordinari sfruttando sapientemente (penso di poter dire così) le procedure e i finanziamenti straordinari resi disponibili dal G7: questa credo che sia stata la ragione essenziale del buon risultato. L’occasione non fu sprecata, né si dette spazio a miraggi o peggio, come succedeva prima. Per Italia 90, a Napoli si erano spesi oltre 600 miliardi in opere inutili o delittuose. Penso che abbia ragione Sandro Roggio che ci sarebbe dar far festa se si riuscisse a impedire il vertice sardo. “Ma così non sarà – scrive Roggio – il G8 si farà e porterà denari, molti denari, che potranno essere usati male o bene in un ambiente che vive di turismo e poco altro”. E giustamente propone che si metta mano subito a un’attività di pianificazione partecipata e sostenibile “che tenga insieme tutte le questioni aperte per evitare che si disperda il senso unitario di uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo”.

In alternativa, il G8, oltre a essere, nel migliore dei casi, una stucchevole esibizione dei presunti padroni del mondo, può trasformarsi in una formidabile occasione a favore di vecchi e nuovi speculatori immobiliari.

Ancora due rapide riflessioni intorno all’urbanistica contrattata, alla deregulation o, se volete, agli “atti negoziali” del disegno di legge Lupi (il quale ha ripreso la corsa verso l’approvazione alla Camera dei deputati, il che rende urgente una nuova mobilitazione come quella promossa da Eddyburg all’inizio dell’anno). Che deregulation e simili siano a favore della rendita fondiaria e che la rendita fondiaria in Italia sia in vertiginosa espansione sono cose note, almeno ai nostri lettori, e non mancano notizie in proposito. Meno nota e documentata è la questione opposta: da chi è pagata l’espansione della rendita? Si sa che se aumenta la rendita diminuiscono le risorse per impieghi produttivi. Ma sarebbe importante un’analisi e un’approfondita documentazione sul prezzo pagato alla rendita dai ceti sociali più sfavoriti. Sarebbe importante, in altre parole, un’analisi di classe, come si diceva una volta, delle nuove tendenze in materia di governo del territorio.

Prendiamo il caso dell’edilizia pubblica. I Peep sono ormai archeologia (per i lettori più giovani, l’acronimo significa Piani per l’edilizia economica e popolare). Le case popolari non sono più titolari di politiche o di finanziamenti ad hoc e la mancanza di risorse fornisce il pretesto per inedite, ulteriori agevolazioni agli operatori immobiliari e alla speculazione fondiaria. Io ti rendo edificabile un suolo agricolo, tu mi cedi qualche alloggio per l’emergenza abitativa (non importa dove, non importa come). Iniziative del genere sono in corso a Roma. Ed è noto l’esempio di urbanistica contrattata bolognese denunciato dalla Compagnia dei Celestini, quello di via Due Madonne, dove un edificio per l’edilizia pubblica funge da schermo, lungo l’autostrada, per proteggere dal rumore e dall’inquinamento i retrostanti edifici per famiglie meno sfortunate. Che dire poi degli standard urbanistici? Una conquista epocale, un diritto alla vivibilità garantito a tutti i cittadini italiani negli anni del primo centro sinistra, occasione di memorabili vertenze sociali, che si propone di smantellare e che in molti luoghi si sta smantellando. Sarebbero molto utili indagini mirate e osservazioni sistematiche, che questo sito potrebbe raccogliere.

La seconda questione sulla quale sarebbe utile che Eddyburg sviluppasse un confronto riguarda il rapporto fra le nuove tendenze dell’urbanistica e il mondo dell’illegalità. È indubbio che deregulation e affini tendono, oggettivamente, ad affermare una concezione dell’urbanistica come regno del tutto è possibile, dove la trasgressione è bella, la spregiudicatezza è un valore. Secondo i propagandisti della new wave, quest’impostazione doveva aiutare, tra l’altro, a contrastare le spinte agli abusi e all’uso selvaggio del territorio favoriti dai lacci e laccioli di un’opprimente e insensata normativa edilizia. Mi pare che succeda l’esatto contrario. A Roma, per esempio, sono 85 mila le domande di condono. Riguardano i nove anni (1994 – 2003) che intercorrono fra le due ultime leggi per la sanatoria edilizia. Proprio gli anni del “pianificar facendo” e della contrattazione, pratiche che dovevano arginare l’illegalità e che invece sembra siano state il brodo di coltura dell’abusivismo e dei fuorilegge.

Nei comuni del Mezzogiorno strozzati dalla malavita servirebbero, in edilizia come in ogni altro campo dell’azione pubblica, politiche di assoluto rigore, anche per fornire a operatori e cittadini modelli di comportamento alternativi alle sregolatezze di tanti interventi governativi. La legittimazione della contrattazione a oltranza e in ogni dove, asseconda, invece, inevitabilmente, le peggiori tendenze e la formazione di un personale politico che assomiglia, sempre più spesso, anche a sinistra, a Cetto La Qualunque, strepitoso protagonista di una trasmissione (e di un libro) di Antonio Albanese, quello che propone di piantare un pilastro di cemento armato per ogni bambino che nasce.

Ancora un piccolo omaggio alla memoria di Antonio Cederna. A dieci anni dalla scomparsa, si sente il peso della sua assenza. Di lui si rimpiangono l’assoluta indipendenza di giudizio, la concretezza degli argomenti, la fermezza dei principi. Per quanto mi riguarda, ho sempre ammirato anche l’esattezza geometrica delle sue descrizioni. Cultore di una scrittura al tempo stesso semplice e raffinata, non si è mai preoccupato di esporre aridi elenchi di dati. Ecco un esempio da un articolo su Il Mondo dell’aprile 1964, dove si confrontano le politiche urbanistiche di Roma e di Amsterdam:

“Considerando il verde esistente (parchi e giardini), Amsterdam ha una dotazione più che quadrupla di quella di Roma, che ha una popolazione più che doppia di quella di Amsterdam: e una media per abitante più che decupla. Senza naturalmente nemmeno paragonare la qualità e la distribuzione (a Roma terra bruciata, aiuole spartitraffico, zone verdi invase dal traffico, quattro quinti della popolazione senza un filo d’erba, eccetera), osserviamo che in trent’anni Roma passa da una media di mq 2,7 nel 1930 a mq 1,8 nel 1961 a mq 1,5 oggi, mentre Amsterdam passa da una media di mq 2,2 nel 1930 a mq 15,9. Tenendo conto dell’aumento della popolazione, si osserva che, ad Amsterdam, ad un aumento di 133.000 abitanti ha corrisposto un aumento di verde di 1.240 ettari, pari a una media di mq 93 per ogni nuovo abitante: mentre a Roma a un incremento di oltre un milione di abitanti ha corrisposto un incremento di meno di un centinaio di ettari, pari a una media di mq 0,8 per ogni nuovo abitante!”

Non è una sfida alla pazienza del lettore: anzi, Cederna è animato da una sorta di etica dei numeri, se così posso esprimermi, che si avverte distintamente e dà corpo al suo rigore e alla sua trascinante indignazione.

(1° ottobre 2006)

Una proposta politica sollecitata dalla lettura di un bel lavoro: Il libro nero del governo Berlusconi. È un’opera di Guido Alborghetti appena pubblicata. 460 pagine dense di fatti, cifre, numeri, analisi, difficilmente contestabili, sul baratro nel quale è precipitato il nostro Paese. Molti dei frequentatori di eddyburg sanno chi è Alborghetti, per la sua lunga e apprezzata attività parlamentare nella commissione lavori pubblici della Camera (ha tra l’altro contribuito da protagonista alla trasformazione in legge del decreto Galasso). Prima del governo Berlusconi è stato capo del dipartimento per il coordinamento amministrativo della presidenza del consiglio dei ministri, attualmente presiede l’osservatorio politico e legislativo Italia Monitor. Il libro nero tratta anche, con rara chiarezza, e ripetutamente, del disegno di legge Lupi e delle nefandezze governative in materia di governo del territorio. Stavolta però non voglio occuparmi di questo, ma di un altro argomento ancora più grave, ben evidenziato da Alborghetti. Mi riferisco alla riforma costituzionale nota come devolution, che domani, 16 novembre, sarà definitivamente approvata dal Senato, e che dopo le elezioni di primavera sarà sottoposta a referendum confermativo. In breve, istruzione, sanità e polizia locale saranno di “competenza esclusiva” delle regioni, insieme a “ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Si profila così un’irriducibile lacerazione fra nord e sud (che contribuirà a spingere il sud verso un sottosviluppo malavitoso, e il nord verso un benessere effimero e pecoreccio). Non è una frattura marginale, è in discussione la stessa sopravvivenza degli istituti fondamentali della democrazia, a partire dal parlamento. Sono rimasto impressionato dal confronto (pag. 293 del libro nero) fra la stesura ancora vigente dell’art. 70 della Costituzione e quella destinata a sostituirla. L’attuale art. 70 così recita: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Meno di una riga. La norma riformata è trenta volte più lunga, incomprensibile, inverosimile, terrificante. Mi pare utile riportarla integralmente (art. 14 del disegno di legge in discussione al Senato):

“La Camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte della Camera, a tali disegni di legge il Senato federale della Repubblica, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.

Il Senato federale della Repubblica esamina i disegni di legge concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte del Senato, a tali disegni di legge la Camera dei deputati, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali il Senato decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.

La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle due Camere per l’esame dei disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), e 119, l’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 120, secondo comma, il sistema di elezione della Camera dei deputati e per il Senato federale della Repubblica, nonché nei casi in cui la Costituzione rinvia espressamente alla legge dello Stato o alla legge della Repubblica, di cui agli articoli 117, commi quinto e nono, 118, commi secondo e quinto, 122, primo comma, 125, 132, secondo comma, e 133, secondo comma. Se un disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo i Presidenti delle due Camere possono convocare, d’intesa tra di loro, una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. I Presidenti delle Camere stabiliscono i termini per l’elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee.

Qualora il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per la tutela delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte.

L’autorizzazione da parte del Presidente della Repubblica di cui al quarto comma può avere ad oggetto esclusivamente le modifiche proposte dal Governo ed approvate dalla Camera dei deputati ai sensi del secondo periodo del secondo comma.

I Presidenti del Senato federale della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa. I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti. La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. I Presidenti delle Camere, d’intesa tra di loro, su proposta del comitato, stabiliscono sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi”.

Non ho parole. Mi pare di capire che è previsto una specie di silenzio assenso per i decreti legge, ma è soprattutto obliterato uno dei pregi della Costituzione del 1948, l’assoluta chiarezza espositiva. Come sanno i miei venticinque lettori, non scrivo mai di politica in generale. Non lo ho mai fatto. Non è mio mestiere. Mi occupo di politica solo in riferimento a fatti e circostanze derivanti dal mio lavoro di urbanista. Stavolta mi sento obbligato a farlo. Perché non riesco a sottrarmi alla sgradevole impressione che il tema della riforma costituzionale imposta dalla lega sia stato gravemente sottovalutato dalle opposizioni. Come se la questione dell’unità nazionale fosse imbarazzante per la sinistra, incapace di denunciare il tradimento della destra (le parole Italia e Nazionale campeggiano nei nomi dei due più importanti partiti della destra).

Conforta il fatto che per il referendum confermativo non è previsto il raggiungimento di un quorum di votanti come nel caso dei referendum abrogativi (l’ultimo, che non ha raggiunto il quorum, è stato quello della primavera di quest’anno, sulla legge per la procreazione assistita), e ciò dovrebbe agevolare il voto contrario alla nuova Costituzione. Ma non possiamo correre rischi. Dobbiamo mobilitarci subito, cercando anche d’imporre un’inevitabile drammatizzazione dello scontro. Una proposta che vorrei sottoporre a eddyburg – che il sito potrebbe a sua volta sottoporre alle organizzazioni della politica di centro sinistra – è il seguente: rifacciamo l’arco costituzionale,com’era una volta. I partiti contrari alla riforma leghista dovrebbero in sostanza impegnarsi a considerare improponibile qualunque intesa politica o amministrativa con chi ha condiviso la riforma leghista e insiste nel sostenerla in occasione del referendum. Un avvertimento e una discriminante, secondo me, moralmente ineccepibili. Doverosi. Con tanti saluti alla grande coalizione, a Follini e all’Udc. Discutiamone.

Un’ultima riflessione, che riporta sul terreno consueto dell’urbanistica. La legge Lupi è anch’essa in qualche modo un’espressione della devolution. Che cosa, se non la subcultura militante delle valli padane, può indurre a eliminare il principio degli standard urbanistici come diritti minimi di vivibilità garantiti in uguale misura a tutti i cittadini italiani?

Vezio De Lucia

(15 novembre 2005)

Niente di nuovo sotto il sole. Sono tornati i futuristi. Quelli che amano la giovinezza, la velocità, i trafori e le autostrade. Nel manifesto futurista del 1909, tra le cose da distruggere c’erano “le città venerate, i musei, le biblioteche, le accademie e il femminismo”. In verità, Legambiente non dice proprio così, ma la direzione di marcia è la stessa. Fa capolino anche una specie di razzismo anagrafico, i vecchi, almeno quelli di Italia nostra, è meglio metterli da parte. Antonio Cederna, che continua a essere l’ispiratore e la guida ideale di Italia nostra, chiamava questo l’atteggiamento degli spiriti forti. Contro i quali intervenne più volte, scrivendo cose memorabili. Eccone una: “Non è un caso che ancor oggi gli spiriti forti (cioè gli stupidi) quando vogliono sbarazzarsi di qualche scomoda contestazione, parlano delle ‘signore di Italia nostra’ (una volta dicevano ‘dame di S. Vincenzo’, poi ‘contesse’, eccetera)”. Ce ne fossero di più di contesse come Desideria Pasolini dall’Onda. Anche Mussolini, per giustificare la distruzione dei monumenti sui quali doveva intervenire il piccone risanatore, se la prendeva con “le vecchie miss inglesi” che amavano le antichità, le chiese e i palazzi.

Contro Italia nostra, Legambiente sbandiera le critiche alla linea C della metropolitana di Roma, all’energia eolica, al progetto dell’Ara Pacis, e l’opposizione all’auditorium di Ravello. Si fa cenno genericamente anche a Urbino. Italia nostra non è contraria all’eolico: è contraria, soltanto al proliferare di pale eoliche in paesaggi di pregio e in territori tutelati. E si chiede: dove è finita la ricerca sul solare? Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza, con un severo comunicato (“inaudita iniziativa di Legambiente”) ha difeso il vincolo posto dal soprintendente Francesco Scoppola sul centro storico di Urbino e ha confermato la netta condanna al manufatto in costruzione sotto i Torricini, alla Data di Urbino. Aggiungo qualche considerazione sul progettato auditorium di Ravello, insensatamente amato da Legambiente. Nei giorni scorsi è stata pubblicata la decisione del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Italia nostra contro l’auditorium. La ragione dell’inammissibilità è strettamente procedurale (mancata notifica del ricorso al ministero per i Beni e le attività culturali) e non riguarda la legittimità dell’intervento che due sentenze del Tar di Salerno hanno dichiarato fuori legge, senza essere sconfessate dal Consiglio di Stato. Stampa e televisione, soprattutto i giornali napoletani, che si erano scatenati a favore del progetto, con terribili accuse contro chi non era d’accordo, tacciono sulle motivazioni del Consiglio di Stato. Tace Legambiente, che esprime solo una smodata soddisfazione perché si può finalmente costruire l’auditorium. Che aumenterà la congestione e l’inquinamento in un angolo della costiera amalfitana già oggi afflitto da flussi turistici insostenibili. La regione Campania spende milioni di euro per l’auditorium di Ravello, mentre il S. Carlo sta morendo ed è costretto ad affittare il foyer per i matrimoni.

Legambiente presenta Ravello come un esempio da imitare. Si tratta di un comune che, a 63 anni dalla legge urbanistica nazionale e a 18 anni dal piano urbanistico territoriale, è tuttora sfornito di piano regolatore, ed è devastato dall’abusivismo. Eppure dista solo pochi chilometri dal comune di Eboli, che ha demolito 400 case abusive quando era sindaco Gerardo Rosania, di Rifondazione, che Italia nostra propone per il premio Zanotti Bianco.

Questa nota sarà pubblicata domani 20 maggio da Liberazione

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