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Si è conclusa da poco la prima retrospettiva italiana, a cura di Carter E. Foster, di Edward Hopper, testimone chiave di un nuovo rapporto tra l’uomo moderno e i luoghi e del cambiamento sociale dell’abitare .

I suoi paesaggi rurali e urbani popolati da personaggi isolati comunicano solitudine distacco , nostalgia e si oppongono ai contemporanei modelli di progresso. L’America che occupa i suoi quadri, e che si intravede come attraverso una porta socchiusa, può quindi essere intesa come la rappresentazione dei miti infranti e della incomunicabilità degli abitanti di una grande società industriale e commerciale associata alla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street nel ‘29.

Hopper elimina dalla visione qualsiasi elemento di distrazione o orpello, superando il reale, trasformando il processo pittorico in un processo psicoanalitico teso a svelare il decadimento e la confusione che la società moderna ha inflitto agli archetipi umani e abitativi. Infatti Hopper è consapevole di vivere in un’epoca in cui i valori tradizionali dell’immagine sono entrati in profonda crisi. Si interroga incessantemente sull’arte nel rapporto con la realtà portando sulla tela un confronto diretto con la condizione umana del proprio tempo, affrontando i conflitti, il vuoto, la solitudine che appartengono alla vita di ogni uomo nella società contemporanea. Utilizza perciò oggetti comuni e luoghi familiari; distributori di benzina, caffè, drugstore, negozi con le vetrine illuminate, uffici, stanze di albergo in cui appaiono una o due figure che diventano finestre aperte sulla nostra parte silente e oscura.

Lo stesso Hopper scrisse che se fosse stato capace di servirsi delle parole per esprimere quel che vedeva non avrebbe avuto bisogno di dipingere. Non era quello che era apparente e che avrebbe potuto ritrarre come illustratore ed interessargli, bensì ciò che si presentava ai suoi occhi interiori.

Nelle sue immagini la casa è il luogo dove si esiste, ma dove si avverte un 'incapacità di vivere e di abitare. La sua è una pittura di negazione, negazione dell’uomo e dei luoghi; le relazioni vengono eliminate o ci portano altrove; le case di Hopper ci trasportano nella nostra realtà, alle nostre problematiche di relazione sebbene l’ America della prima metà del ‘900 sia distante nel tempo e nello spazio da noi.

In tempi in cui l'apatia e l'alienazione nelle relazioni sociali hanno sostituito il momento della sosta concessa al pensiero dell'altro, lo straniamento delle nuovissime tecnologie di comunicazione a distanza e l'amplificazione che l'industria dell'immagine detta, si riflettono su una gettonatissima architettura «da suburbia», sfavillante nella progettazione extraurbana dei grandi centri commerciali, dei parchi a tema e degli edifici pubblici ultra-funzionali , nascono i non-luoghi, spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane, che assieme alla bruttezza e il cattivo gusto delle casette a schiera e dei condomini pieni di timpani e colonnati postmoderni, emblema di un recente benessere, stringono d'assedio le antiche città e i borghi, uccidendo ciò che resta della campagna, e costituiscono l'indice inquietante della nostra alienazione, la misura dell'incuria culturale di cui è impregnata l’era contemporanea.

Prende forma nei suoi quadri un’America non letteraria e senza mitologia, che porta i segni di un’età contemporanea anche se vagamente fuori moda: niente grattacieli, automobili, fabbriche, ma binari della ferrovia, case coloniche di legno bianco con i loro tetti a triangolo, mansarde vittoriane ormai decadute, periferie anonime incentrate sul possesso e sul consumo e non sulla comunità. L'eccessiva dispersione degli insediamenti, la città che si sparpaglia sul territorio causando il cosiddetto sprawl, e intensificazione in verticali dei grattacieli, sono la conseguenza del medesimo fenomeno economico- sociale che causa estraniamento e alienazione e non produce relazioni urbane e collettive.

L'indifferenza per i grattacieli salta all’occhio per un pittore che descrive l’architettura di new York. L’avversione di Hopper per le alte torri della sua città è evidente in molti dei suoi dipinti. Quando le include, le fa apparire come intruse sgradevoli, fuori posto. In questo l’artista è partecipe del clima a cui diedero voce anche critici come Mumford che pubblicò articoli intitolati” possiamo tollerare i grattacieli?” e “Città rafforzate”. Ai suoi occhi i grattacieli rappresentavano tutto ciò che disapprova dell’America urbana, della superficialità dei valori materiali alla crescente standardizzazione degli stili di vita.

Il percorso di Hopper non è certamente di carattere urbanistico, egli si collega alle immagini dell' inconscio collettivo e attraverso queste ci offre la possibilità di comprendere al di là delle parole come l'attuale trasformazione delle città e del territorio produca squilibri nel rapporto pubblico -privato e individuale – collettivo . Collegandosi con queste immagini archetipe primordiali possiamo ricapire chi siamo, riacquistare la nostra identità e la forza per sopravvivere “anche alle notti più lunghe”.

Se parlando di case si parla anche di individui, esemplare è un acquerello del 1925 intitolato Skyline near Washington Square. Quando venne esposto la prima volta l’acquerello era intitolato Self-portrait, con un riferimento scherzoso all’altezza dell’autore, ma che può indicare una consapevolezza di Hopper del naturale processo di identificazione uomo-casa. Nell’acquerello è raffigurato un tetto semplice e austero dietro il quale si erge un unico edificio stretto e lungo che domina il cielo. Il palazzo ritratto che sorgeva vicino alla sua casa newyorkese si eleva al di sopra delle altre case. Nell’osservazione capiamo subito che si tratta di un palazzo slanciato, ma la natura verticale di questo edificio è negata; in realtà Hopper ci mostra un cubo: la parte bassa dell’edificio, l’ingresso, e gli elementi che comunicano direttamente con la vita cittadina vengono tralasciati per mostrarci la solitudine dell’attico al di sopra di ogni cosa, come un picco sospeso sopra un mare di nuvole. Del palazzo possiamo vedere due lati, una facciata spoglia e liscia, completamente esposta al sole che si contrappone alla pesantezza della facciata di rappresentanza, dove finestroni appesantiti dalle lesene di primo novecento si negano protetti dall’ombra. Si potrebbe dire che un lato riflette, l’altro assorbe. Il paragone con la personalità dell’artista viene spontaneamente, in realtà Hopper non ci offre soltanto un’analisi introspettiva di sè stesso ma amplia il raggio di identificazione fermando sulla tela condizioni psicologiche in cui tutti possono immedesimarsi.

"Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino" suggerisce con una certa brutalità Victor Hugo: analogamente si può aggiungere : dalla città la società.

Dedicata al mondo femminile, che investe di sé tutto il clima di questa edizione della biennale, la bella mostra di Kiki Smith è ottimamente allestita alla Fondazione Querini Stampalia per la cura di Chiara Bertola. Le stanze espositive si susseguono come fossero i luoghi di una fantastica abitazione completamente reinventata dall'artista in quella che è titolata Homespun tales: «storie di occupazione domestica» che si dipanano scorrevoli dalle opere all'ambiente, completamente allestito in funzione del «racconto» che vi scorre all'interno. La suggestione per questi lavori è derivata a Kiki Smith dalla collezione di ritratti conservata negli altri piani di Casa Querini: ritratti per lo più femminili dovuti al settecentesco pennello, pianamente borghese e attento osservatore della quotidianità domestica, di Pietro Longhi. L'artista americana mescola le carte e aggiunge il suo proprio ricordo del New Jersey ormai lontano, fantastico e favolistico come queste stanze, decorate a stencil, e la «cucina» dal grande tavolo ligneo con brocche e terraglie e altri strumenti manuali e bambole di pezza e vasetti poveri con fiori umili (ma come capitato per caso, spunta l'invito di una recente personale di Luigi Ontani, un meditato omaggio all'amico, il quale è ritratto proprio nelle vesti dell'Eroe dei due Mondi). È dunque un universo domestico, dove le protagoniste sono intente a occupazioni tradizionalmente femminili, intese nel senso più nobile, e concentrate in un mondo tutto loro (e nostro), che custodiscono gelosamente come piccole «vestali» o «lari». A questo circolo eletto ogni donna può sentirsi a ragione di appartenere, nella installazione filtra un messaggio muto, pacato, ma fortissimo, quasi ancestrale, di riappropriazione-riaffermazione della identità femminile. Ci sono figure di donne - in candido bisquit - collocate sul grandissimo tavolo da pranzo, altre che «occupano» in ranghi sparsi il pavimento, altre ancora più grandi che conducono alla camera da letto (tutti i mobili sono stati costruiti pezzo a pezzo dall'artista) e tutte ci parlano di un mondo matrilineare, occulto e intangibile. Anche il lavoro di Pipilotti Rist, (chi ha dimenticato la leggiadramente vandalica fanciulla per le strade di Zurigo con un fiore di kniphofia come clava in Ever is Over All ?) ci cattura in un universo esclusivamente dedicato a un unico genere: l'impatto emozionale, all'entrare nella seconda «sede» del padiglione svizzero nella chiesa di San Stae, è fortissimo. I visitatori si stendono liberamente sui grandi materassi multicolore sparsi per il pavimento dell'unica navata mentre in alto, sulla volta, appare il più grande, complesso e caleidoscopico «sfondato» della storia artistica. È un affresco tecnologico sofisticato che sdoppia e raddoppia e moltiplica le immagini di quattro proiezioni simultanee nelle quali si dipana la storia infinita di un paradiso terrestre di cielo, acque limpide, vegetazione rigogliosa abitato da una Eva originata dal caos primigenio e sdoppiatasi in una sua gemella/sosia, entrambe felicemente innocenti. Figura femminile archetipica (l'iconografia suggerisce i corpi femminili dei pittori fiamminghi e tedeschi) Eva e la sua doppia non si sottraggono alla minuziosa esplorazione della telecamera tanto ravvicinata che, ad un certo punto, la volta è interamente occupata da un unico occhio, quasi «l'occhio di Dio» (ma di genere femmile, una «grande madre» soccorrevole, mai giudice...) mentre in una divertente inquadratura successiva i capezzoli sono immensi fragoloni rosa decorativi. Le due Eve si muovono libere, in armonia con la natura, ma il «memento mori» calvinista è in agguato e viene simboleggiato, come nella migliore tradizione pittorica, nell'infradiciarsi dei frutti, pomi succosi che, stretti tra le mani o spappolati sotto i piedi ci rendono consapevoli della vanità delle cose (e il maschio è avvertito con sadica ironia: anche i suoi attributi virili, sorretti dolcemente tra le mani in una brevissima sequenza, potrebbero fare la stessa fine). Il suono, come è avvenuto per altri lavori, è accuratamente composto per le immagini e dunque in questo Homo sapiens sapiens (2005) è seducente e rilassante, ricordando la musica new age.

La personale di Karen Kilimnik, ancora un'artista americana, alla Fondazione Bevilacqua la Masa (palazzetto Tito), per la cura di Angela Vettese, ci introduce all'interno di una diversa ricostruzione della «casa»: si tratta di «scenografia» più che di un luogo della memoria o di un «rifugio» intimo e privato. Il décor è fatto di tende sontuose, seggioline dorate (eleganti?), carta azzurra da parati del salotto buono e poi una profusione di ninnoli e chincaglieria ovunque, in un concreto rimando alla pittura. Kilimnik è attirata dalla finzione, la sua pittura è tutta una «mise en scène» perfetta e inquietante, a tratti quasi sinistra, come se da un momento all'altro calasse il sipario. E il gioco dei rimandi, degli ossimori trapassa di stanza in stanza, di lavoro in lavoro, nell'esercizio magistrale di una consapevole citazione.

Gli estatici paesaggi, i cavalli, gli elementi vegetali, i ritratti, le cattedrali, la Giudecca e gli altri temi ricorrenti hanno la medesima essenzialità di visione, una stessa commistione di elementi astratti e geometrie naturali, con variazioni tonali e cromatiche in funzione antinaturalista. Una pittura meditativa, che vive di lievi e modulate vibrazioni luministiche, di bianchi calcarei, come calcinati al sole, di neri fumosi e riarsi, di forme sfumate in atmosferiche dissolvenze. I contorni si sfrangiano e ricostituiscono in una spazialità riassorbita da fondali monocromi, luminosi alla maniera dei fondi oro bizantini e tardo gotici; travasano senza soluzione di continuità nelle fitte trame segniche che screziano le superfici o, ancora, s’infondono nelle velature trasparenti d’una gamma coloristica parca e di calibrata intensità: grigi lavici, terre bruciate, ocre, gialli ambra, verdi malva, rosa spenti, pallidi cobalti.

Tutto converge nell’unità poetica dell’immagine, nell’eco di remote memorie e di più recenti suggestioni: plastica etrusca, pitture rupestri e dei monasteri serbi, icone ortodosse, ricordi di Daumier e Klee, impressioni dei mosaici di Ravenna e Venezia in una sincronia di fonti, nella pacificazione del dualismo tra Oriente e Occidente, che è tra le altissime risultanze dell’arte di Music.

Anton Zoran Music nasce nel 1909 a Gorizia, all’epoca città sotto il dominio austro-ungarico. Nel 1922 segue la famiglia in Austria, dove realizza i primi disegni. Tra il 1930 e il 1935 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Zagabria, allievo del pittore croato Babic, formatosi presso Von Stuck a Monaco.

Sempre nel 1935, conclusi gli studi, soggiorna a Madrid e a Toledo. L’anno seguente risiede in Dalmazia. Partecipa a due mostre collettive a Zagabria e Lubiana (1941-1942). In seguito all’occupazione italiana di territori dalmati e sloveni, rientra a Gorizia. Nel 1943 espone a Trieste (Galleria De Crescenzo) e alla Piccola Galleria di Venezia. Nel 1944 le SS lo deportano a Dachau, dove disegna in una febbrile e segreta attività le vittime dell’Olocausto. Raffigura grovigli di membra, scarni corpi trasportati a braccia, frutto dell’ “incredibile frenesia di disegnare... come in trans, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta... accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di cadaveri... irresistibile necessità... per non farmi sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza”.

Dall’aprile del 1945 è libero. Torna a Venezia, dove dipinge i primi Cavallini, che diverrano un soggetto tipico, assieme alle serie delle Zattere e di San Marco. Nel 1948 espone a Venezia (Biennale) e a Roma (Galleria l’Obelisco). Kokoschka visita più volte il suo studio, molto frequentato anche da Campigli. Vende diversi dipinti alla contessa Pecci-Blunt e alla principessa Caetani (sue collezioniste). Soggiorna spesso in Svizzera, specie a Zurigo e vi esegue le prime litografie (1948), incide per la prima volta a puntasecca nel 1949 a Venezia (le più antiche acqueforti risalgono invece al 1955). Vince, assieme a Corpora, il Premio Parigi per la pittura (1951), esponendo quindi alla Galérie de France a Parigi (1952), con la quale stipula un contratto che gli consente di stabilirsi nella città francese (1953). In questo periodo si afferma professionalmente. Ha uno studio a Montparnasse, un altro presso l’Accademia di Venezia; si fa conoscere a New York (1953-1954), Londra e partecipa alla Quadriennale romana con una sala personale (1955). Ottiene il Premio della Grafica alla Biennale Internazionale di Venezia (1956), alla Biennale di Lubiana (1957) e il Premio UNESCO alla Biennale veneziana (1960). Nel frattempo incrementa l’attività d’incisore e, più tardi, di litografo.

Nel 1962 viene pubblicato il catalogo completo dei suoi disegni dal 1947 al 1961, anno peraltro cui risale l’avvio di una produttiva collaborazione con il gallerista Ugo Meneghini. Vanno citate le ampie retrospettive svoltesi a Parigi (1972), Darmstadt (1977), Venezia (1980), con particolare menzione delle mostre “Music opere” 1946-1985, Venezia, Ala Napoleonica e Museo Correr (1985) e “Zoran Music” all’Accademia di Francia in Roma (1992).

da: http://www.sipleda.it/inside.asp?id=362

Qui la galleria d'immagini

La galleria raccogli immagini ottenute razzolando in internet. Qui una biografia di Henry Cartier-Bresson

Salgado

Con "Clima: le ragioni di uno sviluppo sostenibile" il fotografo brasiliano Sebastiao Salgado ha proposto (in una mostra recentemente organizzata dall’Istituto dei beni culturali della Regione Emilia-Romagna) un suo viaggio tra i continenti, a testimonianza degli effetti devastanti di uno sviluppo troppo spesso senza regole e sordo alle esigenze dell'ambiente. La mostra si soffermava in particolare sul cambiamento climatico in atto e lo raccontava prendendo spunto dalle condizioni dei più poveri nel mondo.

La mostra è documentata nel sito dell’Istituto dei beni culturali, e ne riporto alcune nella galleria di immagini intitolata a Sebastiao Salgado. Ma ne ho aggiunte altre, che ho scaricato rovistando in internet. Sono quelle contrassegnate con i numeri a due cifre: raccontano di persone, di terra, di povertà.

Da sempre attento ai temi dell'ambiente, Salgado ha fondato assieme alla moglie Lelia Wanick l'Instituto Terra, un'organizzazione senza scopo di lucro alla quale ha ceduto i 700 ettari della sua ex fazenda di famiglia, trasformandoli in area protetta. L'obiettivo principale dell'Instituto Terra è quello di promuovere programmi e azioni concrete per la conservazione e il recupero ambientale nelle aree della Foresta Atlantica, una delle più minacciate al mondo.

Altre immagini di Salgado

Grande pittore olandese è anche Jan Vermeer (Delft, 1632 - ivi, 1675). A parte alcuni paesaggi, dipinse interni di vita borghese, prediligendo le scene domestiche più comuni, i piccoli avvenimenti della giornata di una donna. La sua caratteristica è quella di rendere la tranquillità dell'atmosfera da cui è circondato, con poche figure, spesso una sola, intenta alla lettura o a occupazioni casalinghe. Egli rappresenta con precisione la realtà. La tecnica è molto raffinata: colori inediti giocati sull'accostamento di toni caldi e freddi, una materia ora traslucida ora untuosa che rende l'impressione dell'oggetto, la pennellata è spesso in piccole gocce per rendere la superficie e la riflessione di luce. Caratteristica è la fonte luminosa che vivifica gli interni. Infatti nei suoi quadri c'è qualcosa di vibrante, che rende vivo l'ambiente pacato e silenzioso ove vivono le figure (la luce che penetra da una finestra, posta per lo più a sinistra o fuori dell'inquadratura. Una luce morbida, resa con piccole pennellate punteggiate).

http://www.globalarte.it/storia/vermeer.htm

(Delft 1632 - 1675)

Figlio di un mercante d'arte, Vermeer si formò a contatto con le opere antiche e dipinse per pochi intimi. Ritrasse soprattutto scene di vita domestica, spesso le attività quotidiane. La composizione delle scene è semplice: lo spazio è definito da pochi piani e da una luce intensa e radente; le diverse zone di colore sono usate in modo da contrapporre toni caldi a toni freddi. Il risultato finale è un'immagine che evoca il senso del mistero e una sorta di attesa che ci trasmette una straordinaria ricchezza emotiva. Dimenticato per circa 200 anni, Vermeer fu riscoperto nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Oggi è considerato uno dei più grandi maestri della pittura olandese.

http://www.educazionealimentare.net/at060000h.htm

Questo disegno è di Lily He, figlia di Quinsan Ciao, una collega che insegna alla Virginia Tech. Lily è nata nel 1990; come vedete, è molto brava.

This design was paint by Lily He, the daugter of Qinsan Ciao, a collegue that teaches at Virgina Tech university. Lily was borne in 1990; as you can see, she is very skilful


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