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Ida Dominijanni
Ottantotto giorni
2 Giugno 2018
Politica
Internazionale, 1° giugno 2018. Utile resoconto, ferocemente agrodolce della travagliata crisi della democrazia italiana. I segni dell'auspicato "cambiamento" ci sono tutti, ma si cambia per il peggio. Con commento (e.s.)

Internazionale

«Il centrosinistra e la sinistra si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi», afferma l'autrice. Il punto è cha la categoria della "sinistra" così come l'abbiamo ereditata dai secoli passati a me sembra del tutto superata, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello, per così dire, congiunturale. Se la componente socialista della sinistra si è dissolta nella "modernizzazione" di Benito Craxi, quella comunista è stata seppellita sotto le rovine del Muro di Berlino dall'incauto e precipitoso Occhetto. Sopravvissuti a quell'evento sono solo alcune piccole compagini, delle quali Rifondazione comunista è l'unica di un qualche rilievo, sia dal punto di vista dell'ideologia che dell'organizzazione. Il resto non ha più nulla a che fare con le precedenti formazioni della sinistra. È avvenuto un grande rimescolamento delle formazioni politiche italiane, accompagnato da una e vera mutazione antropologica nel personale ex comunista

Sotto il profilo della congiuntura mi sembra (e mi è sembrato fin dalle prime apparizioni del ragazzo di Rignano, a suo tempo sponsorizzato da Silvio Berlusconi) che il buon Matteo Renzi e il residuo di militanti e strutture che Bersani gli ha lasciato conquistare non abbiano mai avuto nulla di ciò che era la vecchia sinistra, e quindi neppure qualcosa che possa definissi centrosinistra. Il PD è uno dei molti partiti della vecchia impallidita centrosinistra via via risucchiate nel gorgo del liberismo capital-finanziario.

Per concludere questo lungo commento introduttivo all'interessante articolo di Ida Dominijanni ripeterà quanto ho ampiamente argomentato nel mio scritto "La parola sinistra". La sinistra è sempre stata quella parte politica che ha promosso e difeso la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori. Ma i due mondi alternativi degli sfruttati e degli sfruttatori sono sostanzialmente (economicamente, socialmente, geograficamente, ideologicamente) del tutto diversi da quelli che era nel XX secolo. È da qui che bisogna cominciare, uscendo dalla palude di idee ed eventi limpidamente raccontato da Ida Dominijanni nell'articolo che segue (e.s.).

Internazionale, 1° giugno 2018
Ottantotto giorni
di Ida Dominijanni

Alla fine ci abbiamo messo la metà del tempo della Germania, e senza elezioni a ripetizione come in Spagna. Il governo concepito nelle urne il 4 marzo ha avuto una gestazione lunga 88 giorni e a dir poco rocambolesca, ma alla fine assomiglia al voto da cui nasce e di questo deve prendere positivamente atto anche chi di quel voto non è contento affatto. La gestazione rocambolesca ha rischiato di mandare in default l’istituzione più alta della repubblica, nonché l’unica a essere fin qui sopravvissuta alla crisi di legittimazione di tutte le istituzioni repubblicane, ma alla fine e in qualche modo Sergio Mattarella ha vinto: governo politico (anche se infarcito di tecnici nei ruoli più importanti, a cominciare dal presidente del consiglio), composto dai vincitori delle elezioni (anche se uniti non da una solida alleanza ma da un sospettoso, e sospetto, contratto), senza presenze troppo inquietanti per l’Unione europea e i famigerati mercati (il caso Savona si chiude con un compromesso di facciata, ma accettabile per tutti).

L’antica sapienza democristiana della prima repubblica ha avuto la meglio sulle intemperanze dei due capopopolo che si vorrebbero levatori della terza? Sì e no. Sull’operato di Mattarella, sulla sua gestione del fattore-tempo, sulla sua tolleranza per gli strappi alle forme e alle procedure, sulle sue rigidità (il discutibile veto su Savona) e le sue condiscendenze (l’ancor più discutibile incarico a Conte) si discuterà ancora a lungo. Ma è lecito pensare che nel piegare Di Maio e Salvini alla disciplina della formazione del governo il cinismo dei mercati e di chi li muove, Bce compresa, abbia pesato almeno quanto la suddetta sapienza e pazienza del capo dello stato. Tre giorni di impennata dello spread devono aver convinto Di Maio e Salvini che altri due mesi passati a gridare all’impeachment e ad arringare le piazze avrebbero avuto sui loro elettorati la forza devastante di un’atomica.

Il centrosinistra e la sinistra si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi.

E qui finisce il brindisi per il lieto evento, perché né la laboriosità del parto né le fattezze della creatura promettono alcunché di buono per il futuro. Del presidente del consiglio non sappiamo che cosa pensi dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Luigi Di Maio può intestarsi la mossa finale che ha vinto le resistenze di Salvini, ma solo dopo aver ingoiato a sua volta tutte le condizioni del suo alleato, che non solo si insedia al Viminale con intenzioni fieramente razziste ma incassa ministeri chiave per l’egemonia sul senso comune quali l’istruzione (Bussetti) e la famiglia (Fontana, militante pro-vita ed eteronormativo sfegatato. A proposito, il tanto apprezzato Giorgetti, sottosegretario in pectore alla presidenza del consiglio, fu a suo tempo il principale estensore della legge 40 contro la procreazione assistita). Sulla giustizia (Bonafede, M5s) il “contratto di governo” si segnala per essere il più forcaiolo della storia della repubblica. Sulla politica industriale, e in generale sull’idea di sviluppo del paese, il più omissivo. Sui rapporti con la Ue, come s’è visto nell’ultima tumultuosa settimana, il più opaco. Sulla politica estera il più pericolosamente ambiguo. E siccome il mondo ci mette sempre lo zampino, per ironia della storia la prima gatta da pelare del governo del “prima gli italiani” sarà la guerra dei dazi contro l’Europa dell’alfiere di America first: contraddizioni in seno al sovranismo.

Restano sul campo i morti, i feriti e gli effetti collaterali di questi 88 giorni. Gli sconfitti del 4 marzo, ovvero il centrosinistra a trazione renziana e il centrodestra a trazione berlusconiana, ne escono entrambi ma diversamente triturati. Il centrodestra perde la maschera del preteso moderatismo berlusconiano, si radicalizza sotto la guida di Salvini (nonché di Meloni) ma mantiene e rafforza la sua pretesa egemonica sulla società e sullo scacchiere politico. Il centrosinistra e la sinistra, al contrario, si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi. Che se la siano cercata e meritata non è di nessuna consolazione, la situazione attuale essendo la dimostrazione che senza sinistra in questo paese vacilla l’intera impalcatura democratica.

Gli effetti collaterali non sono meno rilevanti. L’odiosa formula del “contratto di governo” segnala un processo preoccupante di privatizzazione della politica che si cristallizza nel linguaggio (para)giuridico. La scomposta spericolatezza dei principali protagonisti di questa lunga crisi nel rapporto con il Quirinale accentua una crisi di autorità della politica e delle istituzioni che sembra ormai priva di anticorpi nei leader delle nuove generazioni, e che il sempre più frequente ricorso alle “competenze” e ai “tecnici” copre malamente. Infine ma non ultimo, il rapporto fra politica e comunicazione ha subìto un’ulteriore torsione: mai la formazione di un governo era stata così spettacolarizzata, con un assedio così pervasivo della scena e del retroscena e un accavallarsi così rapido dei fatti e delle reazioni, in tv e in rete: una saturazione dell’informazione e della comunicazione che fa tabula rasa dei tempi e dei riti residui della decisione e della riflessività politica.

Ma che accelera inevitabilmente, e positivamente, anche tutte le contraddizioni in campo. L’opposizione – politica e giornalistica – all’establishment, ora che è al potere, dovrà trovare nuove, e si spera più pacate e razionali, strategie narrative di autolegittimazione. Il populismo di governo dovrà fare i conti con i limiti che il populismo d’opposizione ignora. La questione europea, fin qui inchiodata fra l’ottusità della governance comunitaria da un lato e le falene regressive del sovranismo dall’altro, dovrà dispiegarsi, da qui alle elezioni del 2019, in tutta la sua gigantesca portata. Se Bruxelles, Francoforte e Berlino dovessero finalmente realizzare che la gabbia soffocante dei parametri, della moneta e delle direttive calate dall’alto rischia di partorire solo mostriciattoli, il laboratorio italiano anche stavolta non avrà funzionato invano.

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