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Napoli, Je so' pazzo. Una storia esemplare
15 Marzo 2018
Spazio pubblico
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Qui le attiviste e gli attivisti che hanno dato nuova vita a un ex manicomio raccontano per eddyburg come hanno, con l'aiuto della città, rovesciata la storia delle tecniche di repressione sociale in un presente di solidarietà collettiva.


Dove era prigione abbiamo fatto libertà

Che cos’è, oggi, l’ex-OPG “Je so’ pazzo”? Per capirlo fino in fondo non si può prescindere dal racconto di ciò che è stato ieri, il riscatto e la trasformazione attuali hanno infatti radici molto profonde, sono la risposta a tante vite negate e storie mai raccontate che si sono consumate tra le mura dell’imponente struttura di via Imbriani, a Materdei, nel cuore di Napoli.

Se oggi possiamo raccontare questa storia è grazie al lavoro di tanti volontari, prima di tutto degli psichiatri, degli psicologi, degli storici, dei sofferenti psichici e delle loro famiglie, che ci aiutano quotidianamente a ricostruire la memoria di questo luogo – e a trasmetterla anche attraverso le tante visite organizzate con le scuole della città e iniziative sulla storia delle istituzioni totali che ospitiamo al suo interno – e che animano il nostro sportello di ascolto, una delle tantissime attività gratuite che si svolgono presso l’ex-OPG.

La storia del complesso edilizio

Se “OPG” sta per Ospedale Psichiatrico Giudiziario, se lo chiamiamo “ex” perché da tempo non è più un luogo di prigionia e di libertà negata, la storia racchiusa in queste mura è molto più antica e complessa di così: è nella seconda metà del Cinquecento, infatti, in particolare nel 1566, che le prime tracce di una struttura simile a una masseria vengono documentate nell'opera cartografica di Antoine Lafrery.

Fra il 1572 e il 1574 questi terreni della cosiddetta collina “Infrascata”, vengono acquistati dagli Agostiniani di San Giovanni a Carbonara, i frati Cappuccini allora risiedenti nell'antica sede del convento di Sant'Eframo Vecchio a Capodimonte, nell'attuale zona dei Ponti Rossi. La loro idea è semplice e ambiziosa allo stesso tempo: fondare una nuova chiesa e un nuovo convento di “forma quadra e sufficiente ampiezza” per potersi trasferire in via definitiva in un posto più salubre di quello abitato fino a quel momento.

I lavori di edificazione iniziano nel 1575 grazie alle elargizioni della nobildonna Fabrizia Carafa a favore dei preti mendicanti e le prime strutture vengono immediatamente descritte come “magnifiche” e “fuor dell'usato” per la loro grandiosità. Il monastero è dotato di biblioteche, archivi e di una grande farmacia; probabilmente assume col tempo la funzione di convalescenziario, una sorta di infermeria in cui le persone, pur non avendo bisogno di cure particolari, sono aiutate a “guarire” grazie a lunghi soggiorni. 160 cellette ospitano i religiosi, oltre al chiostro, i cortili, le aree comuni.


L’incendio e la ricostruzione:

da convento a ospizio carcerario

Nel 1840 un grande incendio distrugge gran parte del complesso. All'interno della chiesa vanno persi gli affreschi della volta, opera di Filippo Andreoli e l'altare di Antonio di Lucca, maestro marmoraro del centro antico. Le uniche opere rimaste sono una statua di San Francesco d'Assisi, opera di Francesco Sammartino e una statua della Madonna giunta a Napoli dal Brasile nel 1828. Il re Ferdinando II delle Due Sicilie dispone l'immediato restauro del complesso, che riapre così già nel 1841, con uno stile architettonico rinnovato, prevalentemente neoclassico, in linea col gusto artistico dell'epoca. Nonostante la pronta ristrutturazione l'equilibrio della vita conventuale dura indisturbato fino al 1865 quando, dopo l'Unità nazionale, la Legge di Soppressione degli Enti Ecclesiastici porta allo sgombero dei frati Cappuccini e tutto il comprensorio del Sant'Eframo Nuovo è sequestrato e poi destinato all'uso di “Casa di Correzione ed Ospizio Carcerario”. Libri, manoscritti e qualsiasi traccia della vita di convento sono rapidamente dispersi. Nel 1898 nuovi lavori di ristrutturazione predispongono l'intero complesso conventuale all'organizzazione architettonica degli spazi che possiamo notare ancora oggi.

Da carcere per adulti, però, graduali trasformazioni si susseguono negli anni fino all'istituzione di un vero e proprio Manicomio Criminale: nel 1912, infatti, il carcere di arricchisce di una Sezione Antropologica e Medico-Legale per detenuti con problemi psichici provenienti da tutto il Regno d'Italia. La finalità è quella di tenerli in osservazione per accertare la diagnosi ed individuare eventuali intenti simulatori dei detenuti. Nel 1921, ancora, si istituisce una vera e propria Infermieria Psichiatrica delle carceri di Napoli; nel 1923, per Decreto Ministeriale, la struttura sarà denominata “Manicomio Giudiziario”, entrando a tutti gli effetti in funzione nel 1925.

Da questo momento in poi il Sant'Eframo Nuovo è ancora una volta ampliato per far posto agli internati ed essere adattato alla sua nuova funzione. Dell'antica struttura restano i tre chiostri, due chiese sovrapposte e pochi reperti, poi trasferiti altrove.


Da carcere a manicomio criminale

Nel 1975 il manicomio è convertito in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Nel 2000 alcune zone della struttura vengono dichiarate inagibili e questo porta al progressivo trasfermento degli internati presso il Centro Penitenziario di Secondigliano. La dismissione dell'intero complesso risale al 2007.

In quasi 500 anni di storia questo posto è stato: un podere incolto posseduto da nobili, un convento, poi un carcere, un manicomio e infine un ospedale psichiatrico giudiziario. Di qui è passata la storia delle tecniche di repressione di tutta la nostra società.

Il Sant'Eframo Nuovo è sempre stato un posto isolato, enorme e imponente, eppure quasi invisibile, inaccessibile, un posto negato anche negli anni dell'abbandono, dal 2007 al 2015, quando è stato e lasciato al saccheggio, all'umidità, all'erosione.


Nasce Je so’ pazzo

Dopo otto anni di incuria e desolazione, il 2 marzo del 2015 lo stabile viene occupato da un gruppo di circa sessanta persone, giovani, studenti, lavoratori e disoccupati. Nasce così l'esperienza della comunità “Je So Pazzo”, l'interruzione di un destino di chiusura, violenze e dolore, l'apertura di tutti i cancelli.

Per noi occupanti liberare questo luogo non ha significato riempirlo come fosse un contenitore vuoto, ma confrontarsi con la storia della struttura, rispettarne la memoria, e allo stesso tempo ripensare gli spazi per le nuove esigenze. Progettare un luogo per destinarlo ad un uso pubblico (o, ancor meglio, comune) è già un rilevante atto sociale; farlo confrontandosi costantemente con la comunità che ne usufruisce, ascoltando e assecondando i differenti bisogni, lo trasforma in un atto politico.

Parlare nella nostra esperienza vuol dire inevitabilmente anche parlare della nostra città, dell’aria che tira, delle speranze e dei progetti che abbiamo per il futuro, parlare cioè di Napoli dal nostro punto di vista. In questa terra spesso ricordata solo per i “morti ammazzati”, la disoccupazione e la “monnezza”, negli ultimi anni sta cambiando qualcosa, tanto che si inizia a parlare di “anomalia”, di “laboratorio napoletano”. Di questo cambiamento facciamo parte, nel nostro piccolo, anche noi, con l’esperienza dell’ex-opg occupato

“Je so’ pazzo” proprio come la canzone di Pino Daniele che tutti abbiamo cantato o fischiettato almeno una volta, perché in una realtà dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere, preferiamo dichiararci pazzi, organizzarci per riprendere parola, costruendo – dal basso – un’alternativa al mondo grigio e disperato che osserviamo quotidianamente.


Entriamo per cambiare

È il marzo 2015 quando siamo entrati per la prima volta nell’OPG di Sant’Eframo di Materdei ci siamo trovati di fronte ad una struttura immensa, abbandonata, vandalizzata, dalla quale nel tempo avevano sottratto di tutto: utensili, fili elettrici, tubi, persino i letti e i tavoli che costituivano l’arredo delle celle. Un luogo sempre vissuto dagli abitanti del quartiere come distante, ostile, come “un buco nero” incastrato nei vicoli stretti di Materdei.

Fin dai primi giorni dalla nostra entrata, un numero incalcolabile di persone ha sentito il bisogno di venirci a trovare: chi per portare generi di prima necessità trasportando buste piene di torte, rustici, caffè e pasta al forno; chi armato di pennelli e rastrelli per dare una mano ai primi (e più che necessari) lavori; chi semplicemente per curiosare o portare un sorriso.

Se siamo riusciti a restare, nonostante le difficoltà di ogni genere, è stato solo per due ragioni: perché eravamo determinati in quanto sentivamo che quella era un’occasione unica per fare qualcosa per la nostra città e perché la gente intorno a noi ci ha voluto subito bene e ci ha aiutato in ogni modo possibile e immaginabile. Non solo pasti e coperte, ma aiuto concreto nel mettere a disposizione gratuitamente le proprie competenze. È così, grazie a questo esercito di imbianchini, mamme e bambini, avvocati, architetti, medici, cuochi e atleti che si è unito a quello di noi occupanti della prim’ora, abbiamo cominciato a recuperare gli spazi della struttura che si presentava in uno stato di abbandono, sporcizia e degrado assoluti: il primo e il secondo chiostro erano ingombri di rifiuti e quasi totalmente inaccessibili a causa della vegetazione cresciuta a dismisura negli anni, occupando percorsi e portici.

La città è con noi: aiuta e chiede

Le prime settimane sono state caratterizzate anche da numerose visite guidate alla struttura, da concerti, reading e spettacoli per la raccolta fondi, da assemblee con gli abitanti del quartiere, da nottate passate ad organizzare le attività per i mesi successivi. Era impossibile, infatti, ignorare le idee e le proposte di chi iniziava a vedere quel luogo, che fino a quel momento era stato vuoto e inospitale, come una casa di tutti, una casa del popolo, da riempire di attività sociali utili alle esigenze del quartiere e della città.

Analogamente non si sono potute ignorare le richieste, esplicite e improrogabili, dei numerosi piccoli abitanti che si sono presentati con scarpette ai piedi, pallone sotto il braccio e magliette del Napoli, che esigevano la riapertura del vecchio campetto di calcio della struttura, inaugurando così la nascita della prima attività sociale: il calcetto popolare. In contemporanea il neonato gruppo del “teatro popolare” ha provveduto a intonacare e ritinteggiare le pareti del piccolo teatro, a buttare giù il vecchio palco ormai inutilizzabile e ricostruirne uno nuovo, a sistemare le quinte, a preparare reading e spettacoli.

Ricordiamo ancora l’emozione di vedere uno dei cortili dedicati, un tempo, al passeggio all'aperto dei detenuti, pieno di spettatori venuti ad assistere al primo spettacolo auto-organizzato all’interno della struttura, noncuranti delle piantane da salotto usate come fari, dei “tubi innocenti” usati come scenografia e dell’unico leggio traballante messo al centro della scena.

Da allora, in questi tre anni abbiamo ospitato nel nuovo teatro dell’ex-OPG circa cinquanta spettacoli teatrali, decine di concerti, abbiamo dato spazio a laboratori, per adulti e bambini, a sessioni di prove di gruppi teatrali del quartiere che prima non sapevano dove riunirsi, alle prove di una banda musicale e di un’orchestra sinfonica grazie alla quale abbiamo potuto “offrire” al quartiere e alla città concerti di musica classica a ingresso gratuito, mostrando così che la cultura, anche e soprattutto quella “alta”, deve e può essere accessibile a tutti.


Aperti sei giorni su sette

Tutti gli interventi sulla struttura, necessari per renderla funzionale alle nuove esigenze, sono stati fatti nell’ottica della conservazione della memoria storica del luogo, senza cioè dimenticare che quella struttura, che ora ospita spazi di gioco, momenti di approfondimento e di dibattito, è stata, in un tempo non lontano, un luogo di sofferenza e di reclusione.

Attualmente l’ex-OPG è aperto sei giorni su sette e ospita più di sessanta attività fisse settimanali completamente gratuite: corsi sportivi (danza, boxe, kung fu, pilates, corsi di yoga, di meditazione, arrampicata sportiva); una “camera del lavoro” e uno sportello legale ai quali si rivolgono lavoratori che hanno bisogno di consulenza e che vogliono incontrarsi per organizzarsi e lottare contro i licenziamenti, il lavoro nero, la privazione dei diritti sindacali; uno sportello per i migranti che necessitano di un aiuto per svolgere le pratiche per il permesso di soggiorno, per affrontare l’iter della richiesta d’asilo, per accedere alle cure sanitarie; la scuola d’italiano e corsi di lingue.

È stato istituito anche uno sportello di ascolto psicologico e psichiatrico e un ambulatorio (ginecologico, ortopedico, oculistico, cardiologico, di medicina generale) dove si fanno visite, consulti, ecografie, giornate di prevenzione, che sono diventati un punto di riferimento senzatetto e migranti, ma anche per tutti coloro che, pur conducendo vite “regolari”, con la crisi sono scivolati nella soglia di povertà, a dimostrazione che il sistema sanitario nazionale, purtroppo troppo spesso, specialmente al Sud, non riesce a garantire l'assistenza minima necessaria. Per combattere questo impoverimento dilagante raccogliamo medicinali, vestiti, giocattoli, che, grazie all’aiuto di alcune associazioni, distribuiamo con cadenza regolare a tutti coloro che ne hanno bisogno. Abbiamo un doposcuola aperto da settembre a giugno e un asilo condiviso dove le mamme si aiutano a vicenda a crescere i più piccoli. Inoltre (siccome vogliamo il pane, ma anche le rose!) abbiamo attivato tanti laboratori artistici tra cui disegno, fotografia, pittura, teatro, laboratori creativi e artigianali per bambini.

Un laboratorio di solidarietà

Se abbiamo potuto fare, nel corso di tre anni, tutto questo, senza finanziamenti da parte di enti pubblici o privati di alcun tipo, è stato solo grazie ad un popolo generoso, che ha voglia di attivarsi e di cambiare, di mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze, che sente che l’aria sta cambiando e vuole partecipare a questo cambiamento: in tutta Napoli negli ultimi anni c’è stato infatti un fiorire di esperienze di autogestione, di attivismo dal basso, di riappropriazione e riqualificazione di spazi abbandonati a scopo sociale e abitativo.

In estrema sintesi questo è quello che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma il nostro scopo non è certo solo quello di costruire un’isola felice o un luogo destinato a supplire alle carenze dello Stato. Vogliamo essere un laboratorio di solidarietà senza tuttavia smettere di pretendere quei diritti, propri dello stato sociale, che negli ultimi anni abbiamo visto ridursi al minimo.

Le “attività sociali” – ludiche, culturali, sportive – che organizziamo non sono solo un modo per trascorrere assieme il tempo o per soddisfare bisogni che vengono trascurati o negati, ma sono l’occasione per ritrovarci, crescere e trovare delle modalità di intervento comuni sul nostro territorio e sulla nostra città, per migliorarli, per prendere la parola. Da questo punto di vista, piano “sociale” e “politico” sono per noi strettamente intrecciati, sono la trama per partecipare attivamente alla vita pubblica e da cui avviare un processo di trasformazione radicale dell’esistente.

In questo consiste per noi il “potere popolare”: nel riprendersi la possibilità di scegliere e di decidere, nel partecipare attivamente alla vita pubblica.

Ciò che ci sembra utile e importante non è solo promuovere le idee in cui crediamo e portare avanti le battaglie che riteniamo necessarie, ma innescare intorno ad esse un vero processo di partecipazione. Crediamo infatti fortemente nell'attivazione di ampie fasce della popolazione che imparino a conoscere i meccanismi decisionali, a vigilare sul loro svolgimento, a imporre alle istituzioni le loro priorità e le loro soluzioni pratiche. Riteniamo che sviluppare la democrazia significhi metterla alla prova nella pratica, per poterla concretamente realizzare; certi che, in seno al popolo, vi sono capacità di governo, competenze, energie, insomma una forza dirompente, unica, che aspetta solo di potersi esprimere concretamente. Tocca a tutti noi dimostrarlo.

Le attiviste e gli attivisti dell’ex-OPG “Je so’ Pazzo”

Napoli, 14 marzo 2018

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