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Paolo Cacciari
La sconfitta: Condannati a vincere?
24 Gennaio 2018
Politica
Comune-info.net. gennaio 2018. Un saggio su l'uomo e l'umanità, per finire sulla politica, attraversando il mondo raccontato da Danilo Dolci e Nuto Revelli. Scaricabile il testo in formato .pdf

Comune-info.net. gennaio 2018.


LA SCONFITTA: CONDANNATI A VINCERE?
Sentieri interrotti e strade nuove
nelle esperienze sociali, spirituali ed esistenziali
di Paolo Cacciari

Dopocapodannoa Sezano
3-4-5 gennaio 2018


PRIMA PARTE

DANILO DOLCI E NUTO REVELLI

Il compito che mi è stato assegnato è di guardare al tema dei “vinti” in chiave sociale. In questa ottica i “vinti” sono i dominati, i deprivati, gli inferiorizzati, gli emarginati, gli esclusi, gli “scarti” (per usare un’espressione di papa Bergoglio), le vittime, insomma, dei sistemi economici-sociali- istituzionali che penalizzano, umiliano fino a mortificare le persone infliggendo loro varie sofferenze.
Penso che in Italia nessuno meglio di Danilo Dolci e Nuto Revelli sia riuscito a dare la parola agli “sconfitti” della società. Il mio, quindi, vuole essere solo un invito a riprendere in mano i loro lavori, troppo presto dimenticati. Di Dolci ricordo Racconti siciliani (che è una selezione di interviste/racconti raccolti tra il 1952 e il 1960) e di Revelli, i due volumi de Il mondo dei vinti (testimonianze contadine raccolte nel Cuneese nel dopoguerra).

La prima cosa che ci insegnano i nostri due maestri dell’indagine sociale è che per capire e raccontare la condizione di chi patisce esclusione e impoverimento è necessario entrare con loro in un rapporto di fiducia capace di superare reticenze, vergogne, paure. Creare un “campo di empatia” (Eugenio Borgna, psichiatra) capace di aprire il cuore delle persone non è facile. Comporta una fatica enorme.
Scriverà Dolci a proposito delle sue conversazioni con gli abitanti di Trappeto o con i detenuti dell’Ucciardone: “Tutto questo non era semplice, costava ansie e sudori: ogni volta erano dei parti” (Giuseppe Barone, Gli “industriali” e i banditi di Danilo Dolci, in: D.Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, 2008, p. 409). Per riuscire ad accendere una comunicazione sincera tra le persone bisogna immedesimarsi nella condizione dell’interlocutore con attenzione, delicatezza, rispetto. Saranno questi i fondamenti della maieutica pedagogia di Dolci.
Ha scritto Dolci: “Il primo strumento che ciascuna persona ha a disposizione da valorizzare, è sé stessa” (Esperienze e Riflessioni, p.107). Oggi diremo empowerment, capacitazione, restituzione di autostima. Dare davvero la parola agli ultimi, agli emarginati, agli oppressi non significa farsi interpreti e raccontare “noi” le “loro” storie, ma è un modo per intraprendere “un percorso di liberazione” assieme (Carlo Levi nell’introduzione alla edizione dei Racconti siciliani editi da Sellerio).
L’indagine sociologica, quindi, non è neutra, asettica, ma è “co-ricerca”, “inchiestazione”. Un modo per compiere la scelta di stare dalla parte delle vittime, dei “vinti” fino a giungere a condividerne la sorte. Per intraprendere un percorso di liberazione, quindi, non basta portare solidarietà, essere caritatevoli, assistenziali. É necessario risalire nella consapevolezza alle cause generali che creano le particolari condizioni di sofferenza.
In altre parole, il percorso di liberazione passa attraverso un processo di presa di coscienza e di protagonismo sociale e politico, individuale e collettivo. Mi viene in mente il discorso che papa Bergoglio ha pronunciato il 4 febbraio del 2017 in occasione di una udienza in Vaticano con i rappresentanti dell’Economia di comunione, quando disse: “Imitare il buon Sammaritano non è sufficiente”. Occorre: “combattere le strutture del peccato che producono briganti e vittime”. “Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale”. E’ necessario: “cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti” (quotidiano l’Avvenire di domenica 5 febbraio 2017).

Sono le strutture e le logiche di potere/dominio/coercizione che creano subordinazione, sfruttamento fino alla perdita di autonomia e alla disumanizzazione dei “perdenti”.

Danilo Dolci

Le scelte di vita di Dolci sono esemplari. Nato a Sesana, vicino a Trieste, renitente al servizio militare nel ’43, riesce a fuggire all’arresto da parte delle SS e a riparare negli Abruzzi. Finita la guerra, studia a Milano architettura e lavora come insegnate a Sesto San Giovanni. Le sue grandi passioni sono la musica e la poesia. Pubblica presto e diventerà un affermato poeta vincendo anche un premio Viareggio. Incontra padre Turoldo e la sua filosofia: “Godi del nulla che hai, del poco che basta giorno per giorno: e pure quel poco se necessario dividilo”. Nel 1950 lavora con don Zeno Santini alla Comunità Nomadelfa per orfani della guerra a Fossoli (Carpi) riutilizzando una parte dell’ex campo di concentramento. Ma ben presto anche questa struttura gli appare troppo protetta e va nella profonda Sicilia occidentale, a Trappeto, frazione di Partinico sul Golfo di Castellamare, che conosceva già perché suo padre vi era stato come capo stazione.

Cosa trova Dolci a Trappeto? Ce ne dà un’idea Carlo Levi ne Le parole sono pietre : “Scendemmo con lui nel Vallone, per le strade miserabili e putride, rivedemmo, ancora una volta, come in tanti altri villaggi e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; uomini senza lavoro, ‘disfiziati’, senza volontà e desideri, le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri (...) Un uomo ancora giovane, dal viso smunto, infreddolito dalla tubercolosi, cercava, avvolto in uno scialle di lana, di scaldarsi al sole (...) Entrammo in un’altra casa dove vedemmo un uomo chiuso in una gabbia. La piccola stanza dove viveva tutta la famiglia era stata divisa con delle sbarre di ferro come quelle degli animali feroci, e nella gabbia camminava avanti e indietro un giovane dal viso bestiale, dai neri occhi terribili”. Era un infermo di mente.

Per molti mesi vive in una tenda ospite da amici del padre e poi costruisce un edificio con l’aiuto di amici e fonderà il Borgo di Dio. Inizia la sua attività di sociologo irregolare, di educatore informale, di animatore culturale, di attivista sociale. Animato da una profonda forza spirituale e da un metodo analitico rigoroso svolge un’infinità di azioni che nel suo Diario per gli amici descrive così:

“a) Assistenza alla popolazione più bisognosa (compresa l’assistenza sanitaria: medicine, ecc.).
b) Continuazione delle pratiche per la prima irrigazione, che darà lavoro a mille uomini. Finché non arriva l’acqua nelle campagne, qui c’è fame.
c) Opera di documentazione ed informazione perché si sappia che specie di vita c’è in questa zona, ed in particolare si sappia come nasce qui il banditismo e come ci si vuole porre rimedio.
d) Università popolare e concerti (...) Inizia da oggi la biblioteca popolare.
e) Motopescherecci fuorilegge: non possiamo non essere con tutti i pescatori di qui (...)
f) Quanto ai bambini. A nessun poliziotto, a nessun Prefetto ubbidiremo quando i suoi ordini saranno contro la legge di Dio. Rosetta, di otto anni [morta di stenti NdR] era stata costretta a dormire nel letto del padre tisico (...) In questi casi estremi (...) nessuno ci potrà vietare di accogliere e di amare i figli di tisici, o di carcerati, o di gente alla rovina, quando altri non provvedono ad essi.” (Banditi a Partinico, Laterza, 1955, p. 221).

Nel 1953 sposa Vincenzina, vedova di un sindacalista con cinque figli. Con Dolci ne avranno alti cinque.
Grazie alle inchieste e agli articoli di denuncia, Trappeto diventa un punto di riferimento per i maggiori intellettuali progressisti italiani e stranieri: Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Vittorini, Calvino, Rodari. E poi: Erich Fromm, Bertrand Russell, Aldous Huxley, Lewis Munford, Paulo Freire, Johan Galtung... intrattengono rapporti con Dolci. Nasce il Centro studi ed iniziative per la piena occupazione, sulla ispirazione di Centri di Orientamento Sociale che Capitini aveva tentato di lanciare in Italia. Con i braccianti e i pescatori si organizzano digiuni, marce, scioperi alla rovescia.

Le parole d’ordine sono semplici: Pace e sviluppo, Acqua, Lavoro. Dolci e i suoi collaboratori arrivati da varie parti d’Italia e dall’estero subiranno vari processi ed anche incarcerazioni. Nel 1956, a seguito di uno sciopero alla rovescia con cui un gruppo di disoccupati intende ripristinare la strada comunale Trazzera Vecchia viene arrestato e carcerato per due mesi all’Ucciardone a Palermo come “individuo con spiccata capacità a delinquere”. Al processo sarà difeso da Pietro Calamandrei che svolgerà una celebre arringa, poi pubblicata in un libro Processo all’articolo 4.

Dolci sarà definito “il Gandhi siciliano”, uno “pseudo-apostolo”, ma riceverà critiche anche “da sinistra” per il suo eccessivo individualismo e il rifiuto a stare nelle logiche partitiche. Scriverà nel suo Diario per gli amici: “Alcuni (...) giudicano opportuna la nostra attività di informazione, ma deleteria la cura intima per il nostro prossimo più ferito in quanto ritarda con palliativi il rinnovamento della struttura. Rivoluzione: d’accordo. Non si può rimandare a domani il disoccupato che cerca lavoro perché ha i figli alla fame. Rivoluzione subito. Ma il modo della rivoluzione è essenziale. Se seminiamo piselli non nascono pesci. Se seminiamo morte ed inesattezze non nasce vita “ (p.219). E qui sono evidenti le sue radicate convinzioni nonviolente, gandhiane e tolstojane.

Le cronache delle sue iniziative e le sue conferenze lo fanno conoscere in tutto il mondo. Nel 1957 gli sarà conferito il Premio Lenin per il rafforzamento della pace tra i popoli (il Nobel dell’Unione sovietica). Accetterà quale riconoscimento della “validità delle vie rivoluzionarie nonviolente, accanto alle altre forme di azione e di lotta nell’affrontare la complessa realtà; la continua necessità di un’azione scientifica ed aperta, maieutica direi, dal basso”.

Ma cresceranno anche le ostilità. Il celebre cardinale di Palermo Ernesto Ruffini dirà di Dolci: “In questi ultimi tempi si direbbe che è stata organizzata una congiura per disonorare la Sicilia e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci. Una propaganda spietata, mediante la stampa, la radio, la televisione ha finito per far credere in Italia e all’estero che di mafia è infettata largamente l’isola” (Tratto dalla Biografia di Danilo Dolci a Cura del Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci. Sito Ufficiale di Danilo Dolci www.danilodolci.it).

Negli anni ’60 Dolci riesce a raccogliere testimonianze e a formulare circostanziate accuse sul “sistema clientelare mafioso” che avvolge le istituzioni politiche della Sicilia e ottiene audizione presso la Commissione parlamentare antimafia dove depositerà dossier con i nomi “eccellenti” dell’allora ministro al commercio internazionale Bernardo Mattarella e del sottosegretario Calogero Volpe. Denunciato per diffamazione, Dolci verrà condannato – una delle sue tante sconfitte - ma la pena sarà condonata.
Sono centinaia le storie che Dolci riesce a farsi raccontare e costituiscono pezzi di letteratura. Ma ciò che interessa più a noi in questo contesto é scoprire che anche nelle persone più segnate dalla sofferenza, sventurate, sciagurate, “bandite” dalla società... emerge una umanità indomita. Sconfitte sì, ma mai vinte, potremmo dire. Perdenti nella impari lotta per la sopravvivenza in condizioni di estrema povertà, ma mai del tutto disumanizzate.

Solo per avere una piccola idea della bellezza di queste storie, riporto alcuni brevi stralci.

Rosario è un “verdurario”, un raccoglitore di ogni cosa: lumache, rane, anguille, granchi, carbonella, carbone lungo i binari, piombo nei poligoni di tiro.

“Ci sono cinque o sei tipi di verdura: verdura selvaggia, coltivata da nessuno, nasce per conto suo. Tu vai camminando e quel che trovi prendi, giustamente; la mattina ti alzi, circa le quattro, le tre, le cinque: dipende dalla stagione e da dove devi andare. Ti alzi e vai in campagna, fai dieci o dodici chilometri e incominci in mezzo in mezzo a cercare la verdura. (...) Si può fare quattro o cinque chilometri, o di più, in mezzo in mezzo, per riempire un sacco (...) quando il sacco è pieno zeppo ce ne andiamo al paese. A casa la moglie fa trovare una bagnera d’acqua, che ci vuole acqua assai per pulirla bene, altrimenti il rivenditore non la prende (...) Se piove prima di partire, noialtri non ci andiamo, andiamo a lumache (...) Ci sono tre specie di lumache: attuppatedde, babbaluce e crastuna. (...) Per esempio io cammino, e le lumache non ce n’è, ma io vedo la bava che luccica a per terra, io seguisco o la vo a trovare sottoterra, o la trovo aggrappata, ma la devo trovare. (...) Le rane, per venderle, ci tagliamo con la forbice la testa e i quattro piedi, e le scocciamo dalla pelle. Ci leviamo il budello e il fiele. Dopo ci spezziamo le gambe, per gonfiargli le gambe: così la rana sta più pulita, con le cosce grosse. Quando tu vedi le rane con le cosce grosse allora dici: - Me ne dà un chilo -. E anche con le gambe rotte, pelate, senza testa, senza piedi, senza fiele, ancora si muovono. E dopo due ore nell’acqua andiamo a venderle duecento lire al chilo (...) Se tu tagli la testa alla rana e la metti sul tavolo e ci guardi gli occhi, sembrano sempre vivi: come quando guardi un quadro, sembra che guardino sempre te. Quando tu ci hai tagliato tutte le teste, sembra un macello: se tu mettessi tutte le teste schierate una per una... Le prime volte mi facevano un’impressione terribile, poi...L’altranno ne ho ammazzate centocinquanta chili. (...) Questa è l’arte mia, per guadagnare il pane; che io a tutti i mestieri mi butto. Da otto anni fino alla seconda elementare, ho vissuto arrangiandomi così alla meglio. Ringraziando Dio fin oggi non ho avuto niente da spartire con la polizia. E il pane che porto alla mia famiglia è un pane sudato e pulito”. (Racconti siciliani, pp 32-44).

Nonna Nedda racconta della violenza familiare.
“Quando ci danno legnate, ci mettiamo in un angolo e quelle che cadono cadono. C’è un Dio solo, e il marito è uno solo pure: - Uno è Dio, e uno è il marito,- si dice. Le carezze sono nostre, e le legnate sono nostre pure. Non si può uscire senza ordine suo: ci si deve passare la preferenza, l’ordine. Lui è padrone. (...) Giusto è che il marito picchia la moglie. Quando ha ragione, magari. Non è giusto? Magari linguaire, risponderci? Il marito non pretende, e picchia. (...) Quando una non ci ha che fare, si mette con una vicina e parla, accoppiata magari a quattro o cinque (...) Ci piace a parlare, per svariare il cervello. Quando affaccia il sole, ci affacciamo al sole. – Bih, - dicono, - il sole è affacciato, ha voglia a sparlare -. E io ci rispondo: -E allora il sole non ha affacciare mai? – Il sole è bello, quando si affaccia il sole, col sole si respira meglio. Una che si siede al sole piglia i pensieri di tutti i cristiani. Affacciare il sole vuol dire che la gente si siede in strada in conversazione.” (Racconti siciliani pp 91-93)

Leonardo è un pastorello di pecore e capre.
Da piccolo giocavo strad-strada, che facevo? Mi affitti a tredici anni: mio padre era pastore, e prima avevo fatto il pastore con lui. Le bestie quando uno ce l’ha sottocchio tutto l’anno poi le conosce. (...) Non sono tutte uguali a mungere: c’è quella più selvaggia, quella più mansa; c’è quella che ha le minne giuste, c’è quella che ce le ha più spostate: quella più dura e quella più molle a mungere. Da me si facevano afferrare, dagli altri non si facevano avvicinare.
Non le so contare, ma lo so da lontano se ce ne manca una. Guardo e guardo, fino che me ne accorgo. Le conosco una per una, quella è figlia di quella, quella e figlia di quella. Quante sono, le conosco tutte. Ci sono stato con cento pecore, con duecento. Le contava il padrone quando era ora. (...) Nomi non ne hanno. Quando ci getto una gridata, loro si voltano”. (Racconti siciliani pp 106- 107)

Xx è un truffatore incallito, baro, chiromante professionista, fabbricante di talismani, militare in Africa, frequentatore di bordelli, sifilitico... e fermiamoci qui.

Dolci lo incontra in carcere ormai avanti negli anni e si fa raccontare lungamente la sua vita sicuramente ripugnante. Alla fine Xx ha parole di sorprendente profondità.

“Io penso che se tutti gli esseri umani avrebbero la minima sensazione e comprensione di profondirsi che noi sulla terra fossimo provvisoriamente, i giorni i mesi e gli anni li dovremmo adorare, perché vedendoli trascorrere si trascorre la nostra vita, ragione per cui ci dovessimo tutti adorare, aiutarci uno con l’altro, come fisicamente, e come di tranquillizzarci l’animo gli uni con gli altri (...) il mondo è più in mano di queste persone egoiste, vendicative, che non si curano del bisogno del suo simile (...) L’uomo è così ignorante che trova più poesia nelle cose private, proibite, che nelle aperte. Come quando si è in galera, che se il carceriere lascia la porta aperta, non c’è la voglia di uscire nel corridoio; ma essendo chiusa, si patisce. E’ sempre per tutti così”. (Racconti siciliani pp 104-109).

Una amico di Palcido Rizzotto, sindacalista assassinato dalla mafia.
“Placido si era accorto che tutto, in questo stagno, andava in putrefazione. Qui è come acqua ferma: quando nasce la palude, le cose marciscono, germogliano gli in setti e nasce l’epidemia. Lui diceva: - Non credo che dovremo restare sempre bestie, qua; arriverà il tempo in cui la gente apre gli occhi -. (...) Non posso dare un giudizio: lui è morto e se è morto ha sbagliato, mi viene da dire, da un lato affettivo. Se giudico però da un altro lato, l’ideale di Placido era ammirevole, perché lui operava con tutto il cuore nell’interesse di tutta l’umanità” (Racconti siciliani p.264)

Angela, ha conosciuto suo marito a 15 anni
“Uscivo solo una volta la settimana per la messa, e dopo mi ritiravo subito. Non avevo frequenza con amiche ma avevo simpatia per i bambini e per le mamme. Le ragazze che conoscevo io erano quasi tutte come me.(...) Ci siamo sposati e per un po’ ha lavorato ancora al cantiere [navale]. Una sera di queste mi ha detto: “Sai, devo imbarcarmi”. Gli ho detto: “Perché?”, ero in stato interessante, piangevo, non volevo che mio marito si distaccava, non volevo rimanere sola. Al cantiere prendeva poco, mio marito pensava che venendo i figli ci voleva una casa, bisognava pensare avanti (...) Ognuno non dovrebbe perdersi facilmente: vorrei che gli uomini siano affrattellati, che abbiano salute, lavoro, ma anche che ciascuno abbia il suo silenzio, sentirsi vivere, il corpo che lo desidera, e che tutti siano affratellati, associati sì, ma che mio marito possa stare più in casa”.

Nuto Revelli

La vita, l’impegno e i luoghi di Nuto Revelli sono molto diversi. Nato nel 1919 è della “generazione del Littorio”. Diplomato geometra, ufficiale degli alpini e volontario allo scoppio della seconda guerra. Partecipa alla campagna di Russia – che chiamerà: “lunga marcia della follia”. Sopravvive alla disperata ritirata dal Don. Dopo l’8 Settembre del ’43 si unisce ai partigiani e diventa comandante della brigata Carlo Rosselli di Giustizia e Libertà operante nel cuneese, nelle Langhe. Il suo interesse per la vita delle persone delle classi subalterne e la sua passione per il “dialogo con la gente” incominciano già in caserma tra i commilitoni. Finita la guerra e spentasi “la fiammata della Resistenza”, incomincia a raccogliere una quantità enorme di testimonianze e interviste tra le famiglie dei contadini. Nasceranno i due volumi: Il mondo dei vinti (Einaudi, 1977) e L’anello forte (Einaudi 1985).

In questi lavori l’obiettivo di Revelli é salvare la memoria della civiltà contadina in rapido disfacimento. Revelli pensa che la perdita della memoria storica di una comunità sia grave, perché priva le persone di una parte importante della loro identità e dissolve i legami di solidarietà. Senza alcuna concessione alla nostalgia di un mondo passato fatto di miseria, migrazioni e due guerre mondiali, ma nemmeno senza avallare la tesi dell’ineluttabilità di una “corsa del progresso” sulle ali di una ricostruzione industriale forzata, distruttrice di territorio, che ha comportato lo spopolamento delle aree interne delle montagne e delle colline, che ha lasciato i coltivatori diretti della pianura “padroni della propria miseria”, proprietari di piccoli “fazzoletti di terra”, anche se arati da “trattori enormi”, grazie agli incentivi alla Fiat e alle cambiali garantite dalla Coldiretti. Mentre i poveri di Partinico descritti da Dolci erano i dimenticati dalla Storia, quelli delle Langhe sono “gli emarginati dalla società del benessere”, i contadini “sopravvissuti al grande genocidio”, residui di una “società che muore” (Prefazione a: Il mondo dei vinti).

Quella di Marietta Ponzo è una delle testimonianze raccolte da Revelli in un borgo di montagna: “Siamo più in pochi su al Colletto, uno qui e uno là, dove un tempo vivevano cento persone (...) Oggi siamo padroni di un pezzo di terra che non vale niente. Il nostro domani? Scendere in pianura, scendere in città a morire in quelle scatole che sembrano prigioni, oppure finire la nostra vita in ricovero” (Il mondo dei vinti, primo volume, p. LXXIV).

Pietro Balsamo è uno dei tanti che racconta le storie dell’emigrazione. “In Francia ne andavano tantissimi, a piedi. Non era un problema andare in Francia, era come andare in campagna qui nei dintorni di Margarita. Passavano il confine di notte, senza documenti, andavano a Nizza o a Mentone a fare i lavori di campagna. Poi, con la guerra del ’15, l’emigrazione è finita”.

Un altro, Balsamo Giovanni, così commenta la fine della Grande Guerra: “Eh, l’abbiamo vinta quella guerra, ma l’abbiamo perduta. La statistica dice che sono più i tubercolotici tornati dalla guerra del ’15-18 che i morti di quella guerra”. Come dirà Nuto Revelli: “La guerra dei poveri non finisce mai”.

Ferdinando Manera, classe 1892, racconta: “C’era chi si stufava della guerra e disertava. Tutti eravamo stufi, come rimbambiti. Gli ufficiali avevano le balle piene anche loro. Conosco un capitano che si è sparato, che si è ferito ad una mano per farla finita... C’era il soldato che si sparava una schioppettata in una gamba pur di andare lontano dal fronte (...) Qui nella Langa saranno stati cinquanta i disertori, e avevano ancora tutti dei soldi. Aiutavano la gente nei lavori di campagna, aiutavano le donne che avevano i mariti al fronte, le tenevano allegre... La gente dava da mangiare ai disertori, anche perché aveva paura”.

Molte sono le storie intrise di violenza. Revelli scrive che “il culto della violenza” imperversa anche tra le classi povere e i deboli sembrano un peso.

Letizia, classe 1901, racconta: “ Allora mia madre mi ha venduta tre anni, mi ha venduta per poche pagnotte di pane a gente che lavorava in Liguria: mia madre ha detto a quella gente che mi tenessero, che lei non aveva da mantenermi. Sun sta cunvinta e vanta che steisa cunvinta che l’avìa vendüme. I nuovi padroni avevano l’osteria, il commestibile, il mulino, i trasporti con i carri. Io accompagnavo un vecchio servitore e che era padre di sette bambini, camminavo giorno e notte, i tre cavalli erano alti come questo soffitto, io non arrivavo all’altezza della pancia dei cavalli, il servitore andava al tiro e io in mezzo alla cavezza. Andavamo fino a Garresio e anche più lontano, una vita grama e da mangiare poco o niente. Poi una brutta notte il servitore è rimasto ucciso da un’automobile, e Tuina [la padrona] a dare la colpa a me, mi ha picchiata come sempre”. (Il mondo dei vinti, secondo volume, p. 195).
Pino Luchese, classe 1885, racconta la sua storia: “A dieci dodici anni si andava già via da vaché [servitori di campagna], le famiglie erano tutte numerose (...) La mia famiglia aveva un po’ di bosco, di castagneto, e un po’ di prato, più o meno avevano tutti così, qui era tutta piccola proprietà (...) Si faceva come si poteva, patate, meliga, castagne, ci adattavamo alla miseria (...) La vita oggi è cambiata da così a così. Sì, è cambiata in meglio. Ma non per tutti. Per parte mia no, non c’è più il dovuto rispetto per il vecchio. Oggi c’è il benessere, troppa abbondanza, alla radio parlano di milioni e miliardi come niente. Che vada sempre bene come oggi, io auguro ogni bene ai giovani perché ho anche della famiglia, i nipoti. Ma il benessere bisogna anche saperlo curare, non sprecarlo”.

SECONDA PARTE

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA DELLA POLITICA
Il linguaggio della politica è infarcito di metafore guerresche: “scendere in campo”, stare in “prima linea”, appartenere ad un “fronte”, “posizionarsi”, “militare” in uno o nell’altro “schieramento”, “conquistare” voti, seggi, parlamenti, consigli di amministrazione, banche ... e tanti altri bottini di guerra! Von Clausewitz diceva che la guerra è il prolungamento della politica, ma forse è più giusto pensare che sia la politica la prosecuzione della guerra.

La politica è tanto più forte, nella attuale comune concezione, quanto è più capace di prevalere e di imporre le proprie visioni e le conseguenti scelte sull’intero corpo sociale. Insomma, l’ideale politico è quello del dominio, attraverso la conquista degli apparati amministrativi e tecnici. Prevale un’idea del governo come comando, più che come garante e guida. Chi vince si adopera per “prendere tutto”, per superare le stesse divisioni e le autonomie dei diversi poteri costituzionali. Quando sentiamo ripetere in continuazione: “Il giorno dopo le elezioni dobbiamo sapere chi ha vinto e chi ha perso”, in realtà si vuole dire: “Chi vince non farà prigionieri”.

Non c’è più un luogo in cui le diverse parti politiche possano “parlamentare”, dialogare, mediare nel tentativo di trovare le soluzioni migliori per tutti. I tempi del confronto sono percepiti come una perdita di tempo. Le assemblee elettive sono ridotte a palazzetti dello sport popolate da variopinte tifoserie. In nome della tempestività e dell’efficienza sta avvenendo un processo di accentramento dei poteri in mano agli “esecutivi”. Peggio, al “capo”. Ciò è evidentissimo nei Comuni, dove il sindaco è diventato una figura monocratica: i consiglieri comunali non contano più nulla e gli assessori sono consulenti privati del principe.

Insomma, la politica appare sempre più aggressiva nel linguaggio e autoritaria nei comportamenti. É evidente che si tratta di un colossale, paradossale abbaglio: all’indebolimento dei sistemi democratici nazionali – dovuto a enormi mutazioni macroeconomiche, tecnologiche, geopolitiche – il ceto politico si illude di rispondere menomandone il funzionamento, riducendo la loro rappresentatività e quindi la loro autorevolezza. Siamo entrati un una spirale pericolosissima, il cui punto di caduta è già evidente nel riemergere di tendenze neonazionaliste feroci, razziste, xenofobe: “American First”, “Prima gli italiani”, “Primi i veneti” e via balcanizzando e aizzando le popolazioni le une contro le altre.

Il problema della deriva dispotica della politica, della riduzione del tasso di democrazia della politica (per richiamare un libro fondamentale di Marco Revelli, La politica perduta, Einaudi 2002) è più grave di quel che si pensa, perché molto probabilmente non dipende dalle scelte occasionali dei leader, dei loro partiti e degli elettori, ma più al fondo deriva da antiche concezioni filosofiche e da consolidati postulati antropologici. La bipolarizzazione della politica tra vinti e vincitori, maggioranza e opposizione, governanti e governati, dirigenti e diretti, elite e masse non sarebbe
altro che un riflesso del modo di pensare dualistico della cultura occidentale che scompone e riduce la complessità della realtà umana su due assi cartesiani: bene/ male, giusto/sbagliato, vero/falso, pubblico/privato, individuo/comunità, struttura/sovrastruttura, oggettivo/soggettivo, fatti/valori, razionale/emotivo, teoria/prassi, tattica/strategia, forza/debolezza, uomo/donna... e, in generale, amico/nemico.

Un modo di pensare dicotomico e antinomico che conduce alla disastrosa separazione e opposizione tra “noi” e “loro”, impedendo agli individui di riconoscersi in comunità concorrenti (nel senso di complementari, interconnesse, interdipendenti) e non ostili, non esclusive, ma plurime, non mono-identitarie. L’“uomo planetario” di cui parlava Ernesto Balducci ha una coscienza di sé come appartenente a tutte le specie viventi e alla famiglia umana, prima ancora che al proprio clan e alla propria famiglia.

Ci portiamo addosso un’idea antropologica individualista dell’essere umano come se fosse un “atomo di egoismo” che per legge di natura è portato a ricercare il proprio tornaconto personale. Siamo ancora dentro l’ideal-tipo umano del sistema delle relazioni sociali capitalistiche, liberistiche. Siamo ancora completamente immersi nella visione di Thomas Hobbes dell’ homo homini lupus, del bellum omnium contra omnes.

Insomma, la politica continua ad essere una pratica che mutua le sue regole dalla guerra e ne richiama la logica di violenza. In guerra, come nella politica, vince il più forte e chi vince ha la ragione dalla sua parte. Carl Schmitt ci ricorda cinicamente la differenza tra l’autorità e la verità: auctoritas, non veritas facit legem. Così come, ben prima di lui, Machiavelli ci ha spiegato l’esistenza di un doppia etica: quella del Principe, per cui vale solo il risultato delle sue azioni, e quella dell’individuo singolo che è invece sempre vincolato a rispettare i precetti di vita cristiani; compresa l’ubbidienza al Principe, suo Cesare – ovviamente!

Oggi, la riproposizione in politica di un linguaggio e di comportamenti sempre più aggressivi e dispotici potrebbero sembrare persino ridicoli a fronte della manifesta incapacità dei governi nell’affrontare i sempre più gravi problemi che l’umanità ha di fronte (pensiamo ai cambiamenti climatici, alle migrazioni bibliche, alla corsa agli armamenti, all’inurbamento nelle megalopoli del terzo mondo, alle disparità sociali, agli sprechi di risorse, all’uso manipolatorio delle tecnologie, alla finanza fuori controllo...). Piccoli aspiranti dittatori giocano con un mappamondo a forma di palloncino prossimo a scoppiare.

Mi si obietterà che è generalmente accettato che il metodo migliore per stabilire chi abbia il diritto di governare sia quello elettorale. Ma anche le consultazioni elettorali, svestite dalla retorica, sembrano una pantomima di una battaglia campale. Si comincia con un lungo lavorio di preparazione (alleanze, coalizioni ecc.) per rifornire le salmerie (finanziamenti e sottoscrizioni, acquisizioni di mezzi di comunicazione ecc.), per stabilire le regole dello scontro (leggi elettorali), per selezionare i guerrieri più prestanti ed infine, all’ora x, viene dato fuoco alle polveri.

Destinatari di questi giochi pirotecnici sono i cittadini-elettori che devono assistere allo spettacolo e sono invitati ad esprimere le loro simpatie tramite un voto. Si compie così la “trasformazione della popolazione in elettorato” – per usare una espressione di Pierre Rimbert (Dietro le quinte del mercato elettorale su "Le Monde Diplomnatique" del maggio 2017). Il “principio di maggioranza” stabilisce chi è il più forte, legittima i vincitori e condanna le minoranze all’angolo. Chi vince è legittimato ad interpretare e applicare giustizia, ordine ed economia. Così è stabilito dalle regole della democrazia. Il Demos (popolo) esercita la sua sovranità attraverso una rappresentanza che è quindi legittimata ad esercitare il Kratòs (potere). Ma da tempo si capisce che qualche cosa non funziona. Vi è una crisi di credibilità nel sistema democratico che allontana gli elettori e che rende il “gioco parlamentare” alquanto inefficace. Le regole del gioco sono truccate, i partiti sono catturati dai loro finanziatori, i margini reali di scelta delle politiche sociali ed economiche sono stabiliti da poteri esterni alle assemblee elettive, le diversità tra le formazioni politiche che si contendono la conquista degli apparati di governo sono in realtà più di facciata che di sostanza. E potremmo continuare a lungo elencando gli elementi della crisi della politica.

Ma è giusto segnalare l’esistenza di un altro modo di intendere la politica come una azione permanente per abbassare il baricentro delle decisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità nelle reti civiche solidali. Guido Viale ci invita a distinguere tra com-petizione e con-correnza. Concorrere vuol dire correre insieme, alla pari e tra uguali, dove gli uni e gli altri contribuiscono al raggiungimento di uno scopo comune, di un bene da condividere. “Correre ha nella sua radice il verbo greco reo, scorro. Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito (...) Concorrere significa portare il proprio contributo a un processo comune”. Mentre: “Competizione viene dal verbo latino peto: chiedere per avere, cercare di ottenere” (G.Viale, Slessico familiare. Parole usurate, prospettive aperte, edizioni interno 4, 2017). Un vecchio sindacalista,

Vittorio Foa, diceva: “La politica non è solo comando, è anche resistenza al comando (...) la politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé” (V. Foa, Prefazione a La Gerusalemme rimandata, Rosenberg & Sellier, 1985). La vicinanza con il pensiero di Danilo Dolci è evidente: si tratta di concepire l’idea stessa di potere un altro modo. Dolci scriveva che bisognava “Correggersi dalla losca confusione fra potere e dominio, occorre distinguere. Il potere nonviolento può strutturarsi senza diventare dominio”, se riesce ad agire mutualmente. Mentre la mentalità del dominatore fa parte fa parte di una “perversione di origine psicopatologica”. (D.Dolci, Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, 1997).

Sezano, gennaio 2018

Paolo Cacciari, La sconfitta. Condannati a vincere? è scaricabile qui

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