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Andrada Fiscutean e Sorina Vasile
Bilocale con piscina
24 Novembre 2017
Abitare è difficile
Internazionale, 24 novembre 2017. Gli abitanti e la vita a Cosmopolis, una delle tante gate community per la middle class di Bucarest, lontana dalla città, recintata, vigilata, verde, sicura, e socialmente omogenea. (i.b)

Internazionale, 24 novembre 2017. Gli abitanti e la vita a Cosmopolis, una delle tante gate community per la middle class di Bucarest, lontana dalla città, recintata, vigilata, verde, sicura, e socialmente omogenea. (i.b)

Ai margini di Bucarest cinquemila persone vivono in un invitante universo parallelo, lontane dalla confusione della città. Casette dai tetti color turchese, come nel Monopoly, si affacciano su un lago e, più avanti, palazzi gialli di dieci piani incorniciano grandi piscine piene d’acqua limpidissima. Tutti lasciano i telefonini e i portafogli in vista sulle sdraio. Un pallone rimbalza sull’acqua. Un ragazzo abbronzato con un braccialetto rosa al polso si tuffa per prenderlo, schizzando le persone a bordo piscina. Tutti portano lo stesso braccialetto di plastica. Indica che hanno il permesso di stare qui.

Il complesso residenziale Cosmopolis

Cosmopolis è uno dei più grandi complessi residenziali della zona di Bucarest, premiato perfino a livello internazionale. Qualche anno fa qui c’erano solo terreni abbandonati lungo le rive del lago Creţuleasca. Oggi c’è un quartiere che appartiene al comune di Ştefăneştii de Jos. L’ingresso ricorda una frontiera: muri, cancelli e guardie. Uno dei vigilanti, con occhiali da sole, maglietta azzurra e pancia d’ordinanza, fa la stessa domanda a tutti gli sconosciuti: dove va? Qui possono entrare solo i residenti, altrimenti bisogna essere annunciati con una telefonata in portineria.

La crisi è passata, gli stipendi crescono, e sempre di più gli abitanti di Bucarest vogliono comprare casa in uno degli oltre cento complessi residenziali costruiti alla periferia della città. Queste strutture hanno servizi di vigilanza, parchi e piscine, e le case non costano più dei vecchi appartamenti del centro. Molti hanno fretta di comprare perché temono che i prezzi tornino a salire e raggiungano i livelli precedenti alla crisi. I dati di Eurostat mostrano che la Romania è il paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di proprietari di casa. L’affitto è considerato una soluzione transitoria, che sul lungo periodo serve solo a buttar via soldi. Per questo abbiamo cercato di capire perché i romeni sono così legati alla proprietà della casa, e soprattutto che vantaggi e che svantaggi hanno a vivere in quartieri periferici chiusi e mal collegati alla città. Abbiamo viaggiato tra passato e futuro, tra campagna e città, tra comunità reali e virtuali. E abbiamo capito che il modo in cui abitiamo dice molto su chi siamo e su chi vogliamo diventare.

Alice e Răzvan. È domenica prima dell’ora del pranzo e via Europa, nel complesso Cosmopolis, è deserta. Qualche alberello spunta dal cemento. Siamo a venti chilometri dal centro di Bucarest, fuori dal raccordo. Davanti al cancello c’è la fermata del minibus che porta in città; se non c’è traffico in mezz’ora si arriva alla prima fermata della metropolitana. La sala d’attesa ha le pareti gialle. Sotto un grande specchio è disegnato un divano azzurro, e dal soffitto pende un candelabro di finto bronzo. In fondo alla strada principale, in una casetta circondata da una palizzata bianca, abitano Alice e Răzvan Petrescu insieme alla loro figlia. Prima di lasciare la città sono stati in affitto a Cosmopolis per un periodo di prova. Quando Alice è rimasta incinta si sono decisi: hanno venduto l’appartamento di Bucarest e hanno comprato qui. In giardino hanno il barbecue, le sdraio, alberi da frutta e lillà. Alice ha piantato le erbe aromatiche che le ha dato la nonna. “Quando sei cresciuta in città e improvvisamente hai un pezzo di terra ti sembra una magia”, dice. Al piano di sopra ci sono le camere da letto, mentre al piano terra la cucina e il salotto, che si è trasformato in un parco giochi per la bambina. È stato il suo arrivo, raccontano, a convincerli a prendere una decisione radicale e a cercare un quartiere simile a quelli che avevano visto in Europa occidentale.

Alcune palazzine di Cosmopolis

A differenza che in città, qui Alice può andare tranquillamente in giro con il passeggino e non deve preoccuparsi per quello che può succedere alla bambina. Quando era piccola, Alice voleva diventare ginnasta, come Nadia Comaneci. “Solo che esercitandomi una volta ho battuto la testa sull’asfalto. Qui c’è l’erba”. I coniugi Petrescu hanno entrambi tatuaggi del gruppo musicale tedesco Rammstein sulle braccia e durante le vacanze vanno in giro per festival e concerti. La scorsa estate sono stati a un festival a Cluj, l’Electric castle, e a vedere i Depeche Mode, sempre con la figlia. Alice ha 37 anni, indossa una salopette a fiori e ha i capelli neri e lunghi, legati in una coda. Ha lavorato per otto anni e mezzo come consulente legale per una multinazionale, senza riuscire a occuparsi delle sue passioni: l’astronomia, la musica e l’arte. Alla fine ha deciso di mettersi a studiare pianoforte e di lasciare il lavoro. Insieme alla sua migliore amica ha aperto una scuola d’arte, Artskul, che aiuta le persone a sviluppare il proprio talento. Ed è soddisfatta. Con la nascita della figlia si è presa una pausa, e ora si prende cura della bambina, va in piscina e cucina.

A volte non esce dal complesso per settimane, perché qui ha tutto quello che le serve: supermercato, campi sportivi, bar, negozi. Perfino il dentista. Anche Răzvan è laureato in giurisprudenza. Indossa pantaloncini corti e una maglietta beige su cui è disegnato un topolino. Nella stanza da letto ha un diorama di Star Wars che si è costruito da solo con i mattoncini del Lego. Răzvan e Alice raccontano di essere scappati da Bucarest perché era troppo caotica e perché ai loro vicini non importava della pulizia e dell’ambiente. C’era chi gettava gli avanzi nelle condutture per la raccolta comune della spazzatura, chi gli scrollava la tovaglia sul balconcino. Loro si sforzavano di fare la raccolta differenziata, gli altri non capivano. “E quelli strani eravamo sempre noi”, spiega Alice. Le discussioni con i vicini erano quotidiane. A Cosmopolis, invece, tutti sono aperti alle novità, s’interessano di ecologia e stanno attenti a non disturbare. “Voglio vivere in una comunità di persone come me. La differenza di età comporta anche una differenza in materia di istruzione. La nostra generazione è molto più responsabile”, dice la donna.

Una vera comunità


Sempre a Cosmopolis, a pochi passi da Alice e Răzvan, in un appartamento di tre camere con terrazzo vivono Ramona e Cătălin Ivan, insieme a Puiu, il loro gatto, che hanno raccolto per strada. Dopo aver abitato per dieci anni in una casa in affitto, volevano avere un posto tutto loro. Ramona insegna inglese in una scuola privata di Greenield, un altro complesso residenziale che si trova al nord della capitale, e Cătălin lavora in un’azienda di comunicazioni al centro della città. Vivono qui da due anni e mezzo. Hanno deciso di trasferirsi perché passando in autostrada vedevano le casette del quartiere, con i loro tetti turchesi, e sognavano di viverci. “Quando siamo entrati per la prima volta nell’appartamento, abbiamo capito subito che era quello che volevamo”, dice Ramona. Consigliano anche ai loro amici di venire a vivere qui, perché Cosmopolis “è un posto più civile di Bucarest”. “Un autista della scuola dove lavoro mi ha raccontato che una volta è venuto a prendere un bambino a Cosmopolis”, racconta Ramona. “Appena ha passato l’ingresso, un altro bambino che era sul bus gli ha chiesto: ‘Signore, in che paese siamo qui?’”.

La persona che li ha convinti a trasferirsi a Cosmopolis è Gabriel Voicu, che dirige l’ufficio vendite del complesso. Porta la giacca, ma non la cravatta, e guarda continuamente l’orologio. Il suo telefono non smette di squillare, ma lui non risponde. Dice che l’85 per cento degli abitanti del complesso sono giovani, alcuni con bambini piccoli. Anche lui prima viveva a Bucarest, poi si è trasferito con la moglie e il figlio. “Il primo shock l’ho avuto quando è nato il bambino”, racconta. “Per arrivare al parco più vicino, quello di Herăstrău, mia moglie doveva camminare venti minuti in mezzo alle macchine. Allora ho capito che non avevo nessun motivo per restare in città. Ricordo il frastuono dei tram e delle macchine che passavano di notte a tutta velocità. Non riesco a credere di non sentire più quel rumore”. Voicu è cresciuto in un quartiere operaio a Costanza. Dice che somigliava a Cosmopolis perché “era una vera comunità”: gente della stessa età, con lo stesso status sociale e gli stessi ideali. Oggi è convinto che quasi tutti quelli che vivono a Cosmopolis siano felici della scelta fatta, tranne poche persone che si lamentano su Facebook per la qualità delle rifiniture, la polvere che entra dalle finestre e gli insetti.

Mille nuovi muri

Cosmopolis, Greenield, Militari Residence, Confort City e gli oltre cento complessi residenziali chiusi di Bucarest e dintorni, nel distretto di Ilfov, devono il loro successo ai romeni della classe media, spesso dipendenti di multinazionali. In alcuni casi questi inquilini hanno cercato di applicare allo spazio in cui vivono le regole del loro lavoro. In un complesso nel quartiere di Titan, per esempio, c’è chi ha proposto di introdurre un sistema per definire i problemi da risolvere e poi stabilire le priorità. Per entrare nel complesso Area Residence bisogna invece sostenere un colloquio. “Se non gli piaci, non ti vendono casa”, ci racconta al telefono compiaciuto un rappresentante degli inquilini. Quasi tutti i complessi residenziali hanno un ingresso sorvegliato, sono circondati da recinzioni o laghi e sembrano separati dalla città. All’interno le persone raccontano di sentirsi sicure, parte di una comunità in cui lo stato e altri fattori esterni intervengono il meno possibile.

Gli antropologi chiamano questi complessi residenziali gated communities. La loro diffusione si spiega con la mancanza di fiducia dei cittadini nelle autorità. Più precisamente, secondo gli studiosi europei e statunitensi, chi vive in queste strutture non crede che lo stato possa offrire servizi di qualità. Qui gli abitanti si gestiscono da soli. Come spiega l’urbanista statunitense Peter Marcuse nel suo saggio Walls of fear and walls of support (muri di paura e muri di sostegno) queste cittadelle offrono servizi di vigilanza, piscine, campi da tennis e da golf, aree gioco, ristoranti e palestre di cui gli inquilini usufruiscono in comune.

Le gated communities sono apparse per la prima volta negli anni settanta negli Stati Uniti, e poi si sono diffuse, verso la metà degli anni novanta, in Europa occidentale. Negli Stati Uniti oggi comprendono più di dieci milioni di abitazioni. Secondo i sociologi, la loro diffusione è legata alla crescita delle disuguaglianze sociali. In Romania questi complessi sono arrivati alla fine degli anni novanta e si sono moltiplicati dopo il duemila.

“Siamo passati dal controllo assoluto dello stato sull’edilizia abitativa degli anni del comunismo all’anarchia totale”, spiega l’architetto Ştefan Ghenciulescu, docente all’università di architettura e urbanistica Ion Mincu di Bucarest e direttore della rivista Zeppelin. Ghenciulescu è nato e cresciuto a Bucarest e da sempre osserva lo sviluppo della città. Negli anni novanta – racconta – i romeni odiavano la vita nei condomini, rifiutavano tutto quello che gli ricordava una dimensione collettiva. “Ognuno voleva la casa di proprietà. Con il giardino”, ricorda Ghenciulescu. Poi spiega che chi si sposta nei nuovi palazzi in periferia cerca di tenere insieme i vantaggi della vita di città con quelli della campagna. Ma alla fine non ha né gli uni né gli altri: “ Sei isolato dalla città e dai suoi benefici, ma non godi neanche della natura e del silenzio, perché in questi posti la densità abitativa è elevatissima. Si è costruito tantissimo, non ci sono veri spazi verdi né intimità”. Il motivo è che questi comprensori sono stati realizzati senza un vero progetto, senza pianificazione o infrastrutture. “In un sistema che funziona a volte è il comune che costruisce le infrastrutture”, dice Ghenciulescu, “altre volte è il costruttore stesso, che poi le cede alla città, altre volte ancora il pubblico e il privato collaborano. Da noi non succede nulla di tutto questo”. Dopo la rivoluzione del 1989 a Bucarest sono stati costruiti molti palazzi di oltre dieci piani. Parchi e spazi verdi sono stati restituiti ai vecchi proprietari, che li hanno usati per farci soldi e hanno cementificato tutto. Il risultato è che oggi gli spazi verdi sono pochi, meno di quelli previsti dagli standard dell’Unione europea. Inoltre, secondo i dati del produttore di dispositivi GPS TomTom, Bucarest è la quinta città più trafficata del mondo.

I complessi residenziali ai margini della capitale sono una conseguenza di questi problemi, “a prescindere dal fatto che le persone se ne rendano conto o meno”, dice Ghenciulescu. Molti li scelgono per sfuggire ai fastidi della città e per vivere in maniera più sostenibile. Ma non si rendono conto che, anche facendo scelte ecologiche, alla fine consumano più risorse lì che in città. I palazzi, infatti, occupano meno spazio delle case, sono più facili da riscaldare e consumano meno energia.

Un altro motivo che spinge i romeni a trasferirsi nelle gated communities è la presenza di guardie e sistemi di vigilanza. Tuttavia, contrariamente alla percezione generale, secondo i dati Eurostat sui furti denunciati, la Romania è uno dei paesi più sicuri d’Europa, allo stesso livello del Lussemburgo e meno pericolosa di Spagna e Francia. Ma non è l’unica nazione dell’Europa orientale in cui le strutture abitative protette da cancelli e recinti sono sempre più numerose. Sonia Hirt, preside della facoltà di architettura dell’Università del Maryland, negli Stati Uniti, ha studiato le gated communities di Soia, in Bulgaria. Dopo il crollo del muro di Berlino, racconta, i paesi dell’ex blocco sovietico hanno cominciato a erigere nuovi piccoli muri. Costruite intorno a case e palazzi, queste barriere sono di fatto la conseguenza di “forti tensioni sociali. E la quantità di ferro, cemento, mattoni e malta usati per costruirle è infinitamente maggiore di quella usata per tirare su il muro di Berlino”.

Disuguaglianze e traslochi

Cosmopolis e gli altri complessi del genere sono spazi impersonali, che offrono l’illusione dell’indipendenza. Chi ci abita non vuole avere i fastidi legati alla vita nei condomìni, con le regole imposte dai vicini e dagli amministratori, spiega Bogdan Iancu. Si fugge dalla città per sentirsi parte di una comunità con un livello di sviluppo più elevato. Iancu insegna antropologia visuale e sociologia della vita quotidiana e s’interessa alle modalità abitative della classe media e alle comunità recintate. È cresciuto in un palazzo nella città di Râmnicu Vâlcea e oggi vive in un appartamento di due camere in una zona semicentrale di Bucarest. Davanti ha i grandi edifici costruiti per gli operai ai tempi del comunismo e dietro le ville borghesi di inizio novecento. Iancu racconta che i complessi residenziali chiusi non si trovano solo a Bucarest, ma anche, seppure in numero minore, in altre grandi città del paese. Gli abitanti di Cluj-Napoca, tuttavia, sembrano preoccupati più per la chiusura degli spazi pubblici, che per la tutela di quelli privati.

Qualche anno fa l’associazione dei condomini di un palazzo ha fatto erigere una grande porta per limitare l’ingresso a uno dei punti più pittoreschi della città, lungo il canale del mulino, dove i bambini vanno da sempre a vedere le anatre. Adrian Dohotaru, un attivista poi eletto deputato con il partito Unione salvate la Romania, è stato tra quelli che si sono battuti per eliminare la porta. “Alla fine, dopo l’intervento del comune, la barriera è stata demolita, in quanto illegale. I muri non incoraggiano la mescolanza sociale”, dice Dohotaru, che ricorda come in Romania il problema delle disuguaglianze sia particolarmante serio. Per questo è convinto che le autorità dovrebbero cercare di limitare il fenomeno delle gated communities. “Il proliferare di queste strutture indebolisce la città.

Una democrazia efficace ha bisogno di spazi pubblici, non di luoghi chiusi in cui le persone si isolano sempre di più”. Più di altri centri romeni, oggi Bucarest è un aggregato di comunità recintate, separate dalla città da cattive infrastrutture. Spesso le strade di nuova costruzione non sono state pensate per far fronte al traffico generato dai grandi palazzi sorti in periferia. Oltre a quello delle infrastrutture, alcuni abitanti dei complessi recintati hanno anche un altro problema: dopo essersi trasferiti si rendono conto che la nuova vita non fa per loro e che il silenzio li disturba. Il cambiamento dello stile di vita riguarda anche chi decide di andare a vivere nei paesi poco fuori Bucarest. Carmen Mihalache, etnologa del Museo del contadino romeno ha lasciato il suo appartamento in città per trasferirsi nel comune di Chiajna.

Subito dopo il trasloco ha cominciato a studiare la storia di questa comunità, cercando di capire come i nuovi arrivati ne stiano cambiando le abitudini. Nel centro di Chiajna ci sono le case vecchie, ognuna con il suo orto e il suo giardino; in periferia si vedono invece i muri in cemento voluti dai nuovi abitanti per recintare i loro prati. Mihalache racconta che chi arriva dalla grande città non è interessato a entrare in contatto con la gente del posto e le sue tradizioni. In questo modo il divario tra i vecchi e i nuovi abitanti si allarga. “È come se venissero i colonialisti e si sedessero accanto ai nativi”, commenta Bogdan Iancu. Alcuni “cittadini” gli hanno confessato che a volte si mettono a guardano con il binocolo cosa fanno gli abitanti più poveri, come fosse “una specie di safari umano”, aggiunge l’antropologo.

I vantaggi del proprietario

Per comprare una casa spesso gli abitanti di Bucarest accendono un mutuo. E molti si rivolgono a Dragoş Nichifor, che dirige una delle più vecchie società di intermediazione finanziaria della città. Nel 2006 Nichifor ha comprato un appartamento in un quartiere semiperiferico della città. Allora il mercato immobiliare era in rapidissima crescita, tanto che era difficile anche solo riuscire a visitare delle case in vendita. Nessuno immaginava che presto sarebbe arrivata la crisi e i prezzi sarebbero crollati. “Ho visto l’appartamento per un paio di minuti, non sono nemmeno arrivato sul balcone. E ho subito detto all’agente immobiliare che l’avrei preso”, racconta. “È assurdo. Perfino per comprare una bicicletta ci si mette di più”. L’ideale, aggiunge, sarebbe “poter passare qualche ora nell’immobile, magari affittarlo per un giorno, passarci la notte”.

Nichifor segue il mercato immobiliare da quando era adolescente. Nel 2002 a Bucarest un appartamento di due stanze costava circa 15mila euro. Sei anni dopo, all’apice della bolla immobiliare, per lo stesso appartamento potevano volerci anche 120mila euro. La crisi ha fatto crollare i prezzi di oltre il 50 per cento, ma da qualche anno il mercato ha ripreso a crescere. Nel giro di cinque anni si potrebbe tornare ai livelli pre-crisi. Nichifor è convinto che i romeni non vogliano vivere in affitto per motivi economici, ma anche per colpa della burocrazia e delle falle nella legislazione che regola i rapporti tra proprietario e locatario. “Quando il mercato è caotico e non regolamentato, con ognuno che fa come vuole, è chiaro che possedere una casa offre certezza e stabilità”. In Romania la maggior parte degli affittuari non ha contratti registrati e non conosce i propri diritti. Il risultato è che, quando ci sono problemi, di solito si risolvono a favore del proprietario.

A quanto pare, continua Nichifor, i giovani sono quelli che hanno più fretta di comprare. Ma prendere un prestito prima dei trent’anni può essere un rischio, perché a quell’età è difficile prevedere che direzione prenderà la propria vita. E con la prima casa si può rimanere in trappola, senza la possibilità di rivendere o di affittare per cinque anni. Bogdan Suditu, esperto di pianificazione territoriale, è d’accordo. Anche lui crede che i giovani dovrebbero stare in affitto per un po’ prima di diventare proprietari. Tra il 2006 e il 2013 Suditu ha guidato l’ufficio per i servizi urbanistici, lo sviluppo locale e le politiche abitative del ministero dello sviluppo economico, e ha anche lavorato alla riforma dell’Agenzia nazionale per la casa (Anl), che dovrebbe offrire soluzioni abitative ai giovani senza mezzi economici. “Chi si occupa di politiche pubbliche in questo paese non si è mai concentrato sull’affitto”, dice Suditu, convinto che in Romania manchi un dibattito serio sulle politiche abitative, “forse perché l’edilizia è uno dei settori che ‘muovono l’economia’”.

Con qualche eccezione, in Europa occidentale e negli Stati Uniti è normale vivere in affitto, almeno in dai tempi della rivoluzione industriale. I proprietari controllano interi palazzi che amministrano come vere e proprie aziende. In alcuni paesi, poi, lo stato interviene a tutela degli inquilini. In Germania, dove quasi la metà della popolazione vive in affitto, i prezzi sono regolamentati dalle autorità e i proprietari non possono aumentare il canone prima della fine del contratto. In più, se vogliono riaffittare l’appartamento ad altri, devono prima parlare con i vecchi locatari.

Domicilio instabile

“Tre traslochi equivalgono a un incendio per quanto riguarda i danni che fanno a una casa”, dice Pompiliu Sterian. A 98 anni, Sterian recita nello spettacolo di teatro documentario Domicilio instabile accanto ad altri anziani della casa di riposo della comunità ebraica Moses Rosen, a Bucarest. In scena indossa una cravatta dorata e una giacca azzurra e racconta ai giovani come si viveva in città tra le due guerre e durante il comunismo. “I proprietari aumentavano continuamente l’affitto. Se non eri d’accordo, ti buttavano fuori. E non potevi farci niente perché non avevi un contratto”. Gli altri anziani snocciolano le loro storie, sempre influenzate dalla classe sociale di appartenenza. Alcuni ricordano con piacere il periodo prima della seconda guerra mondiale, quando erano proprietari di grandi case, e si lamentano del comunismo, che li ha costretti a vivere accanto a nuovi inquilini; altri raccontano che il comunismo gli ha permesso di vivere in appartamenti in affitto. Lo spettacolo è messo in scena dal regista David Schwartz, che lavora da tempo con gli anziani della casa di riposo. È un tentativo di raccontare i modi dell’abitare a Bucarest negli ultimi ottant’anni e di capire come siano stati percepiti dai cittadini i cambiamenti dell’ultimo secolo.

Schwartz ha 32 anni, è alto, porta i capelli corti e indossa una canottiera gialla larga e dei pantaloni corti di cotone. Ci incontriamo al Macaz, un teatro-bar gestito da una cooperativa di artisti. Il regista spiega di aver cominciato a interessarsi al tema della casa nel 2006, quando molti, tornati proprietari delle case che erano state nazionalizzate, hanno cominciato a sfrattare le famiglie povere che ci abitavano in aitto. Colpito dall’ingiustizia, insieme ad alcuni compagni di università Schwartz ha realizzato uno spettacolo teatrale per raccontare la sorte degli sfrattati. Da allora non ha mai smesso di occuparsi di povertà e disuguaglianze sociali. Katia Pascariu, una delle attrici che lavorano con lui, racconta che in Domicilio instabile è stato sorprendente vedere come i racconti degli anziani non coincidessero. Ognuno credeva che la sua esperienza fosse condivisa da tutti. Lo spettacolo è quindi un tentativo di mettere insieme punti di vista opposti sul tema dell’abitare. E si chiude con Sterian in , sul palco, che recita i seguenti versi:

Che ognuno abbia una casa,
con tante prelibatezze sulla tavola.
E, perché no?
Diciamolo chiaramente:
che sia anche proprietario.

Come in vacanza

In un appartamento di due camere nel quartiere di Drumul Taberei, la madre di Răzvan, l’avvocato che abbiamo conosciuto a Cosmopolis, tira fuori da un cassetto un servizio da cafè proveniente da Kaleh, l’isola sul Danubio che fu sommersa dall’acqua nel 1970 durante la costruzione della grande diga sul fiume, all’altezza delle Porte di ferro. Mariana Petrescu conserva anche altri oggetti della casa dei genitori, a Craiova: vasi di porcellana, candelieri e vassoi d’argento. Costruita dal nonno, la casa aveva due piani e dieci camere. Ai tempi del comunismo fu demolita per far posto a dei palazzoni. “Sono cose che non si dimenticano”, dice la donna. “Ci soffro ancora”. Mariana è piccola di statura, ha i capelli neri e porta un paio di occhiali con la montatura dorata. È ingegnera e fino a pochi anni fa insegnava all’università. Prima che l’edificio fosse demolito, i comunisti le avevano messo degli inquilini in casa e sequestrato gli oggetti di valore. “Allora avevo paura di invitare i colleghi: temevo che potessero vedere quello che avevamo”, dice. “E ancora oggi vivo con questo terrore: far entrare sconosciuti in casa”. Anche il padre di Răzvan, Sorin Petrescu, veniva da una famiglia considerata borghese ai tempi del comunismo. Avevano una casa e una piccola fabbrica di prodotti chimici: fu tutto confiscato. E lui fu mandato ai lavori forzati perché non aveva consegnato una collanina d’oro.

I genitori di Răzvan si conobbero alla stazione Obor di Bucarest. Erano entrambi pendolari e si resero subito conto di avere tante cose in comune. Lui la invitò al ristorante e dopo un anno si sposarono. All’inizio andarono ad abitare in un monolocale di 18 metri quadrati ricevuto dallo stato. Tenevano aperte porte e inestre perché gli sembrava di sofocare. Dopo la nascita di Răzvan riuscirono ad avere un appartamento di due stanze. Ma erano al piano terra e d’inverno si gelava. Dal 1987 Mariana ha cresciuto Răzvan da sola. “Da quando mio marito è morto non sono nemmeno più andata in vacanza. Non sono più stata da nessuna parte. Ho solo lavorato”. Răzvan era il suo unico appoggio. “Gli ho sempre detto che eravamo noi due soli. Anche se era un bambino, parlavo con lui di tutto quello che mi preoccupava”.

I soldi bastavano a malapena per arrivare alla fine del mese. Dopo il 1989 Mariana ha comprato dallo stato l’appartamento di due camere in cui abitava, prendendo un prestito alla Cassa di mutuo soccorso, alimentata dai contributi dei lavoratori. Lo stesso hanno fatto anche molti altri romeni, approfittando della misura che permetteva a tutti i cittadini di comprare dallo stato l’appartamento in cui abitavano (in quegli anni sono stati venduti più di 1,8 milioni di appartamenti, ciascuno per un prezzo equivalente a qualche stipendio mensile). Dal suo appartamento di Bucarest Mariana Petrescu pensa spesso al figlio che vive a Cosmopolis. Ricorda che in da piccolo Răzvan sognava una casa con giardino. Quando va a trovarli le sembra di “stare in vacanza”, anche se la loro casa non è “nemmeno un quarto di quella che avevano i miei genitori a Craiova”. All’ora di pranzo di una domenica qualsiasi la strada principale di Cosmopolis è deserta. Al cancello i vigilanti fermano le macchine che non riconoscono. Alice e Răzvan raccontano che a Cosmopolis speravano di trovare maggiore sicurezza per la figlia.

Una delle piscine di Cosmopolis

E per un certo periodo hanno creduto di aver fatto la scelta giusta. Ma le grandi manifestazioni contro la corruzione organizzate a Bucarest all’inizio del 2017 gli hanno fatto cambiare idea. A febbraio sono scesi in piazza anche loro e si sono resi conto che, per quanto cerchino di tenersi lontani dall’incompetenza delle autorità, vivere isolati non è possibile. Neanche dietro le barriere del loro complesso residenziale. Oggi pensano di lasciare il paese, magari per trasferirsi in Portogallo. “Quando penso che a un certo punto nostra figlia dovrà andare a scuola mi vengono i brividi”, dice Alice. Anche l’inefficienza della sanità pubblica le fa paura. Verso sera arriva la nonna per giocare con la nipotina. Sta con loro in giardino, all’aria aperta. Dice che Răzvan ha tutto quello che ha sempre desiderato: sicurezza, una famiglia, una casa. Lei l’ha aiutato come ha potuto e gli ha dato i soldi ricavati dalla vendita di alcuni terreni recuperati dopo il 1989. “Non importa quello che ho passato io. Questa è la mia ricompensa”.

Tutta la famiglia è riunita intorno alla bambina e ognuno vuole insegnarle qualcosa. Sul divano è appoggiata una bambola nera, sul tablet ci sono applicazioni sull’igiene e la salute, e sul tappeto sono sparsi pezzi di Lego che aspettano solo di essere assemblati. Ma la bambina vuole tornare in piscina. Prende la ciambella e, insieme al papà, attraversa il recinto bianco del giardino.
Riferimenti all'articolo originale: Internazionale 1232, pp. 62-69.
Link: https://www.internazionale.it

Tutte le immagini sono prese dal sito: https://blog.cosmopolis.ro/

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