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Claus Hecking e Tobias Rapp
Madrid e Barcellona alla resa dei conti
1 Ottobre 2017
Politica
Internazionale, 28 settembre- 4 ottobre, il 1 ottobre dovrebbe svolgersi il referendum sull’indipendenza della Catalogna, ma la votazione è considerata illegale dallo stato spagnolo, che ha fatto di tutto per impedire il referendum. Non si sa se ci sarà davvero, e cosa succederà. (i.b.)

Internazionale

E' un martedì pomeriggio di settembre e Carles Puigdemont, presidente della Catalogna, ha appena finito di spiegare i suoi piani per l’indipendenza, quando il suo assistente ci propone di fare una visita alla sede del governo. Puigdemont lavora nel Palau de la Generalitat, nel centro storico di Barcellona. Alcune parti dell’edificio, una delle strutture più belle in una città ricca dal punto di vista architettonico, hanno più di seicento anni.

Il suo assistente ci mostra il cortile nella parte più antica dell’edificio, le colonne decorate e gli scintillanti pavimenti di marmo che, spiega, “sono originali”. Indica le croci di san Giorgio che decorano l’edificio, per secoli un simbolo della capacità dei catalani di difendersi, ma anche della fiducia con cui questa regione rivendica la sua libertà dal governo centrale spagnolo. Passiamo per il giardino degli aranci, dove l’amministrazione organizza i ricevimenti e dove, dice l’assistente, continuerà a organizzarli quando la Catalogna sarà indipendente. Ci fa notare i pilastri della facciata, fatti con il marmo che i romani portarono sulle coste catalane dalla città di Troia.

Antichità, medioevo, cristianità, rinascimento ed età moderna. In questo luogo è riassunta tutta la storia dell’Europa, e l’assistente di Puigdemont non ha dubbi sul fatto che questo edificio, questa città e questa terra meritino più di quanto stiano ricevendo dal governo centrale. È questa la posta in gioco del referendum indetto dai separatisti: il ritorno della Catalogna sulla scena europea. Ma è anche possibile che, invece, ci troviamo di fronte agli ultimi sussulti di quello che un tempo era un grande sogno.

La mattina dopo l’incontro con Puigdemont, il 20 settembre, la polizia ha fatto irruzione in alcuni uffici della Generalitat, nelle sedi di partito e nei magazzini, arrestando quattordici persone, tra cui un vice- ministro del governo locale, e confiscando più di nove milioni di schede elettorali. Le lettere indirizzate agli scrutatori erano già state requisite. Quella sera il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy ha tenuto un discorso in tv in cui chiedeva agli indipendentisti di annullare il referendum.

Puigdemont e Rajoy si scontrano a distanza da mesi. Si sono lanciati provocazioni reciproche come fanno i pugili prima di un incontro. La resa dei conti è prevista per il 1 ottobre, il giorno scelto per il referendum. Le perquisizioni del 20 settembre sono state il tentativo di Rajoy di impedire il voto. Puigdemont ha risposto che il referendum si farà. Ma senza organizzatori, schede elettorali e scrutatori è difficile.

I separatisti sperano che il referendum dia vita a un processo politico che conduca, alla fine, all’indipendenza. Ma il governo spagnolo non vuole fare nessuna concessione. Per mesi Madrid si è riifutata anche solo di valutare le richieste del governo catalano, preferendo affidarsi a perquisizioni e azioni legali, come se gli indipendentisti fossero un’organizzazione criminale.

Presidente fiducioso

È evidente che l’indipendenza della Catalogna comporterebbe gravi rischi. Innanzi- tutto, non è chiaro quali sarebbero le conseguenze economiche per i catalani. Per l’Unione europea, invece, potrebbe essere l’inizio di una difficile fase politica, con i separatisti di Corsica, Fiandre e Norditalia pronti a seguire l’esempio dei catalani.

L’atteggiamento intransigente di Madrid sembra destinato a far crescere le proteste. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza il 20 settembre. La rabbia cresce e non è escluso che possa arrivare alla violenza, anche se gli indipendentisti hanno ribadito che le proteste resteranno pacifiche. Ma Rajoy non vuole correre rischi e ha sospeso le ferie di tutti gli agenti in servizio in Catalogna. In sostanza Madrid ha realizzato un piccolo colpo di stato contro il governo di un paese che non è ancora nato. Puigdemont, 54 anni, ex giornalista di Girona, una città al confine con la Francia, guida la Generalitat da meno di due anni. Ma ha guidato la campagna per l’indipendenza in maniera così prudente da guadagnare sostenitori anche fuori dalla Catalogna. Ha fama di essere un appassionato d’arte: quando era sindaco di Girona ha comprato per la città una collezione di opere per 3,7 milioni di euro, che include quadri di Picasso e Mirò, addebitando parte dei costi all’ente per i servizi idrici del comune.

Ma oggi sembra essersi spinto troppo oltre, sottovalutando quello che il governo spagnolo è disposto a fare pur di sopprimere le minacce all’integrità territoriale del paese. Il 19 settembre, durante il nostro incontro, Puigdemont sembrava ancora fiducioso mentre spiegava la sua idea di Catalogna. Poco prima il parlamento spagnolo si era rifiutato di dare il via libera a un provvedimento che avrebbe rafforzato l’azione del governo di Rajoy contro i separatisti. Puigdemont era convinto che alla fine il referendum si sarebbe tenuto. Non sarà facile, ha detto, ma alla fine l’Unione europea accetterà la Catalogna come paese indipendente: non avrà altra scelta se non adeguarsi a questa “nuova realtà”. L’economia catalana, ha spiegato, è troppo importante per essere ignorata. “Noi catalani vogliamo essere rispettati per quello che siamo”, ha detto, ricordando che nel 2006 Madrid acconsentì a concedere più autonomia alla Catalogna, ma che poi quell’accordo fu bocciato dalla corte costituzionale. “È stato uno schiaffo al popolo catalano. Il messaggio era: non potete essere chi siete”. Il presidente ha anche insistito sul carattere inclusivo del suo movimento, sostenendo che “catalani sono quelli che vivono qui, lavorano qui e amano il nostro paese”.

In questo senso, il nazionalismo catalano è estremamente peculiare. A differenza dei movimenti di altri paesi, non punta sulla differenziazione. Più del settanta per cento dei catalani ha un genitore nato fuori dalla regione: per i catalani questo non è un problema anzi, è una fonte di arricchimento culturale. Gli indipendentisti considerano la Catalogna una regione lavoratrice, prospera e cosmopolita governata da un governo centrale autoritario, con sede a Madrid.

Il fronte separatista è estremamente variegato. Il movimento di Puigdemont si chiama Junts pel sí (uniti per il sì) ed è un’alleanza tra filo- europeisti, partiti di destra e il movimento di sinistra Esquerra republicana de Catalunya, che nel parlamento europeo fa parte del gruppo dei Verdi. Nell’alleanza c’è anche il gruppo Candidatura d’unitat popular (Cup), una formazione di sinistra che nel suo simbolo ha ancora una stella rossa, e non solo per ragioni sentimentali. Il programma politico del partito include la richiesta di case popolari, gas ed elettricità gratuiti, un reddito minimo garantito e la nazionalizzazione delle banche. L’unico elemento che tiene insieme questa variegata coalizione è il desiderio di una Catalogna indipendente.

Comunista e indipendentista

Una cosa che il nazionalismo catalano condivide con altri movimenti regionalisti europei è il fatto di essere un fenomeno per lo più provinciale, nel senso che la sua spina dorsale è formata dalle zone rurali e dai piccoli centri. Le comunità favorevoli all’indipendenza formano una sorta di mezzaluna intorno a Barcellona.

Il movimento è particolarmente forte in posti come Argentona, una cittadina di dodicimila abitanti a nordest di Barcellona. La bandiera degli indipendentisti, con le sue strisce gialle e rosse e una stella bianca su sfondo blu, sventola da molti balconi e finestre. La scritta “Sí” è visibile sui cartelloni pubblicitari, sulle facciate degli edifici e su adesivi appiccicati ai finestrini delle auto, uno accanto all’altro e spesso persino uno sull’altro. Gli alberi delle zone pedonali sono avvolti in teli di plastica su cui si legge “Democrazia”. E nella piazza centrale della città campeggia un enorme cartello a favore dei profughi, dove c’è scritto “Europa vergognati. Argentona si oppone al maltrattamento dei migranti”. I separatisti catalani sono forse degli estremisti, ma non degli estremisti di destra.

Eudald Calvo, un uomo di 31 anni con la barba da hipster, scarpe da tennis e un braccialetto di plastica colorato, è stato eletto sindaco di Argentona due anni fa, con il Cup. “Sono comunista. E indipendentista”, dice. Calvo sta aspettando che la polizia si presenti nel suo ufficio e gli consegni un mandato di comparizione. Anche solo concedere un’intervista sul referendum è teoricamente illegale, perché ai sindaci è proibito occuparsi del tema durante il loro orario d’ufficio.

La procura di stato ha perfino dichiarato che metterà sotto indagine tutti i settecento sindaci catalani che hanno intenzione di consentire il voto. Il governo di Madrid, sostiene Calvo, ha fatto sapere ai sindaci che potrebbero essere incriminati per disobbedienza civile, abuso d’ufficio e appropriazione indebita di denaro pubblico.

Calvo dice che ancora non sono venuti a cercarlo, ma che è solo questione di tempo. Poi indica fuori dalla finestra del suo ufficio, verso un cartello sui cui è scritto “I referendum sono la democrazia”, e dice di non aver paura di essere arrestato. “Se devo andare in prigione, allora dovranno arrestare altri 750 sindaci, oltre ad alcuni parlamentari e funzionari del governo catalano”, dice. “All’improvviso la Spagna si troverebbe con duemila prigionieri politici. Non riesco a immaginarlo”.

Per questo è convinto che il referendum si farà: “Se ricorrono alla violenza per evitare il referendum, noi non risponderemo con la violenza”, dice. “Ma immaginate la cosa in termini pratici. Con la polizia che si mette di fronte alle urne e migliaia di persone che si presentano. La polizia avrà il coraggio di fermarle?”.

Molti giovani si sono uniti al movimento per l’indipendenza. Rappresentano la generación cero, la generazione zero, quella diventata adulta negli anni della crisi economica, della disoccupazione altissima e della mancanza di opportunità. Molti di loro sognano una società nuova e migliore, un nuovo inizio e perino una rivoluzione.

Il separatismo catalano di oggi non è il prodotto di secoli di aspirazioni che si stanno finalmente manifestando. È nato dalla crisi economica spagnola e dal fatto che il governo di Madrid non ha voluto concedere maggiore autonomia alla Catalogna.

Madrid e Barcellona avevano raggiunto un accordo nel 2006, ma quattro anni dopo la corte costituzionale di Madrid, incoraggiata dal Partito popolare di Mariano Rajoy, lo ha invalidato. Questo succedeva proprio nel momento più duro della crisi economica. La conseguenza è stata che molti catalani hanno perso fiducia nei confronti del governo centrale. I catalani sono convinti di aver fatto troppe concessioni a Madrid. La Catalogna è la regione autonoma con l’economia più forte, sede di molte aziende importanti. Ma una parte rilevante delle tasse che raccoglie finisce a Madrid. Secondo gli esperti questo produce un deficit che corrisponde a una quota tra il cinque e l’otto per cento del pil catalano.

Questi conflitti non spariranno. Più Rajoy usa il pugno duro con i separatisti, più lo scontro è destinato a crescere. Anche perché a molti catalani il suo comportamento ricorda la repressione subita durante la dittatura di Francisco Franco.

Misura estrema

Artur Mas, il predecessore di Puigdemont, ha governato la regione per mezzo decennio ed è considerato il padre intellettuale del movimento indipendentista. Nonostante le perquisizioni, i sequestri e gli arresti, è convinto che il referendum si farà. “I preparativi per il referendum continuano”, dice nel suo ufficio. Mas sostiene che le schede possono essere stampate in venti- quattr’ore. “Abbiamo le urne. Abbiamo i seggi elettorali. E presto la gente saprà dove andare il giorno del voto”.

Secondo Mas il governo spagnolo è già riuscito a mettersi contro metà della popolazione catalana, e potrebbe ritrovarsi a fare i conti con un numero ancora più alto di cittadini che lo contestano. “Il movimento democratico non ha mai avuto tanti sostenitori”, afferma. “Anche i catalani che non vogliono l’indipendenza sono contrari a questo stato di polizia”.

L’ultima arma a disposizione di Rajoy sarebbe una misura estrema: potrebbe chiedere al senato di ricorrere all’articolo 155 della costituzione, che metterebbe la Catalogna sotto il controllo dello stato centrale. Ma così Rajoy, capo di un governo di minoranza, rischierebbe di perdere il potere. È già stato accusato di essere una minaccia per la democrazia, e non solo da chi simpatizza con i catalani.

Il capo del governo, per ora, non arretra di un millimetro.

Tradotto dall'Internazionale, originariamente pubblicato sul Der Spiegel, Germania

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