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Lodo Meneghetti
L’abusivismo è nel DNA dell’Italia
21 Settembre 2017
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Dopo oltre undici anni dall’articolo «Abusivismo o no, questa è l’urbanistica italiana», conseguente a un intervento di De Lucia contro chi risuscitava l’«abusivismo di necessità»...

(segue)

Dopo oltre undici anni dall’articolo Abusivismo o no, questa è l’urbanistica italiana [1], conseguente a un intervento di De Lucia contro chi risuscitava l’«abusivismo di necessità», ora ritorno non alla brughiera come Clym ma all’ugualmente desolato campo dell’incolto casalingo. Qualcuno, mentre l’edilizia, appunto abusiva e no, continua a crescere inconcepibilmente in ogni luogo, ci ha investito nuovamente con la falsificazione estrema dell’abusivismo giustificato da un supposto impellente bisogno di povera gente.

Brevi note qua e là

1.- Da un buon dizionario: «Abusione», termine letterario dismesso, sta per «abuso», ma più risonante. Infatti suona come qualcosa di gonfio, abbuffante. Propongo di inserirne la propensione fra le distinzioni delle classi italiane per le parti di esse che, diverse, si uguagliano per vari conformismi e soprattutto per tendenza a fare dell’illecito o dello smoderato una norma di comportamento: nel modo di operare contrario alle leggi e alla disciplina, specialmente nel campo edilizio.

2.- Abusivus è il termine del tardo latino (XV secolo) per indicare un fatto o un detto impiegati senza averne il diritto. «Abusivismo» è voce moderna; sempre secondo i dizionari sarebbe apparsa solo nel 1961. Ma Pier Paolo Pasolini nel suo viaggio del 1959 lungo le coste d’Italia da Ventimiglia a Trieste aveva già notato i segni di un imminente sconvolgimento del territorio a causa di una continua tempesta edilizia scoppiata dal dopoguerra. Pochi anni dopo il film Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) sancirà la già avvenuta rovina di Napoli attraverso una sfrenata anarchica speculazione edilizia. Appena tre anni e dovremo assistere sbalorditi alla frana di Agrigento, nuova prefazione al romanzo nero del territorio italiano in centomila pagine.

3.- Ogni processo economico sociale aveva fatto la propria parte. La linea rispettosa delle leggi ma non della storia e della cultura produceva un’extra large urbanistica, brutale, volta a sostenere una possibilità edificatoria di cinque, dieci volte superiore a quella di una previsione attendibile basata sulla ricerca scientifica storico-sociale. Intanto, ben prima della novità terminologica anzi con un anticipo di oltre tre lustri, la curva irriguardosa di leggi, norme, buone consuetudini fondava l’anti-urbanistica privata ma anche scandalosamente pubblica indirizzata, fuori del quadro legale, alla decuplicazione della rendita fondiaria. L’accompagnava un’edilizia mala e brutta capace di mobilitare il profitto verso altezze sconosciute ai pur banditeschi impresari di casacce per operai delle Manchester o Londre descritte da Marx-Engels.

4.- Subito dal dopoguerra, specie nelle città vittime dei bombardamenti inglesi e americani, l’urgenza della ricostruzione, in ambito di concessioni o autorizzazioni già esse dotate di ricchi premi di cubatura su basi di normative pasticciate, provocò un caratteristico abusivismo a metà mediante l’«interpretazione». C’erano maestri di questa insidiosa maniera, sicché ulteriori esorbitanti maggiorazioni delle superfici e delle volumetrie erano accettate dall’ente pubblico (insieme alle spaventose brutture).

5.- A Milano la ricostruzione, tempo e luogo della speranza degli architetti razionalisti per realizzare un’architettura sociale nuova, in questo senso fallì. La fine dell’anno 1948 celebra tre anni di attività edilizia dominata da imprenditori e impresari del tutto disinteressati agli scopi sociali ed estetici dell’architettura, non meno cinici dei costruttori detti al punto 3. Sarà Piero Bottoni nella rivista Comunità di maggio-giugno dell’anno successivo a lamentare che «la ricostruzione basata essenzialmente su scopi speculativi ha ripetuto ingigantendoli tutti gli errori delle architetture precedenti». Intanto il decano Enrico Griffini già nel fascicolo di dicembre 1948 di «Edilizia moderna (nn. 40-41-42) aveva attaccato duramente gli abusi nei sopralzi anche totali di edifici risparmiati dalla guerra «...conseguenza di decadenza morale e civile…». E concludeva: «tutto il problema edilizio è oggi deformato dalla speculazione con abusi di ogni genere a dispetto delle Sovrintendenze, delle leggi, dei decreti… Domina la norma del ‘fatto compiuto’» [2].

6.- Il grande quadro urbanistico edilizio di Milano, all’epoca, è uno specchio di abusivismo generalizzato giacché spesso nemmeno la preesistenza di edifici monumentali teoricamente intoccabili fermava il caterpillar demolitore. Fra una miriadi di casi ricordiamo lo scandalo della distruzione di San Giovanni in Conca, chiesa medievale, per far spazio a colossi di uffici incardinati sul nuovo stradone, ultimo tratto della infida “Racchetta” (la maltrattata e deformata facciata della chiesa fu rimontata altrove!). Antonio Cederna, sconfitto da poteri avvinti troppo forti, non perdonerà mai a Milano tale peccato mortale. Lui che, lo vedemmo increduli, riuscì a salvare la Chiesa borromeica di San Raffaele, vicina al Duomo, dal fiero pasto come dell’Ugolino cucinato da Municipio e Curia in onore della Rinascente, che voleva mangiarsela. Una prospettiva di «Abusione» elevata al cubo.

7.- La logica del fatto compiuto specie nei sopralzi postbellici fuorilegge denunciati da Griffini provvide a generare la spirale di uno specifico dna milanese che continuò a svolgersi senza interruzione fino a fissarlo come in acciaio, imprimendo una violenta malformazione del volto urbano più rovinosa che in ogni altra città stante la buona qualità dell’architettura urbana. Come e più che a Roma venne a erigersi al di sopra della gronda, senza opposizioni istituzionali e senza avvertimento dei cittadini a cui pur capitava di muoversi col naso all’aria, un’altra città residenziale a pezzi e bocconi. Sregolata ma completa delle dotazioni necessarie per vivere bene (anche giardini, serre, boschetti), noncurante quando la esibizione di sé eccedesse il troppo. Il milanese, quel tipo di milanese (e il commuter milanesizzato) si sapeva che tutt’al più avrebbe mugugnato, gran filosofo dei fatti suoi.

8.- Così non poteva che accadere, al tempo di una retrograda «modernizzazione», dopo il periodo classico delle sanatorie di tutti gli abusi edilizi (e delle evasioni fiscali) comprendenti la città soprana postbellica e successiva, la festa della costruzione di fertili cubature oltre gronda secondo specifica legislazione regionale, consenziente il Comune. Siamo nell’ultimo decennio del secolo breve (o lungo?) e scatta la normativa per gli «interventi finalizzati al recupero dei sottotetti». Che man mano diventerà sempre più larga, più generosa verso progettisti e costruttori, lontanissima dallo spunto originario fino a confondersi con un progetto globale di sopralzare la città senza guardare in faccia a nessuna architettura, fosse anche quella magnifica di palazzi storici in strade perfette per disegno urbanistico. La giustificazione più barbina: quella di evitare ingombro edilizio sul terreno libero (solito slogan menzognero «no al consumo di suolo»), intanto che un’impressionante espansione calcolabile in milioni di metri cubi spesso in forma di grattacielo, cominciata per grazia del sindaco Gabriele Albertini (a capo di un centro destra dal 1997 al 2006), era proceduta e procede di pari passo pesante con la deturpazione della città storica.

9.- In eddyburg abbiamo attaccato questa maniera, un secondo «rito ambrosiano» non meno difficile da contrastare, a cominciare dall’inizio del millennio. Primo articolo nel 2003, seguito da un secondo l’anno seguente [3]; poi diversi interventi ogni volta che la permissione relativa ai sottotetti diventava tutt’altro, per esempio applicazione alle case con la copertura piana e, per chiudere una fase piena di riconosciute ambiguità e contorcimenti giuridici, spiattellamento della verità: vocazione dell’autorità ad accettare progetti di «innalzamento urbano» (se così si può dire) per un certo numero di piani in qualsiasi edificio e qualsiasi altezza abbia. La linea del cielo milanese cambia tuttora ogni giorno.

10.- L’abusione provocatoria. Ne consideriamo emblema la vicenda, raccontata oltre dieci anni fa, di un edificio milanese in una strada del super-centro, via San Paolo. Sei piani esistenti, cresciuti rapidamente a otto senza che il Comune intervenisse. Il quotidiano la Repubblica svelò lo scandalo che valse cinque milioni di guadagno netto. Quei due non furono demoliti. Una multa? Chissà [4].

11.- Unico abusivismo di necessità autentico eppure non propriamente un abuso, quello del dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta nei comuni dell’hinterland milanese. Chi non ricorda le Coree? I sindaci regolarizzavano gli edifici in base a progetti minimi «di sanatoria» presentati da geometri locali; ma alcuni sorsero con progetti, pur poverissimi, corredati di licenza edilizia regolare e tempestiva. È il momento di rileggere o leggere per la prima volta Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Magari aggiungendo la ricerca «Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960» [5].

[1] In eddyburg, 10 maggio 2006. Poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it. Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006, pp.157-163.
[2] Vedi, per gl’interventi di Bottoni e di Griffini, L. Meneghetti, Note (e meno note) cronologiche sulla ricostruzione a Milano, dedicate agli studenti nel cinquantenario della sua conclusione (1948), in Quaderni di Architettura, 22, settembre 2000, p. 77 e p. 81-82.
[3] L. Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese, in eddyburg 10 dicembre 2003, poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005; Idem, 2, in eddyburg 17 giugno e idem, p.119.
[4] Dettagli in L. Meneghetti, Nuovi abusi vecchio abusivismo, in eddyburg, 2 novembre 2008, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggiolo, Santarcangelo di Romagna 2010, p. 35.
[5] F. Alasia / D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960. Seconda edizione accresciuta, 1975. – L. Meneghetti, Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960, clup, Milano 1984. Collaboratori alle indagini in luogo, L. Aloi e M. Migliavacca.

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