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Nadia Urbinati
La sfida delle società multietniche conciliare inclusione e sicurezza
6 Settembre 2017
Democrazia
«Come possono le istituzioni democratiche far sentire la loro vicinanza a chi è oggetto di discrimazione? E come può la maggioranza culturale riuscire a comprendere che questo è nel suo stesso interesse?» la Repubblica, 6 settembre 2017 (c.m.c)

« la Repubblica, 6 settembre 2017 (c.m.c)

Tra le sfide più ardue che gravano sui governi democratici di società multietniche vi è quella di riuscire a tenere insieme la richiesta di libertà con la richiesta di sicurezza, perché la prima tende a essere aperta e inclusiva (con ambizioni ideali universalistiche) mentre la seconda è escludente (arrivando anche a propagandare deliri nazionalisti). Il bisogno di mantenere alta la fiducia della maggioranza, spinge spesso i governi a mostrare più volentieri i muscoli. Ma nei casi delle società multietniche, la regola più coraggiosa e lungimirante (e in questo senso, la più prudente) è quella che sa ispirare politiche che limitino l’insicurezza senza deragliare dal binario delle libertà civili e dell’inclusione.

Una strada in questa direzione è quella che mostra la vicinanza delle istituzioni a chi è culturalmente vulnerabile; dare sicurezza comporta mostrare anche la faccia della prossimità, non soltanto quella della coercizione. Questa strategia si adatta a tutti i Paesi democratici multietnici, all’Italia in particolare, la cui politica della sicurezza deve saper guardare oltre le decisioni emergenziali sulle frontiere. Come interagire con i “diversi” che abitano nel Paese? Come possono le istituzioni democratiche far sentire la loro vicinanza a chi è oggetto di discrimazione? E come può la maggioranza culturale riuscire a comprendere che questo è nel suo stesso interesse?

Un tentativo di dare risposta a questa domanda è suggerito dalla pubblicità a tappeto che compare nei vagoni della metropolitana di New York e con la quale il governatore Andrew Cuomo annuncia un numero verde collegato al Dipartimento dei diritti umani per denunciare casi di discriminazione, subita o di cui si è stati testimoni. Il programma fa parte di un progetto inaugurato lo scorso anno con l’intento di dare a coloro che subiscono discriminazione una qualche certezza di ascolto, il senso di non essere soli contro un nemico coriaceo e contagioso come il pregiudizio. Il programma si affianca a un altro in funzione da anni sulla denuncia di casi di violenza, di stupro e di persecuzione o stalking. Questo nuovo servizio si concentra sulla discriminazione verbale o gestuale; ed è nato in coincidenza con la campagna elettorale di Donald Trump che ha marcato un’eccezionale impennata nell’uso esplicito di linguaggio discriminatorio, una pratica che sta avvelenando la sfera pubblica in questa società multirazziale, e però anche razzista in diverse parti del Paese e fasce della popolazione.

Tre sono le figure che nel messaggio pubblicitario indicano le identità potenzialmente oggetto di discriminazione: un uomo asiatico, una donna velata e una donna con il casco da operaio. In altre parole, le identità nazionali, quelle religiose, quelle di genere, e quelle associate alla classe lavoratrice. L’inserto pubblicitario suggerisce due interessanti piste interpretative. La prima riguarda le minoranze vulnerabili: che non sono solo quelle identitarie, come la religiosa e l’etnica, ma ora anche quella socio- economica. La classe e il genere insieme sono indicative del fatto che il lavoro dipendente e operaio è esposto alla discriminazione sia da parte di altri gruppi sociali sia da parte dei lavoratori stessi tra di loro. La seconda pista di lettura è che lo stato o la pubblica amministrazione vogliono essere percepiti vicini a coloro che hanno meno protezione sociale, economica e culturale; vogliono essere visti come un punto di riferimento che non rimane indifferente di fronte ad azioni che non sono direttamente violente e punibili.

Comportamenti che feriscono o umiliano, con gesti e parole, non sono necessariamente oggetto del codice penale. Tuttavia possono e devono trovare ascolto da parte delle autorità. Il razzismo verbale è l’uso del linguaggio con lo scopo esplicito di offendere, sminuire, avvilire in pubblico, davanti agli altri, per raccogliere consenso e ampliare l’audience a favore della discriminazione. Il razzismo può essere meglio combattuto prevenendo la sua radicalizzazione tramite il discorso — di qui l’importanza di abituare i cittadini a pensare che le istituzioni debbano presiedere a una comunità aperta, occuparsi delle forme della comunicazione dei e tra i cittadini. Lo spazio pubblico è un bene di tutti.

L’annuncio pubblicitario del governatore Cuomo può essere letto e recepito come il segno che l’autorità è consapevole di dover svolgere una funzione non soltanto repressiva, ma anche di attenzione e di vicinanza. La logica di questa politica dell’attenzione è di intervenire disincentivando, di indurre indirettamente comportamenti decenti. È prevedibile che molti nel vecchio continente, e nel nostro Paese, storcano il naso per quel che con disprezzo viene classificato “politically correct”. Tuttavia le società multietniche devono riuscire (è nel loro interesse che riescano) a strategizzare regole di comportamento e di uso del linguaggio capaci di delineare uno spazio pubblico nel quale persone diverse siano e si sentano libere di interagire in tranquillità. L’escalation della violenza verbale (oltre che fisica) nel nostro Paese dimostra quanto urgente sia questo lavoro di manutenzione dello spazio pubblico.

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