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Marco Bascetta
Sempre nuovi pretesti per condannare i giusti
10 Agosto 2017
2017-Accoglienza Italia
Prosegue instancabile l'abbandono da parte del governo renziano dai principi dello stato liberale e dallo spirito e la lettera della Costituzione, cui i membri del governo avevano giurato solennemente

Prosegue instancabile l'abbandono da parte del governo renziano dai principi dello stato liberale e dallo spirito e la lettera della Costituzione, cui i membri del governo avevano giurato solennemente fedeltà. La grande stampa tace. articoli di M. Bascetta e P. Pipino.

il manifesto, 10 agosto 2017
LO SCHEMA È QUELLO
DELLA LOTTA AL NARCOTRAFFICO
di Marco Bascetta

«Migranti. È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza»

Sotto la superficie della cronaca, con le parole sopraffatte dall’uso ripetitivo che se ne fa, scorre una narrativa mai esplicitata, ma tacitamente e immediatamente percepita. Questa narrazione applica all’immigrazione lo schema del narcotraffico.

C’è un cartello (o più cartelli) che manovrano gli scafisti (corrieri), ci sono governi e polizie corrotte che li coprono, ci sono centrali di smistamento in Europa. E, naturalmente, c’è la mercanzia: quell’umanità in fuga dalle più diverse catastrofi che rischia i propri averi e la propria vita nella traversata del mare. E che qualche approfittatore nostrano considera, ma non è vero, più redditizia degli stupefacenti. I trafficanti, piuttosto spietati, esistono e anche il confuso contesto politico-militare che ne consente, complice, l’azione. Ma lo schema si completa implicitamente con un elemento decisamente ripugnante: i migranti avrebbero sulle società europee lo stesso effetto della droga in termini di inquinamento della presunta purezza, di trasgressione delle regole di convivenza, di indebolimento dei legami sociali e di assorbimento indebito delle scarse risorse assistenziali degli stati. In una versione solo apparentemente meno efferata il migrante rivestirebbe invece la parte del tossico, colpevole di cercare scorciatoie per il paradiso, e pronto a farsi spacciare dagli scafisti il sogno di un’Europa immaginaria. Meritevole, dunque, di essere disintossicato a forza in qualche lager libico. Questo schema, che certamente entusiasmerà la destra xenofoba, sottende la riduzione del problema dell’immigrazione (che almeno in partenza è sempre e solo clandestina) alla lotta contro i trafficanti di fuggiaschi.

È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza (degli uni a scapito degli altri). Tutti sanno, beninteso, che non sono gli scafisti la causa delle migrazioni e neanche dell’impossibilità di tenerle sotto controllo, che è la domanda a creare l’offerta e la chiusura a produrre soluzioni fuori dalla legalità. E, tuttavia, i media sono concentrati su questa messa in scena della guerra agli scafisti e alle Ong sospettate di intelligenza con il nemico.

Proviamo a simulare un semplice scenario mettendoci nei panni di un trafficante. Caricando di disperati un natante del tutto inadeguato a raggiungere l’altra sponda, e sempre più frequentemente manovrato da un nocchiero scelto tra i passeggeri stessi, segnalerà via radio le coordinate del naufragio programmato.

Per le unità di soccorso non vi è altra scelta allora che lasciare al loro destino i naufraghi, poiché la segnalazione proviene dai trafficanti e il soccorso internazionale rischia di rientrare nel pacchetto che costoro vendono agli imbarcati, o soccorrere comunque le persone in pericolo di vita. Questa seconda scelta rende la Ong che la adotta rea di alto tradimento, meritevole di messa al bando e l’imbarcazione di essere catturata. Per il trafficante, comunque vada a finire, l’affare è concluso e la domanda non sarà scoraggiata perché non si tratta di un mercato di generi voluttuari e i fattori che lo alimentano lavorano a pieno ritmo.

All’opinione pubblica europea si potrà rivendere un “successo” nella lotta contro i trafficanti di esseri umani. Con il messaggio sottaciuto, perché impronunciabile, che un buon numero di affogati funzionerà da deterrente.

A completare l’intera rappresentazione di fronte alle coste libiche incrociano Ong che hanno firmato il codice di comportamento stilato dal ministro degli interni Minniti e altre che non lo hanno firmato, una nave nazifascista (speriamo resti l’unica) che da loro la caccia, la o le guardie costiere libiche delle quali ben poco si sa, la guardia costiera italiana e la marina militare, nonché quella del generale Haftar che minaccia di bombardarla, scafisti e relitti carichi di disperati. A suo tempo le acque della Tortuga dovevano essere molto più tranquille.

Alle spalle di questa specie di battaglia navale, un’Europa i cui membri cercano di truffarsi a vicenda e l’Unione che, quando si pronuncia richiamandosi ai “valori irrinunciabili”, afferma il contrario di ciò che concretamente lascia fare. Laddove la guerra navale diventa continentale, combattuta sui fronti del Brennero e di Ventimiglia, della Baviera e dei paesi dell’Est. Ma intanto, nella sua sostanziale insussistenza, la crociata contro i contrabbandieri di esseri umani riesce a mettere tutti d’accordo e a coprire i più diversi interessi che si nascondono nel suo cono d’ombra. È la comoda finzione che pretende di conferire perfino una coloritura etica (combattiamo gli schiavisti) al puro e semplice respingimento di una umanità che abbiamo costretto alla fuga o che cerca ragionevolmente di esercitare la sua libertà.

IMMIGRAZIONE,
REATO DI CRITICA.
TORNA GALLA IL VILIPENDIO
di Livio Pipino

«Ritorno all'antico. Un avvocato dice in piazza che i decreti Minniti-Orlando sono “allucinanti” e scatta la denuncia: “Vilipendio delle istituzioni e delle forze armate”. A un’interrogazione del senatore Manconi risponde il viceministro dell’interno confermando la tesi della denuncia, con l’accusa di «aver ingiuriato la polizia»

Ci fu un tempo, nel nostro Paese, in cui le contestazioni di vilipendio erano all’ordine del giorno quando erano ritenuti reati il canto dell’Inno dei lavoratori o il grido «Abbasso la borghesia, viva il socialismo!». Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che la libertà non fosse quella di esprimere le proprie idee ma «quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte».

Poi è venuta la Costituzione con l’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». A tutela dell’anticonformismo e delle sue manifestazioni, poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, «la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere» e, ancora, «la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più». Nella prospettiva costituzionale le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non costringendo al silenzio chi non è allineato al potere contingente o al pensiero dominante.

Come noto, peraltro, la Costituzione ha tardato a entrare nei commissariati di polizia e nelle stazioni dei carabinieri (nonché, in verità, nelle aule di giustizia). Un saggio di questo ritardo si trova in un’arringa di Lelio Basso del 10 marzo 1952 davanti alla Corte d’assise di Lucca in cui segnalò il caso di un capitano dei carabinieri che, alla domanda postagli nel corso di un dibattimento, «se per avventura avesse mai sentito parlare della Costituzione repubblicana», aveva «candidamente risposto che per l’adempimento delle sue funzioni conosceva la legge di pubblica sicurezza, il codice penale e quello di procedura penale, ma che nessuno dei suoi superiori gli aveva mai detto che egli dovesse conoscere anche la Costituzione». Poi il clima cambiò e negli ultimi decenni del secolo scorso il delitto di vilipendio sembrava diventato una fattispecie desueta.

Ma in epoca di pensiero unico si torna all’antico e la criminalizzazione della “parola contraria” è di nuovo in auge. Sta accadendo per molti temi caldi (è successo con la vicenda di Erri De Luca relativa all’opposizione al Tav in Val Susa) tra cui non poteva mancare la questione dei migranti. Mentre c’è chi invita impunemente ad affondare i barconi della speranza con il loro carico di uomini, donne e bambini (e magari anche le navi delle Organizzazioni non governative che praticano il soccorso in mare) e chi, altrettanto impunemente, sostiene la necessità – convalidata da atti di governo – di ricacciare i profughi da dove vengono (cioè di consegnarli ai loro torturatori e potenziali assassini) ad essere criminalizzate sono – nientemeno le critiche contro i tristemente famosi decreti Minniti-Orlando in tema di trattamento dei rifugiati e di sicurezza urbana.

È accaduto a Roma, in piazza del Pantheon il 20 giugno scorso. All’esito di un flash mob organizzato da Amnesty International per la giornata del rifugiato un giovane avvocato, in un breve intervento, ha vivacemente criticato quei decreti, denunciando l’abbattimento dei diritti dei migranti da essi realizzato, definendoli “allucinanti” e stigmatizzando le applicazioni subito intervenute (tra l’altro dall’amministrazione comunale romana). Sembra incredibile ma alcuni zelanti agenti di polizia, incuranti del coro «vergogna, vergogna» di un’intera piazza, hanno preteso dal giovane avvocato l’esibizione dei documenti ai fini della identificazione e di una ventilata denuncia per «vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate», poi puntualmente intervenuta (con l’immancabile appendice della violenza e minaccia a pubblico ufficiale).

Come sempre più spesso accade, la sequenza dei fatti è stata documentata in video pubblicati sul web (in particolare Youmedia.fanpage.it) dai quali non emergono né parole o espressioni men che corrette né reazioni violente o minacciose alle richieste degli agenti. Espressioni o comportamenti siffatti non sono indicati neppure nella risposta, intervenuta nei giorni scorsi a un’interrogazione del sen. Manconi, nella quale l’ineffabile viceministro dell’interno si limita a dare atto, in modo del tutto generico, che l’avvocato ha «incitato la folla pronunciando parole offensive e ingiuriose nei confronti delle istituzioni e, in particolare, della polizia di Stato».

C’è da non crederci, eppure è avvenuto. Non conosciamo, ovviamente il seguito, ma qualunque esso sia non è, come si potrebbe pensare, un episodio minore. Certo si sono, sul versante repressivo, fatti ben più gravi. Ma quando si criminalizzano anche le parole si fa una ulteriore tappa nella realizzazione del diritto penale del nemico. E non è dato sapere quando ci si fermerà.

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