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Giorgio Nebbia
Merce lavoro per merce carbone
10 Agosto 2017
Giorgio Nebbia
Nei giorni scorsi è stata ricordata la tragedia avvenuta nella miniera belga di carbone di Marcinelle l’8 agosto 1956, quando i migranti eravamo noi. E’ bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie di lavoro e di incidenti... (segue)
Nei giorni scorsi è stata ricordata la tragedia avvenuta nella miniera belga di carbone di Marcinelle l’8 agosto 1956, quando i migranti eravamo noi. E’ bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie di lavoro e di incidenti nell’ambiente di lavoro in questo tempo in cui sembrano cancellate dal vocabolario l’“odiata” espressione “classe operaia”, che sapeva tanto di comunismo, e la stessa parola “operaio” viene usata il meno possibile, come se gli operai fossero scomparsi in questo mondo così moderno.
La storia della catastrofe di Marcinelle - fu proposta in una vecchia miniserie RAI del 2003, Marcinelle, qualche volta trasmessa da quale televisione privata - è un concentrato di eventi; l’incidente avvenne in una miniera dell’Europa appena uscita dalla seconda guerra mondiale, nella quale il grande flusso del petrolio e del gas naturale era appena all’inizio e il carbone era la principale fonte di energia, così come lo era per tutto il mondo. A dire la verità, con tutti i progressi che ci sono stati, il carbone è ancora oggi il principale combustibile fossile; nel mondo milioni di minatori estraggono, ogni anno, circa settemila milioni di tonnellate di carbone e lignite dalle viscere della terra, risorse nascoste a centinaia e migliaia di metri di profondità. Ogni giorno milioni di persone scendono dalla superficie del suolo nelle strette gallerie sotterranee in cui il nero carbone viene staccato, pezzo per pezzo, dalle pareti della miniera, viene caricato su nastri trasportatori e carrelli e viene poi portato in superficie con gli ascensori.
Il carbone è un materiale fossile nero, relativamente fragile, che genera, durante la frantumazione, polveri che vengono respirate dagli operai, anche se sono muniti di maschere e filtri (agli operai italiani nel Belgio furono dati soltanto dopo l’incendio di Marcinelle) e che causano malattie polmonari dopo pochi anni di lavoro. Il più grande nemico dei minatori è il metano, il “grisou”, un gas infiammabile che è rimasto intrappolato, nel corso di migliaia di secoli, “dentro” i giacimenti sotterranei di carbone e che continua a liberarsi nell’aria delle gallerie a mano a mano che nuove superfici vengono a formarsi con la continua asportazione del carbone.
Per l’illuminazione delle gallerie oggi sono disponibili lampade elettriche, ma nel passato per molti decenni, le uniche lampade disponibili erano lampade a fiamma libera che provocavano esplosioni quando la concentrazione di metano era superiore ad una soglia di sicurezza; soltanto nel 1816, ad opera del grande chimico Humphrey Davy (1778-1829) sono state inventate le lampade di sicurezza da miniera, poi continuamente perfezionate.
Per essere respirabile l’aria delle gallerie, a centinaia di metri di profondità, deve essere continuamente ricambiata; fra cattiva ventilazione, polveri, scarsa illuminazione e fatica fisica, il lavoro dei minatori del carbone è fra quelli più usuranti e pericolosi che ci siano. Rispetto alle condizioni di lavoro delle miniere dell’Ottocento e a quelle descritte nel telefilm, peraltro girato in una vera miniera in Polonia, oggi le condizioni di sicurezza sono un poco migliorate, anche se gli incidenti continuano a verificarsi e comportano un sacrificio di migliaia di vite umane ogni anno, in Cina, Stati Uniti, India, Australia, Russia, Sud Africa, eccetera. Non bisognerebbe dimenticarlo perché l’elettricità che consente di accendere le lampadine, i televisori, le lavatrici, i frigoriferi, prodotta nelle centrali termoelettriche a carbone italiane, è “pagata” dalla fatica di qualche operaio in qualche miniera in qualche parte del mondo; c’è un “contenuto di dolore” in ogni bolletta dell’elettricità.
Erano ancora infami le condizioni di lavoro nelle miniere del Belgio negli anni quaranta e cinquanta del Novecento; in Belgio in quegli anni non c’erano abbastanza minatori e il governo belga strinse con quello italiano, nel marzo e giugno 1946, un accordo con cui l’Italia incoraggiava l’emigrazione nel Belgio di operai per le miniere e in cambio il Belgio assicurava la vendita a prezzi di favore all’Italia, affamata di energia. Merce lavoro in cambio di merce carbone necessaria per la ripresa delle nostre industrie e fabbriche. Negli anni successivi migrarono nel Belgio oltre 50 mila operai (dovevano essere giovani, in buona salute e dovevano restare per almeno un anno nel freddo lontano paese); venivano dalla Sicilia, dove erano state chiuse le miniere di zolfo, dalla Calabria, dalla Puglia, dalle Marche; un anno di lavoro di un operaio italiano nelle miniere del Belgio “valeva” per l’Italia circa una tonnellata di carbone a basso prezzo. Gli operai italiani nel Belgio vivevano in condizioni miserabili, in povere baracche; in questo viaggio della speranza alcuni avevano portato le famiglie, altri avevano portato la struggente nostalgia delle famiglie lontane a cui mandare il povero salario. La condizione degli immigrati era ancora più triste per l’ostilità che la popolazione locale manifestava per questi “stranieri” di lingua e abitudini diverse, che non portavano vantaggi economici; alcuni locali pubblici vietavano l’accesso “ai cani e agli italiani”.
Nella miniera di uno di questi paesini, Marcinelle, vicino Charleroi, avvenne l’incendio e il crollo delle gallerie che è costato la vita a 262 minatori, di cui 136 italiani e che destò, in quel lontano 1956, una enorme impressione in Italia e nel mondo. L’incidente fu provocato dalla arretratezza delle strutture, dalla mancanza di manutenzione, dall’egoismo dei proprietari che avevano già deciso di chiudere la miniera e volevano sfruttare fino all’ultimo le riserve di carbone e il lavoro dei minatori.
Dovremmo interrogarci più spesso sull’ambiente non solo nelle nostre città o nei nostri fiumi, ma anche nelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere e nelle cave, negli stessi campi in cui i lavoratori sono esposti a sostanze tossiche e a pericoli; e spesso questi lavoratori sono immigrati, circondati da ostilità, come lo erano gli italiani nel Belgio. Non dimentichiamolo perché c’è qualche famiglia, in qualche lontana parte del mondo, che mangia del pane che ha “dentro di se” il dolore dei parenti lontani, in Italia, come, appena pochi anni fa, molte famiglie siciliane e calabresi mangiavano del pane che aveva “dentro di se” il dolore dei minatori italiani lontano, nel Belgio.
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