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Filippomaria Pontani
Mafia e politica, le amnesie collettive svelate dalle fiction
24 Luglio 2017
Articoli del 2017
«Le celebrazioni Rai dei 20 anni e quella per i 25 anni della strage di via D’Amelio raccontano storie diverse. Nell’ultima versione si sfuma il ruolo della trattativa tra Stato e Cosa Nostra, depistaggi ed errori non hanno responsabili chiari».
«Le celebrazioni Rai dei 20 anni e quella per i 25 anni della strage di via D’Amelio raccontano storie diverse. Nell’ultima versione si sfuma il ruolo della trattativa tra Stato e Cosa Nostra, depistaggi ed errori non hanno responsabili chiari».

il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2017 (p.d.)

Più ci si allontana nel tempo da un evento, più cresce la responsabilità di chi lo racconta a generazioni che non ne hanno diretta memoria. Per i 25 anni dalla strage di via d'Amelio la Rai ha creato e proposto in prima serata sulla rete ammiraglia una docufiction dal titolo Adesso tocca a me (regia di Francesco Miccichè), che combina filmati d’archivio, interviste ai protagonisti superstiti, e ricostruzioni cinematografiche di 57 giorni intercorsi fra la strage di Capaci e quella del 19 luglio 1992. Si tratta di un'iniziativa in sé degna di ogni lode; appare tuttavia istruttivo il confronto tra questa nuova produzione e l'analoga fiction Rai di cinque anni fa (I 57 giorni, regia di Alberto Negrin), che vedeva come protagonista Luca Zingaretti.
Non importa rilevare qui che la mancanza di un filo narrativo unitario rende la docufiction di oggi più desultoria e farraginosa, tanto più in quanto la commovente testimonianza dell’agente superstite Antonio Vullo, che parla in prima persona, si sovrappone a“tagli” e punti di vista diversi, nonché ai commenti fuori campo e alle interviste a posteriori dei fratelli e dei colleghi del giudice, tra cui l’attuale presidente del Senato Piero Grasso. Quel che importa è che le differenze tra le due produzioni tv sono una spia della poco confortante virata culturale intervenuta dal 2012 a oggi. In Adesso tocca a me la parola “trattativa” compare una volta sola, in bocca al procuratore Sergio Lari, senza che sia nemmeno ben chiaro a cosa si riferisca; ne I 57 giorni, invece, si tratta di una realtà evocata a più riprese, che è al centro delle preoccupazioni di Borsellino nelle ultime settimane di vita, in quanto sembra proprio l'opposizione del giudice ai contatti (non episodici) tra la mafia e pezzi dello Stato a risultargli fatale. Non a caso, nel 2012 a fianco di Borsellino si vede per lo più il giovane sostituto procuratore Antonio Ingroia (futuro artefice proprio del processo sulla trattativa insieme a Nino di Matteo e ad altri), mentre nel 2017 in quel ruolo incontriamo l’eroico poliziotto Rino Germanà (egli stesso oggetto di un attentato nel ‘92), che discute col giudice della strategia degli appalti di Cosa Nostra.
Nel 2012 i contrasti di Borsellino con il procuratore di Palermo Giammanco vengono drammatizzati in una serie di scontri violenti che rendono plasticamente gli ostacoli incontrati dal magistrato nel suo ambiente di lavoro; nel 2017 questi alterchi sono ridotti a un unico episodio, e si insiste sul peraltro indubbio favore popolare di cui il giudice godeva dopo la morte di Giovanni Falcone; la complessa partita della neonata Direzione Nazionale Antimafia, alla cui direzione, dopo Capaci, molti volevano fosse nominato proprio Borsellino, è liquidata in una sola battuta. Nel 2017 l’interrogatorio-clou condotto da Borsellino a Roma è quello del pentito Leonardo Messina, e verte sulla dinamica degli appalti mafiosi, mentre ai colloqui col pentito Gaspare Mutolo è riservato un breve per quanto intenso cameo. Nel 2012, invece, è proprio l’interrogatorio di Mutolo del 1 luglio 1992 a svelare a Borsellino dei retroscena insospettati sui legami tra mafia, politica e servizi segreti, e tramite un semplice espediente (la “mano offesa”) si fa capire che Mutolo indica a Borsellino come agente infedele dei servizi il medesimo personaggio che in quello stesso giorno egli incontra poi al ministero degli Interni è la scena madre in cui Borsellino intuisce che un pezzo dello Stato lo controlla e lavora contro di lui. Interessante caso di simmetria: nel 2012 si identificava l'agente, ma non se ne diceva il nome; nel 2017 si menziona bensì il nome dell’agente, ma non si precisa che è lo stesso che il pentito accusa così pesantemente: per le future generazioni bisognerà mettere insieme i pezzi e spiegare che si tratta di Bruno Contrada, poi condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (la recente revoca della condanna in Cassazione non interviene sul merito degli addebiti ma sulla codificazione giuridica del reato all'epoca dei fatti).
Infine, nel 2012 tutto si chiudeva con il furto misterioso dell’agenda rossa e i drammatici funerali; nel 2017 si ha il coraggio di parlare dell’infame depistaggio che per anni ha addossato la strage all'improbabile pentito Vincenzo Scarantino, finalmente assolto con tutti i co-imputati. Ma non viene chiarito il ruolo di chi a Scarantino per primo credette (o lo creò?), come il collerico questore Arnaldo La Barbera, o il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra: quest'ultimo anzi nella fiction di oggi non compare affatto, mentre in quella del 2012 in pieno Palazzo di Giustizia veniva mandato a quel paese da Borsellino, il quale pochi giorni prima di morire reclamava invano di essere ascoltato come testimone nell’indagine su Capaci, condotta proprio da Tinebra. Né poi in Adesso tocca a me il loquace presidente del Senato Grasso, che dispensa perle di saggezza, giunge a spiegare come mai nulla accadde dopo il suo interrogatorio segreto al pentito Gaspare Spatuzza del lontano giugno 1998, nel quale - come ha mostrato Enrico Deaglio sulla base di un controverso verbale - Scarantino veniva già totalmente scagionato.
Una trattativa inesistente, un Contrada al più ambiguo, un depistaggio messo in atto da ignoti. Viene da chiedersi se la fiction del trentennale, nel 2022, partirà da queste premesse, o da altre.
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