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Antonio Fiorentino
La cultura in mano alla finanza speculativa: Toscana in prima fila
14 Aprile 2017
Beni culturali
Mercificare i beni culturali equivale a sequestrarli e ostacolarne l'accesso alla collettività. A Firenze si è passato ogni limite e il patrimonio comune è stato trasformato nel motore degli affari immobiliari. laCittàInvisibile online, 13 aprile 2017 (c.m.c.)

Lo sfruttamento economico del nostro patrimonio culturale si arricchisce di nuove figure e di nuovi strumenti che, guarda caso, nei giorni scorsi, con il benestare di Regione Toscana e Comune, si sono dati convegno proprio a Firenze per celebrare la cosiddetta “Rigenerazione urbana a base culturale”.

Non ci vuol molto per capire che si tratta dell’ennesima trovata per giustificare e rilanciare il saccheggio del patrimonio storico, artistico e architettonico, di proprietà pubblica, da parte di società che fanno del suo sfruttamento il principio motore di una nuova fase di rilancio della redditività immobiliare ed economica.

Definiscono Cultural Real Estate questa attività. La cultura viene trasformata in elemento trainante della speculazione immobiliare. Il recupero degli immobili dismessi dovrebbe consentire di realizzare «valorizzazioni immobiliari-culturali capaci di generare valore, reddito e occupazione», ciò nella speranza di accontentare tutti, anche se in maniera profondamente sperequata e distruttiva di valori ambientali e sociali consolidati nel tempo.

Sono messi a valore non solo gli asset tangibili quali edifici, opere, musei, ma anche quelli che sono definiti asset intangibili, «espressioni identitarie ed eredità del passato da trasmettere alle generazioni future, quali le arti dello spettacolo, l’artigianato, il paesaggio».

In altri termini, concorrono alla formazione del valore non solo le qualità intrinseche del manufatto edilizio ed architettonico, ma anche le reti di relazioni, il savoir faire collettivo, la stessa costruzione sociale dell’intorno territoriale del manufatto acquisito, che fa di quel patrimonio un unicum irripetibile e per di più sottratto alla comunità locale.

La cosa che più irrita non è solo l’espropriazione del bene pubblico ma anche la sussunzione delle stesse forme di vita, della presenza fisica degli abitanti, del loro agire quotidiano, alla determinazione del profit speculativo. È una nuova forma di vassallaggio territoriale e culturale nei confronti dei ricchi di turno.

Ormai è un dato di fatto che investire in cultura conviene: è stato calcolato che la designazione a patrimonio culturale di un edificio ne incrementa il prezzo del 15% circa, mentre il valore delle abitazioni presenti in aree di interesse storico-culturale gode di un premio del 25%.

Alle incertezze del ciclo edilizio tradizionale, le società di Cultural Real Estate Development puntano proprio sull’acquisizione di immobili fortemente caratterizzati in senso storico e culturale per assicurarsi una stabilizzazione del rendimento economico. Sono investimenti unici, destinati a una categoria di clienti particolarmente ricchi che non conoscono i morsi della crisi e delle bolle immobiliari. E l’Italia ha un ricco bottino di cui i Developers vorrebbero appropriarsi: è il paese con il più alto numero di siti Unesco, ben 51, più della Cina (50) e più della Spagna (45). Cosa desiderare di più!

Sono pronti a scendere in campo investitori internazionali del calibro di Fondi sovrani, Banche di sviluppo, Compagnie di assicurazioni e Fondi pensione per finanziare campagne di acquisizione senza precedenti.

«Ci muoviamo nel solco di un approccio economico e finanziario al bene culturale, lo trattiamo come se fosse un asset economico e finanziario considerando il cash flow e la redditività presente e futura in relazione alla commercializzazione di beni e servizi che gli ruotano attorno»: questo è il freddo e utilitaristico linguaggio con cui gli operatori del settore si occupano di quel patrimonio culturale, intendendo con culturale monumenti, edifici, palazzi, tessuti urbani, che si è sedimentato nel corso dei secoli e che ora ci viene sottratto. Inaridito nelle sue funzioni e nella sua ricchezza di relazioni, viene banalmente consumato e ne viene precluso il suo valore di trasmissione della memoria collettiva per le generazioni future.

Sono gli stessi Cultural developer a riconoscere che si muovono su di un terreno accidentato «perché il patrimonio culturale costituisce un bene pubblico puro inalienabile (dello Stato o degli enti locali) e il rischio finanziario ha bisogno di garanzie». La certezza dell’investimento viene loro garantita dalle recenti politiche del Mibact di smantellamento della funzione di tutela costituzionale dei beni culturali, subordinata alla loro valorizzazione mercantile. A sottolineare questa nuova connotazione del Ministero è lo stesso Franceschini quando ricorda di essere a «capo del principale Ministero economico italiano»!

Non solo, ma è messa profondamente in discussione anche la cultura urbanistica di questi ultimi anni, che in parte ha saputo innovarsi e che ancora può proporre dispositivi di contenimento delle spinte speculative. Amministratori pubblici e addirittura esponenti dell’Istituto Nazionale di Urbanistica fanno a gara nel depotenziare gli strumenti urbanistici attuativi in favore di dubbie e generiche modalità puntuali di gestione del territorio, che perdono di vista la direzione pubblica delle trasformazioni e la visione sistemica della complessità dei fatti territoriali.

Non è un caso che durante quel consesso sia stato annunciato l’accordo con la famiglia Lowenstein per la trasformazione della Villa Medicea di Cafaggiòlo, al centro della tenuta di 385 ettari nei pressi di Barberino del Mugello. Patrimonio Unesco, progettata da Michelozzo e celebrata da Lorenzo il Magnifico si trasformerà in un resort “acchiapparicchi” con tanto di distruzione di valori ambientali, culturali e sociali. Comuni e Regione, servizievoli, si sono subito dichiarati disponibili a modificare i propri strumenti urbanistici, mentre sarà proposta anche una variante al PIT per gli impatti paesaggistici e l’aumento delle volumetrie.

Che non si venga a raccontare la favola dei posti di lavoro, perché tanto sappiamo che investimenti del genere sono ad alta intensità di capitale con basso ritorno di occupati, per lo più impiegati in forme precarie e stagionali!

Il presidente Rossi dichiara di essere soddisfatto e ricorda che «stavolta siamo riusciti a mettere d’accordo anche i comitati».

Al suo posto non sarei così sereno, vorrei ricordargli che invece esiste, per fortuna, un vasto fronte di comitati, di associazioni, di reti locali e di saperi istituzionali consapevoli del fatto che, ricordando Calvino, l’inferno dei viventi è qui e ora. Distinguere l’inferno da ciò che non è inferno è il nostro compito.

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