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Sergio Brenna
Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico
11 Marzo 2017
Roma
Ampia analisi critica di un libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani su l'urbanistica romana nel quadro di una riflessione sull'intricato nodo del rapporto pubblico/privato.

Ampia analisi critica di un libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani su
l'urbanistica romana nel quadro di una riflessione sull'intricato nodo del rapporto pubblico/privato.
casadellacultura.it, ciclo "città bene comune"10 marzo 2017 (p.d.)

L'agile libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani, Roma disfatta. Perché la capitale non è più una città e cosa fare per ridarle una dimensiona pubblica, è stato pubblicato per i tipi di Castelvecchi nel maggio del 2016, giusto un mese prima delle elezioni comunali che - dopo la traumatica interruzione della sindacatura di Ignazio Marino conclusasi in bilico tra dimissioni e defenestrazione per mano amica - segneranno la netta vittoria della candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi.
Ciò nonostante, il libro sembra volersi estraniare dalle turbolenze delle vicende politico-amministrative più immediate e controverse per svilupparsi in un gradevole dialogo tra un urbanista esperto conoscitore delle più intricate vicende tecnico-procedurali dell'urbanistica romana e un giornalista specializzato nella divulgazione di temi relativi all'architettura, l'urbanistica, il paesaggio e la tutela e valorizzazione dei beni culturali.

Il dialogo prende così uno scorrevole respiro tra Erbani che interpella e sollecita e De Lucia che, sul filo della memoria, mette in fila fatti, ricordi, analisi e riflessioni in una visione di lungo periodo che prova a fissare in brevi tratti una serie di fasi, periodi e tendenze.

Si ripercorre così il periodo che va dagli anni cinquanta fino all'amministrazione Marino, soffermandosi soprattutto sulle battaglie di tutela e valorizzazione delle zone archeologiche da parte di Antonio Cederna: un intellettuale che riuscì a far coagulare un ampio consenso su una serie di positive proposte, promosse, ottenute e realizzate (anche se spesso solo parzialmente) dalle giunte Argan, Petroselli, Rutelli e Veltroni, sino all'esplicita inversione di rotta della giunta Alemanno. Un'inversione le cui premesse, tuttavia, erano già visibili in nuce in quella filosofia del "pianificar facendo" su cui si improntò il piano regolatore promosso ed approvato dalla seconda giunta Veltroni caratterizzato da un approccio che non verrà più rimesso in discussione, neppure dalla successiva giunta Marino e dal suo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo.

Come icasticamente sintetizza De Lucia: "L'urbanistica di Walter Veltroni e del suo predecessore Francesco Rutelli si è sviluppata sulla base di accordi fra l'amministrazione pubblica e i privati possessori di aree. Lo hanno definito il "pianificar facendo". La perdita di forma che Roma andava assumendo ha ricevuto il sigillo dall'ultimo - e il peggiore - piano regolatore della sua storia, quello del 2008. E che nei fatti non pianificava granché, visto che prendeva atto di quel che si era già deciso e a quelle contrattazioni forniva un superiore avallo amministrativo. Il successo di Gianni Alemanno - osserva De Lucia - è stato in gran parte strappato nei luoghi in cui Roma perdeva le caratteristiche più proprie di una città". Una volta eletto, però, "Alemanno si è trovato a gestire un piano regolatore che aveva già quasi consumato le proprie previsioni edificatorie. Pressato da più parti, ha provato ad aggiungere dell'altro, ad andare oltre le dimensioni fissate in quel documento. E ha usato le norme contenute nello stesso piano e che consentivano di superarlo. Dove ha potuto, ha forzato, gonfiato ciò che spettava ai privati sottraendolo al pubblico. […] Nel programma di Ignazio Marino - prosegue De Lucia - era contenuta l'intenzione di fermare questa disseminazione del cemento nella campagna romana e di invertire la rotta mettendo mano alle aree già costruite, ma malamente. Un proposito di discontinuità con il passato di Alemanno, ma anche di Rutelli e Veltroni. Un proposito in qualche misura rispettato […] per iniziativa dell'assessore Caudo. Poi però il proposito è stato negato dalla decisione di collocare arbitrariamente a Tor di Valle il nuovo stadio della Roma [con la contestuale edificazione di tre torri alte 200 metri di terziario, per un edificazione totale di 1 milione di metri cubi, N.d.A] il cui interesse pubblico è tutto da dimostrare" (pp. 10-11).

Si tratta della stessa questione, ancora irrisolta, con cui si trova ad avere a che fare oggi Virginia Raggi. Una faccenda talmente spinosa che - almeno fino al momento in cui scriviamo - pare gestita in prima persona dalla sindaca e con un ristretto staff fiduciario: per esempio nella contrattazione di una più o meno consistente riduzione delle volumetrie terziarie chieste in contropartita alla realizzazione dello stadio privato di una società calcistica proprietà dell'italo-americano James Pallotta - uno dei promotori finanziario-immobiliari dell'operazione - condotta tentando di estromettere dal processo decisionale il proprio assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini. Quest'ultimo, che - osserva De Lucia - in un suo libro del 2008, La città in vendita (Donzelli), aveva già denunciato questo modo di procedere come "la degenerazione del nuovo piano regolatore che è diventato "il piano dell'offerta", per mettere a disposizione del mercato finanziario internazionale gli affari immobiliari possibili nella capitale" (p. 46), ha invece ribadito, anche recentemente, che tutto ciò che vi si può edificare è quanto già previsto dal piano regolatore. Ha cioè cercato di stoppare in anticipo qualsiasi ipotesi di contrattazione integrativa tra proprietari delle aree o sviluppatori immobiliari e pubblica amministrazione volta ad ottenere un aumento delle volumetrie edificabili e dunque maggiori possibilità di guadagno.

Secondo De Lucia: "a spingere verso la dilapidazione del territorio [della capitale] ha contribuito l'invenzione del "pianificar facendo", l'ossimoro che ha compagnato la formazione del nuovo piano. Il "pianificar facendo" - osserva - ha legittimato interventi di ogni genere e di ogni misura, in ogni angolo del territorio comunale. [Lo stesso] Paolo Berdini, nel libro Giubileo senza città, ha documentato come, attraverso i programmi di riqualificazione e di recupero urbano (e gli altri istituti derivati dall'accordo di programma, con l'uso disinvolto della legge per Roma Capitale e di altre possibilità di deroga, già prima dell'adozione erano stati autorizzati quasi 52 milioni di metri cubi (quasi i tre quarti delle future previsioni di piano). […] Quando finalmente è stata completata le stesura del nuovo piano, non c'era molto da aggiungere alle decisioni maturate prima" (p. 36).

In altri termini - afferma Erbani - "Nella sostanza il piano non pianifica. Ratifica. Non investe sul futuro, regola i conti con il passato. Non interviene per definire l'assetto della città, non ha una visione, ma prende atto di quello che è maturato negli accordi fra l'autorità pubblica e la proprietà fondiaria e fornisce un involucro capiente. Non concepisce la città come un sistema in cui tout se tient e dove è necessario bilanciare i pesi, ma sancisce che i pesi possono distribuirsi dove capita o, meglio, dove li collocano gli interessi privati, che non si subordinano all'interesse generale, ma che si cerca in vario modo di disciplinare, come farebbe il vigile a un incrocio. È - conclude - un piano regolatore che non è generale, ma assembla tanti piani particolari. Proclama buone intenzioni, ma non le progetta" (p. 36).

Ho potuto toccare con mano questa situazione quando, tra il dicembre 2014 e il marzo 2015, (trovandomi spesso a Roma per motivi familiari e terapeutici) ho deciso di mia spontanea iniziativa di frequentare il laboratorio partecipativo promosso dall'assessore all'urbanistica Caudo per definire i dettagli dell'accordo di programma per il riuso dell'area dell'ex Fiera di Roma sulla Cristoforo Colombo nei pressi dell'EUR, dopo il trasferimento delle attività fieristiche nel nuovo polo di Ponte Galeria sulla Roma-Fiumicino. Contavo di potervi portare l'esperienza maturata a Milano nella critica al mancato controllo degli esiti urbanistici e progettuali relativi al riuso dell'area dell'ex Fiera di Milano anche per effetto dagli incongrui indici edificatori assegnati (1,15 mq/mq). Indici che erano stati fissati solo sulla base delle aspettative di rendita fondiaria da parte di Fondazione Fiera (250 Milioni di €) che aveva la necessità di far fronte ai costi imprevisti nella realizzazione del nuovo polo di Rho-Pero. Qui le smodate e incontrollate bizzarrie di Fuksas nel progetto della spina vetrata centrale di accesso ai padiglioni espositivi avevano determinato una serie di problemi tecnici e contribuito a una significativa lievitazione dei costi dell'opera.

La situazione dell'ex Fiera di Roma era abbastanza simile, anche se relativa a un'area grande circa un terzo di quella dell'ex Fiera di Milano: l'indice edificatorio di circa 1 mq/mq era infatti stato fissato solo in relazione all'obiettivo di coprire i debiti di bilancio accumulatisi nella gestione del nuovo polo, al più con l'aggiunta della motivazione che ciò corrispondeva più o meno al volume dei padiglioni esistenti e dismessi. Anche a non voler addentrarsi nella considerazione che - a parità di volume edificato - il peso urbanistico/insediativo dei nuovi edifici terziari e/o residenziali in previsione sarebbe stato ben superiore di quello determinato dall'uso sporadico delle attività fieristiche nei padiglioni preesistenti, feci sommessamente rilevare che l'esito sarebbe stato - come all'ex Fiera di Milano - quello di edifici molto alti e molto densi, che avrebbero gravato in modo intollerabile sugli attigui tessuti edilizi della retrostante via dell'Accademia, costituiti da palazzine di tre-cinque piani. Se proprio non si voleva rideterminare in modo urbanisticamente più congruo l'indice edificatorio, la mia proposta era quella di introdurre prescrizioni di destinazione funzionale e tipo-morfologiche che concentrassero una prevalente quota di funzioni terziarie in edifici anche molto alti e densi sul lato della Cristoforo Colombo (larga più di 80 metri), lasciando una quota minore di residenza meno densa e di altezza più contenuta verso il lato opposto, quello via dell'Accademia, una strada di modesto calibro locale.

La risposta di chi rappresentava l'amministrazione nella conduzione del laboratorio partecipativo fu di netta opposizione. Si sostenne infatti che non si sarebbe dovuto condizionare così pesantemente la libertà imprenditiva e progettuale dell'attuatore edilizio-immobiliare della trasformazione dell'area. Mi rimane il fondato dubbio - anche considerando che Fiera di Roma nelle sue varie articolazioni è espressione di una società compartecipata dallo stesso Comune di Roma! - che ciò che non si voleva condizionare era la possibilità del conseguimento del massimo di rendita fondiaria a fronte delle mutevoli condizioni economico-finanziarie del mercato immobiliare.

L'assessore Berdini, poco dopo il suo insediamento, ha completamente scavalcato quell'obiezione facendo approvare dal Consiglio comunale il sostanziale dimezzamento - in conformità a quanto previsto dal piano regolatore per le aree edificabili - dell'indice edificatorio contrattato da Marino e Caudo. Si è così garantita la realizzazione di tutti gli spazi pubblici prescritti, con densità ed altezze edificatorie compatibili con i caratteri dei tessuti edilizi attigui e preesistenti, e - quindi - senza più la necessità di preventive prescrizioni funzionali e tipo-morfologiche che ne attenuassero gli effetti perversi. La reazione di Fiera di Roma è stata un ricorso al Tribunale Amministrativo per danni economici procurati al risanamento del proprio bilancio a seguito della mancata approvazione delle bozza di intesa precedente, esattamente come fatto da FS/Sistemi Urbani nei confronti del Comune di Milano a seguito della mancata ratifica consiliare della bozza di accordo di programma sugli ex scali ferroviari.

Tutto ciò la dice lunga sullo stato dei rapporti tra aspettative di rendita delle grandi proprietà fondiarie (anche di enti pubblici istituzionali) e ruolo di indirizzo pubblico. Quest'ultimo dovrebbe essere esercitato dai comuni solo sulla base di congruità ed opportunità di interesse generale negli assetti insediativi ed urbanistici del territorio. Quando (raramente) i comuni provano a sottrarsi alla riedizione della disastrosa prassi degli anni '50/'60 delle "convenzioni senza o contro i PRG" - una pratica progressivamente tornata a diffondersi dagli anni '90 in versione finanziarizzata 2.0 e ripropostasi con le reboanti e suadenti denominazioni di programmi integrati di intervento, progetti di riqualificazione urbana, accordi di programma - la reazione delle proprietà fondiarie è ferocemente indirizzata ai punti più dolenti della difficile situazione delle finanze locali: da un lato la richiesta di enormi indennizzi per danni economici arrecati e, dall'altro, l'offerta di modeste ma immediatamente conseguibili contropartite (rispetto alla dimensione economico-finanziaria in gioco) in termini di oneri ed opere di urbanizzazione.

Insomma, anche questo esempio dimostra che ha ragione De Lucia quando afferma che a Roma "la storia dell'ultimo PRG comincia nel 1993 e dura quasi tre lustri, durante i quali il governo della capitale si è collocato in uno spazio politico e culturale ambiguo. Mentre a Milano, per esempio - capitale indiscussa della controriforma [urbanistica, N.d.A] - la preferenza per l'urbanistica contrattata è stata formalmente ed esplicitamente contrapposta al governo pubblico del territorio, a Roma è prevalsa invece una linea subdola, si è continuato a professare adesione alla pianificazione canonica mentre, sopra e sottobanco, si è praticata la medesima urbanistica contrattata di Milano" (p. 33).

Ciò che sorprende nell'acuta disamina della vicenda romana condotta nel dialogo tra De Lucia ed Erbani è che via via che ci si avvicina alle vicende più prossime - come si è detto, con l'esclusione forse voluta di quelle di più immediata attualità elettorale - sembra manifestarsi una sorta di presbiopia. Mi chiedo cioè come sia possibile che le ricostruzioni siano precise, puntuali e dettagliate su nomi, fatti e circostanze degli episodi più lontani e, invece, nella pur estremamente pertinente critica alla fase del "pianificar facendo" ci si limiti a citare il nome e la responsabilità dei sindaci che l'hanno avallato politicamente e non quello di coloro che l'hanno teorizzato, giustificato e praticato sul piano culturale e tecnico nella redazione del piano regolatore generale di Roma. Non si tratta di un fatto secondario, perché se è vero che nelle pratiche di pianificazione e governo del territorio ci sono le responsabilità politiche di quanti governano la cosa pubblica, è altrettanto vero che non possiamo dimenticare le responsabilità tecniche, o meglio culturali, in questo caso ascrivibili a quegli urbanisti che hanno messo a punto il piano, ovvero a Giuseppe Campos Venuti e al suo delfino accademico e professionale Federico Oliva. Dico questo per amore di chiarezza e verità storica, ma devo anche dire che la mia preoccupazione principale è di natura culturale e riguarda il destino, non dei pianificatori, ma dell'urbanistica italiana. Il piano di Roma ha infatti legittimato l'assunzione diffusa, anche da parte di amministrazioni locali tradizionalmente attente a praticare una pianificazione ad indirizzo pubblico, di quel particolare modo di intendere la pianificazione. Se non si porta la critica alla radice di questo atteggiamento rinunciatario alla definizione di un'idea di dimensione pubblica del progetto della città, difficilmente sarà possibile indicare una strada che proponga un'alternativa all'indefinita prosecuzione di singole contrattazioni sul futuro di parti di città.

Invece, la sola indicazione che negli ultimi capitoli del libro viene da parte degli autori per ritrovare un destino di dimensione pubblica della capitale è quella del rilancio strategico del suo ruolo turistico e culturale attraverso la ripresa del Progetto Fori e del parco dell'Appia Antica come "colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di "Roma moderna", (...) la vera "Roma futura"" (p. 124). Pur riconoscendo che la dimensione, anche territorialmente rilevante, dell'ambito archeologico-turistico-culturale continuerà sempre più a rappresentare un fattore determinante della forma urbana ed insediativa della Capitale, non posso non rilevare come - rispetto alla dimensione complessiva del problema urbano ereditato dalle vicende ripercorse nel libro e così ben rappresentato nelle mappe che ne illustrano l'estensione - ciò costituisca un'indicazione che, in questa prospettiva, appare parziale e riduttiva. È forse questo senso di incompiutezza del ragionamento, questa mancanza di una propositività complessiva sui destini di Roma che più si coglie concludendo quella che, pur con questi limiti, rimane un'interessante e piacevole lettura.

P.S. Tra la stesura di questo commento e la sua pubblicazione sono intervenute due novità rilevanti: le dimissioni dell'assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini – che riteneva troppo arrendevoli gli orientamenti della sindaca Raggi favorevoli a una parziale riduzione delle edificazioni non connesse alle attività calcistiche – e l'annuncio da parte della sindaca di un accordo raggiunto con la proprietà dell'area per il dimezzamento delle volumetrie inizialmente previste e l'eliminazione delle tre torri da 200 metri di altezza. La Raggi e il M5S vantano come un positivo compromesso il dimezzamento delle volumetrie e la contestuale riduzione di opere di trasporto pubblico e accesso all'area, ma sia la versione “estremistica” dell'ex assessore Caudo (che riteneva indispensabili tutte le opere pubbliche da lui previste e che per questo era disposto a concedere qualunque edificazione fosse in grado di sostenerne l'onere) sia quella “compromissoria” di Raggi/M5S sono pur sempre conseguenze della logica dell'urbanistica contrattata: se mi fai fare di meno, ti do di meno. Invece, il criterio corretto sarebbe: se servono molte opere per rendere accessibile e sicura l'area e l'intervento ammissibile non è in grado di sostenerne il peso economico è bene non farlo lì, ma da un'altra parte. Come mi capita spesso di far osservare non è affatto detto che il 50% di una follia sia qualcosa di ragionevole: talvolta è mezza follia, ma assai più spesso è addirittura una follia e mezza!


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