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Giorgio Fontana
Il diritto digitale ad abitare la città
20 Marzo 2017
Per comprendere
«Il vivere urbano è cambiato. Ma resta luogo di pratiche autoritarie e inique dovute al controllo dei dati. Un saggio adesso ci dice: è ora di riprenderceli». lettera43, 19 marzo 2017 (c.m.c.)

«Il vivere urbano è cambiato. Ma resta luogo di pratiche autoritarie e inique dovute al controllo dei dati. Un saggio adesso ci dice: è ora di riprenderceli». lettera43, 19 marzo 2017 (c.m.c.)

Come si abita oggi una città? Per orientarci ricorriamo a Google Maps; per avere suggerimenti su dove mangiare consultiamo TripAdvisor o Yelp; per cercare un posto dove dormire, AirBnb o Hostels.com; e così via. Basta riflettere un istante per riconoscere l’elusività di una linea che separi lo spazio materiale e quello digitale. In apparenza queste applicazioni sembrano del tutto innocue, meri servizi; ma nascondono delle dinamiche di controllo con pesanti ricadute sulla città “in carne e ossa”. Per valutare correttamente questo lato oscuro dell’informazione urbana, però, occorre un atteggiamento diverso nei suoi confronti.

La lezione di Lefebvre.

Nel 1968 Henri Lefebvre pubblicò un testo seminale al riguardo, Il diritto alla città (oggi edito in Italia da Ombre Corte). Secondo il sociologo francese si trattava di rivendicare una maniera di abitare ispirata all’autogestione e alle comunità cresciute dal basso. Invece di demandare sempre il controllo degli spazi alle autorità – che molto spesso si limitano a cercare accordi con le élite economiche – occorre riappropriarsene in prima persona, di quartiere in quartiere. Ora, è fuori discussione che ci sia bisogno di politiche inclusive e un approccio più egualitario. Il crescere delle diseguaglianze, la segregazione delle zone periferiche e la progressiva riduzione di spazi pubblici a favore di enti privati conferma tutta l’attualità di queste tesi. Ma come abbiamo visto e come verifichiamo ogni giorno estraendo uno smartphone per strada, il nostro modo di vivere la città è cambiato a un livello più profondo. Il che suggerisce un aggiornamento dell’intuizione di Lefebvre.

I nuovi diritti digitali legati al vivere urbano.

È quanto propone un gruppo di ricercatori americani nel recentissimo pamphlet Our digital rights to the city (Meatspace Press), curato da Joe Shaw e Mark Graham. Il breve volume, scaricabile gratuitamente online, raccoglie una serie di contributi ispirati al rapporto fra potere delle tecnologie e forme dell’abitare metropolitano. Se Lefebvre difendeva il «diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare, il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione», questi studiosi ne aggiungono un altro ancora. Il diritto digitale, appunto: la possibilità di gestire i propri dati relativi al vivere urbano, invece di darli in pasto a Google & Co.; e ribadire la politicità di queste informazioni.

Il pregio principale del saggio è quello di affrontare questi temi con grande chiarezza e incisività. Un buon esempio è il paper di Valentina Carraro e Bart Wissink (The Jerusalems on the map). Secondo gli accordi di Oslo (1993), Gerusalemme è ancora sotto gestione internazionale e non appartiene né a Israele né a un futuro Stato palestinese. Ma se cercate “Gerusalemme” su Google, l’infobox a destra dice che è la «capitale di Israele»: consolidando la descrizione proposta da Wikipedia e ratificando così un potere non riconosciuto in teoria, ma esercitato nella pratica. Per Carraro e Wissink è una dimostrazione della politicità delle mappe, che vanno molto al di là di una rappresentazione neutra di come stanno le cose. A questo si può opporre un tipo alternativo di cartografia, certo. Il progetto collaborativo e open source OpenStreetMap fornisce un campo aperto di discussione, dove gli utenti possono ridefinire costantemente la mappa stessa. E tuttavia, anche OpenStreetMap risente delle diseguaglianze: il fatto che si possa discutere non significa che tutte le opinioni siano equamente considerate. Tant’è che la comunità di questo progetto è largamente a favore di Israele.

La logica del controllo colonizza la vita quotidiana.

Passando dalla geopolitica all’abitare, il saggio di Jathan Sadowski propone un interessante esperimento mentale. Il palazzo dove vive il sociologo ha installato un tornello elettronico a ogni ingresso: purtroppo la chiave non funziona bene e lui è rimasto più volte chiuso fuori casa. Questa pratica, secondo Sadowski, illustra la «logica del controllo che colonizza la vita quotidiana, riempiendola di posti di blocco che regolano l’accesso e rafforzano l’esclusione»: il problema è che ce ne accorgiamo solo quando questi sistemi si ritorcono contro di noi; quando le password smettono di funzionare.

Ci aspetta un futuro dispotico?

Pensate all’idea stessa di smart city: un luogo dove le infrastrutture sono connesse alla rete, e degli algoritmi su vasta scala lo rendono più efficiente in termini di mobilità e servizi. Tutto molto bello, ma sotto la narrazione pacificata e cool si nasconde altro: la raccolta di dati relativi ai cittadini esprime anche un forte bisogno di monitoraggio. A tal proposito, Sadowski propone due scenari per il futuro. Forse un domani sarà impossibile accedere in un negozio se non si hanno soldi sufficienti sulla carta di credito; o non potremo entrare in una certa zona se il nostro “punteggio di sicurezza” non è abbastanza alto e veniamo classificati come minacce. I fan di Black Mirror, la serie tivù di Charlie Brooker, avranno riconosciuto una variazione sul tema: e proprio come in Black Mirror, non si tratta di remota fantascienza. Ma di un’ipotesi molto realistica. Che fare, dunque?

Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti .
Una proposta è offerta da Mark Purcell nel suo contributo. Invece di limitarsi a una percezione liberale del diritto digitale alla città, è necessario considerarlo come parte di un progetto politico più vasto e di matrice antagonista. Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti.

Un esempio concreto sono gli attivisti che riscrivono dati e mappe nelle città indiane per garantire a tutti – anche agli strati della popolazione ignorati dallo Stato – un autentico accesso ai servizi. Oppure la comunità Lacan di Los Angeles, che documenta gli abusi polizieschi nei quartieri in modo da fornire prove per chi desidera fare ricorso. Come riassume Taylor Shelton, si tratta di gestire i dati in modo da «aiutare a produrre letture dei problemi urbani che non stigmatizzino ulteriormente i quartieri già emarginati, ma che invece ne situino i problemi all’interno di un più ampio contesto storico, geografico e politico-economico».

Ogni nostro dato può generare profitto.

Come sempre, la frattura è tra chi accumula potere e numeri e chi invece ne è deprivato, spesso in maniera silenziosa o surrettizia. Del resto, anche gli strumenti più banali ricordati in apertura – Maps, TripAdvisor, Yelp – non sono certo opera di benefattori per agevolare la vita quotidiana. Come sottolinea Kurt Iveson in Digital labourers of the city, unite!, queste applicazioni gratuite richiedono da parte nostra un lavoro altrettanto gratuito che viene sfruttato su base quotidiana. I nostri movimenti, i nostri like, le nostre ricerche: ogni singolo dato è assorbito per generare profitto.

In conclusione, il diritto digitale alla città si compone di tante diverse richieste: una migliore conoscenza delle rappresentazioni urbane; la libertà nel gestirle senza deleghe; un’eguaglianza che sia materiale e digitale allo stesso tempo; la possibilità di agire sul territorio al di là della governance istituzionale. Per chi vede gli spazi comuni della metropoli come una semplice serie di servizi – la rete di trasporti, le strade, le piazze – non è nulla di troppo importante. Ma per chi ritiene che l’abitare sia qualcosa d’altro e di più prezioso si tratta di un tema particolarmente urgente.
(Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, '"quante tasse pagano in Italia Google & co", in edicola, in digitale e in abbonamento dall'18 al 24 marzo 20).

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