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Nadia Urbinati
La politica respira con opinioni opposte gli elettori unici giudici
5 Gennaio 2017
Democrazia
«La democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono».

«La democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono».

la Repubblica, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

La democrazia può morire anche di verità, non solo di menzogne. Uno slogan, ma non del tutto. La politica della verità quando si applica alle opinioni — delle quali si nutre il forum dei paesi a regime costituzionale democratico — è una ghigliottina pronta a tagliare idee e simbolicamente teste.

Il diritto che tutela la libertà di opinione esiste proprio per coloro che cantano fuori del coro o che esprimono preferenze che ad altri non piacciono e magari bollano come false. Ma che cosa sia una “falsa” preferenza o opinione nessuno può dirlo. E nessun tribunale può deciderlo, nemmeno quello di giudici competenti e indipendenti: abitando le opinioni la zona grigia del né vero né falso ma dell’opinabile e del variabile, non si sa di quale competenza si parli; e poi, essendo quella dei magistrati una mente che, fuori delle procedure e delle norme scritte, si riempie di idee altrettanto partigiane e parziali di quelle di ogni altro cittadino, non è chiaro di quale indipendenza si parli.

La giuridificazione delle opinioni è una proposta preoccupante e potenzialmente tremenda nelle conseguenze. Ovviamente si parla di opinioni, non di informazioni scientifiche o commerciali – le etichette dei medicinali o dei prodotti alimentari non portano “opinioni” ma informazioni testate, e in questi casi la menzogna è truffa, anche pericolosa, perseguibile per legge.

I sostenitori della giuridificazione usano l’argomento causale per difendere la loro proposta: fanno, per esempio, riferimento ad alcune news false che hanno circolato sul web durante la campagna elettorale americana. Possono provare che c’è stato un rapporto lineare di causa-effetto tra quelle news false e l’esito elettorale, che ogni voto repubblicano sia stato generato da quelle news? Non lo possono, ovviamente, e quindi non possono accampare alcuna “prova” che suffraghi il bisogno di un’authority che vagli le opinioni – come se chi compone questo tribunale sia un santo senza emozioni e opinioni!

Il mito platonico del filosofo (o giudice) è da scartare perchè la democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono. Questa non è una malattia da curare, ma il gioco stesso della politica democratica che si preserva con il pluralismo (e un giornalismo che prediliga le inchieste ai sondaggi).

Quindi, se un’opinione politica (non-scientifica) balzana attraversa il web e raccoglie proseliti strada facendo, la soluzione migliore è che siano i cittadini a contestarla. La caccia alle balle sarebbe una bella forma di cittadinanza attiva nell’era della democrazia del web, che ha l’ambizione di produrre informazione fai-da-te. Se si va oltre il giornalismo di professione e la sua deonotologia, la responsabilità di sorvegliare si estende a tutti, facendo della produzione della notizia un “bene della comunità” intera.

Alla proposta del “tribunale governativo”, Beppe Grillo ha opposto «una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie dei media». Una proposta che fa raggelare il sangue, non perché realizzabile ma proprio perché irrealizzabile. Immaginiamolo questo tribunale buono (del popolo): dovrebbe stare in seduta permanente, notte e giorno perché la produzione di opinioni non si ferma mai; dovrebbe identificare il nome e il cognome della persona che ha generato una opinione, cosa impossibile perché le opinioni sono una composizione di varie altre idee e non hanno padri e madri indiscussi; dovrebbe leggere milioni di parole e ordinarle per capitoli, argomenti, generi. Alla fine, questo tribunale del popolo o è un’altra App o è una bufala esso stesso, perché nessun cittadino “scelto a sorte” potrebbe svolgere una tale funzione. Ma proprio perché irrealizzabile, esso rischierebbe di essere un terribile e totalmente arbitrario tribunale dell’inquisizione.

La democrazia il tribunale ce l’ha naturalmente, ed è quello dell’opinione pubblica, che Jeremy Bentham definì l’organo che tutto giudica e che però genera anche l’oggetto del giudizio. L’opinione “fa” e “giudica” se stessa, dunque. Non la fanno i giudici che con la lente della verità epistemica credono di poter setacciare l’agorà. Ma non la fa neppure un tribunale popolare, una idea priva di senso e che, nel peggiore dei casi, può solo essere un comitato popolare di salute pubblica, sulla falsariga di quelli che vennero sperimentati dal Terrore giacobino e da quelli stalinista e fascista.

«Nessuna censura, la Rete deve essere credibile» tuona Grillo. Ha ragione. Ma se così è, risponda con confutazioni a chi propone la giuridificazione, non proponendo il peggio. Rilanciare sul peggio è una politica sconsiderata che porta acqua proprio al mulino della censura perché crea partiti: quello della giuridificazione contro quello della giuria di popolo. E quale che sia il vincitore, l’esito sarebbe un male per tutti. Le opinioni si combattono con le opinioni, e quindi con la libertà di cambiare opinione (e di denunciare le bufale).

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