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Fabrizio Bottini
Mobilità agrodolce
29 Dicembre 2016
Fabrizio Bottini
Pochi giorni fa, un tizio sul social network mi impartiva una sua personale lezioncina declinando il classico tema «è il mercato, baby!» (segue)

Pochi giorni fa, un tizio sul social network mi impartiva una sua personale lezioncina declinando il classico tema «è il mercato, baby!» (segue)

Pochi giorni fa, un tizio sul social network mi impartiva una sua personale lezioncina declinando il classico tema «è il mercato, baby!». L'occasione, era un mio brevissimo post (peraltro molto condiviso da tante persone) sulla rete delle biciclette in condivisione per la mobilità urbana, in cui mi chiedevo a quale logica rispondesse mai, un sistema di stazioni di prelievo-parcheggio dei mezzi totalmente focalizzato sul centro, con rastrelliere a volte situate a poche decine di metri l'una dall'altra, ma che poi lascia del tutto scoperto il territorio della periferia, proprio là dove sembrerebbe invece particolarmente forte la domanda di mobilità di medio cabotaggio, e contemporaneamente è più debole l'offerta di mezzi pubblici tradizionali. Mi chiedevo, specificamente, perché mai non si potesse sperimentare almeno uno sviluppo della rete di bike-sharing per corridoi, focalizzati su poche mete specifiche: l'aeroporto, che per esempio a Milano sta a poche centinaia di metri dai margini della città densa, le stazioni delle ferrovie suburbane, gli ospedali più o meno a cavallo dei confini con l'hinterland metropolitano. La lezioncina del tizio sul libero mercato suonava invece brevemente così: «Il bike sharing funziona con la pubblicità, e il territorio coperto è quello più funzionale alla comunicazione pubblicitaria». Forse un po' cinico, ma parrebbe azzeccato, il colpo.

Il vero problema, qui, è che il commentatore non ha quattordici anni, non sta scoprendo da adolescente più o meno traumatizzato le difficoltà di una vita circondata da egoismo e particolarismi: si tratta di un professionista delle politiche urbane, e pure di un ex amministratore eletto, piuttosto attivo proprio in quell'ambito. Sentirlo liquidare così, anche se forse si trattava di una battuta forzatamente cinica, le potenzialità di un mezzo così efficace per la mobilità, non è un bel segnale. Soprattutto se si mescola a tanti altri, piccoli e meno piccoli, dello stesso tono, tutti piuttosto sbilanciati a indicare una sorta di schizofrenia nell'offerta delle cosiddette «alternative all'auto privata» negli spostamenti in città. Per essere alternativi a qualcosa in particolare, si dovrebbe in tutto o in parte riuscire a presidiare il medesimo campo, e nel caso dell'auto quel campo sono le varie attività urbane sparse sul territorio a una certa distanza, che il mezzo privato consente di connettere con una certa storica efficacia. Una efficacia che non è sicuramente eguagliabile dal pedone, ma che dovrebbe essere perseguita dal mix di mezzi che per così dire «prolungano» e complementano la pedonalità: dai trasporti pubblici classici, alle nuove offerte della condivisione.

E invece quella miscela pare non avere nessuna intenzione di comporsi, viaggiando ciascun mezzo e rete per conto proprio, salvo in quella percezione distorta e falsamente «integrata» che si verifica dentro il piccolissimo nucleo centrale metropolitano, ricco sin ben oltre la saturazione di una vera e propria overdose di queste offerte. Accade così che dentro la microscopica città densa (e poco abitata per via della nota terziarizzazione dei decenni passati) letteralmente si inciampi ad ogni passo in qualche automobilina in condivisione di qualche operatore, spesso una mezza dozzina parcheggiate in attesa di clienti nel medesimo tratto di via, ma poi si trovi il deserto totale nella notte periferica. E questo non perché non esista domanda, ma perché gli operatori, per motivi tutti propri, semplicemente non servono quelle zone, esattamente come accade alle biciclette in condivisione, o per altre ragioni le linee di metropolitana o di tram. E infatti, la periferia – vale a dire la quasi totalità del territorio urbano-metropolitano, è zona di caccia esclusiva dell'auto privata. E se constatare queste cose, anche solo limitarsi a sottolineare che i «trasporti alternativi» non trasportano da nessuna parte, significa suscitare le risate di scherno di chi si candida ad occupare posizioni di potere nella pubblica amministrazione, stiamo messi piuttosto male. Dobbiamo davvero fare anche noi così, comportarci da ragazzini un po' cinici un po' ingenui, e pensare alle alternative di mobilità solo come problema di immagine, di mercato, di pubblicità? Roba da rifilare ai turisti? È piuttosto deprimente, baby

La Città Conquistatrice - Cartella Mobilità

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