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Sebastien Broca
Beni comuni, un progetto ambiguo
24 Dicembre 2016
Beni comuni
«La nozione di beni comuni, riscoperta negli anni 1980, conosce una popolarità crescente fra i militanti di sinistra. Dall’acqua pubblica ai software liberi, la gestione collettiva invalida il mito della privatizzazione come garanzia di efficienza».il manifesto Le Monde diplomatique n. 12, anno XXIII, dicembre 2016 (c.m.c.)

«La nozione di beni comuni, riscoperta negli anni 1980, conosce una popolarità crescente fra i militanti di sinistra. Dall’acqua pubblica ai software liberi, la gestione collettiva invalida il mito della privatizzazione come garanzia di efficienza».il manifesto Le Monde diplomatique n. 12, anno XXIII, dicembre 2016 (c.m.c.)

L’ 11 gennaio 2016, il segretario nazionale del Partito comunista francese Pierre Laurent faceva i suoi auguri per il nuovo anno e offriva un’immagine della «società che vogliamo»: «Un nuovo approccio allo sviluppo in cui sociale ed ecologia si uniscano a profitto dell’essere umano e del pianeta, per una società del benessere e del bene comune». «Bene comune»? Sull’altro fronte dello scacchiere politico, il fondatore del Movimento per la Francia, Philippe de Villiers, fa riferimento allo stesso concetto, ma per giustificare il proprio progetto di ridimensionamento dello Stato: «Lo Stato non esiste più come fornitore di bene comune. Non ha alcun diritto su di noi» (1).

Nel maggio 2016, alcuni mesi dopo l’annuncio del Ritorno dei beni comuni da parte dell’«economista sgomento» francese Benjamin Coriat (2), il liberale Jean Tirole pubblicava Économie du bien commun (3). Nella rubrica del suosito «Nostre idee», l’Associazione per la tassazione delle transazioni finanzia- rie e l’aiuto ai cittadini (Attac) sostiene l’importanza di «promuovere le alternative e recuperare i beni comuni».

Invece, l’Institut de l’entreprise, afferma, attraverso il suo segretario generale, che «le iniziative private si preoccupano del bene comune (4)». È raro incontrare concetti tanto malleabili. Molteplici le declinazioni in ambito politico o universitario: «bene comune», «beni comuni», «common», «commmons»... Da un lato, l’espressione «bene comune» – più o meno sinonimo di «interesse generale» – si è imposto come elemento del linguaggio imprescindibile per i dirigenti di ogni ambiente sociale. Dall’altro, la nozione di beni comuni porta un rinnovamento intellettuale e militante a un movimento sociale caratterizzato, a volte, da un letargo concettuale. È difficile orientarsi... ma non impossibile. Aprile 1985, Annapolis (Stati uniti). In occasione di una conferenza finanziata dalla National Research Foundation, accademici provenienti da tutto il mondo hanno presentato le proprie ricerche sui «commons».

Il termine evoca generalmente una storia antica: quella della trasformazione, all’alba dell’era industriale, delle terre lasciate a pascolo e gestite collettivamente in proprietà private delimitate da recinzioni. Il movimento delle enclosures è considerato come il momento fondante dello sviluppo del capitalismo. È il simbolo dell’emergere della proprietà come diritto individuale: una «rivoluzione dei ricchi contro i poveri», scrive Karl Polanyi (5). I ricercatori riuniti ad Annapolis riprendono il filo di questa storia, sottolineando l’esistenza di molti luoghi nel mondo in cui le terre, le aree di pesca o le foreste continuano a essere gestite come dei commons: risorse condivise all’interno di comunità che organizzano collettivamente il loro sfruttamento.

Secondo i ricercatori, questi sistemi di commons si dimostrano spesso efficaci e limitano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse (6). Si assiste a un rovesciamento totale delle tesi elaborate da Garrett Hardin nel suo celebre articolo sulla «tragedia dei beni comuni (7)». È un attacco all’intera ortodossia liberale, per cui la proprietà privata esclusiva è sempre il miglior sistema di assegnazione delle risorse rare. Nel 1990, l’economista Elinor Ostrom ha fatto una sintesi dei principali passi avanti resi possibili dalle ricerche esposte ad Annapolis. Ha insistito soprattutto sulle condizioni isti- tuzionali che permettono di perpetuare i sistemi dei commons, sostenendo che un common non possa esistere sul lungo periodo in assenza di regole sul suo sfruttamento.

Inoltre, sottolinea come queste regole possano essere prodotte e applicate dalle comunità interessate, senza dover ricorrere alla sovrastante potenza dello Stato. Tra i molti esempi che cita, c’è il caso di un’area di pesca in Turchia, dove «a occuparsi del processo di controllo e di applicazione delle regole (...) sono gli stessi pescatori (8)». Nel 2009, queste ricerche le valgono il premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel comunemente chiamato «premio Nobel per l’economia».

In Italia, la riscoperta dei beni co- muni si estende al campo della politica quando, nel 2008, una commissione, creata dal governo di Romano Prodi e presieduta dal giurista Stefano Rodotà, riferisce le proprie conclusioni. Propone una definizione di beni comuni come «quelle cose da cui dipendono l’esercizio dei diritti fondamentali e il libero sviluppo della persona». «Persone giuridiche pubbliche o private», poco importa lo status dei titolari di questi beni i loro «proprietari » (9). In compenso, la commissione insiste sul fatto che le risorse debbano essere gestite conformemente alla loro funzione, per permettere l’esercizio di un diritto.

Definire l’acqua un «bene comune» significa anche che la sua distribuzione, qualunque sia l’attore che la organizza, deve garantire l’accesso a tutti a un’ac-ua sana e in quantità sufficiente.

Sulla base dei lavori della commissione Rodotà, molti movimenti sociali e politici transalpini si sono impadroniti della nozione di bene comune per denunciare il settore privato e lo Stato neoliberale, entrambi incapaci di soddisfare i bisogni collettivi fondamentali (10). Forti di questo principio, nel giugno 2011, 25 milioni di italiani (sui 27 milioni di votanti) si sono pronunciati per via referendaria contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali di fornitura di acqua potabile.

Il movimento per il software libero Ma la riscoperta dei beni comuni non si limita alle risorse naturali. Nel 1983, Richard Stallman, giovane informatico del Massachusetts Institute of Technology (Mit), ha lanciato un appello a contribuire al gruppo di discussioneUsenet, proponendo lo sviluppo di un sistema di condivisione liberamente distribuito. Così, fa la sua comparsa il movimento per il software libero, in reazione all’emergere di una fiorente industria del software, che trasforma i programmi informatici in beni commerciali sottoposti al diritto d’autore (copyright) e protetti da restrittive condizioni d’uso (11).

Qui, il codice informatico non è più conside- rato come proprietà esclusiva di un at- tore privato, ma costituisce una risorsa liberamente accessibile che ognuno può contribuire a migliorare. Questi principi di apertura e condivisione sono stati ripresi da diversi commons digitali e applicati alla produzione di enciclopedie (Wikipedia), di database (Open Food Facts) o a creazioni arti- stiche collettive regolate da licenze di Arte libera o di Creative Commons.

Malgrado le loro differenze, tutte le componenti del movimento per i beni comuni mettono in discussione la proprietà privata esclusiva. Il movimento italiano per i beni comuni contesta la privatizzazione dei servizi pubblici; l’interesse per i commons detti «fisici» risponde al selvaggio accaparramento delle terre. In merito invece allo sviluppo dei commons digitali, si oppone alla privatizzazione dell’informazione e della conoscenza: quest’ultima ha assunto un’entità tale che alcuni giuristi parlano di un «secondo movimento di enclosures (12)».

I commons assestano duri colpi a una delle istituzioni centrali del neolibera- lismo, rifiutando il dogma secondo cui il rafforzamento della proprietà privata garantisce una maggiore efficienza economica. I lavori di Ostrom invalidano questo postulato, che viene contraddetto anche nella pratica dallo sviluppo di numerose risorse condivise. Trattandosi di risorse fisiche, i commons poggiano spesso su forme di proprietà collettiva e, come nel caso francese, su strutture cooperative o associazioni fondiarie agricole (Groupements fon- ciers agricoles, Gfa). Quanto ai commons digitali, invece, sono protetti da licenze specifiche, che sovvertono le forme classiche di proprietà intellettuale per favorire la circolazione e l’arricchimento delle creazioni collettive:

General Public License (Gpl), Open Database License (Odbl)... I militanti dei commons, oltre a met- tere in discussione la proprietà privata, criticano anche l’uso deviato della pro- prietà pubblica in un contesto di liberalizzazione generalizzata. Quando lo Stato ha carta bianca per svendere le risorse di cui dispone per risanare le sue finanze, la proprietà pubblica offre le stesse garanzie della proprietà privata? Non si riduce forse a un semplice trasferimento della proprietà nelle mani di un attore che non necessariamente agisce nell’interesse di tutti (13)? Così, si capisce meglio la definizione proposta dalla commissione Rodotà. Insistendo sulla funzione sociale dei beni comuni, i giuristi italiani hanno voluto sostituire alla classica logica dello Stato sociale la proprietà pubblica come custode dell’interesse collettivo la garanzia incondizionata di alcuni diritti.

Questo cambiamento di prospettiva va di pari passo con una lotta contro la burocratizzazione dei servizi pubblici, vista come principale causa della loro incapacità di difendere l’interesse collettivo. La critica delle debo- lezze della proprietà pubblica è al tempo stesso un’esigenza di partecipazione civica, di cui l’esperienza napoletana di Acqua bene comune (Abc) offre un interessante esempio. Nell’enfasi del referendum del 2011, in effetti, la gestione dell’acqua di questa città è stata rimunicipalizzata e affidata a «un’azienda speciale» di diritto pubblico chiamata Abc. Il suo statuto è stato pensato per permettere una gestione democraticae partecipativa, grazie alla presenza di due cittadini nel consiglio di amministrazione e alla creazione di un comitato di sorveglianza a cui partecipano dei rappresentanti dei consumatori e delle associazioni.

In Italia, la risonanza politica del concetto di beni comuni mette in evidenza l’ambiguità del rapporto dei di- fensori dei commons con lo Stato. Il movimento dei commons, nato da una persuasiva critica alla proprietà privata e alle rinunce dello Stato neoliberale, ogni tanto si lascia andare al veemente elogio delle capacità di auto-organizzazione della «società civile». Il rischio è quello di diventare gli «utili idioti» del neoliberalismo, criticando la sacralizzazione della proprietà privata solo per far arretrare lo Stato sociale. Tuttavia, molti ricercatori e militanti sono con- sapevoli del pericolo. Come ricorda Benjamin Coriat, «i beni comuni hanno bisogno dello Stato per svilupparsi, perché deve creare le risorse (a cominciare dalle risorse giuridiche) di cui i commoners [i produttori di beni comuni] hanno bisogno per esistere (14)».

Proibire la vendita di computer abbinati a determinati software l’acquisto di un Pc corrisponde, in pratica, all’acquisto di un computer e di Windows in- centiverebbe per esempio lo sviluppo di software liberi.Si tratta quindi di riaffermare il ruolo dello Stato, riflettendo contemporaneamente sull’evoluzione dei suoi interventi. Questo implica l’elaborazione di un quadro giuridico in grado di favori- re i beni comuni e le strutture come le cooperative capaci di farsene carico, anche in ambito commerciale.

Questo presuppone inoltre l’accettazione che la proprietà pubblica non si limiti a un patrimonio di cui lo Stato può fare un uso discrezionale, ma comprenda l’insieme dei beni e dei servizi destinati all’uso pubblico, che di conseguenza devono essere gestiti nell’interesse di tutti. Bisogna inoltre ricordare che lo Stato sociale ha la vocazione di fornire agli individui gli strumenti temporali e finanziari per sviluppare attività indipendentemente dalla proprietà privata e della ricerca del profitto. I beni comuni invitano quindi a rivedere l’articolazione tra la sfera commerciale, i compiti dello Stato e quel che può essere lasciato all’autoorganizzazione dei collettivi liberamente costituiti. Una bella sfida per la filoso fia politica e, forse, anche una speranza per la sinistra.

(1) «Parlez-vous le Philippe de Villiers?», Bfmtv. com, 7 ottobre 2016.
(2) Benjamin Coriat (a cura di), Le Retour des communs. La crise de l’idéologie propriétaire, Parigi, Les Liens qui libèrent, 2015.
(3) Jean Tirole, Économie du bien commun, Pa- rigi, Presses universitaires de France, 2016.
(4) Frédéric Monlouis-Félicité, «Pour une élite économique engagée», Parigi, L’Opinion, 16
aprile 2015.
(5) Karl Polanyi, La grande trasformazione: le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, 2010.
(6) Cfr. National Research Council, Procee- dings of the Conference on Common Property Resource Management, Washington, DC, Na- tional Academy Press, 1986.
(7) Garrett Hardin, «The Tragedy of the Com- mons», Washington, DC, Science, vol. 162, n° 3859, 13 dicembre 1968.
(8) Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006.
(9) Commissione Rodotà, conclusioni cita- te da Ugo Mattei, «La lutte pour les “biens communs” en Italie. Bilan et perspectives», Raison publique, 29 aprile 2014, www.raison- publique.fr
(10) Si legga Ugo Mattei, «Rendere inalienabili i beni comuni», Le Monde diplomatique/il ma- nifesto, dicembre 2011.
(11) Si legga «Lo strano destino del software libero», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2014.
(12) Cfr. James Boyle, «The second enclosure movement and the construction of the public do- main», Durham (Stati uniti), Law and Contem- porary Problems, vol. 66, n° 1-2, inverno 2003.
(13) Cfr. Pierre Crétois e Thomas Boccon-Gibod (a cura di), État social, propriété publique, biens communs, Lormont, Le Bord de l’eau, 2015.
(14) «Ne lisons pas les communs avec les clés du passé. Entretien avec Benjamin Coriat», Contretemps, 15 gennaio 2016, www.contretemps.eu

(Traduzione di Alice Campetti)

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