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Giorgio Nebbia
Quando gli eserciti uccidono i propri soldati
23 Maggio 2016
Giorgio Nebbia
Nei giorni scorsi la Corte d’Appello di Roma ha confermato la precedente sentenza di condanna del Ministero della Difesa italiano colpevole

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di non avere adeguatamente informato e protetto il caporalmaggiore Salvatore Vacca, morto di leucemia a 23 anni per essere venuto in contatto con uranio impoverito durante la campagna di Bosnia del 1998. Il metallo tossico era usato nei proiettili dalle forze NATO di cui il giovane Vacca faceva parte.

L’uranio è un metallo molto pesante (pesa un terzo più del piombo, quasi come il tungsteno), durissimo ed è piroforico: quando un proiettile contenente uranio urta ad alta velocità un corpo metallico (per esempio la corazza di un carro armato), raggiunge altissime temperature, si ossida e il calore liberato è sufficiente a far fondere la corazza di un carro armato o di una fortificazione. Durante l’urto e l’ossidazione una parte dell’uranio si libera sotto forma di finissime particelle di metallo o di ossido che ricadono tutto intorno al punto dell’impatto. L’uranio non solo è radioattivo, ma è anche tossico.

L’uranio era già stato usato dall’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale, quando scarseggiava il tungsteno impiegato nei proiettili penetranti. Nel suo libro di memorie il ministro degli armamenti della Germania nazista Albert Speer ha scritto: «Nell’estate del 1943 sono cessate le importazioni di minerali di tungsteno dal Portogallo: ho perciò ordinato di usare le riserve di uranio, circa 1200 tonnellate, per la fabbricazione di proiettili penetranti, dal momento che era stato accantonato il progetto di costruire la bomba atomica». L’impiego dell’uranio come metallo per proiettili penetranti, già presente nelle fertili menti degli ingegneri tedeschi, è rimasto limitato fino a quando non è diventato disponibile in grandi quantità come sottoprodotto delle attività nucleari negli Stati Uniti. La produzione di energia nelle centrali nucleari e nelle bombe atomiche dipende dall’uranio, un elemento che è presente in natura con due isotopi, uguali dal punto di vista chimico, ma con un differente numero di protoni nel nucleo: l’uranio-235 (presente in concentrazione di appena lo 0,7 percento), e l’uranio-238, il più abbondante. Le centrali nucleari liberano calore sottoponendo a “bombardamento” con neutroni l’uranio contenente circa il 3 o 4 percento di uranio-235; le bombe nucleari liberano l’enorme quantità di energia esplosiva in seguito all’urto con neutroni dell’uranio contenente circa 90 percento di uranio-235.

La separazione dei due isotopi si ottiene facendo passare i rispettivi fluoruri allo stato gassoso attraverso speciali “filtri” che lasciano passare prevalentemente il più “leggero” isotopo uranio-235; in queste operazioni di ”arricchimento” dell’uranio-225 si formano dei residui di uranio “impoverito”, costituito quasi esclusivamente dal più “pesante” isotopo-238 (contenente soltanto circa lo 0,2 percento di uranio-235).

Nel corso di mezzo secolo, nei paesi in cui si sono svolte attività industriali di “arricchimento” dell’uranio - Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica (l’attuale Russia), e altri - si sono accumulate grandissime quantità di uranio ”impoverito”, mezzo milione di tonnellate negli Stati Uniti, oltre un milione di tonnellate nel mondo, come sottoprodotto e scoria degli impianti di diffusione gassosa. Il complesso militare-industriale ha così pensato che era un peccato buttare via tutti questi residui di uranio-238 e gli ingegneri militari si sono così ricordati che l’uranio impoverito si presta bene per la fabbricazione di proiettili penetranti, è migliore del tungsteno e, proprio per il suo carattere di sottoprodotto industriale, costava meno del tungsteno stesso. Si trattava, insomma, del recupero e riciclo di un rifiuto, secondo i principi della migliore “economia circolare” !

Con l’unico inconveniente che l’uso militare dell’uranio impoverito, radioattivo anche lui e tossico, rappresentava una fonte di pericolo e contaminazione delle persone e dell’ambiente; non solo sono contaminati i combattenti nemici, ma anche i combattenti che l’hanno usato e i civili che percorrono strade o territori in cui permangono residui di polvere di uranio, di questo “metallo del disonore”, secondo il titolo di un documentato libro sull’uso militare dell’uranio impoverito.

Durante la guerra del 1991 in Iraq l’esercito americano ha usato e disperso nell’aria e sul suolo circa 500.000 chili di uranio impoverito; molti soldati americani sono stati contaminati e hanno manifestato una speciale malattia, la “Sindrome del Golfo” con effetti anche mortali. Molti reduci americani hanno chiesto e ottenuto dei risarcimenti dal loro governo.

E’ stato stimato che oltre tremila militari italiani nelle forze NATO in missione di pace in Bosnia e nel Kosovo siano stati esposti al metallo tossico usato nei proiettili dei cannoni e dei carri armati e che oltre trecento siano morti per questa causa. Molti reduci hanno chiesto giustizia al governo italiano senza successo. Soltanto dopo 14 anni una qualche giustizia è stata resa almeno al caporalmaggiore Vacca.

Ci sarà una città o un paese che intitolerà una via o una piazza ai “Caduti di guerra avvelenati dalle armi del proprio esercito”? Senza contare che nessuno aiuterà a riconoscere le malattie, dovute ad una così subdola causa, comparse negli abitanti dell’Iraq meridionale, o negli abitanti della ex-Jugoslavia, una volta che sono tornati nelle loro terre devastate e contaminate; chi li aiuterà a guarire, chi riconoscerà la causa della loro morte nell’uranio radioattivo, “brillante” frutto di una tecnologia che non si ferma neanche davanti ai danni alla vita di persone inermi e all’ambiente?

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

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