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Enzo Collotti
La Resistenza fu un atto di sovranità popolare
25 Aprile 2016
Resistenza
«La scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore».
«La scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore».

Il manifesto, 24 aprile 2016

Chi si ricorda più del 25 aprile? A settantuno anni dal giorno della Liberazione è lecito porsi questo interrogativo. Beninteso, non alludiamo al fatto in sé della conclusione della lotta di liberazione – anche se nella memoria della mia generazione quello fu comunque un giorno di festa e sarebbe anche opportuno che molti o pochi di noi ne rievocassimo le atmosfere e gli accadimenti -, ma più in generale al senso di quella conclusione, in una parola allo spirito del ‘45.

A guardare a ritroso i settanta e più anni trascorsi sembrano una distanza di tempo ultrasecolare se consideriamo la lontananza della realtà di oggi da quell’evento.

Contro la registrazione burocratica del 25 aprile come festa nazionale ci piacerebbe evocarlo come un momento sempre presente di esercizio della sovranità popolare. Perché la scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore. Questa riflessione ci è suggerita dalle vicende di questa nostra democrazia repubblicana che, seguendo un processo peraltro non soltanto italiano, ma generalizzabile a livello europeo (se non mondiale), tende a restringere sempre più lo spazio di autonomia e di sovranità degli individui e dei corpi sociali e con ciò anche la consapevolezza che essi potessero avere del loro ruolo in una società democratica. Complici la minaccia del terrorismo islamico, i problemi immani che derivano dalle migrazioni dell’ultimo decennio, le persistenti crisi economiche legate a un modello di sviluppo destinate a perpetuare diseguaglianze e ingiustizie, si riaffacciano dappertutto le tentazioni a rafforzare il potere esecutivo e a rigettare al margine le istanze di democratizzazione e di partecipazione.

Il processo di svilimento dei partiti politici e di svigorimento degli stessi sindacati, che avrebbero dovuto rappresentare la palestra della democrazia nella società e nei luoghi di lavoro, ha aperto un vuoto e fa da sfondo a questa invasione del potere esecutivo. Nella cultura politica del nostro Paese lo spirito del ’45 non si è mai riflesso interamente, è penetrato a intermittenza, con qualche fiammata che non è riuscita a interrompere la continuità di un mediocre barcamenarsi in una perpetua navigazione a vista. Anche per questo alla classe dirigente dell’antifascismo storico, che rimane pur sempre quanto di meglio il Paese ha espresso, non ha fatto seguito la formazione di una classe dirigente degna di questo nome. La sua mediocrità è sotto gli occhi di tutti e, a differenza che in altri contesti europei, le sue insufficienze non sono state e non sono compensate neppure da un ceto amministrativo di provata capacità tecnico-gestionale e di assoluta probità. La corruzione in cui affonda il Paese non è l’ultimo dei fattori che espropria i cittadini della possibilità della partecipazione alla cosa pubblica come contributo a livello individuale dell’esercizio della sovranità.

Le utopie del ’45, il rinnovamento politico e morale all’interno e il sogno degli Stati Uniti d’Europa sul piano internazionale, si scontrano oggi con il rozzo empirismo di mestieranti della politica e il riemergere di anacronistici quanto feroci e aggressivi egoismi nazionali.

Le aspettative del ’45 hanno avuto breve durata. Nello spazio di due anni lo spirito di conservazione, la nostalgia del quieto vivere, e l’eterna paura del salto nel buio hanno frenato e affossato sul nascere le speranze e le istanze del rinnovamento. Il 18 aprile del 1948 non è stato soltanto la sconfitta elettorale della sinistra, è stato il rifiuto a lungo termine delle aperture del ’45.

Non è certamente un caso che nel momento in cui si pone mano ad una pur necessaria revisione della Costituzione, che di per sé rimane l’espressione della stagione di rinnovamento aperta dalla Liberazione, non si è trovata strada migliore che proporre il pasticcio di una riforma costituzionale che, unita a un sistema elettorale truffaldino, intacca seriamente il principio della rappresentanza e di fatto limita il ruolo stesso del Parlamento.

Richiamare lo spirito del ’45 non vuole essere espressione di una improbabile nostalgia; vorrebbe essere un incoraggiamento a tornare a pensare fuori dalla contingenza immediata con una visuale di tempi lunghi, recuperando un patrimonio ideale che non è affatto spento. Contro la retorica della memoria ci piacerebbe che questa memoria fosse rivissuta nella pratica.

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