I SETTE VIZI CAPITALI
DEI CAPI-PARTITO
SUI TRE NUOVI GIUDICICOSTITUZIONALI
di Franco Monaco
L’impasse sui tre giudici della Consulta è sempre più umiliante e imbarazzante. Mi sia lecito fare qualche appunto a margine.
Primo: si spiega perfettamente l’ulteriore discredito - come se ve ne fosse bisogno - gettato sul parlamento dalla sua ingiustificabile inadempienza. Essa investe l’istituzione, ma anche tutti e singoli i parlamentari. Si deve tuttavia sapere che essi (intendo i singoli parlamentari) sono totalmente esclusi da tali decisioni, gestite nella forma più verticistica dai capi partito. Nonostante le mie rimostranze, mai, dico mai, quantomeno il gruppo parlamentare cui appartengo [il PD n.d.r.] ci ha dato modo di discutere non dico i nomi (che pure non dovrebbe essere vietato), ma quantomeno metodo e profilo di essi. Dunque, risponda chi più precisamente deve risponderne, ovvero i vertici dei partiti.
Secondo: mi si è obiettato che, in passato, si è sempre fatto così (ieri il bigliettino allungato in aula, ora l’sms all’ultimo minuto). Non è esattamente così e tuttavia non è un buon argomento. Anche per due novità specifiche che riguardano l’elezione attuale: (1) la circostanza che questa volta si tratta di eleggerne ben tre e dunque di concorrere significativamente a disegnare il profilo complessivo della futura Corte; (2) proprio in queste settimane, la Camera sta varando una riforma costituzionale di grande portata che, comunque la si giudichi, disegna una democrazia maggioritaria (specie se la si considera associata all’Italicum) e che, conseguentemente, prescriverebbe di marcare vieppiù la terzietà degli organi di garanzia. Mai come ora.
Conseguenza? Terzo rilievo: a maggior ragione ci si dovrebbe orientare su figure di alto profilo e a tutti gli effetti indipendenti. Non figure controverse (erano necessarie 20 votazioni per comprendere che Violante, a torto o a ragione, rappresentava un nome divisivo e dunque un ostacolo a quella larga intesa prescritta dal quorum?).
Quarto: giusto per farsi carico di questa esigenza di terzietà e sapendo quanto sia facile cadere in tentazione da parte dei partiti, sarebbe utile ancorarsi a una sorta di convenzione: no al passaggio diretto, senza soluzione di continuità, dal parlamento o dal governo agli organi di garanzia. Per essere esplicito: no a Sisto oggi (che peraltro fatica a raccogliere anche i voti di Fi). Come sarebbe stato meglio evitare ieri, in questo caso per il Csm, l’elezione di due ex colleghi che menziono per onestà intellettuale proprio perché amici che stimo: Legnini e Balduzzi. Piuttosto che Leone e Casellati, a suo tempo molto esposti politicamente nella stagione da dimenticare (o da ricordare!) delle leggi ad personam.
Quinto: tra le motivazioni dell’impasse, si dice, vi sarebbero ragioni di puntiglio rappresentate come ragioni di principio e cioè la tesi secondo la quale non devono essere gli altri gruppi a scegliere il «nostro». Tesi da confutate in radice: il criterio più convincente e più coerente con la suddetta «terzietà» è semmai che i principali gruppi convergano su tutti e tre i nomi. Non è impossibile. In passato ci si è riusciti.Nessuno può sedersi al tavolo dicendo: Tizio o morte. Sennò effettivamente non se ne esce. L’imparzialità non è la somma delle partigianerie.
Sesto rilievo: la discussione non possono essere confinate nel perimetro della maggioranza di governo. Stando alla tradizione e alle consuetudini parlamentari, gli attuali tre grandi raggruppamenti dovrebbero poter esprimere candidati (naturalmente con il suddetto profilo). In concreto, non si capisce perché non lo possa fare il gruppo 5 stelle, tanto più se si considera che, nel caso concreto, esso ha proposto un metodo di trasparente confronto e, quanto al merito, un candidato da tutti giudicato all’altezza.
Settimo: il Pd propone Barbera. Anche sul suo nome si può discutere. Non è un mistero che, anche in settori del Pd, gli si rimprovera di avere ispirato le riforme di stampo maggioritario e segnatamente il ddl Boschi che a taluni non piacciono. È un argomento. Ma, complice la mia stima per la persona e lo studioso, mi sentirei di fare tre osservazioni (1) egli teorizzava il «modello Westminster» ben prima della stagione renziana; (2) è costituzionalista di vaglia, ha tutti i titoli per la Consulta, come ha riconosciuto anche Zagrebelsky, che pure ha posizioni politico-costituzionali assai lontane dalle sue; (3) per come lo conosco, sono sicuro che, una volta eletto, egli di sicuro non si farebbe dettare i comportamenti dal governo.
Da vecchio cattolico, credo nella «grazia di stato».
LE CAMERE E L'ARBITRIO
di Ganni Ferrara
L’impotenza dimostrata finora dal Parlamento ad eleggere i tre giudici costituzionali, prima ancora e invece che deprecata, andrebbe spiegata. Ne risulterebbero le ragioni, se ne scoprirebbero le responsabilità. Si dedurrebbe innanzitutto che questa elezione non ha precedenti, non per il ritardo e la difficoltà di scegliere candidati adeguati al tipo e al valore dei giudizi di costituzionalità, ma per la posta che è in gioco. Una posta che va ben oltre la valutazione della conformità a Costituzione di una legge o di un atto avente forza di legge o l’esercizio di un’attribuzione ad uno o ad un altro potere dello stato o tra Stato e Regioni o tra Regioni. È in gioco il ruolo stesso della Corte, la sua funzione di garanzia effettiva della Costituzione. È in gioco la forma di governo sancita in Costituzione. È in gioco la fisionomia dell’ordinamento della Repubblica, la determinazione di suoi principi fondanti, la sua identità.
È della democrazia italiana che si tratta, è la democrazia italiana ad essere stata posta in gioco con le due operazioni di chirurgia istituzionale compiute dal governo Renzi e dalla sua maggioranza con l’Italicum e col cosiddetto «superamento» del bicameralismo. È di queste due leggi, della loro costituzionalità che sarà chiamata a giudicare la Corte costituzionale. Con buona pace degli assertori, ingenui o ipocriti, della unitarietà e della neutralità della scienza giuridica, le sentenze, specie se di costituzionalità, riproducono, ineluttabilmente l’orientamento, la cultura, la sensibilità, lo specifico canone interpretativo dei testi normativi che adotta il giudice che le pronunzia e, se giudice collegiale, quella della maggioranza dei membri del collegio. Ebbene, come mai finora così decisamente, questi fattori interverranno a determinare il giudizio su queste due leggi. L’ingresso di tre giudici, con i loro orientamenti, le loro sensibilità, nel collegio giudicante si pone perciò come decisivo. Decisivo, per ribadire lo spirito e la lettera della sentenza n. 1 del 2014 sulla incostituzionalità del porcellum e, di conseguenza, della trascrizione delle sue disposizioni nell’Italicum. O, invece, per discostarsi da tale sentenza e chissà in che misura. Decisiva l’integrazione della Corte anche per il giudizio sul «superamento» del bicameralismo e sugli effetti che, combinandosi con l’Italicum, rispettino o violino il principio della separazione dei poteri, cardine della democrazia costituzionale.
Il Costituente non era né un ingenuo, né un ipocrita. Era ben consapevole della complessità delle esigenze da soddisfare con la scelta del modo di composizione di un organo competente a giudicare gli atti parlamentari per antonomasia, le leggi. Strutturò con molta saggezza questo organo per far sì che in esso potessero confluire le culture giuridiche derivanti dalle tre esperienze, quella giurisprudenziale, quella dottrinale, quella forense. E, quanto a queste due ultime, affidò al Parlamento il compito di provvedervi, ma gli impose il modo, quello che avrebbe garantito il più esteso consenso delle forze politiche alla scelta dei giudici. Ne derivò, mediante una convenzione rispettata per più di 40 anni, l’effettiva presenza nella Corte delle diverse culture, professionalità, sensibilità giuridiche e giuspolitiche. Diverse, non compatte.
La devastazione costituzionale che Renzi sta compiendo ha incrinato questa convenzione. Alla pluralità delle culture e delle sensibilità, al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, Renzi vuole sostituire l’approvazione del suo ordito istituzionale, la sicurezza che i tre eletti sostengano la legittimazione… dell’illegittimità. Mira quindi a ridurre anche la Corte costituzionale ad organo esecutivo per la legittimazione delle decisioni del «capo del governo». Il che equivale alla confessione di un delitto da parte del colpevole. I cui effetti, per ora, sono stati bloccati in 28 sedute di Camera e Senato. Come a dimostrare che, anche se di «nominati», un Parlamento può opporsi all’arbitrio, come quello di una ulteriore manomissione della Costituzione, proprio grazie al nome che porta. Per esserne degno.