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Sergio Brenna
Per la città: Milton Friedman o Keynes?
18 Febbraio 2015
Scritti ricevuti
Una puntuale replica a uno stravagante articolo pubblicato su A

rcipelago Milano dell'economista dei trasporti Marco Ponti. Dal facebook dell'urbanista Sergio Brenna. 17 febbraio 2014, con postilla

Marco Ponti nel suo intervento sul n. 7 di Arcipelago Milano "pontifica" sull'eliminazione dei vincoli all'uso edificatorio dei suoli come l'eliminazione dei vincoli al "libero" mercato delle abitazioni. Il passo successivo è, ovviamente, che su quei suoli ogni proprietario/imprenditore sia libero di costruire con le destinazioni, quantità e altezze più confacenti alle proprie "libere" aspettative di mercato. In Italia i risultati li abbiamo visti in atto nelle città realizzatesi negli Anni Cinquanta-Sessanta tra la ripresa economica post-bellica e la la "legge Ponte" 765/68, e ancora ne soffriamo le conseguenze.

Certo anche l'idea del tendenziale azzeramento del consumo di nuovo suolo, altrettanto ideologica e in voga quanto il neoliberismo economico-urbanistico, rischia spesso di rovesciarsi nella promozione di spropositate densificazioni edificatorie nel riuso di aree già urbanizzate.

Giuseppe de Finetti nel 1946, riflettendo sul tema "Sulle aree più care case alte o case basse?", scriveva: "La manìa delle grandi altezze rientra nella manìa del "Kolossal" così caratteristica negli sviluppi moderni, nella megalomanìa moderna. Non la grande altezza dobbiamo desiderare nel caso di costruzioni sulle aree urbane più care, ma "la giusta altezza"; e questa va deterrminata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.(...) La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte nuove iniziative edilizie che per essere di mole assai minore (dell'Empire State Building) non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irreparabile insulto al volto delle nostre città."

La "giusta altezza", dunque, ma anche "la giusta quantità edificatoria" e "la giusta localizzazione": e a chi spetterebbe stabilirle? Non certo al singolo proprietario/imprenditore, che perseguendo legittimamente il proprio lucro di mercato, si è dimostrato non in grado di stabilirne i limiti. Già la Legge Urbanistica del 1942 e poi il disegno di legge Sullo del 1963 proponevano questa soluzione: approvazione pubblica di un Piano Generale di urbanizzazione, facoltà dei privati di darvi attuazione singola o consorziata e, in caso di inerzia, esproprio a prezzi agricoli, urbanizzazione pubblica, riassegnazione a privati dei lotti edificabili al costo conseguente. Difficoltà belliche, sforzi ricostruttivi, opposizioni politico-ideologiche le fecero fallire entrambe, e forse non è opportuno oggi riproporle tal quali. Ma almeno la nostalgia del "glorioso" liberismo urbanistico Anni 50-60, quello vorrei proprio potermelo risparmiare e se proprio devo sposare una visione economica, vorrei poter essere almeno keynesiano!

postilla

Non è facile comprendere se in Marco Ponti, nel suo articolo per Arcipelago Milano, abbia preso la mano il gusto del paradosso, oppure se sia davvero convinto di quello che ha scritto. Se si dovesse escludere la prima ipotesi, allora bisognerebbe ritenere che Ponti ha una visione veramente distorta della città, e una visione molto neoliberista dell'economia. Intanto, sembra pensare che la città, l'habitat dell'uomo, sia composto soltanto di case (e naturalmente di strade, ferrovie, tram, metropolitane e le altre simili cose di cui è maestro. Il che è palesemente una follia, e non è ai frequentatori di
eddyburg che si debba argomentarlo. Che poi il suo pensiero economico si sia ridotto a Milton Friedman e ai Chicago boys, dimenticando non solo il filone Adam Smith-David Ricardo-Karl Marx, ma perfino quello dei liberisti alla Luigi Einaudi è cosa che può dispiacere, ma è nello Zeitgeist. Speriamo che, su un altro terreno, non invochi per l'Italia, scavalcando o anticipando Renzi, un altro Pinochet.

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