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Lodo Meneghetti
Pensieri indisciplinati e no
9 Gennaio 2015
Lodovico (Lodo) Meneghetti
«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità >>>

«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità >>>

«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità, che non vuol dire (come succede con certe riviste) invitare qualcuno per un commento collaterale »Questa conclusione di Fabrizio Bottini (Postilla a "Periferie: una rinascita senza ghetti", di Vittorio Gregotti, 5.01.14) che dà la precedenza alla «seria interdisciplinarità» in margine a una discussione sulle periferie («rammendare», Renzo Piano) mi ha fatto riflettere, messo da parte il tema delle periferie, a cominciare dall’esperienza nella facoltà di architettura di Milano. Nel lontano passato, nella nostra vecchia scuola del dopoguerra e in seguito fino alla prima contestazione degli studenti nel 1963, non casualmente avvenuta nel corso di urbanistica tenuto da Luigi Dodi, indiscussa era l’indipendenza di ogni insegnamento sia nei contenuti che nel metodo. Era assicurato, per tranquillità dei professori titolari, l’isolamento di ogni disciplina poiché mancava un vero programma di facoltà volto a costruire una figura di architetto dotato di una cultura professionale capace di riunire le diverse competenze separate in un unicum di ordine superiore.

Quando toccò a noi di insegnare, l’enorme ritardo dell’università di fronte al nuovo rapido mutamento sociale che esigeva conoscenze di inusitata ampiezza, si doveva «eccedere» nel dotare di complessità e ricchezza informativa la proposta didattica: soprattutto nell’urbanistica «contando sulle proprie forze», magari accettando tranquillamente l’accusa di essere rischiosamente totalizzanti e non prudentemente specializzanti. D’altra parte prosperavano, ancora, ambienti di sola, cieca, antistorica specializzazione, per di più a basso livello. Mancava invece un argine sicuro, costruito col contributo di tutti, contro la semplificazione dei problemi, contro l’abitudine a non mettere in relazione un problema con un altro, contro l’ignoranza dei processi economico-sociali che soprintendono alla costruzione del territorio e della città. Contando sulle proprie forze si è cercato di costruire almeno un filare di sacchetti di sabbia.

L’architettura, l’urbanistica, l’architettura degli interni, il restauro e la storia avevano bisogno l’una dell’altra, potevano rompere i propri recinti e guidare gli studenti verso più ampi orizzonti della conoscenza. Per parte sua l’urbanistica doveva aprirsi alle scienze umane (economia, geografia umana, sociologia…) non tanto quale contributo di «esperti» per così dire esterni, quanto per propria capacità di introiettarne l’essenziale: allo scopo di trasformarsi da mediocre tecnica a sapere molteplice e unitario in grado di agire conformemente ai mutamenti continui del reale. Avevamo letto in pochi, alla prima pubblicazione in Italia nel 1964 grazie a Feltrinelli, il saggio di Edgar Percy Snow Le due culture (1959 in Inghilterra). La radicale divisione fra cultura umanistica e cultura scientifica sembrava insuperabile. Snow conduceva un’intensa battaglia affinché esse dialogassero, ma il risultato fu che, dopo un momento in cui «almeno si sorridevano freddamente attraverso l’abisso che le separava, la cortesia è venuta meno – scriveva – e si fanno le boccacce». La scuola aveva la sua parte di colpa, come «l’eccessiva specializzazione degli esami universitari di Oxford e di Cambridge».

Non rinunciammo al nostro compito, cercando di completare in noi stessi l’acquisizione di una cultura composta. L’interdisciplinarità era applicabile da subito, per gli insegnanti di urbanistica (la nuova urbanistica «aperta») e di architettura disponibili al confronto, cominciando dall’unità fra l’analisi e il piano o progetto e dalla compartecipazione delle due discipline non solo nel disegno urbano. Su queste basi fondammo un laboratorio denominandolo Formazione storica, uso e progetto del territorio e impostammo la didattica come intreccio fra l’una e l’altra categoria.

Nonostante i tentativi fatti allora nell’università e qualche riflesso all’esterno raccolto da pochi urbanisti e architetti (i migliori), ora l’urbanistica e l’architettura vivono quanto mai del tutto separate. La prima non ha affatto concluso quel processo di introiezione delle scienze umane che sperimentammo a scuola; la seconda sembra dominata da alcuni autori internazionalisti (stupidamente detti «archistar» dalla stampa corrente e dalla pubblicità) stretti alleati delle più potenti aziende immobiliari per poter realizzare enormi, mostruosi oggetti completamente estranei ai contesti sociali: come fossero derivati da modellini-soprammobili da ingrandire cinquecento volte. (Se c’è un’altra architettura seriamente propensa a ricercare, insieme all’urbanistica, soluzioni ai problemi anziché rappresentare solo se stessa, l’ombra dei suddetti King Kong la oscura, la cancella).

Ad ogni modo è necessario ancora, oggi, selezionare i temi che l’ottica territoriale e urbana (anche nel senso della scala) impone all’attenzione e, ricuperando senza remore la portata dell’interdisciplinarità e della molteplicità, trattare in modo originale la questione del piano-progetto del territorio e della città. L’esame della realtà e della cultura dominante dimostra che quanto a costruzione di un habitat specchio di una migliore qualità della vita in particolare dei ceti subalterni ben poco o nulla è successo. Anzi, il passato è meglio del presente, il futuro potrebbe sancire il pluridecennale disastro.

La trasformazione capitalistica del territorio, nel processo storico, mostra che a dati modi e rapporti sociali di produzione corrisponde una certa configurazione generale. Ogni problema posto nello spazio e nel tempo marca il rapporto che una determinata formazione economico-sociale-politica instaura col territorio, diverso da quello di un altro periodo storico o di un altro luogo. Quanto più si è dato uno sviluppo delle forze produttive, delle forze sociali, dei rapporti di produzione tanto più profonda è stata la modificazione dei paesaggi (vedi il saggio di Lucio Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, nella Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1972, I vol. I caratteri originali, pp.5-60).

In Italia la conformazione dello spazio risente del manchevole riformismo della borghesia e della «razza padrona». Altrove ciò è avvenuto, pur senza violazione sostanziale dei processi territoriali compatibili con i rapporti capitalistici. Anche il mutamento del rapporto fra redditi da capitale e redditi da lavoro a favore di questi ultimi, per esempio al tempo dello statuto dei lavoratori, del nuovo contratto all’Alfa Romeo (1963)…, o la variazione di peso fra le forze politiche localmente e nazionalmente non hanno comportato una modificazione apprezzabile del «codice» di appropriazione classista (direi padronale) del territorio. La cultura urbanistica e architettonica e la cultura degli amministratori locali non sapevano indicare traguardi chiari e superiori, inoltre hanno mancato gli obiettivi più scontati: varare più leggi, approvare più piani dedotti da quelle, gestire un’urbanistica in mero senso applicativo di norme e indici quantitativi (standard).

Così un’urbanistica riduttiva anziché aperta come l’avevamo provata nella scuola e un’architettura estraniata da qualsiasi contestualità sopradisciplinare non potevano risolvere nessuno dei problemi territoriali-sociali che la comunità si trovava di faccia. Il piano (come il progetto «edilizio») normativo,«regolare», rappresentazione di un illusorio egualitarismo distributivo avulso da una realtà che si manifesta in termini socio-economici e territoriali di dominio/dipendenza, egemonia/subalternità, ricchezza/povertà, diveniva contributo inconsapevole a coprire le contraddizioni esistenti: quando non a falsificare le componenti quantitative e qualitative dello sviluppo o a facilitare la riproduzione o la restrizione della forza lavoro secondo le esigenze del capitale, e l’espansione o la riduzione dei consumi popolari.
Se si adottano leggi e norme nuove – e in Italia ciò non è avvenuto nei periodi cruciali in cui altri paesi capitalistici vi hanno provveduto, dallo scorcio dell’Ottocento agli anni Trenta – senza che nascano nuove culture degli urbanisti, degli architetti, degli amministratori pubblici, delle masse (oso dirlo) e si confrontino attorno ai nodi irrisolti, ne consegue che non sono superati né l’inefficacia del gestionismo ritenuto oggettivo né l’angustia del «buon governo» né certo burocratismo del controllo edilizio. Sicché non si riesce a fondare le basi di un progetto di territorio davvero conforme ai bisogni (saputi o «insaputi») della grande maggioranza della popolazione.

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