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Goffredo Buccini
«Nelle periferie non luoghi la politica dimentica la gente»
14 Novembre 2014
Periferie
Se pensano di partire dai rammendi di un bravo architetto per trasformare la città dominata dalla rendita e dall'emarginazione sociale nella città finalizzata al benessere di tutti i suoi abitanti, allora il cammino sarà tortuoso e porterà indietro. Se vogliono altro, un architetto può bastare.

Se pensano di partire dai rammendi di un bravo architetto per trasformare la città dominata dalla rendita e dall'emarginazione sociale nella città finalizzata al benessere di tutti i suoi abitanti, allora il cammino sarà tortuoso e porterà indietro. Se vogliono altro, un architetto può bastare. Corriere della Sera, 14 novembre 2014

Renzo Piano li chiama «rammendi». E accidenti se c’è da rammendare, nelle banlieue di Milano e Roma.«Vede, ci siamo occupati troppo a lungo delle città senza preoccuparci della gente, questo è il risultato», sospira Mario Abis, il sociologo del gruppo G124 inventato da Piano per riqualificare le periferie italiane: «La politica non ha mai ragionato sul Paese. Ora noi partiremmo dai... rammendi di un grande architetto per arrivare a una tessitura delle città».

Professore, a Milano e Roma gli ultimi si massacrano con i penultimi, nodi e conflitti vengono al pettine...
«Sì. È stato tutto a lungo in ebollizione, ora tutto scoppia, in strutture sociali complesse e con diversi tipi di povertà».

Cosa sta cambiando?«Viene meno il proletariato urbano. Ci sono forme multietniche, diverse tipologie di abitanti delle periferie».

E c’è la crisi, ovviamente . «Con la disoccupazione e una esplosione planetaria delle diseguaglianze. Intanto cambiano anche le città, diventano grandi aree metropolitane. Milano ha un milione e duecentomila residenti ma un’area metropolitana di cinque milioni di persone. Si arriva a territori senza identità, non luoghi: è la periferizzazione delle città che s’accompagna a isolamento, enclave chiuse, competizione tra le molte etnie».

Dopo tre giorni di tafferugli a Tor Sapienza, s’è deciso di trasferire i migranti ospiti dal centro assediato. Un cedimento repentino: non rischia di produrre emulazione?«Sì, c’è il pericolo di una spirale di imitazione. Pensi alle banlieue francesi. È molto possibile che questo meccanismo si riproduca, magari in altri punti della periferia romana, o napoletana o palermitana».

A Milano l’impressione che lo Stato abdichi di fronte al racket delle occupazioni è fortissima in queste ore... «La mancanza dello Stato e della pubblica amministrazione è totale, direi. Come la mancanza di piani strategici e cultura della prevenzione».

Perché non si riesce a fare un piano regolatore decente? «Perché il territorio è visto come una situazione fisica, asettica. Lei allo Zen di Palermo può portare anche il migliore architetto, ma se non c’è relazione tra tessuto urbano e sviluppo sociale, non ne esce».

Pensando alla gente, eh? «Appunto, alla gente».

A Tor Sapienza come altrove, è palese che un brutto ambiente produca gente feroce. «Quando dico ambiente sostenibile questo intendo. Proprio sull’estetica delle periferie lavoriamo con Piano. Etica e estetica vanno assieme».

Come dice monsignor Bregantini, del resto. «Ora l’occasione sono le aree metropolitane. Cosa ci mettiamo dentro? Se ne facciamo una sommatoria di paesi, saranno l’incubatore del conflitto».

I francesi questo problema se lo sono posto nel 2003, con un piano nazionale. E Marsiglia è diventata un modello. Perché noi non ci riusciamo? «Perché siamo burocratici, macchinosi e lenti. Le città si sviluppano a un passo che la nostra micidiale burocrazia non regge. Questo si può superare nelle piccole comunità».

E non serve un progetto nazionale? «Certo. Ma il senso di questo lavoro di Piano è produrre proprio idee e spunti che portino a una visione nazionale».

Ci vorrebbe una politica. «Ci vorrebbe. E le aree metropolitane sono l’occasione per creare un ceto politico aperto. Queste cose non si risolvono a livello centrale. Del resto ci sono esperienze come Udine o Lecce dove le cose funzionano e bene».

Già, ma Milano, Roma o Napoli sono diverse. «La chiave è la scomposizione delle aree».

Cioè facciamo di Roma tante piccole Udine? «Non me la faccia dire così. Però, sì, è un discorso di sotto-insiemi collegati da un filo rosso. Ancora una volta, è una questione di cultura politica».

Cosa le fa pensare che infine ce l’avremo? «È una speranza. E anche un calcolo. La grande competizione internazionale si giocherà tra le città, non tra i Paesi. E la politica è tenuta a occuparsene, a guardare alle città con occhi diversi. Altrimenti saremo fuori dalla competizione economica internazionale».

All’aeroporto di Catania, da mesi, un cartello affisso dalla Questura sconsiglia ai turisti i quartieri periferici ad alto degrado: il primo della lista è Librino. Proprio a Librino, il gruppo di Renzo Piano ha individuato il «Campo San Teodoro liberato» e la vicina scuola Brancati come punto di ricucitura del tessuto urbano.

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