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Maria Pia Guermandi
Ruderi e rovine: i Rolling Stones e il Circo Massimo
20 Marzo 2014
Maria Pia Guermandi
Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo >>>

Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo >>>

Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo, questa vicenda ha già provocato parecchie ferite, istituzionali e culturali.
Alla credibilità dell'amministrazione capitolina e degli organi di tutela, innanzi tutto. Nei giorni scorsi sono difatti state diffuse notizie sull'andamento del tavolo OSP: quell'organismo cui partecipano i rappresentanti delle istituzioni coinvolte per decidere degli usi dello spazio pubblico di Roma. In pratica, di fronte alle obiezioni sul piano della tutela della sola Soprintendenza Archeologica, la Direzione Regionale dei beni culturali e paesaggistici del Lazio ha deciso, stante il nulla osta delle altre Soprintendenze presenti, di accordare il permesso per lo svolgimento del concerto che radunerà, ai margini dell'area archeologica centrale, una folla presumibile di circa 65.000- 70.000 attempati fans.

Il Circo Massimo ospita da anni manifestazioni di tutti i tipi, solo in pochissimi casi etichettabili come eventi culturali. Già in altre occasioni, queste iniziative si sono rivelate lesive dell'integrità delle strutture e l'area nel suo complesso ha mostrato le sue fragilità quanto a carenze infrastrutturali. In altri casi, invece, la cornice del Circo Massimo si è rivelata perfettamente adeguata alle attività ospitate.
Insomma, il caso in questione non si poteva definire certo nuovo e privo di precedenti e quindi di elementi di giudizio circostanziati.

Eppure, gli organismi coinvolti, tutti senza eccezioni, hanno dato prova di un sostanziale dilettantismo istituzionale: perché nel 2014 sia l'amministrazione capitolina e in particolare quell'appendice di dubitabile utilità che ne è la Sovrintendenza ai beni culturali, sia gli organi di tutela statali non possono dimostrare di ignorare gli standards di sicurezza dei singoli monumenti o spazi di così rilevante importanza per la vita della città.
Si tratta di elementi oggettivi (condizione delle strutture e loro resistenza a vulnerabilità di diversa tipologia, criticità infrastrutturali, ecc.) che rappresentano una condicio sine qua non per un uso sostenibile degli spazi pubblici.
Elementi che non sono passibili di contrattazione, tanto meno su base "democratica": per un'incredibile decisione della Direzione Regionale, al tavolo OSP le decisioni vengono prese a maggioranza, dove la maggioranza finisce quasi sempre per coincidere con la convenienza di chi rappresenta il potere politico prevalente in quel momento.
A questo bel risultato si è aggiunta la consueta estraneità ai criteri di trasparenza: l'andamento della discussione è 'filtrato' con ritardo, con successive chiarificazioni, suscitando una discussione forse tardiva e su basi distorte.

In realtà, oltre che su di un piano tecnico e di adeguamento delle conoscenze agli obiettivi pubblici che perseguono, le istituzioni in questione hanno dimostrato un deficit, ancora più grave e profondo, sul piano della politica culturale.
Fatte salve le prescrizioni oggettive di tutela fisica dei monumenti, da monitorare nel tempo, infatti, l'uso di monumenti di simile rilevanza dovrebbe essere inserito in un piano complessivo sugli spazi pubblici che tenga conto delle criticità urbanistiche, ma soprattutto si ponga degli obiettivi di fruizione del patrimonio culturale non dettati dalle esigenze del momento.
A Roma specialmente, dove questo patrimonio è così importante e diffuso, una programmazione di questo genere, del tutto opposta dall'attuale, ma non nuova, gestione estemporanea, irrazionale e contraddittoria e, in ultima analisi, fallimentare non solo sul piano della tutela, non può latitare oltre.

Solo se torneranno ad essere parte integrante della vita cittadina, pur con modalità diversificate e regole precise e determinate su criteri espliciti, questi monumenti sapranno garantirsi un futuro meno incerto di quello che è loro assicurato da organismi troppo deboli per imporre le sacrosante ragioni della tutela. Ragioni che riusciranno a prevalere in maniera non casuale soltanto quando chi è chiamato a difenderle saprà sostenerle non solo come spazio difensivo, perennemente assediato da irresistibili pulsioni alla mediazione, ma come primo passo, imprescindibile ma non sufficiente, per la costruzione di un progetto di città diverso.

Anche di questo si parlerà nel convegno dell'Associazione Bianchi Bandinelli di domani, 21 marzo 2014 "Archeologia e città: dal Progetto Fori all'Appia antica".

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

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