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Guido Viale
La lezione del caso Electrolux
19 Febbraio 2014
Lavoro
Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile. I contenuti di un possibile nuovo "piano del lavoro".
Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile. I contenuti di un possibile nuovo "piano del lavoro".

Il manifesto, 18 febbraio 2014. In calce qualche riferimento

Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiu­derla, o di tra­sfe­rirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli ope­rai, o per poter inqui­nare l’ambiente senza tante sto­rie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requi­sire l’azienda (i sin­daci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pub­blico) e impe­dir­gli di por­tar via i mac­chi­nari. Poi biso­gne­rebbe bloc­car­gli i conti e farsi resti­tuire i fondi che, 90 pro­ba­bi­lità su 100, ha già rice­vuto dallo Stato sotto forma di con­tri­buti a fondo per­duto, cre­dito age­vo­lato, sconti fiscali e con­tri­bu­tivi (ma qui dovreb­bero inter­ve­nire anche altre isti­tu­zioni: Governo e magi­stra­tura). A mag­gior ragione que­sto vale se l’imprenditore in que­stione pone delle con­di­zioni inac­cet­ta­bili per “restare”: per esem­pio dimez­zare i salari, come all’Electrolux.

Ma quello che non biso­gne­rebbe asso­lu­ta­mente fare è cer­care un nuovo padrone, che è invece il modo in cui il Governo ita­liano finge di affron­tare le situa­zioni di crisi (sul tema sono aperti al mini­stero dello Svi­luppo eco­no­mico più di 160 “tavoli”). Se ci fosse un “impren­di­tore” o un gruppo dispo­sto a rile­vare l’impresa alle con­di­zioni esi­stenti si sarebbe già fatto avanti per conto suo. E infatti, le poche aziende ita­liane che vanno ancora bene, soprat­tutto sui mer­cati esteri, tro­vano facil­mente dei com­pra­tori: sono state sven­dute quasi tutte. Ma quelle che non reg­gono più hanno biso­gno di un’altra cura: devono ricon­ver­tire la pro­du­zione e cer­care nuovi sboc­chi, pos­si­bil­mente nei campi che hanno un futuro, per­ché sono quelli nei quali la crisi ambien­tale ren­derà pre­sto inde­ro­ga­bile inve­stire.
Natu­ral­mente una ricon­ver­sione del genere non può gra­vare solo sulle spalle delle mae­stranze abban­do­nate. Devono far­sene carico, accanto a loro, sin­daci e ammi­ni­stra­tori locali, sin­da­cati, uni­ver­sità e cen­tri di ricerca, asso­cia­zioni. Per­ché è pro­prio nel ter­ri­to­rio, o nei ter­ri­tori che sono tea­tro di vicende ana­lo­ghe, che si devono andare a cer­care gli sboc­chi per i nuovi assetti pro­dut­tivi.
Vice­versa, se un nuovo padrone - o impren­di­tore - si fa avanti solo ora, è per­ché si aspetta dallo Stato con­di­zioni di favore — cioè un sacco di soldi - e pos­siamo essere sicuri che lo fa per inta­scar­seli. Un esem­pio illu­mi­nante: i due ban­ca­rot­tieri che si erano fatti avanti per rile­vare l’impianto Fiat di Ter­mini Ime­rese. I risul­tati si vedono: l’impianto è ancora a lì, vuoto, a quat­tro anni da quando si sa per certo che sarebbe stato dismesso; e que­gli aspi­ranti impren­di­tori si sono dis­solti nel nulla; o sono in galera.
Un’azienda che “se ne vuole andare” non ha alcun inte­resse a lasciare a un poten­ziale con­cor­rente mar­chio, bre­vetti, mer­cati, o anche solo una mano­do­pera ben adde­strata; e quindi farà di tutto per ren­dere one­roso e non red­di­ti­zio il suben­tro. La Jabil di Cas­sina de’ Pecchi fa scuola; li c’era tutto per andare avanti: mano­do­pera com­pe­tente, impianti e pro­dotti di avan­guar­dia, clienti inte­res­sati; ma la pro­prietà non intende favo­rire un poten­ziale con­cor­rente e pre­fe­ri­sce man­dare tutto in malora. Tante le espe­rienze sotto i nostri occhi: Alcoa, Alca­tel, Jabil, Nokia, Lucent, Luc­chini, Maflow, Micron Tech­no­logy, e chi più ne ha più ne metta. Quando il Governo dice che biso­gna attrarre inve­sti­tori esteri, non è certo a impianti come que­sti che pensa. Pensa solo a “fare cassa” ven­dendo quello che fun­ziona ancora o che comun­que rende: auto­strade, fer­ro­vie, poste, Eni, Enel, Terna, ecc.

Le minacce di “andar­sene” o la deci­sione di chiu­dere o ven­dere sono altret­tante mosse di una corsa al ribasso per spre­mere sem­pre di più i lavo­ra­tori: la vicenda Elec­tro­lux inse­gna. Se si accet­tano le regole della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta, che affida alla con­cor­renza al ribasso l’organizzazione e la distri­bu­zione ter­ri­to­riale e set­to­riale della pro­du­zione, a que­sta logica non c’è scampo. Ma, obiet­tano i cul­tori dell’ortodossia eco­no­mica (che in que­sto ambito acco­muna libe­ri­sti e key­ne­siani), per non sot­to­stare a que­sta logica una strada c’è: pas­sare a pro­du­zioni a più alto valore aggiunto e mag­giori mar­gini: invece di pro­durre uti­li­ta­rie, pro­durre Mase­rati e Jeep, invece di lava­trici e frigo, impianti indu­striali di refri­ge­ra­zione, ecc. Più in gene­rale, pas­sare a pro­du­zioni a mag­gior con­te­nuto di tec­no­lo­gie e di ricerca.

Intanto per i pro­dotti ad alto valore aggiunto biso­gna tro­vare un mer­cato, per lo più già occu­pato da qual­cun altro. Per esem­pio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sot­trarre quote del mer­cato euro­peo di fascia alta a Mer­ce­des, Bmw o Audi. Per que­sto la pro­du­zione auto­mo­bi­li­stica di Fca Ita­lia, e con essa i suoi sta­bi­li­menti, sono in gran parte con­dan­nati a morte. Per addi­tare una via di uscita i teo­rici dell’ortodossia ricor­rono a una vec­chia teo­ria dello svi­luppo degli anni ’60 di Albert Hir­sch­man, detta delle “ani­tre volanti”: le eco­no­mie sono come uno stormo di ana­tre che volano una die­tro l’altra. Mano a mano che quelle di testa pas­sano a livelli tec­no­lo­gici e più avan­zati, quelle che seguono vanno a occu­pare le posi­zioni abban­do­nate dalle prime; e così, tutte insieme, pro­muo­vono lo svi­luppo glo­bale. Ma quella teo­ria rispec­chiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giap­pone, Corea, ecc.). Ma oggi non fun­ziona più per il sem­plice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli sala­riali e di pro­te­zione dell’ambiente, che pro­prio per que­sto sono diven­tate le mani­fat­ture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scien­ti­fica e tec­no­lo­gica: è deva­stante com­pe­tere con loro sui livelli sala­riali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cer­care di soprav­vi­vere; ma in molti casi è anche impos­si­bile com­pe­tere sui livelli tec­no­lo­gici; soprat­tutto in Ita­lia dove istru­zione e ricerca sono ambiti disprez­zati e negletti.

C’è un ambito in cui l’Italia e l’Europa man­ten­gono ancora qual­che van­tag­gio “com­pe­ti­tivo” (ma meglio sarebbe dire, in que­sto caso, coo­pe­ra­tivo), anche se è anch’esso in via di sman­tel­la­mento per via delle teo­rie libe­ri­ste che ridu­cono tutto al dollar-value, al denaro. Quest’ambito è la com­ples­sità sociale, l’abitudine alla vita asso­ciata, una dimen­sione fon­da­men­tale della socia­lità, il radi­ca­mento in una tra­di­zione di cui il patri­mo­nio cul­tu­rale rap­pre­senta la stra­ti­fi­ca­zione incom­presa (e per que­sto tra­scu­rata). È un fat­tore che non può essere costruito, rico­struito, o recu­pe­rato in pochi anni e di cui lo svi­luppo tumul­tuoso delle eco­no­mie emer­genti ha pri­vato gran parte delle rispet­tive comu­nità pro­prio nei loro punti di mag­gior forza; senza l’accortezza di con­ser­varlo o di sosti­tuirlo con qual­cosa di equivalente.

È que­sto il pre­sup­po­sto di una rico­stru­zione su basi fede­ra­li­ste di un’economia euro­pea auto­suf­fi­ciente (ma non autar­chica), non com­pe­ti­tiva (nel senso di non più impe­gnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sap­pia uti­liz­zare le tec­no­lo­gie dispo­ni­bili e i saperi dif­fusi, sia tec­nici che “espe­rien­ziali”, per riag­gan­ciare la pro­du­zione ai biso­gni con­di­visi della popo­la­zione attra­verso il poten­zia­mento di una nuova “gene­ra­zione” di ser­vizi pub­blici locali in forme par­te­ci­pate, sotto il con­trollo dei governi dei ter­ri­tori: in campo ener­ge­tico (impianti dif­fusi, dif­fe­ren­ziati e inter­con­nessi di uti­lizzo delle fonti rin­no­va­bili ed effi­cien­ta­mento dei cari­chi ener­ge­tici) e in quello agroa­li­men­tare (agri­col­tura di qua­lità ed indu­stria ali­men­tare a km0); nel campo di una mobi­lità fles­si­bile, inte­grando tra­sporto di massa e tra­sporto per­so­na­liz­zato, sia di merci che di pas­seg­geri, attra­verso la con­di­vi­sione dei vei­coli; nel campo del recu­pero e della valo­riz­za­zione delle risorse (quello che noi oggi chia­miamo gestione dei rifiuti), nella sal­va­guar­dia e nella valo­riz­za­zione del ter­ri­to­rio (assetti idro­geo­lo­gici, urba­ni­stici, pae­sag­gi­stici, monu­men­tali, indu­stria turi­stica, ecc.) e, soprat­tutto, nei campi della cul­tura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e men­tale di tutti.

Ecco, allora, pro­fi­larsi un destino diverso per le aziende abban­do­nate e senza più sboc­chi; ecco un ruolo stra­te­gico per le ammi­ni­stra­zioni locali che inten­dono farsi carico delle con­di­zioni di vita, ma anche del patri­mo­nio di espe­rienza, di cono­scenza, di saperi tec­nici, di abi­tu­dine alla coo­pe­ra­zione delle mae­stranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il pre­sup­po­sto irri­nun­cia­bile per pro­muo­vere un’alternativa di governo, a par­tire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta con­dan­nando l’attuale gover­nance euro­pea. Detta così sem­bra un’utopia: ma andiamo incon­tro a tempi in cui pro­spet­tare solu­zioni estreme e finora “impen­sa­bili” diven­terà necessario.

Riferimenti
Vedi, su eddyburg, tra i numerosi scritti dedicati all'argomento l'eddytoriale 144 del novembre 2010, gli articoli Un piano economico e sociale alternativo di Giprgio Cremaschi, Neo-operaismo e neo-ambientalismo di Alberto Asor Rosa, Un'altra economia per una nuova Europa di Guido Viale, L'economia e il lavoro fuori del mercato di Laura Balbo. Un approfondimento del tema da un punto di vista dell’economia come dimensione dell’uomo lo trovate in alcuni testi di Claudio Napoleoni, quali Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e nella sintetica ricostruzione del suo pensiero nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg.
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