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Filippo Tantillo
Una proposta per le aree interne
30 Gennaio 2014
Post 2012
Mentre l'economia finanzcapitalistica caccia il lavoro dalle fabbriche, la sopravvivenza della struttura fisica e di quella culturale della Penisola esprime una gigantesca domanda di forza lavoro. Ma di quanti decidono ci fa un pensierino e lo sviluppa in un'azione coerente.

Mentre l'economia finanzcapitalistica caccia il lavoro dalle fabbriche, la sopravvivenza della struttura fisica e di quella culturale della Penisola esprime una gigantesca domanda di forza lavoro. Ma di quanti decidono ci fa un pensierino e lo sviluppa in un'azione coerente. Il manifesto, 30 gennaio 2014
Dal 22 gen­naio è visi­bile sul sito del mini­stro della Coe­sione Ter­ri­to­riale «La Stra­te­gia Nazio­nale per le Aree interne». La Stra­te­gia, lan­ciata dal ex mini­stro Fabri­zio Barca più di un anno fa, oggi comin­cia a muo­vere i primi passi con un pro­getto pilota. A que­sto pro­po­sito su que­sto gior­nale ha scritto Piero Bevi­lac­qua: «Si tratta di un pro­getto che, per visione e modo di pro­ce­dere, si distacca net­ta­mente dal modello di svi­luppo eco­no­mico tardo-novecentesco rap­pre­sen­tato dalla Tav… Sono due strade oppo­ste e cul­tu­ral­mente inconciliabili».

Cosa sono le aree interne?
Le aree interne sono le zone geo­gra­fi­che del nostro paese meno ser­vite dai ser­vizi pub­blici, indi­vi­duate attra­verso degli indi­ca­tori che misu­rano la lon­ta­nanza dei ter­ri­tori da scuole, ospe­dali, sta­zioni, in ter­mini di distanza e rag­giun­gi­bi­lità. Coin­ci­dono con quelle aree che, dall’inizio dell’età indu­striale, per­dono popo­la­zione a favore delle città, dei fon­do­valle, della costa. Si tratta quasi esclu­si­va­mente di regioni mon­tuose il cui pae­sag­gio porta le tracce di un seco­lare sfrut­ta­mento inten­sivo di acqua, risorse mine­ra­rie, patri­mo­nio boschivo. Oggi in que­sti luo­ghi si soprav­vive soprat­tutto gra­zie ai tra­sfe­ri­menti pub­blici, le pen­sioni, l’impiego nelle minu­scole strut­ture dell’amministrazione pub­blica locale, e a pic­cole atti­vità eco­no­mi­che; aree omo­ge­nee dal punto di vista sociale e scar­sa­mente con­flit­tuali. Non sono neces­sa­ria­mente povere, ma in tutte i beni pub­blici scar­seg­giano e sono mal­ri­dotti, gli ospe­dali sono lon­tani, le scuole vuote, le donne non lavo­rano, gli uomini pra­ti­cano un pen­do­la­ri­smo che asso­mi­glia a una forma di emi­gra­zione, i gio­vani che pos­sono vanno a stu­diare fuori e non tornano.

Ter­ri­tori in movimento
A guar­darle con mag­giore atten­zione, le aree interne non sono tutte uguali. In alcune l’emigrazione appare come un feno­meno fisio­lo­gico, di rie­qui­li­brio natu­rale, e a fronte di cit­ta­dini che se ne vanno, si mol­ti­pli­cano le tracce di nuovi arrivi. Si tratta per lo più di gio­vani, con espe­rienza di lavoro e stu­dio matu­rate altrove, impe­gnati nella costru­zione delle con­di­zioni mate­riali della loro vita, come nuovi coloni, in luo­ghi dove non esi­stono oppor­tu­nità di lavoro. Que­ste aree interne sono for­tu­nate se i cit­ta­dini sono in grado di orga­niz­zarsi, di pro­muo­vere una classe diri­gente nuova, nel ten­ta­tivo di con­tra­stare i mec­ca­ni­smi che li con­dan­nano, e offrire una visione alter­na­tiva di futuro.

Riman­gono comun­que ter­ri­tori fra­gi­lis­simi: per inne­scare un pro­cesso di deser­ti­fi­ca­zione di un’intera area basta che il numero di bam­bini non sia più suf­fi­ciente ad aprire una prima elementare, che chiuda una scuola, che muoia la car­to­li­bre­ria che viveva della scuola, e così via.

La Stra­te­gia prova a pun­tare su que­ste aree in movi­mento, in una logica di rie­qui­li­brio dei ser­vizi e di pro­mo­zione dello svi­luppo e del lavoro. E prova a inter­ve­nire in maniera nuova, andando a rac­co­gliere sui ter­ri­tori le dina­mi­che nate dalla col­la­bo­ra­zione fra cit­ta­dini e ammi­ni­stra­zioni, accom­pa­gnando quelle più pro­met­tenti, tra­sfor­mando i con­flitti in labo­ra­tori verso nuove moda­lità di rela­zione fra isti­tu­zioni e abitanti.

I ter­ri­tori muti
Ci sono poi le aree interne all’apparenza dispe­rate, ter­ri­tori muti, dove il dre­nag­gio con­ti­nuo di uomini e atti­vità eco­no­mi­che pro­duce smar­ri­mento, subal­ter­nità, assenza di futuro. La prima cosa che col­pi­sce, muo­ven­dosi in que­ste aree, non è la man­canza di ser­vizi, ma l’incapacità da parte di chi le abita di espri­mere biso­gni e riven­di­care diritti, anche i più ele­men­tari. Sono luo­ghi dove si impara la lezione amara che più la gente viene stri­to­lata, meno reagisce.

Qui l’azione della Stra­te­gia ha un altro segno, e si muove in discon­ti­nuità rispetto a quello che è stato fatto negli ultimi vent’anni di «svi­luppo locale». Punta a por­tare o a raf­for­zare i ser­vizi pub­blici, pro­muo­vendo la loro gestione asso­ciata fra i comuni e una rior­ga­niz­za­zione della spesa ordi­na­ria dei mini­steri, met­tendo al cen­tro inter­venti su scuola, sanità, infra­strut­ture, messa in sicu­rezza del ter­ri­to­rio, creando con­crete oppor­tu­nità di lavoro: in pra­tica opera sulle pre­con­di­zioni per inver­tire il pro­cesso di impo­ve­ri­mento umano e materiale.

Dalle aree interne a una nuova politica
Que­sta prima fase della Stra­te­gia neces­sita della messa a punto di nuovi stru­menti di ascolto del ter­ri­to­rio, con una approc­cio che si avvi­cina a quello del civil ser­vantinglese, per cui gli uffici, piut­to­sto che essere ingra­naggi di una catena gerar­chica di poli­ti­che scelte dall’alto, si pon­gono al ser­vi­zio del cit­ta­dino, inteso come committente.

Inol­tre, la Stra­te­gia inter­roga pro­fon­da­mente anche la poli­tica. Il tema dello svi­luppo sociale ed eco­no­mico delle aree interne è, infatti, intrec­ciato a quello della tra­sfor­ma­zione delle strut­ture deci­sio­nali, eco­no­mi­che e sociali del paese. Il modello demo­cra­tico rap­pre­sen­ta­tivo tra­di­zio­nale, fon­dato sul peso elet­to­rale dei ter­ri­tori, con­tri­bui­sce a mar­gi­na­liz­zare, nei pro­cessi deci­sio­nali e nell’attenzione pub­blica, le aree scar­sa­mente popo­late; è tempo, anche per lo Stato, di fare i conti con le nuove forme sem­pre più dif­fuse di atti­vi­smo delle isti­tu­zioni locali e dei cit­ta­dini, alle quali troppo spesso si risponde sol­tanto con la repressione.

Pro­prio per que­sti motivi siamo difronte a un’operazione non facile che già trova resi­stenze negli inte­ressi dei ren­tiers locali, coloro che bene­fi­ciano delle con­di­zioni di mar­gi­na­lità delle aree interne, e di strut­ture for­te­mente con­ser­va­tive all’interno della stessa Pub­blica ammi­ni­stra­zione. Per avere suc­cesso, la Stra­te­gia deve avere le fat­tezza di una poli­tica allo stesso tempo indu­striale e di tutela, meno diri­gi­sta e meno loca­li­sta; deve essere ragio­ne­vole, in grado di fare i conti con la scar­sità di risorse, ma ambi­ziosa, pun­tando a inver­tire un trend seco­lare di spo­po­la­mento, ria­prendo un dibat­tito pub­blico in grado di con­tra­stare l’immagine di resi­dua­lità che ha gui­dato le poli­ti­che di svi­luppo su que­sti territori.

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