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Alberto Ziparo
Ecco perché affoga la «città diffusa»
31 Gennaio 2014
Clima e risorse
«Ieri la piog­gia rica­dendo tro­vava un ter­ri­to­rio ancora inte­gro, ovvero orga­niz­zato secondo razio­na­lità eco­lo­gica. Oggi incontra la "città diffusa"».

«Ieri la piog­gia rica­dendo tro­vava un ter­ri­to­rio ancora inte­gro, ovvero orga­niz­zato secondo razio­na­lità eco­lo­gica. Oggi incontra la "città diffusa"». Il manifesto, 31 gennaio 2014
Affoga la «città dif­fusa». Ormai basta un tem­po­rale un po’ più consistente,neppure allu­vio­nale, e pezzi interi di quar­tieri vanno sott’acqua, i fiumi eson­dano, i sot­to­passi diven­tano cisterne di acqua sporca e mel­mosa, pronta a river­sarsi nell’intorno. Il clima impaz­zito, per­ché sovrab­bon­dante di entro­pia ed ener­gia da atti­vità antro­pi­che, sca­rica le pro­prie biz­zar­rie su un ter­ri­to­rio inde­bo­lito; para­dos­sal­mente dall’elemento che più doveva con­so­li­darlo, oltre che moder­niz­zarlo, il cemento delle città.

In que­sti giorni – che sareb­bero quelli della «Merla», ovvero i più freddi dell’anno – regi­striamo tem­pe­ra­ture e pre­ci­pi­ta­zioni da ini­zio autunno. I trend ci dicono che il riscal­da­mento glo­bale pro­voca fre­quenti alter­nanze di sic­cità e forme allu­vio­nali, che pro­vo­cano sem­pre più spesso, con pre­ci­pi­ta­zioni con­cen­trate (le così dette bombe d’acqua), auten­tici disa­stri. Che si evi­te­reb­bero se le piogge rica­des­sero su un ter­ri­to­rio eco­lo­gi­ca­mente solido. Al con­tra­rio un ciclo dell’acqua alte­rato ricade su con­te­sti ambien­tali e inse­dia­tivi for­te­mente inde­bo­liti pro­prio dalla dif­fu­sione urbana, con con­sumo di suolo e cemen­ti­fi­ca­zione che hanno dis­se­stato, degra­dato, scas­sato gli eco­si­stemi, oltre ogni pos­si­bile capa­cità di tenuta. Fino ad ieri, spe­cie in un ambiente ten­den­zial­mente chiuso come quello medi­ter­ra­neo in cui si estende la nostra peni­sola, cicloni ed ura­gani costi­tui­vano eventi ecce­zio­nali. Oggi invece pre­ci­pi­ta­zioni allu­vio­nali diven­tano la norma e tro­vano un ter­ri­to­rio stra­volto da un’urbanizzazione che ormai ingom­bra circa il 20% della super­fi­cie nazio­nale. Con il para­dosso di aver scon­volto gli eco­si­stemi ed i pae­saggi del Bel­paese per rea­liz­zare un enorme patri­mo­nio di volumi edi­fi­cati, abi­ta­tivi, com­mer­ciali, indu­striali, infra­strut­tu­rali, che in gran parte oggi restano vuoti; a testi­mo­niare il dop­pio danno, da spreco e da disa­stri ambien­tali con­se­guenti alle loro rea­liz­za­zioni. Decine di milioni di stanze vuote, miliardi di metri cubi di capan­noni abban­do­nati sono un monu­mento al trionfo della ren­dita, ma soprat­tutto allo sfa­scio e all’idiozia nazio­nale. E con­tri­bui­scono costan­te­mente a innal­zare i livelli di rischio idro­geo­lo­gico — come appare evi­dente ogni giorno di più — ma anche sismico, ci ricor­dano L’Aquila e gli altri cen­tri col­piti da eventi recenti.

Ieri la piog­gia (o la neve) rica­dendo tro­vava un ter­ri­to­rio ancora inte­gro, ovvero orga­niz­zato secondo razio­na­lità eco­lo­gica. I bacini mon­tani erano i primi ad inter­cet­tare le pre­ci­pi­ta­zioni, ma ne trae­vano gio­va­mento nell’alimentazione delle fonti e del patri­mo­nio boschivo. Il deflusso verso valle dell’acqua riscon­trava ver­santi saldi e vie di fuga libere, pronte ad essere fruite in caso eventi allu­vio­nali. A valle col­ture e inse­dia­menti rispet­ta­vano gli alvei flu­viali: in pros­si­mità di que­sti rima­ne­vano ambienti ten­den­zial­mente natu­rali o col­ture umide.

Oggi la città dif­fusa, non solo ita­liana, ha stra­volto tale pae­sag­gio: dalla Mega­lo­poli Padana, alla blob­biz­za­zione del Nord Est, alla mega conur­ba­zione lineare adria­tica, alle città allar­gate dell’Emilia, della Toscana, della cam­pa­gna romana, alla sporca mar­mel­lata inse­dia­tiva napo­le­tana, alle coste ipe­rur­ba­niz­zate e spesso abu­sive di Cala­bria e Sici­lia, fino alla cemen­ti­fi­ca­zione dei con­te­sti urbani sardi (che Cap­pel­lacci vor­rebbe ancora ampliare). Così le col­ture mon­tane abban­do­nate favo­ri­scono il dis­se­sto e le frane, anche per l’abbandono della cura del bosco pro­tet­tivo. Ancora l’urbanizzazione si è spinta spesso verso i ver­santi sub col­li­nari, negando le vie di fuga di fiu­mare e tor­renti, spesso intu­bati o cemen­ti­fi­cati. In regime allu­vio­nale, i corsi d’acqua tro­vano argini sem­pre più alti – che devono «pro­teg­gere» la città estesa fino al limite o den­tro gli alvei — e diven­tano con­dotte for­zate. La rot­tura delle reti eco­lo­gi­che e della con­ti­nuità dei col­let­tori per la dif­fu­sione urbana non per­mette più eson­da­zioni «tran­quille», in caso o fuo­riu­scita o rot­tura degli argini, o di innal­za­menti repen­tini delle falde. Si ten­dono a for­mare così le «macro­va­sche urbane» che abbiamo visto l’anno scorso in Veneto e poi in Sar­de­gna e oggi a Roma: muri e costru­zioni hanno chiuso cor­ri­doi di deflusso e vie di fuga; l’intorno si riem­pie di acqua e fango e il liquido mel­moso sale repen­ti­na­mente. Urge una svolta dra­stica nelle poli­ti­che ter­ri­to­riali e ambientali

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