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Fabrizio Bottini
Apartheid autostradale padano
1 Novembre 2013
Padania
Un autore favorevole alla dispersione urbana si vantava di esserci andato di persona, a verificare quanto è bello e quanto tutti sono felici. Abbiamo provato a vedere, usando i medesimi strumenti di lettura: il territorio dello

sprawl è un vero e proprio incubo di frammentazione spaziale e sociale, altro che

C'è un'abitudine ormai consolidata a buttar lì, ogni tanto, in comodo formato tascabile, l'equilibrio locale/globale. Salva la faccia, è comprensivo, prende miriadi di piccioni anche solo promettendo la proverbiale fava. Vale anche per le scale intermedie, che so, quel tipo di dimensione locale un po' più complessa e allargata che è la città, e il suo ex contado diventato area metropolitana, o sprawl per gli appassionati di anglicismi (o magari solo acquirenti di album degli Arcade Fire). Così, ragionando di territorio e relative trasformazioni, o trasformazioni mancate, nessuno manca mai di tributare il dovuto omaggio all'equilibrio locale/globale, di solito proiettando la prospettiva per un istante, tanto per capire che ci è e non ci fa. Le forme sono salve. Peccato che poi resti la sostanza, che salva non è affatto, o almeno la cui salvezza è tutta da verificare.

Personalmente una verifica ho provato a farla, anche mio malgrado, sulle assai discusse ma pare poco praticate trasformazioni globali/locali dell'area metropolitana milanese, quelle indotte dalle opere autostradali connesse al traguardo Expo 2015, che interessano per ora la fascia orientale di Milandia, segnatamente Tangenziale Esterna, BreBeMi e opere direttamente collegate. L'occasione, la scintilla diciamo così, è stata una prima passeggiata critica durante la preparazione dei Seminari di Eddyburg, dove con Serena Righini avevo deciso di presentare brevi riflessioni sui “nodi di urbanità” a scala sovracomunale, individuati nella città lineare continua dall'anello interno al confine dell'Adda. Nodi di urbanità assai vistosi, consolidati, che parevano invocare a gran voce “e dateci questa Città Metropolitana una volta per tutte!”, ma che verificati direttamente sul territorio lasciavano intravedere anche qualche discontinuità vistosa, troppo vistosa per non disturbare. Per comune accordo, sia sul versante della comunicazione che sulle prospettive di osservazione, era Serena ad essersi assunta il compito di restituire una immagine globale, attraverso gli strumenti dei piani e delle strategie di medio-lungo periodo. A me restava la verifica locale, a sostegno della tesi comune: Città Metropolitana reale, sostanziata in spazi fisici e identità collettiva, contro territorio a rischio di frammentazione e degrado, da sprawl e politiche infrastrutturali a dir poco miopi.

BreBeMi al punto di innesto sulla Tangenziale esterna
Restava quindi, a essere coerenti fino in fondo, la verifica del rovescio della medaglia, ovvero usare la tecnica del sopralluogo anche sulla dimensione globale, ponendosi la domanda: cosa c'è al di fuori dei vistosi e virtuosi nodi di urbanità dell'insediamento metropolitano storico? Quali impatti ha, e potrebbe avere in futuro, la grande trasformazione infrastrutturale che istintivamente in qualche modo tutti associamo all'idea di metropoli? Un'occasione di parziale ma significativa verifica me l'ha data questo autunno ancora mite, a combinare casualmente una giornata di sole che però termina fatalmente in quanto tale a metà pomeriggio. Il percorso iniziale del sopralluogo è stato una tappa di trasferimento simile a un riassunto delle puntate precedenti, ovvero attraverso i medesimi e già verificati nodi di urbanità lungo il naviglio Martesana, le stazioni della MM2, i nuclei storici allineati sull'asse di sviluppo e le loro periferie e fasce verdi di interposizione. Città lineare, accogliente, amichevole, continua e leggibile, per una ventina di chilometri circa. Salvo a sprazzi intravedere quei segnali della grande trasformazione in corso.

Per vederli meglio in una prospettiva locale, ho usato il medesimo strumento: spostarsi in bicicletta, anziché lungo un asse lineare, sull'arco che taglia trasversalmente il settore metropolitano orientale, dall'altezza della Martesana a una fascia un po' a sud della strada Rivoltana, più o meno. Per chi osservasse una carta delle grandi opere in corso, si tratta dell'area di maggior concentrazione di tracciati, incroci, adeguamenti collaterali, dove spesso anche le vecchie e nuove arterie di collegamento fra le autostrade vere e proprie sono state concepite coi medesimi criteri di sovrapposizione autoreferenziale al territorio. Se ne raccolgono immagini e sensazioni del tutto soggettive, e influenzate dalla stagione autunnale, ovvero dal fatto che per via dei tempi di spostamento tutto il percorso lungo l'arco trasversale in corso di trasformazione è avvenuto mentre il sole scendeva verso l'orizzonte, e mentre saliva il traffico dell'ora di punta serale.

C'è naturalmente il disagio dei cantieri, dei tantissimi cantieri grandi e piccoli sparsi ovunque, sia che ci lavori qualcuno, sia che appaiano come voragini in attesa di qualcosa che non sta arrivando. Il concetto di margine così come definito da Kevin Lynch, che nell'insediamento lineare urbano appare chiaramente svolgere un ruolo di guida e orientamento, qui diventa brutale interruzione, sovrapposizione, fa esplodere spazi e flussi. Il segnale, chiarissimo, è quello delle strade secondarie intercomunali, per intenderci il tipo di percorsi di solito usati localmente da abitanti e mezzi agricoli, più raramente e occasionalmente da chi attraversa questa rete irregolare su scala metropolitana. Ecco, oggi i margini indotti da cantieri e nuovi tracciati irrisolti stravolgono il ruolo delle ex strade campestri, facendone assi di comunicazione di una certa importanza, sia a scaricare spontaneamente il traffico, sia in una logica “pianificata” (virgolette d'obbligo) come si capisce dalle segnalazioni o dagli occasionali semafori mobili di senso unico alternato. Anche quando non si verifica una interruzione totale di flusso, attorno ai ponti o svincoli in costruzione i tracciati deviati cancellano qualunque gerarchia, ficcando nel medesimo trogolo i camion dei trasporti internazionali, i trattori al lavoro che saltano da un podere all'altro, e obbligatoriamente anche lo sventurato ciclista, traballante a evitare un fosso fangoso sulla destra, e la collisione del gomito con una portiera a sinistra. Sensazioni personali a parte, l'idea che ne esce suona più o meno: siamo tutti nella stessa autostrada, nel laissez faire trasportistico del terzo millennio. Dov'è finito il territorio metropolitano, con le sue gerarchie, i suoi spazi abitabili, la sua campagna più o meno tutelata da greenbelt o semplici interessi economici?

Un cantiere minore sulla viabilità di collegamento
Tramonta il sole, vengono meno i facili riferimenti di orientamento geografico, e appare sempre più evidente quanto le infrastrutture auto-oriented, pensate esattamente ed esclusivamente nella logica dello spostamento veicoli motorizzati dalla origine A alla destinazione B, se concentrate in un piccolo territorio finiscano per obliterarlo. O quantomeno ridurre lo spazio locale a bifolchistan in una sorta di ritorno obbligato allo storico idiotismo della vita rustica, micro-nuclei dove invece del nodo di urbanità del corridoio continuo, si percepisce solo l'isolamento, il buio oltre la siepe a segnare l'inizio della terra di nessuno. Il ciclista, che in altre incarnazioni è stato ovviamente anche automobilista, segue come può il gregge motorizzato, attraverso lottizzazioni industriali (dove almeno l'interesse economico tiene fuori l'invadenza di cantieri e deviazioni) e rarissimi tratti di ex poderale abbastanza integri. Non mancano i momenti di vero e proprio panico, quando le deviazioni decise a tavolino da qualche ingegnere con criteri solo automobilistici, scaraventano chi automobilista non è dentro al buio pesto di un'aia abbandonata sotto un ponte mezzo costruito e davanti a un corso d'acqua insuperabile. Ma sono dettagli.

Le mille luci della città ricompaiono all'orizzonte, una specie di insegna della prima calamita di Howard, e col relativo sollievo si fa strada una domanda: è questo ritagliare bantustan territoriali incomunicanti, fra le corsie di comunicazione dedicate, il destino ineluttabile del territorio concepito in funzione autostradale? Indipendentemente dalle strategie, di sicuro perverse, che hanno indotto qualcuno a progettare, sostenere, finanziare e realizzare la ragnatela di interventi, c'è un'idea di rete complementare parallela, che possa in tutto o in parte restituire organicità spaziale, sociale, ambientale, identitaria, a questa fetta d'anguria metropolitana? O meglio, visto che la pianificazione a questa scala languisce in quanto tale, sostituita appunto dai puri mega-progetti ingegneristici, c'è qualche prospettiva per una reazione, propositiva, progressiva, di società locali che provino a pensare “globalmente”, almeno alla scala di queste trasformazioni? Difficile dirlo.

(qui di seguito i tracciati delle opere principali e un sommario perimetro del territorio percorso in bicicletta)
L'Autore citato in occhiello è Robert Bruegmann, quando nel suo bestseller Sprawl: a compact history (University of Chicago Press, 2005), spiega: "Formy purpose I found the best source of information was the builtenvironment. A great deal of my research has consisted of going outand looking around"



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