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Fabrizio Bottini
Città: coraggio, fatti ammazzare!
22 Ottobre 2013
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Pareva superata, la faccenda delle vittime collettivamente accettate da pagare ahimè al progresso, invece con le reazioni all'incidente di via Famagosta a Milano ci siamo ancora dentro fino al collo, grazie all'invasione concettuale del modello di autostrada urbana, contro lo spazio condiviso

Pareva superata, la faccenda delle vittime collettivamente accettate da pagare ahimè al progresso, invece con le reazioni all'incidente di via Famagosta a Milano ci siamo ancora dentro fino al collo, grazie all'invasione concettuale del modello di autostrada urbana, contro lo spazio condiviso

Questo è il genere di intervento che non vorrei scrivere, anzi che non voglio scrivere e infatti mi sono inventato una variante ad hoc, su cui tornerò poi. Non voglio parlare (solo) del motivo per cui accadono gli incidenti stradali, e che continua a sfuggire più o meno al 100% dei commentatori sulla stampa: la durissima carrozzeria di un'auto che in media a 70-90 all'ora pesta sul morbido corpo, più o meno fermo, di un pedone, con risultati tragici e noti a tutti. Dato che questi risultati tragici sono noti a tutti, anche nel recentissimo caso della mamma con due bambini falciata da un coetaneo in uno stradone periferico di Milano, via Famagosta, pare che i commenti evitino di andare al sodo, divagando sulla biografia dei personaggi principali anziché sui presupposti immediati del loro inopinato incontro: uno che arriva a settanta all'ora foderato di lamiera, gli altri nudi e inermi, immobili sulla sua traiettoria. Perché si trovavano in queste condizioni?

Per lo stesso motivo che, di passaggio, notano inconsapevolmente sui giornali anche alcuni commentatori: c'è un'autostrada in città, e le due cose non ci azzeccano l'una con l'altra. Per chiarire meglio il concetto, vorrei usare un'immagine coniata da un gruppo di opposizione locale conservazionista a uno dei tanti sventramenti a cavallo fra XIX e XX secolo, del tipo di solito giustificato da motivazioni igieniche e di efficienza: “il nuovo viale della Stazione è come una freccia puntata al cuore della città”. Naturalmente quegli antichi cultori dell'arte con “cuore della città” intendevano il patrimonio monumentale del centro storico, ma basta riflettere solo qualche istante, col senno di poi, per capire che l'arma di questi tecnocratici ispettori Callahan puntata verso la città minaccia proprio la sua essenza di città. Sventra qui, sventra là, il ventre non c'è più, al suo posto una meravigliosa (almeno per certi elettrotecnici dell'urbanistica) distesa di parcheggi, collegati da stradoni multicorsia, su cui incombono palazzoni a pareti cieche almeno fino al terzo piano. Per andare dall'uno all'altro, nei casi migliori, qualche passerella sospesa, del tipo che già si intravedeva negli schizzi leonardeschi, la faceva da padrone in Metropolis di Fritz Lang (1927), ma ancora certi idioti ci presentano oggi chissà perché come “futuristica”.

Queste immagini di città ad ambienti ermeticamente segregati, le abbiamo mille volte intraviste negli schizzi razionalisti novecenteschi, quando l'idea schematica che a ogni specifica funzione dovesse corrispondere uno specifico spazio andava per la maggiore. Il coronamento del concetto però si deve allo scenografo Norman Bel Geddes, autore del padiglione Futurama alla fiera mondiale di New York 1939 finanziato dalla General Motors, nonché vera e propria eminenza grigia della trasformazione progressiva dell'autostrada da infrastruttura relativamente eccezionale a dogma indiscutibile della vita contemporanea, anche nella sua versione più assurda in ambiente urbano, appunto a trasformare gli ex quartieri in una sorta di castello assediato da forze amiche. E forse è anche il caso di ricordare come l'unità di vicinato, nell'elaborazione originaria congiunta del sociologo Clarence Perry e degli urbanisti di matrice prevalentemente razionalista, aderisca in pieno a questa matrice: il quartiere, con tutte le sue qualità quantità e caratteri, è sempre definito dal margine di una autostrada urbana o assimilata. Non a caso agli schemi viari a cul-de-sac si sommano sempre i percorsi pedonali e ciclabili convergenti verso gli attraversamenti in quota di quel margine stradale, unico sbocco delle Little Big Horn residenziali in cui l'ubiqua cultura modernista-automobilistica vorrebbe ritagliare la città.

Naturalmente le cose non sono andate così lisce per quel modello di sviluppo meccanico e astruso. La maggior parte delle città, specie quelle con una notevole sedimentazione storica, provano se non altro a reagire a quell'arma puntata al proprio cuore identitario, fatto di impasti complessi di spazi e persone, non certo di ingranaggi alimentati a benzina. Ma la spinta a quel genere di trasformazioni è gigantesca, e l'autostrada (o qualcosa che le assomiglia parecchio) diventa sempre più invadente. Nel caso specifico di cui parlano a sproposito le cronache di questi giorni, il perverso sistema si compone di una bretella ad accesso riservato che collega le Tangenziali a una circonvallazione più interna, di uno svincolo piuttosto complesso su vari livelli, della via Famagosta propriamente detta che taglia due quartieri con le sue rigide corsie scandite da cordoli New Jersey, interrotte solo in corrispondenza dei semafori. In buona sostanza, il viale (termine corrente quanto mai improprio per queste arterie) organizzato per corsie centrali veloci e controviali laterali di servizio è il classico pessimo ibrido fra un'autostrada urbana vera e propria, e una via con case, negozi, affacci, insomma la vita, no?

Sempre secondo l'automatica vulgata novecentesca tradotta in regole e codici, l'ambiente automobilistico dedicato autostradale qui dovrebbe essere addomesticato e metabolizzato da alcuni espedienti tecnici: il limite di velocità (i perentori surreali cartelli 50, su un'arteria che arriva sparata da uno svincolo!), i citati controviali e i semafori con strisce di attraversamento, un sottopassaggio pedonale in corrispondenza della fermata della metropolitana. Funziona? Nemmeno per sogno, come hanno scoperto bontà loro i commentatori facendosi un giro da quelle parti, e come sanno benissimo i frequentatori abituali che in buona sostanza ignorano le regole ufficiali. La città, qualunque città, non funziona come il circuito elettrico con cui ci riassumono le fermate della sotterranea, strisce colorate separate da cui si entra ed esce solo in corrispondenza dei pallini scuri. Un noto urbanista internazionale l'ha pure inconsapevolmente usato poco tempo fa, lo slogan Ville Poreuse, a definire questa organicità metropolitana, del resto già stigmatizzata un secolo fa da Patrick Geddes, e per nulla riconducibile alle scatole incomunicanti del modello modernista.

Quello che non funziona, dettagli a parte, è escludere artificiosamente, concettualmente, e poi ragionare e comportarsi come se questa esclusione fosse effettiva. Nei territori extraurbani qualche volta, e con risultati altrettanto tragici, il mondo reale fa il suo ingresso coi famigerati sassi dal cavalcavia. Negli spazi metropolitani densi, invece dei sassi arrivano persone in carne ed ossa, ma il risultato è analogo. Città è condivisione, shared space, spiegatelo al vostro assessore che magari ai convegni parla di mobilità sostenibile, e poi davanti a casi come quello della signora incinta falciata insieme al figlio che teneva per mano, non sa fare altro che togliersi il cappello al funerale, e poi mettere un altro semaforo, o cartello lampeggiante. La forma urbana, assessore, è quella la leva su cui intervenire, al resto ci pensiamo noi coi nostri comportamenti, dettati da un'intelligenza media del tutto paragonabile a quella sua e degli altri amministratori.

Purtroppo il problema non finisce qui, cioè non finisce al limite delle competenze del nostro magari ricettivo assessore alla mobilità sostenibile. Perché nei territori dell'area metropolitana (di tutte le future città metropolitane potenzialmente dotate di assessore alla mobilità metropolitana sostenibile) si nota non da oggi una perniciosa tendenza a fissare un modello stradale esattamente identico a quello descritto sinora, forse anche peggio. Infiniti rettifili chiusi da guard rail zincato doppio, canna di fucile claustrofobica che spara veicoli da un mini-svincolo in area semirurale all'altro. Invece di semafori e strisce pedonali, molto più radi interventi tecnici di attraversamento sopra o sotto le multi-corsie. Come ammettono gli interessati (nel senso di stakeholders vari) la logica di queste arterie stradali metropolitane è perfettamente autostradale, ivi compresa la possibilità non troppo teorica di imporre un pedaggio per l'uso dell'infrastruttura. E, qui concludo, la possibilità di infiniti, desolati e surreali commenti sui giornali, a proposito del tragico destino di quel ragazzo che chissà come per andare a trovare la fidanzata che abita a cento metri in linea d'aria, non trovava logico passare dal comodo sottopasso a cinque chilometri di distanza. Prepariamoci, o magari proviamo a pensare e prevenire: città, coraggio, non farti ammazzare così!

Qui la seconda parte di Futurama, quella dedicata alla città del futuro: vera e propria profezia che si vuole autoavverare, al netto dei morti sulle strade e della qualità abitativa sotto zero

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